Se l’opera precedente di Simone Ghelli (Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017) ci aveva proposto delle piccole e grandi vicende del quotidiano narrate con un alto grado di realtà, in cui spesso i protagonisti, con le loro insicurezze e fragilità, stentavano a trovare una relazione empatica, motivo esemplificato dalle loro “chiamate mai risposte”, questa nuova raccolta di racconti dal titolo La vita moltiplicata (Miraggi edizioni, 2019, pp. 128) sembra costituirne allora il giusto complemento, il degno contraltare, poiché esibisce al suo interno, con la perizia ormai consueta all’autore, dieci titoli nei quali la potenza dell’onirico e dello psichico è declinata ed esaltata al massimo grado.
Se c’è infatti un tema ricorrente che accomuna la maggior parte dei personaggi del libro, a fronte di un vita che li nega o che non corrisponde alle loro attese, è proprio il moltiplicarsi delle immagini, dei quadri e delle scene della loro vita interiore, che si succedono, si sovrappongono, scorrono come davanti allo schermo di un cinematografo, restituendoci in modo chiaro il bisogno che questi sentono di rifugiarsi nel sogno ad occhi aperti o in mondi più pensati che vissuti, quasi sempre nel tentativo di salvarsi da coloro che li circondano e che non li comprendono, da una realtà misera e triste che non amano, con cui non sono in sintonia, e che pertanto li delude, li nausea (come ne L’ultima vetrina o in Compito di realtà), realtà che nel corso delle pagine può incarnarsi esemplarmente nella città de La grande divoratrice, in cui si dissolve ogni possibile segno di umanità, di gioia, col suo livellare gli uomini a pure macchine la cui vita è regolata dalla fretta e dall’alienazione (“Tutto intorno la città gorgogliava, era un intricato apparato digerente all’interno del quale si stava estinguendo un’altra infinitesima parte della loro vita.“) o che assurge addirittura a mostro orrifico in La sentinella di ferro, probabilmente il più bel racconto dalla raccolta (assieme a Oboe d’amore), in cui apprendiamo del povero Ermete che ha passato diciannove lunghi anni “fra gli ingranaggi della grande macchina, che inghiottiva carbon fossile e sputava ghisa, e lanciava fiamme e sbuffava fumo e si mangiava anche le persone, non solo i loro corpi, ma anche le loro vite.“
Protagonista di Oboe d’amore, per esempio, è un giovane perso dietro le proprie fantasie (le sue tre muse, le chiama lui), che rincorre affannosamente, con slanci eroici più pensati che fattivi, a cui si oppone una madre poco comprensiva che vorrebbe riportarlo coi piedi per terra. Più che l’elemento diegetico, che lascerebbe credere inizialmente in un piccolo racconto di formazione (quanto pure al resoconto di una dolce alterità dal sapore schizoide), qui (come altrove, nella raccolta) l’aspetto che più colpisce è il ritmo, vero cardine che regge il tutto (il tema del racconto del resto è la musica), frutto di un lavoro egregio condotto sulla lingua e sulla sintassi, sulla musicalità della frase, sull’alto valore timbrico della parola che ne viene così esaltata mediante una modulazione non comune affinché riverberi come uno strumento.
Ma è in Vera che afferriamo ancor meglio la valenza dei versi di Lucrezio posti in epigrafe (tratti dal primo elogio di Epicuro, l’eroe “incivilitore” che per primo si oppose a un mondo chiuso dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, di cui apprendiamo il viaggio oltre i confini del mondo per portare la verità agli uomini), quando l’evasione dai limiti tangibili e razionali del quotidiano è tradotta da una prosa plastica e ardita, che straborda dall’ordinario, che si presta a soluzioni inusuali, nella quale il confine tra lo psichico e l’onirico è molto labile, e che esibisce a tal motivo un’aura che sfiora il poetico.
Sempre il sogno pare essere l’ultima via d’uscita che può salvare il Marcello de L’ultima vetrina dall’incomprensione generale, da una delusione profonda che pare avere ereditato dal padre, con il quale condivide anche la necessità di sprofondare nelle vite inventate dei libri, che contengono più verità delle vite vere (“entrambi avevano passato la vita a pretendere troppo, ad aspettarsi che gli altri sentissero quella stessa necessità di sprofondare nelle vite inventate, che capissero quanta più verità contenessero quelle che non le vite vere da cui prendevano spunto“), situazione molto simile a quella proposta in La somma dei secondi e dei sogni, in cui il protagonista evapora totalmente dietro ai manoscritti che giungono alla casa editrice per la quale lavora, fermamente convinto che la realtà dell’arte sia più vera del reale, e a quella di Piano inclinato, in cui solo col sogno ad occhi aperti Ascanio Ascarelli riesce a sottrarsi ad una vita monotona e ripetitiva.
Anche Compito di realtà, in una sorta di continuità ideale, ci propone un contesto ostile nel quale il protagonista stenta a trovare il proprio posto, ancor più quando si tratta di scendere a patti con l’ipocrisia generale, cosa che in fondo potrebbe anche giovargli, situazione che spinge il lettore, alla fine, a chiedersi se non siano proprio gli adulti, gli insegnanti, a sbagliare quando vorrebbero sentirsi dire dagli alunni solo quello che essi stessi pensano, rinunciando ad indagare il vero.
In questa molteplicità di fughe o di ribellioni tentate, fa eccezione però il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie (“Per me è tutto un caos indistinguibile. Ho disimparato persino a vedere, figuriamoci ad ascoltare.“), va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con grande estro artistico, per farne sinfonie, un modus vivendi in cui si potrebbe leggere la volontà di riscattare la realtà stessa.
Si rimane pertanto, a lettura conclusa, con la sensazione di avere tra le mani un libro ben pensato, che si propone come un’idea compiuta, con un’identità di stile, in cui Ghelli esibisce senza dubbio una valida padronanza dei mezzi e un’alta consapevolezza di quello che sta facendo (a dispetto di tante scritture banali odierne, tutte uguali) e in cui, come nella cronofotografia di Muybridge evocata ne L’ineluttabile, attraverso la scrittura e l’ampio spazio dato alla vita interiore dei suoi personaggi, mette assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi, cercando con questo di aiutarci a trovare un senso, una direzione, quanto meno ad arrivare ad una presa di coscienza.
GRANDANGOLO: “NON SERVE NASCONDERSI” DI MARCO PROIETTI MANCINI
Marco Proietti Mancini chiarisce tutto sin da subito. Non usa mezze misure nè sotterfugi per farci capire che cosa ci aspetterà non appena ci addentreremo tra le sue parole. Il titolo è il primo passo per mettere in chiaro il suo intendimento. “Non serve nascondersi” è fin troppo chiaro come incipit. E se non bastasse la sua dedica che apre la sua raccolta di racconti ribadisce il concetto. “Ai miei figli, che sono le mie nuvole più belle, anche quando portano le lacrime della pioggia.” Il libro è dedicato a loro, ai ragazzi di domani che oggi cresciamo in un mondo in cui non ci riconosciamo più. È per loro che le parole di Proietti Mancini assumono un’importanza fondamentale. Deve essere infatti il nostro insegnamento a dare loro un esempio per potergli permettere di affrontare il domani senza i nostri errori di oggi. Non ultimo appunto quelo di “nasconderci”, mascherando quelle che sono le nostre reali esistenze, emozioni e paure.
Non è più tempo di fingere, soprattutto con noi stessi. Accettiamoci per quello che siamo e il mondo saprà fare altrettanto. Non ha senso modellare le nostre vite su standard comportamentali o etici imposti dalla società. Il tempo prima o poi ci porterà il conto. Basta solo aspettare e il giorno del giudizio arriva. Per tutti.
È un libro che ci mette in chiaro un concetto che troppo spesso dimentichiamo, dandolo per scontato. La diversità è un valore e non un limite discriminante. È nella diversità che troviamo il modo per crescere. Concetto semplice e vecchio come il mondo, ma a quanto pare, visto ciò che succede ancora non del tutto chiaro. Rivolgendoci agli “uomini” di domani come fa Proietti Mancini in questo suo ultimo volume non possiamo che riporre in loro la speranza di cambiamento. Quel cambiamento, per tornare al titolo del libro, che deve partire dall’accettazione di noi stessi in primis per poi passare a quella degli altri.
Sono quattordici i racconti che la Miraggi Edizioni ha selezionato insieme all’autore. Quattordici episodi che scorrono velocemente raccontandoci momenti di vita quotidiana in cui non possiamo non ritrovarci. Quattordici istantanee che parlano di malattia, emarginazione, speranza, diversità più o meno manifeste. Ma anche di intolleranza, di dolore, solitudine e morte. Non ci sono vincitori o vinti. Non c’è competizione o ricerca di un finale che possa conciliare con la speranza. C’è solo la descrizione di un attimo e tutte le conseguenze che si ripercuotono nel nostro io più profondo alle prese con la presa di coscienza che stiamo inziando un percorso che ci porterà a poterci guardare senza dover abbassare lo sguardo.
Sono storie che sembrano incanalarsi perfettamente nelle cicatrici che solcano la nostra pelle sempre meno resistente agli acciacchi della vita. Storie che potremmo recitare a memoria ogni volta che passando davanti ad uno specchio ci fermiamo per un istante a controllare che sia tutto in ordine, tutto come deve essere, tutto come ci viene imposto da questa società che vorremmo cambiare ma che non abbiamo il coraggio di scalfire. È per questo che ci limitiamo a capire ed accettare i nostri errori in modo da preservare i nostri figli da quegli sbagli che continuiamo a ripetere.
Il signor Kopfrkingl vive a Praga. È un uomo affabile e gentile, conscio delle proprie virtù e attento al prossimo.
“Non fumo. Non bevo nemmeno, sono astemio. Ma se pensa che un bicchiere di qualcosa possa aiutarla per cominciare, beva pure tranquillamente, signor Dvořák. Noi astemi dobbiamo essere ragionevoli e comprensivi”
Il signor Kopfrkingl è un marito innamorato e premuroso di una moglie adorabile e un padre amorevole e attento di due ragazzi meravigliosi.
“L’articolo sul giornale di oggi, di quel padre che ha abbandonato la moglie e i figli per non doverli mantenere, è una cosa terribile”
Il signor Kopfrkingl è un uomo di cultura: ama i quadri e li seleziona con cura, conosce bene la musica classica e ha una bella biblioteca che impreziosisce il suo salotto.
“Prese dalla libreria la legge sulla cremazione e la sfogliò per un po’, poi prese forse ormai per la centesima volta il libro sul Tibet… il delizioso, affascinante libro sul Tibet, sui monasteri tibetani, sul Dalai Lama e le sue reincarnazioni”
Il signor Kopfrkingl è un cittadino modello, innamorato del suo paese e con lavoro onesto che svolge con grande serietà e coinvolgimento.
“Non si spaventi della tabella, signor Dvořák, è una sorta di nostro orario, un orario di viaggio della morte. In fondo è davvero il più sublime orario di viaggio che esista al mondo”
Il signor Kopfrkingl è un ospite gioviale: ha una vita piena e soddisfacente, una bella casa e amici brillanti con cui discute di politica, di arte e qualche volta di sport.
“Allora, bambini, mangiate, invitò di nuovo tutti gentilmente, abbiamo una festa di famiglia e sta restando tutto lì. Celeste mia…”
Eppure, c’è qualcosa che non funziona.
Sarà quel suo modo di parlare, ripetitivo fino allo stordimento e così esageratamente mellifluo? Anche quella morbosa attenzione per gli articoli di cronaca e quella premura eccessiva che trapela ogni volta che si parla di persone in difficoltà, finiscono per stridere con l’immagine di un uomo così probo e generoso. Quei quadri poi, descritti minuziosamente e mostrati con orgoglio a tutti, sembrano più delle croste che dei capolavori veri e propri. Della sua ricca biblioteca, gli unici libri che consulta sono un volume con la legge sulla cremazione e uno sul Tibet e il Dalai Lama. E ancora, quell’ossessione per il lavoro, per la morte, per le tabelle orarie dei forni crematori, per il corpo dei defunti. Il signor Kopfrkingl mostra ben presto di portare assai male tutte quelle presunte virtù che cerca continuamente di ostentare. E il suo mondo finisce per risultare, nel volgere delle pagine, un microcosmo stucchevole e miserabile, scandito da monologhi autoreferenziali e spesso deliranti e repentini cambi di idee.
E poi, a dire il vero, il signor Kopfrkingl fa paura.
Basterebbe quel nome quasi impronunciabile e ripetuto all’infinito all’interno del libro, per capire subito che il signor Kopfrkingl è il peggior protagonista che un lettore possa mai augurarsi di incontrare. Non c’è empatia possibile con lui. Anche il lettore più benevolo finirà per provare repulsione per quest’uomo dai modi affettati e dalla personalità così ambigua. Perché dietro a un perbenismo dissonante e alle sue piccole e grandi manie, si nasconde in realtà un’anima nera e vacua.
Il Bruciacadaveri è un viaggio all’inferno senza ritorno. Ladislav Fuks accompagna il lettore lungo la parabola discendente di un personaggio tratteggiato con grande maestria, proprio mentre dense nubi si addensano sul cielo di Praga, funesto presagio degli orrori che di lì a poco deflagreranno con l’invasione tedesca del ’38. Non c’è redenzione, non c’è umanità. C’è soltanto la ripetizione ipnotica e ridondante di frasi, incontri e situazioni che conducono a un finale inaspettato e per certi versi atteso. Un classico moderno che Miraggi Edizioni ha riportato alla luce con grande merito; un testo che mai come oggi si rivela attuale e motivo di riflessione in momento molto delicato come quello che stiamo vivendo, in cui si avverte tangibile il rischio di ripetere errori e orrori di un passato non troppo lontano.
L’invenzione degli apparecchi per la riproduzione del suono sarà anche di quattro secoli successiva a quella della stampa, ma la storia dell’industria discografica ha più di un punto in comune con quella dell’editoria. Tanto per cominciare, in entrambi i casi abbiamo a che fare con un’attività economica che vende contenuti. Alti o bassi, che si tratti di opere d’arte o lavori di mero intrattenimento, di esperimenti o materiali divulgativi. E la parabola tra le due “industrie” presenta numerosissime analogie: c’è un’età pionieristica a dimensione artigianale, poi crescono i consumi e. parallelamente, si evolve la tecnologia, dall’artigianato passiamo alla dimensione industriale. Alla fine si arriva a uno scenario di concentrazioni: pochi player di grandi dimensioni che danno le carte, mentre fuori dalla porta si muove un panorama felicemente disordinato di piccoli soggetti che, per comodità, chiamiamo indipendenti.
Riflessioni che arrivano puntuali dopo la lettura di Musica solida – Storia dell’industria del vinile in Italia, voluminoso saggio scritto da Vito Vita. Il titolo è come se contenesse una polemica implicita nei confronti di quello che, quando adesso parliamo di music business, è lo spirito dei tempi: la cosiddetta musica liquida, una specie di precipitazione dei principi teorizzati da Zygmut Bauman in un universo nel quale, fino a ieri, comandavano le major ma oggi abbiamo le piattaforme di streaming come Spotify e Apple Music a capotavola. Vagli a spiegare a un millennial cresciuto a pane e visualizzazioni YouTube che c’è stato un tempo in cui i “padroni delle ferriere” erano quelli che avevano il potere di imprimere la tua voce su un microsolco, promuoverti attraverso un festival e distribuirti in tutto il Paese. Storie dell’altro ieri, prima che la crisi di Napster mettesse in ginocchio il settore. Storie che Vita dimostra di conoscere benissimo: dai primi esperimenti di voce registrata su fonografo e grammofono, dalle intuizioni di Thomas Edison ed Emile Berliner e dai cilindri e dalla gommalacca. L’approccio è, in prima battuta, quello di raccontare il fenomeno a livello internazionale, per scendere quindi a livello dell’Italia: eccoti l’ingegner Joseph Nigra, rappresentante per l’Italia di Edison che, alla fine dell’Ottocento, gira il Paese per illustrare la stravagante invenzione della macchina che riproduce il suono.
L’ordigno ci mette poco a trovare terreno fertile nel Paese del Bel Canto che, nell’epoca della Belle Époque, ha due capitali musicali: Milano e Napoli, la città della Scala e quella della Piedigrotta. La musica, prima di venire incisa, circola essenzialmente scritta e a queste latitudini prosperano le case editrici specializzate in repertori musicali: a Milano c’è Casa Ricordi, a Napoli i vari Curci, Bideri, La Canzonetta, quasi in tutti i casi imprese a gestione familiare. Se la Ricordi dovrà aspettare fino al 1958 per avere un’etichetta discografica, ai piedi del Vesuvio apre subito i battenti la Società Fonografica Napoletana destinata a diventare Phonotype, label indipendente specializzata in canzone tradizionale. Per il resto, il potenziale del mercato italiano è un’occasione colta soprattutto da aziende e imprenditori stranieri. A Milano ne arrivano in tanti, nel primo e nel secondo dopoguerra: la francese Pathé, le tedesche Parlophon e Odeon, la inglese His Master’s Voice che qui da noi si chiamerà Vcm (1931), prima di diventare Emi Italiana (1967), ma anche lo scaltro impresario ungherese Ladislao Sugar che, con Messaggerie Musicali, diventerà punto di riferimento per la distribuzione, prima di allargare il proprio business alla incisioni con la Cgd comprata da Teddy Reno, e le famiglie svizzere Carisch e Gürtler, quest’ultima destinata a scoprire un certo Adriano Celentano con le etichette Music e Jolly. Gli anni del boom economico e della relativa esplosione dei consumi musicali sono quelli del dualismo tra 33 giri e 45 giri che, qui da noi, si consumano nel derby tra Fonit Cetra, partecipata dalla Rai, e Rca Italiana, costola tricolore della multinazionale americana partecipata dall’Ior del Vaticano. Ma è un coro a più voci, nel quale ai soggetti indipendenti toccano spesso parti di primo piano. In specie se si tratta di etichette fondate da artisti, come il Clan Celentano o la Pdu di Mina.
La storia della discografia italiana è un’antologia di vicende umane avventurose, come quella di Nanni Ricordi, rampollo di cotanta famiglia che nell’estate del 1961, per dissidi con i nuovi azionisti della Casa, passa alla Rca Italiana portando con sé Sergio Endrigo e Gino Paoli. Lo scopre Vincenzo Micocci, leggendario direttore artistico di Rca Italiana, e decide di fare il medesimo percorso Milano-Roma in senso inverso, trasferendosi alla Ricordi. Ci sono Gianni Sassi e Sergio Albergoni che, nei primi anni Settanta, fondano la Cramps offrendo campo libero a rivoluzionari delle sette note come gli Area, punta di diamante della stagione progressive. Quante avventure in una storia sola. Quanta sostanza nella musica solida.
SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI DI ANGELO ORLANDO MELONI
Il brasiliano Paulo Roberto de Freitas, conosciuto semplicemente come Bebeto, ex-allenatore delle nazionali di pallavolo brasiliana e italiana, in una famosa conferenza stampa stupì i giornalisti di tutto il mondo affermando che lo sport più popolare del proprio paese fosse proprio il volley. Alla domanda degli sbigottiti addetti stampa di come si ponesse il calcio in relazione alla categorica asserzione, che al momento sembrava una farneticazione dovuta all’esaltazione post-partita, il tecnico rispose pacatamente che il calcio non è uno sport, ma una religione.
Il calcio non è uno sport, ma una religione, ecco, sono convinto che questo assunto sia possibile traslarlo anche in Italia (e non solo), dove quello che è considerato il gioco più bello del mondo ha da tempo dismesso i connotati di una salutare attività sportiva per calzare quelli di una confessione con tanto di riti, funzioni, estremismi, miracoli, santi e profeti.
Ed è proprio da un miracolo, propiziato da una santa, che prende il via il racconto di Angelo Orlando Meloni Santi, poeti e commissari tecnici, storia che dà il titolo all’omonima raccolta dell’autore pubblicata quest’anno da Miraggi Edizioni e avente come filo conduttore il calcio. Titolo quantomeno azzeccato, in considerazione del fatto che in Italia tutti, ma proprio tutti gli appassionati/devoti si considerano anche ministri e sacerdoti di questa sorta di culto laico. Quindi, quello italiano non è più solo un popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori, di trasmigratori, come diceva Mussolini in un suo discorso nel 1935, ma anche di commissari tecnici!
Voi a questo punto direte, che cosa c’entra il calcio con l’universo fantastico di Cose da Altri mondi?
Intanto, come accennato sopra, si parla di un miracolo. Non solo del classico miracolo sportivo, come usa scrivere la stampa quando qualcuno compie un’imprevista impresa, ma di un miracolo vero e proprio, con tanto di santo e intercessore.
Siamo in Sicilia, a Vezze sul Mare in provincia di Siracusa, paesino costruito su una rocca che regalava panorami mozzafiato a tutti gli amanti della fantascienza apocalittica, vista la devastazione ambientale provocata da uno stabilimento petrolchimico. La locale squadra di calcio, la Vigor, è come quella celeberrima di baseball dei fumetti con Charlie Brown, cioè che non vince mai una partita. Infatti, chiude i campionati sempre all’ultimo posto e non retrocede mai solo perché milita in una categoria talmente infima che da essa non è possibile scendere più in basso.
Dopo cinque stagioni a bocca asciutta, ecco che improvvisamente inizia a vincere, oltretutto nei modi più stravaganti e improbabili. Il segreto di questo cambio di rotta risiede in una statua votiva della beata Serafina, patrona del paese, che comincia a suggerire al parroco, in un modo a dir poco bizzarro e che non vi anticipo, le strategie che porteranno la Vigor a giocarsi la vittoria del campionato. L’ultimo ostacolo all’impresa è però la A.S. Marina, la squadra del comune gemello di Vezze sul Mare, Marina di Vezze, che invece ha una tradizione calcistica decisamente più importante e che ha calcato anche i campi di campionati semiprofessionistici. L’incontro sembra dal risultato incerto, in considerazione del fatto che anche dietro le vittorie dell’A.S. Marina c’è l’intercessione di un intervento dall’alto. Che mistica partita sta giocando la beata Serafina e quali sono i suoi reali scopi?
* * *
Divertente racconto doppiamente dissacrante (e per chi come me conosce alcune realtà di questa splendida regione, anche con risvolti amarognoli) che mescola sacro e profano, misticismo, fantastico, calcio e animali parlanti, il tutto condito con uno stile frizzante e ironico, forse parodistico ma che nello stesso tempo offre uno spaccato disincantato di un certo mondo a margine della grande ribalta calcistica.
Il resto della raccolta continua su questo tono. Nonostante i racconti abbiano un impianto più realistico, l’autore trova comunque il modo di disseminare qua e là citazioni fantascientifiche. Il penultimo, il breve Perché no?, ci porta addirittura in territori orrorifici. Altri, pur non mancando d’amara ironia, hanno risvolti tristissimi, come il bellissimo Ode al perfetto imbecille. In Il campionato più brutto del mondo, infine, una sorta di racconto distopico, abbiamo shuttle spaziali che, parafrasando l’autore, sono pronte a solcare gli spazi infiniti alla conquista degli stadi delle più importanti galassie. Tutte storie che, partendo dal mondo del calcio, portano a riflessioni sulla società in generale. Ambedue non ne escono bene…
L’autore Angelo Orlando Meloni è nato a Catania e vive a Siracusa. Oltre alla raccolta Santi, poeti e commissari tecnici (Miraggi edizioni, disponibile qui), ha pubblicato i romanzi Io non ci volevo venire qui (Del Vecchio Editore), Cosa vuoi fare da grande (Del Vecchio editore) e La fiera verrà distrutta all’alba (Intermezzi editore). Un suo racconto, La sconfitta degli ultracorpi, è presente nella raccolta di racconti horror 24 a mezzanotte (Officina Milena).
VITA, MISERIE E DISSOLUTEZZE DI CHI PRENDE A CALCI UN PALLONE
Sembrano storie inventate. Anzi, lo sono. Ma, come si sa, spesso la realtà va ben oltre l’immaginazione. E il mondo del pallone ci ha abituato a sentirne di cotte e di crude. Angelo Orlando Meloni, in un libro ormai non più nuovissimo di pubblicazione (maggio 2019) ma di un’attualità sconcertante, mette insieme una lunga serie di episodi legati a quel mondo dominato da Nostra Signora del Pallone. Anzi, in questo caso, dalla Beata Serafina, visto che proprio lei è la protagonista del primo episodio.
Ci sono, a seguire, un centravanti alcolizzato, un arbitro incorruttibile, o quasi, un calciatore “più forte del mondo” costretto a scontrarsi con il suo di mondo. Analogie con il passato ed il presente di un emisfero dove Angelo Orlando Meloni ambienta il suo “Santi, poeti e commissari tecnici” (Miraggi edizioni). E lo fa come sa fare lui, con una sottile vena ironica che fa comunque trapelare malinconie e contraddizioni, dove Nino, per dirla con il “principe” Francesco De Gregori, non ha paura di tirare un calcio di rigore ma, se lo sbaglia, non sai mai se lo ha fatto apposta o è davvero uno sfigato che sogna il calcio in grande e si ritrova con un pallone sgonfio di desideri inespressi.
Il libro di Meloni è l’occasione, un’altra ancora, per parlare di calcio, per smontarne determinate trame e trascorrere, magari, una domenica con tra le mani un buon libro. Con buona pace dei nostalgici di “Tutto il calcio minuto per minuto”.
Nel suo ultimo romanzo, Luca Ragagnin ci delizia con una favola moderna in cui i protagonisti e i punti di vista si mescolano in una girandola di condanne e assoluzioni sempre parziali, in cui ciò che ha più voce è lì dove meno si sente.
Perché la prostituta è una fossa profonda
e la donna altrui un pozzo stretto.
Anch’essa sta in agguato come un ladro
e aumenta fra gli uomini il numero di quelli infedeli[1].
Il romanzo di Luca Ragagnin, Pontescuro, da poco uscito per Miraggi edizioni, è un testamento. O meglio, è il racconto di un testamento, nella sua accezione etimologia di patto. Un racconto che ha l’andamento delle favola. O meglio, della parabola. Una parabola che ha attraversato secoli di storie e di modi di raccontarle e che procede grazie a un continuo nascondimento: l’istanza narrativa si moltiplica, la verità si fa sfuggente, accumulatoria e mai conclusa. Non affermata, non negata, piuttosto suggerita. È, in pieno afflato greco, scoperta[3]. Ma non viene detta. Bella lezione e inattuale quella di Ragagnin: si può sapere e ciononostante tacere.
Con i testamenti sacri della nostra tradizione, quello antico e quello nuovo, così come con i grandi testi della tradizione letteraria, Pontescuro ha più di qualche semplice assonanza, ma colpisce come le fonti siano comprese in una rielaborazione originale e affatto scevra da intenzioni moralizzatrici.
Siamo a Pontescuro, un paesello sperduto da qualche parte nella bassa padana e colto in un’immobilità stranita, come fissato in una lastra di vetro di una fotografia d’epoca. È il 1922 e l’Italia si sta scoprendo fascista e cattiva.
C’è una puttana[4], come l’anonima peccatrice nel Vangelo di Luca. Solo che questa un nome ce l’ha e non da poco: si chiama Dafne, al modo di quella cantata nei miti greci e latini.
C’è un bambino salvato dalle acque, come quel Mosè tirato a riva dalla figlia del faraone. Questo invece ha nome Ciaccio e gode, rispetto a quello, di una reputazione contraria: è lo scemo del villaggio. Abbandonato nell’acqua si porta addosso anche la sorte di scampato al diluvio, visto che la giovine madre l’ha lasciato su un relitto di barca. Che a trovarlo sia stato un avvinazzato non fa che chiudere il cerchio.
C’è il signore locale, di tutto padrone e governatore, anche delle acque dalle quali viene raccolto Ciaccio; è su queste acque che viaggiano le barche di Cosimo Casadio, signore locale, capace di arche, come Noè e come Noè padre di tre figli maschi che sono in fuga e non daranno però alcuna discendenza. E di Dafne, una sgualdrina.
E poi ci sono gli altri, i moltissimi altri che fanno il paese Pontescuro, perso tra la nebbia feroce della bassa padana, dove regna la miseria, dove l’unica alternativa possibile è tra l’essere svegli e il dormire, dove la fame getta la sua ombra disperata e vorace sulla pulizia e sull’ordine.
Di nomi e soprannomi, destini e mestieri
Man gave names to all the animals
In the beginning, long time ago
(Bob Dylan)
Si chiamavano Giovanni, Tonio, Puccio, Giorgione. Si chiamavano Luigi, Mario, Bandiera, che credeva gli avessero dato un nome da femmina e cercava vendetta. Si chiamavano Guglielmetto, Rico, Luciano. E c’era la grassa, sensuale, infelice Nella. […] Si chiamavano Michelino, Franchino, Enrico. E c’erano Paolo di Ca’ Bassa e Paolo di Ca’ Alta, non si potevano soffrire. Poi c’era uno che viveva ancora più in alto di Paolo di Ca’ Alta, si chiamava Cosimo e aveva tre figli maschi e una femmina. La femmina si chiamava Dafne, che significa pianta di alloro, o di lauro. Si chiamavano Gené, che non sapeva che cosa sono i pensieri, e si chiamavano Emilio, detto il Zuntura, l’aggiustatutto, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore. Si chiamavano Làinfondo, perché il nome non gliel’avevano mai dato e allora indicava dove viveva, e si chiamavano Ciaccio, come il verso degli uccelli, don Andreino e don Antonio perché erano dei preti, e c’era furàza, la vongola, una cosa che non si può aprire senza il prezzo di ucciderla. […] Il paese si chiamava Pontescuro. C’era una volta Pontescuro. E tutti, dal primo all’ultimo, anche quelli che non avevano un soprannome, erano simili al Furàza. Si chiamavano in tanti modi, erano tutti chiusi, e ad aprirli morivano[5].
I nomi hanno importanza a Pontescuro, sono il bozzolo che ricopre le persone, le cose. Sono un destino, un’indicazione di senso. Sono quello che rimane dopo tutto. Un abito, un’abitudine, un’abitazione.
Abbiamo già conosciuto Dafne, la sgualdrina. Partiamo da lei. Nel mito era una Naiade, questa, una ninfa dei fiumi e delle acque dolci in generale, protettrice del matrimonio, nientemeno. Si dice che avesse acceso d’amore il dio Apollo che prese a inseguirla. Non la raggiunse, pur contando su forza e brame e velocità illimitate, perché Dafne chiese aiuto ai genitori che vinti dalle preghiere filiali la trasformarono in una pianta, l’alloro, che da quel giorno è sacra al dio della poesia. Il contrasto è stridente: nel romanzo Dafne non scappa da nessuno a tutti concedendosi. Una puttana di fatto, se non di diritto, non guadagnando alcunché dalla sua attività, lei che di denari non ne abbisogna essendo la figlia di Cosimo Casadio, e sorella di Giovanni, Giacomo e Gabriele. Uguali nel rapporto con la natura, per entrambe la brama voluttuosa è qualcosa da disprezzare: attraverso la fuga, per la Naiade; con l’esibizione di un potere sessuale smisurato, per la Dafne di Pontescuro. Medesima è infine la ragione ultima della morte, portata da chi ama e perciò salva.
Di Ciaccio potremmo dire che è niente più che un’onomatopea, un verso fattosi nome proprio, che è un altro modo di dire che un verbo si è fatto carne. La carne, a proposito:
La carne è una casa, o un attrezzo. È un rastrello, un badile, la venatura di un legno. È una cucina, un pollaio, un cassetto, un raggio chiaro che scalda una finestra, oppure polvere e inchiostro sbavato, lettere nascoste e ragnatele, qualcosa che scricchiola e non si sa dove. Nell’amore carnale c’è il pensiero della specie, corredi ricamati, pranzi all’aria aperta, con tutti i risparmi volatilizzati. C’è il denaro nella carne, ma anche l’odio, il disprezzo, la ripugnanza, la vendetta. Ci sono gli anni che comandano e ti prendono a male pieghe, e una parata di vestiti, di buon sapone e cenere bianca[6].
Ciaccio, lo scemo, è tutto questo insieme perché abita nella differenza dagli altri e dal padre putativo che ha avuto, Zuntura l’aggiustatutto, quella differenza che accompagna chi sopravvive alla morte, diventandone in seguito un alfiere, un sacerdote, un ministro.
Un ministro della carne, altrui, che dopo essere stato salvato viene rifiutato dalla casa-del-signore, da quel Cosimo Casadio che tutto possiede, tranne proprio la carne.
Sergio, a capo basso, assentiva, pronto a fare ciò che il suo padrone gli richiedeva. S’incamminò precedendo il suo padrone. Fece strada a un padre senza lacrime, i lineamenti di pietra, la schiena eretta e, per un attimo, ebbe paura[7].
Paura come se fosse il male, che pure non è, lo abbiamo visto. Non si dà male assoluto né bene assoluto nelle cose piccine del mondo. Che poi nemmeno di fronte al male assoluto, al buio, è buona idea avere terrore. Meglio piuttosto inchinarsi e scendere a patti.
Di patti, rischi e scommesse
When I was just a little girl / I asked my mother, what will I be
Will I be pretty / Will I be rich / Here’s what she said to me
Que será, será / Whatever will be, will be
The future’s not ours to see / Que será, será
(Ray Evans e Jay Livingston)
L’acqua precede il ponte. Il ponte precede il paese. La divisione precede l’unione. Sembra, in fondo in fondo, che per le cose umane non si scappi da qui. Prima c’è il diabolico, poi il simbolico. Per sanare la divisione il ponte ha avuto come garante, paradossalmente, lo stesso Satana[8], solerte nell’assicurare al costruttore la riuscita della sua impresa, la costruzione del ponte, e, in conseguenza, lo sviluppo del paese, cinquanta anime su una riva, cinquanta anime sull’altra riva. Equo. Solidale. E il costruttore accetta di avere un simile mecenate, accetta l’alleanza, il patto. Nel quale non balugina che un riflesso stantìo di quello che già fu di Faust e di altri, epifenomeni di una lunghissima tradizione letteraria. Non siamo di fronte alla folle ambizione del frigido Adrian Leverkuhn dipinto da Thomas Mann, né certo al tenacissimo amore di Margherita nei confronti del Maestro che la spinge a farsi strega del diavolo; d’altra parte, in ballo c’è solo la costruzione di un ponte. Un ponte che unisce due aree di un paese ancora da fare. È un patto spurio perché da un lato il costruttore non guadagna conoscenze né una vita eccezionale; anzi: morirà vecchio e stupido. Dall’altro lato, egli non garantisce con qualcosa di suo, ma stabilisce un patto che saranno altri ad assolvere, le nuove generazioni, dalle quali Satana esigerà la riscossione del credito.
Nel romanzo di Ragagnin non è tanto in gioco l’incapacità di discernere il vero dal falso, né la necessità di proclamare il bene e farlo vincere sul male, termini che rimangono ontologicamente ignorati dall’uomo:
«E allora, ditemi, un essere scaraventato nella vita, scucito e strappato dalla continuità e reso smemorato, come potrebbe avere coscienza assoluta del Male? O del Bene, se è per quello?[9]»
Ancorato a una dimensione umana, ciò che pare essere la posta in palio della scommessa dei protagonisti del racconto e, con loro, di ognuno di noi lettori che intenda cavarne una morale, è la responsabilità ultima delle proprie azioni. Scegliere il 1922, l’anno della marcia su Roma, ha un significato preciso, ricorda che ogni netta separazione tra bene e male, tra giusto e sbagliato rimanda a una realtà che non è quella umana, né può esserlo. Il patto col diavolo che inizia la storia di Pontescuro ripropone la situazione umana troppo umana che ci fa insieme sommersi e salvati, vittime e colpevoli, assolutori e punitori, in una girandola infinita che si perpetua scegliendo al bisogno il capro espiatorio che la storia può sopportare.
Dafne ci aveva offesi, tutti noi. Aveva offeso le nostre madri, le nostre mogli, le nostre future donne che sono le misere figlie che abbiamo, le figlie della miseria, perché ha sbattuto in faccia l’avvenenza, ha guardato la miseria delle nostre donne e ci ha sputato sopra con la bellezza. […] Ma non è nel nostro destino, la bellezza[10].
Dafne e il Diavolo sono omologhi, hanno in sorte di sbattere in faccia agli uomini di Pontescuro ciò che questi non avranno mai: immortalità e bellezza. Nella loro comune dannazione riluce l’assoluzione degli innocenti.
[2] “Con un pezzetto di pane, disse, puoi essere convinto a parlare o a tacere”.
[3] «Domandiamo ora, senza alcun riguardo per questa definizione abituale, come venne intesa la verità all’inizio della filosofia occidentale, e cioè che cosa pensassero i Greci di ciò che noi chiamiamo «verità». Quale parola avevano per nominarla? La parola greca che sta per «verità» – non lo si sarà mai ricordato abbastanza, e bisogna sempre tornare a farlo, quasi ogni giorno – è alètheia, svelatezza. Qualcosa di vero è un alethès, uno svelato», Martin Heidegger, L’essenza della verità, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1997, «Considerazioni introduttive», pp. 32.
[4] «Con il mio nastro rosso stretto intorno al collo. È così che sono morta: con un nastro rosso stretto intorno al collo. Strangolata, diranno. E non è nemmeno di seta, diranno. D’altronde la seta non le sia addiceva. Quella sgualdrina», p. 24.
“L’imperatore di Atlantide”: l’analisi di Enrico Pastore
Straordinaria ricostruzione del dietro le quinte dell’opera musicale concepita in un campo di sterminio morale
L’imperatore di Atlantide (Miraggi Edizioni, 2019), è una opera straordinariamente completa, che consegna al pubblico uno spaccato, non molto conosciuto, di un luogo-lager che i nazisti crearono per apparire innanzi alle delegazioni di due paesi del nord Europa, Danimarca e Svezia, e innanzi alle visite della Croce Rossa Internazionale, come gruppo ad hoc al fine di migliorare “quella razza” che tutti pensavano essere sterminata dagli stessi.
L’intento di Hitler, fu quello di far credere, riuscendoci, che i prigionieri ebrei dislocati a Terezín vivessero in ottime condizioni, al pari dei tedeschi medesimi che inneggiavano alla razza pura.
Null’altro che finzioni su finzioni, assurdità al limite dell’accettabile; ma tutto ciò accadde, e a renderlo noto furono le testimonianze e il capolavoro musicale scritto da Viktor Ullmann e Petr Kien, prigionieri a Terezín, città ghetto, dove tutto era credibilmente meraviglioso.
Chi ha dato tanta luce a questo superamento di Brecht, è lo scrittore, intellettuale e regista stresiano Enrico Pastore.
L’imperatore di Atlantide: folgorazione Pastore
La spettacolarizzazione esiste, ma troppe volte viene intesa come inutile interesse, come spocchiosità, come eccesso. Preparatevi al meglio ad incassare il gancio destro. Enrico Pastore, regista e intellettuale classe ’74, assieme ad un gruppo di compagni e colleghi universitari, durante un corso di Storia del teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia (i docenti non vanno citati perché sono la categoria che più detesto!, questa è mia, ma lo sapete già) che seguì nel 1995, conobbe “L’Imperatore Atlantide”. Fu folgorazione.
Mettere in scena L’imperatore di Atlantide?
L’idea prima fu quella di farci una tesi di laurea, tanto fu l’interesse dell’allora giovanissimo stresiano, che non andò mai in porto, e fu una fortuna il fallimento accademico, proprio perché non avremmo forse assistito a questo gran lavoro racchiuso in 200 pagine c.ca compreso di libretto, a fronte in lingua originale, dell’opera scritta da Viktor Ullmann e Petr Kien.
Cosa fa Enrico Pastore?
Semplicemente racconta i retroscena di dove si plasmerà la più importante opera del periodo nazista, scritta da due grandi artisti, che assieme ad altri conosceranno la fine e le camere a gas. Ma prima ancora, conosceranno invece l’assurdo teatrante brechtiano che era Hitler.
I prigionieri a Terezín scrivono L’imperatore di Atlantide
Terezín fu una città ghetto lager creata per far apparire che tutto andava bene alle istituzioni di controllo come la Croce Rossa. Lì c’erano scuole che i bimbi non potevano frequentare, perché ebrei, c’erano i parchi che gli ebrei non potevano calpestare, c’erano i bar dove il caffè non dovevano venderlo, perché il cliente era ebreo. Insomma, i nazisti con a capo Heichmann, cosa fecero? Si inventarono una città modello, dove la vita era dignitosa: finto; dove gli ebrei non erano abusati: finto; dove le premesse erano le migliori per far vivere e potenziare le bellezze degli ebrei: finto! Finto! Finto ! Finto! Tutto finto! Bastardi tedeschi!
L’ebreo Salvini?
Sembra una provocazione? Non lo è. Vi dico il perché. Nella città di Terezín, dove tutto era finto, anche l’operazione di abbellimento (la povertà era al limite del ridicolo per chi doveva culturalizzare la città), anche le più importanti messe in scena culturali, se non venivano cassati dai tedeschi, succedeva che li cassavano i medesimi ebrei: perché? Perché la paura dei tedeschi era troppa, nonostante si sapesse che tutto era fittizio, tant’è che “allora meglio tirar per le lunghe questa via nel paradossale mondo di Terezín”.
E che c’entra Salvini? Boh!
E che c’entra Salvini? Boh, mi è venuto in mente, perché ce l’ha con i tedeschi e ci scassa la minchia con la questione di star fuori dall’Europa. Che però, si legga tra le righe, la storia gli da ragione: i tedeschi sono sempre i tedeschi, i soliti tedeschi, cattivi, che mai un Salvini potrebbe emularli: stiano tranquilli gli immigrati pertanto. Ma gli immigrati sono tranquilli, chi non è tranquilla è la sinistra (PD: può chiamarsi sinistra? ‘nsomma!!!); e poi ci siamo tutti noi, perché paradosso dei paradossi, Salvini, risulta essere la consecutio temporum dell’anti germanicità messa in atto dagli ebrei! Stupore? Prendetevela con Enrico Pastore, che a furia di scavare per trovare fonti ci ha messo in crisi!!!
Enrico Pastore: L’imperatore di Atlantide
Il libro si presenta bene e affronta tutto il dietro le quinte di quella bellissima opera che è L’imperatore di Atlantide. Ci racconta di Ullmann e di Kien, della loro collaborazione, di come quando e perché sono nati gli interessi condivisi coi colleghi, e di quanti artisti furono deportati. Psicologicamente ci inquieta pure con il disastro della memoria: non più importava loro dove fossero o cosa facessero, producevano bellezza e questo bastava. Poi, poi si tornava indietro, per poi un giorno non tornare più.
Libro ottimo
Libro ottimo, ben curato, scritto e armonizzato. Dattiloscritto che Miraggi Edizioni ha fatto bene a pubblicare con l’inserimento del libretto dell’opera in appendice, che poi tanto appendice non è dato che un terzo del libro è tutto il libretto con traduzione a fianco. Conoscere un’opera musicale è molto bello, sapere chi sono i suoi autori, e in quale triste e doloroso contesto si son dovuti muovere e son riusciti a creare, lo è ancor di più. Andare all’ etimologia di ogni singolo termine che compone il titolo, aprire con un capitolo che ti dice tutto: “Il campo delle menzogne”, non ha più motivo di dare spiegazione. Questo libro va letto: assolutamente!
Miraggi riesuma miracoli e capolavori, non possiamo rendergliene atto che giorno dopo giorno si impone come realtà editoriale per tutti, mantenendo quell’aurea di nicchia.
Con la traduzione di Francesco Forlani, Miraggi pubblica un cult di non facile recensione. Libro che è una raccolta di pensieri e riflessioni “sciolte ” come fosse un taccuino di viaggi, frammenti appunto come dice al termine del libro, dopo la parola Fine.
Dietro il libro Immediatamente di Dominique de Roux ora in edizione italiana c’è un curiosa storia di censura politico-intellettuale-editoriale che vale la pena ricordare. Pubblicato in Francia nel 1972, era una sorta di carnet personale, annotazioni di letture, considerazioni, riflessioni, descrizioni, incontri di chi si era già imposto come un enfant prodige delle lettere francesi.
Era un romanziere, un reporter, un editore: un letterato estremamentecompetente, morto appena quarantaduenne, nel 1977. Aveva fondato, nemmeno trentenne, la rivista «Cahiers de l’Herne», giocata per monografie dedicate a figure laterali, maledette e rimosse della cultura europea: ciò avveniva per lo più per basse ragioni ideologiche e spesso per bieche rappresaglie politiche. Stando a quanto ci riferisce nel risvolto di copertina dell’edizione Miraggi, la pubblicazione di questo suo personalissimo diario frammentario, Immediatamente, irritò il mondo intellettuale ed editoriale francese, in primis Roland Barthes, “costringendo de Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo”.
Figlio nobile di una famiglia monarchica, errante tra Germania, Spagna e Inghilterra sul finire degli anni Cinquanta, polemico, traduttore, visionario,internazionalista gollista, vagabondo nei primi anni Settanta in Svizzera e Portogallo, si rifugia a Lisbona e si dedica al giornalismo, diventando corrispondente nelle colonie lusitane e intimo amico del discutibile Jonas Savimbi. Nell’aprile del 1974, al tempo della Rivoluzione dei Garofani, è l’unico giornalista francese presente a Lisbona.
A 25 anni, aveva scritto il suo primo romanzo, aveva consolidato una posizione di battitore libero in controtendenza rispetto al proprio tempo: il «nouveau roman» lo faceva “piangere di noia, il maggio francese gli era sembrato una mitomania collettiva, la sinistra intellettuale una tribù antropofaga che faceva carriera sul cadavere del marxismo.”
La prima provocazione ha a che fare con un giudizio su Georges Pompidou, scritto quando quest’ultimo non era ancora presidente della Repubblica: «Pompidou – questa bella Venere di Lapougue della politica francese – sa tutto. Sa come si incula una mosca, come il 15 agosto presentare i suoi ossequi alla Vergine Maria. Conosce pure l’Inferno e i francesi. Porta sulla Francia uno sguardo da veterinario poiché la Francia di Pompidou è una truffa politica». Prende di mira come accennato sopra,Roland Barthes, pontefice massimo dell’intellighentia parigina: «Un giorno, con Jean Genet, mi dice Lapassade, parlavamo di Roland Barthes; di come avesse separato la sua vita in due, il Barthes dei bordelli con ragazzi e quello talmudista dicevo: Barthes è un uomo da salotto, è un tavolo, una poltrona… No, ribatté Genet: Barthes è una pastorella».
L’Eliseo, così come l’Académie a difesa diGenevoix, fecero pressioni sull’editore di Presses de la Citè, Barthes minacciò di procedere per via giudiziaria contro le edizioni Bourgois. Risultato: la pagina relativa a quest’ultimo venne tagliata via dalle copie ancora in deposito e, su mandato imperativo dell’editore, i librai fecero lo stesso con le copie in loro possesso, de Roux venne licenziato in tronco da Presses de la Citè e si ritrovò messo praticamente alla porta da quella stessa casa editrice che aveva contribuito a fondare. Immediatamente, ha i pregi e i difetti dei libri fatti di frammenti. Nomi, luoghi e bersagli polemici che al momento sembravano importanti, si rivelano con il tempo di circostanza, e le stesse provocazioni che allora lo fecero mettere all’indice, oggi rischiano di apparire incomprensibili Vissuto in un Novecento in cui l’homo ideologicus teorizzato da Cochin per spiegare la Rivoluzione francese e il Terrore aveva ormai raggiunto la sua piena maturità, de Roux venne etichettato dai suoi nemici come «fascista», cosa che nel libro si legge con questa considerazione: «Mi viene voglia di presentarmi così: Io, Dominique de Roux, già impiccato a Norimberga». Quell’etichettatura faceva del resto parte di una singolare inversione del vocabolario: «Il mercenario diviene volontario, l’agente speciale un consigliere, il questurino un patriota, i corpi di spedizione l’aiuto al Paese fratello, l’aggressione deliberata, un’assistenza militare per abbattere la reazione. Il tutto con L’Internazionale in sottofondo».
C’è nel libro un lungo giudizio di Romain Gary a questo proposito, proprio perché Gary con l’homo ideologicus aveva poco o niente da spartire. Scrive bene de Roux, dice Gary, «un autentico scrittore», ma il suo piglio polemico rimanda non tanto a una «questione di fascismo di fondo», quanto a un «fondo fascista». Che però, ammonisce, non esiste: «Il fascismo è sempre stato un contenitore che soffre del vuoto interiore, del suo vuoto, ecco perché può trasformarsi facilmente in fosse comuni. I cadaveri fanno sempre molto contenuto». Ancora Gary : è tempo che De Roux affronti «non altri ma se stesso con ferocia, coraggio e senza pietà. Io è un contenuto che lo chiama, il grande appuntamento letterario è con lui».
Immediatamente è sotto questo aspetto la risposta che proprio Gary avrebbe voluto. Nelle parole di Forlani ( il traduttore): “De Roux non solo fa parte della tradizionedegli infrequentabili del Novecento, ma potremmo dire che sia stato il primo a intuire, di quelle nature scomode e insieme necessarie alla cultura occidentale (Céline, Artaud, Pound, Gombrowicz, Bernanos, tra gli altri), il ruolo di visionari, una grandezza da proteggere a tutti i costi […]. La vocazione di de Roux è in questa funzione vitale di conservazione, diffusione, traduzione e allo stesso tempo crescita parallela della parola che da materiale diventa quasi subito spirituale, corpo a corpo, senza risparmiarsi”.
La bellezza – e anche la forza – di Immediatamente è data dal senso di incompiutezza che pervade tutto il volume. Frammenti che devono essere interpretati, parole che richiamano a un’infinità di parole non scritte, attacchi al moralismo in cerca di una libertà nuova, profondamente soggettiva, che Dominique de Roux nei suoi libri e nei suoi articoli ha ricercato per tutta la vita.
È in libreria l’edizione aggiornata del Bolaño selvaggio, la raccolta di saggi sullo scrittore cileno uscita per Miraggi. Di seguito pubblichiamo l’introduzione di Alessandro Raveggi, ringraziando editore e autore.
di Alessandro Raveggi
«La vita, sicuramente, che ci mette sotto il naso i libri necessari solo quando sono assolutamente necessari», si legge ne Los sinsabores del verdadero policía. E io dico così: «Perché proprio Bolaño?» – me lo sono chiesto spesso. Nel 2002 vivevo a Granada in Andalusia, e in una libreria di fiducia, suggestiva e tutta accatastata, che si illuminava come un fuocherello speranzoso nel gelido inverno offerto dalla Sierra Nevada, trovai per caso, in mezzo ad altri mille libri e autori in spagnolo, quella che sarebbe divenuta una delle mie bibbie: Los detectives salvajes di tale Bolaño Roberto, un autore mai sentito prima – in Italia era in realtà uscito in molta sordina per Sellerio già dal 1997.
In quella libreria spagnola in fondo non si celebrava alcun trionfo, nessuna fascetta eclatante, sebbene avesse vinto due tra i più importanti premi del mondo delle lettere spagnole – l’Herralde nel 1998 e il Rómulo Gallegos nel 1999 –, nessuno scaffale dedicato, nessuna feticizzazione della pallida faccia emaciata addolcita dall’occhiale dalla montatura rotonda, e da un crine corvino scompigliato stile Charlie Chaplin che ha perso il cappello, appena scampato a un disastro. Era lì tra gli altri romanzi Anagrama, docile e insignificante: Bolaño Roberto. Me lo confessò più tardi anche Juan Villoro, senza il minimo segno d’invidia: «Roberto era uno scrittore contemporaneo bravissimo, ma non era un mito, aveva avuto dei successi, sebbene in ritardo rispetto ad alcuni di noi. Era uno di noi, insomma», fu più o meno quello che mi disse.
Per me fu però, in lettura, una subitanea folgorazione, e ne rimasi anche stordito, complice forse la stufetta a gas della mia angusta stanza singola, o forse persino la mia conoscenza ancora mediocre della lingua spagnola. Era diverso da tutto quanto avessi letto prima, in quella casa condivisa vicino alla Gran Vía de Colón – indizio maligno di mie prossime peregrinazioni e anche di future diramazioni bolañane verso le Americhe? – la casa dove, ironia della sorte, avevo divorato Leopoldo María Panero, Octavio Paz, Pablo Neruda, Gabriela Mistral e tutti quei poeti che, seguendo il suo maestro Nicanor Parra, Roberto avrebbe forse dismesso o attaccato ferocemente. Certa spigliatezza, certa sagacia, la possibilità unica che ti dava la sua voce di seguire in una costante scorribanda a un tempo personaggi non sempre rotondi, non sempre dotati di quello che gli editor definiscono uno spessore psicologico completo (e chi se ne fregava!), e far loro passare cose buffe e a volte cacciarli in cose serissime e terrifiche, tenendo la corda sospesa a metà, sul bordo dell’annientamento e della morte; oppure ancora certe sue improvvise virate poeticissime che ricadevano anch’esse, si direbbe ancora con Parra, nell’antipoesia tipica de Los perros romanticos: tutto mi prese, anche nelle letture voraci successive di quello che era disponibile in libreria (ricordo in particolare Putas asesesinas e La pista de hielo).
Certo, in lui c’era di mezzo Borges, c’era di mezzo Cortázar, o anche Ernesto Sabato, ma loro si rubricavano/storicizzavano pur sempre nelle astrazioni di un’avanguardia, cristallina o ferina che fosse, o annacquati nella moda del boom. Non era in realtà un grande amante delle avanguardie, Roberto, a mio parere: «Preferisco i paracadutisti che scendono avvolti dalle fiamme, o direttamente, quelli a cui non si apre il paracadute», disse una volta. Era più un situazionista melancolico.
Accadeva poi che con Bolaño si potesse andare oltre le facili categorie del modernismo e del postmodernismo: la voce dell’Autore immaginario – che non è solo la voce dimessa e scanzonata, dall’accento cileno smorzato ma mai compromesso dal messicano o dal catalano – mi si era appiccicata alle orecchie per giorni, inventiva, ma mai spaccona. La voce unica persa nelle sue decine di trasfigurazioni e maschere. Ogni opera in fondo contiene la voce dolente del proprio autore, disse pressappoco così a Carmen Boullosa in quella che è la cosiddetta sua Ultima conversación.
Avete però mai letto lo stesso Los detectives salvajes, che io lessi in quel lontano 2002 a Granada, guardandolo con occhi disinnamorati, o da detrattori?
Impresa oggi oramai difficile. Ma in fondo, chiedetevelo: che ne capisce il lettore italiano di tutto quel crogiolo di vite ingenue e perse, strade affastellate di vizio e poesia, cantinas y calles del centro storico di Città del Messico, nomi e cognomi iberici, poeti spagnoli esiliati, o eccentrici giovani poetastri e poetesse cileni e uruguaiane, riferimenti letterari remoti o spesso inventati, e ricerche piene di vicoli ciechi? Poco, o niente. Perché Bolaño non è un Gogol’ o un Dostoevskij, nei quali poco importa se a volte certi nomi e cognomi sono ardui da pronunciare (e non son sempre molti). In lui, invece, credere nella toponomastica e nell’onomastica è tutto, proprio fondamentale, così come si crede all’amore assoluto da giovani (come quello di Roberto per Lisa) e lo si confonde con una passione momentanea. A volte si ha l’impressione che vi faccia persino illudere di abbracciare a volo d’uccello tutta la storia della letteratura ibero-americana, o almeno tutto quello che va da Ruben Darío ai suoi stessi contemporanei (amici spesso citati e adorati), o di permettervi di giocare con essa come nello straordinario gioco de La literatura nazi en America.
È uno dei pochi autori del tardo Novecento che pretende e ottiene per i suoi lettori un Universo completo e sussistente, per quanto fragile e dai bordi sfrangiati, ripetitivo a tratti. Un Universo di senso che non include solo i suoi personaggi ricorrenti (Belano, Lalo Cura, Amalfitano), ma anche la città di Santa Teresa o la Universidad Nacional Autónoma de México come posti reali e immaginari assieme, le bizzarre teorie poetiche infrarealiste, il mondo delle mille riviste underground che nascono e muoiono ogni mezzora (come la rivista «Caborca»), le notti con le puttane o con le studentesse o le albe assonate, o ancora la passione per i giochi di ruolo (mai investita di postmodernismo), il rincorrere costante delle vite di scrittori fittizi e la riscrittura della vita di quelli veri (fin dal César Vallejo morente di Monsieur Pain)… ed ecco, Bolaño, che in questo Universo ci ficca dentro idealmente anche una Biblioteca personalissima: immagine perfetta del Paradiso, direbbe Borges, ma anche «una sala di lettura dell’Inferno» – per fare il calco ad un verso bolañano in veste di giovane poeta e vago. Universo completo con bibliografia inclusa, che genio!
Essere un genio scrittore poeta y vago è d’altronde questo: farci abboccare continuamente anche rispetto a cose remote e insignificanti, oppure illuderci di poter sapere noi tutto senza saperlo. E, soprattutto, dare l’impressione di cianciare sul bordo dell’Abisso, del Mostruoso, davanti alla Legge kafkiana. Direte che questo d’altronde ha a che fare con la famosa suspension of disbelief di Coleridge, che rende il lettore tanto disposto a divertirsi nella trama dell’autore quanto totipotente. Certo, ma in Bolaño, complice quel suo tono fresco e in fondo amichevole di cui ho già parlato – che contribuisce a quella che come ha detto Ignacio Echevarría si può chiamare una epica de la tristeza che diventa mitopoietica –, tutto ciò mi pare si ponga all’ennesima potenza. Perché non c’è nessuna concessione al real maravilloso, come si chiamava in realtà il tanto abusato realismo mágico: siamo in una realtà che al maravilloso sostituisce una cruda confidenzialità (un fragilissimo confidenziale), e mai l’esagerato.
Realismo confidenziale, qui propongo la definizione: lo scrittore vi porta familiarmente, sottobraccio, a vedere cose segrete e terribili: «saper ficcare la testa nel buio», avrebbe detto Roberto, e non tirarsi indietro, è scrivere davvero.
Così, per questo Bolaño è definito l’eccentrico, Bolaño l’arrischiato di una nuova letteratura-mondo, del romanzo massimalista (per riprendere una definizione dello studioso Stefano Ercolino) che si esprime non solo con i tomoni come 2666, ma anche in libri brevissimi, e altrettanto colossali – o in racconti-romanzi splendidi, come l’incantato racconto russo «La nieve» oppure l’oramai classico «Sensini», o chissà anche la «Prefiguración de Lalo Cura», solo per citarne tra i migliori, almeno per quanto mi riguarda.
Bolaño ahinoi anche l’outsider, che a causa della morte troppo precoce – appena un anno dopo il mio soggiorno a Granada, cioè a luglio del 2003 – si è trasformato in un autore maledetto, il cileno scoppiato che derapa fino a morire per una malattia al fegato, povero, dimenticato (una costruzione spacciata a tavolino da certa editoria americana). Maledetto per cosa, però? Certo non per la sua vita, passata e finita nel non esilio della brutta cittadina marina catalana di Blanes, o a Girona, a fare mille lavoretti miserrimi, spesso a fare la fame, o a mandare testi a iosa ai concorsi letterari di provincia, oppure la vita rarefatta in una gioventù messicana che si perde oramai nel mito dei caffè amarissimi del Café de L’Habana, una vita che non doveva essere stata comunque facile né gloriosa. Maudit, quindi, siamo sicuri? Forse solo perché in lui ci sono accenti da Poe e Rimbaud, ma molto digeriti.
Anzi, trovate in realtà una serie di qualità che annullano ogni possibilità di confonderlo con un’icona dello scrittore trasgressivo a buon mercato, quello che si lancia in avventure gonzo o che fa del degrado anarchico quotidiano quasi una forma di venerazione mistica che spesso sconfina nell’egolatria. Cercherò di elencare, in ordine sparso, le cose che invece di Bolaño, mi paiono essenziali per capire la sua grandezza, non tanto la sua maledizione.
Uno
In primis, Bolaño riesce a raccontare al meglio quel tipo di stato affettivo tutto particolare e tutto intellettuale dell’essere studenti: studenti in quanto apprendisti della vita, del sesso, dell’amore e anche se vogliamo del saper vivere la vita adulta. Qualunque altro scrittore si coprirebbe di ridicolo nel raccontare certe cose. I suoi romanzi sono anche questo: negano e usano l’impossibile coming of age di un’intera popolazione di giovani (da El espiritu de la ciencia ficción fino ai Detectives, ovvio), quella in particolare latinoamericana, che storicamente ha sempre vissuto la propria inferiorità come un limite e un’utopia allo stesso tempo – anche perché il loro cammino è stato martoriato dalla violenza. Il binomio studenti-violenza: sappiamo ahinoi quanto rappresenti l’America Latina oggi come in passato. Lui però ha reso questa condizione dolente – le nottate passate a inseguire non sequitur, le feste interminabili e atemporali, oppure i consessi cisposi degli studenti cileni all’università, e certo anche il terrore inflitto ai desaparecidos e agli esiliati – come una condizione universale, senza retorica alcuna. Qualcuno ha detto che etica ed estetica in lui convivono perfettamente. Io dico: senza che si facciano beccare in giro a braccetto.
Due
Inoltre, Bolaño ci parla spesso della complicità della finzione letteraria col male più metafisico, e ci dice forse anche che solo attraverso la finzione possiamo in qualche modo sanarlo, o quanto meno avvicinarlo per comprenderlo («la violencia» d’altronde «es como la poesia: no se corrige», scrisse nella poesia Patricia Pons). In una prospettiva anti-ideologica, l’autore ci racconta cioè l’orrore della dittatura o del nazismo (si prenda il concetto in senso lato) attraverso l’esperienza di intellettuali spesso conniventi – come, ovviamente, in Estrella distante e Nocturno de Chile. La dittatura: sia quella cilena, sia quella messicana che si esprime nel massacro degli studenti a Tlatelolco, sia quella quotidiana alla frontiera con gli Stati Uniti, che modifica e falcia le vite di chi vi si trova nel mezzo. Magari politicamente si sarebbe detto pure comunista, sebbene terrorizzato da quello che chiamava il discorso vuoto di certa sinistra. Fu trockijsta e poi infine anarchico, per sua stessa definizione. Era schivo sicuramente nei confronti del consenso, perché conosceva l’idiozia feroce che può celarvisi dietro.
Tre
Bolaño ci fa capire poi il senso di quello stupido coraggio che ci vuole a essere scrittori, senza pedanteria o senza rischiare di cadere nella metafiction noiosa. Ovviamente in lui si sentono spesso echi metaletterari, ovviamente nei suoi romanzi la letteratura, i libri, la voracità e l’insensatezza con la quale veneriamo parole stampate su carta o declamate ai reading poetici la fanno da padrone. Ma tutto è fatto con una disinvoltura unica – altrimenti non sarebbe così amato da lettori non professionalmente legati ai libri, o meno pedantemente raffinati – pari a quella di quel giovane studente cileno di El espiritu de la ciencia ficción, ulteriore alter ego e vertigine dell’autore, che manda lettere strampalate e visionarie ai maestri della fantascienza da un bugigattolo di Calle Insurgentes. Disinvoltura che non significa nonchalance, disinteresse snob, né enfasi di un mondo letterario incantato: “la letteratura ti porta all’Inferno, stanne certo, amico lettore”, si ode nei suoi libri, e noi scrittori non possiamo che continuare a crederci, mandando lettere a mittenti irraggiungibili, che mai in fondo saranno considerate o ricevute.
Quattro
Bolaño procede poi spavaldo e senza remore nella riscrittura del canone (o nella sua ironica dissoluzione?), portandoselo con sé come una bandiera arruffata. E non a caso anche questo libro che state per leggere, questa raccolta di saggi che prendono da vari punti di vista, da quello più accademico a quello più slacciato, i mille aspetti della produzione del cileno, si parla di un suo chiaro stravolgimento del canone: amava minori come Rodolfo Wilcock (che grazie a Bolaño è stato riportato in auge, a mio avviso, in Italia), il raccontista Felisberto Hernández, o scrittori ancora da noi poco considerati come il grande Daniel Sada, o un autentico selvaggio e indecifrabile come Osvaldo Lamborghini; sbeffeggiava i monumenti a Paz, Fuentes e Márquez o certi Sepúlveda e Pérez-Reverte. Bolaño l’outsider, si diceva, che cambia il canone dall’esterno verso l’interno. E allo stesso vi si pone in modo ironico e scomposto al centro.
Difficile per me capire quindi, ritornando all’inizio di questo testo, che cosa tutto sommato riservi Bolaño per il lettore italiano, se non quanto ho sommariamente elencato (un piacevolissimo disorientamento, una confidenza assoluta degli abissi che la letteratura deve spalancare).
Ma forse un certo grado di vicinanza tra noi italiani e Roberto può essere compreso dalla definizione di paradiso che lo stesso Bolaño consegnò a «Playboy»:
Playboy: Com’è il paradiso?
Bolaño: Come Venezia, spero, un posto pieno di italiane e italiani.
E come si sta da italiani a Venezia forse lo sapete.
Boris Vian, scrittore, paroliere, drammaturgo, poeta, trombettista e traduttore francese, morto a soli 39 anni nel 1959, non è mai stato particolarmente apprezzato in Italia – l’unica sua canzone relativamente nota è “Le deserteur”, tradotta in italiano da Giorgio Calabrese e interpretata fra gli altri da Ornella Vanoni e Ivano Fossati.
Grande estimatore di Vian è il cantautore e scrittore Giangilberto Monti, che ne ha tradotto e inciso le canzoni e l’ha portato in scena in due spettacoli teatrali.
Ora Monti racconta vita e opere di Vian in un libro fra il saggio e il romanzo, punteggiato di dialoghi verosimili, suddiviso in dieci capitoli ognuno dei quali è contraddistinto da una delle canzoni del francese.
È un lavoro informatissimo e appassionato, che tratteggia il ritratto dettagliato di un personaggio multiforme che meriterebbe di essere più conosciuto anche da noi.
Catania, il giullare contemporaneo, Matthias Martelli porta in scena “Nel nome del Dio Web”
Dopo i successi de “Il mercante di monologhi” e di “Mistero Buffo” per il terzo anno consecutivo torna a Palco Off Matthias Martelli
Matthias Martelli è artista marchigiano, attore, performer, consacrato sul panorama nazionale dal successo del suo Mistero Buffo.
Nel nome del Dio Web, attraverso la comicità e la satira, vuole analizzare i vari aspetti delle nostre vite stravolte dalla rivoluzione digitale. Oggi il web è venerato come un nuovo dio, come qualcosa di irrinunciabile senza cui la vita dell’uomo contemporaneo pare totalmente impensabile. Ma la connessione continua è davvero così indispensabile? E cosa perdiamo chiudendo le nostre vite nel mondo virtuale? E poi, siamo davvero più connessi fra noi? Siamo davvero più liberi?
Matthias Martelli, solo sulla scena, interpreta diversi personaggi: fra tutti Don Aifon, sacerdote delle nuove tecnologie, che mette in scena una cerimonia in cui i nuovi idoli sono il web, facebook, instagram, i selfie, il wireless e tutte le principali figure legati alla rete. Lo spettatore, trasportato in un vortice di risate e poesia, si troverà così di fronte personaggi folli e reali ad un tempo. Senza negare gli aspetti vantaggiosi della Nuove Tecnologie e di tutto ciò che si può fare grazie ad esse, lo spettacolo vuole far riflettere, in chiave teatrale ironico-satirica, sull’abuso che ne stiamo facendo. Con la speranza che si torni a considerare la comunità reale prima di quella virtuale e ad avere attenzione alla collettività piuttosto che alla connettività.
“Spassoso … Un tripudio” La Repubblica
“Un testo esilarante e sagace, un allestimento eccellente … un’ora e mezza di puro divertimento” Teatri On Line
“Quello che ci ricorda Martelli è che, al di là della connessione digitale, bisogna curare un’altra connessione: il rapporto reale fra le persone, il valore dell’incontro, dell’esserci interi e in presenza, essenziale per una vita piena”TeatroDams.it
Biografia (URBINO, 1986)
È attore, performer, giullare, scrittore, autore-attore dello spettacolo Il Mercante di Monologhi, con quasi 300 repliche all’attivo. Ha vinto i premi Alberto Sordi, Locomix e Uanmensciò e figura nella Top Ten 2017 degli spettacoli più applauditi per Media&Sipario. È unico interprete di Mistero Buffo con il benestare del Maestro Dario Fo e la regia di Eugenio Allegri, con la produzione del Teatro Stabile di Torino e Teatro della Caduta nel 2017, prodotto nuovamente nel 2019 dal Teatro Stabile di Torino per l’edizione speciale dei 50 anni, in tour in Italia e in Europa con oltre 100 repliche. È vincitore del prestigioso “Premio Nazionale di Cultura Frontino-Montefeltro”. Nel Nome del Dio Web è il suo ultimo spettacolo, prodotto dalla fondazione TRG di Torino. È autore del libro “Il Mercante di Monologhi”, SuiGeneris Edizioni e del libro di poesie “T’amo aspettando il contraccolpo”, Miraggi Edizioni. Nell’ambito formativo conduce diversi seminari, fra cui “Scopri il comico che c’è in te”, sulla costruzione del personaggio comico-poetico. Lo trovate in giro costantemente per città, teatri, piazze e paesi d’Italia e d’Europa con i suoi spettacoli e gli sghignazzi annessi.
Nel nome del Dio Web
sabato 30 novembre ||alle 21.00
domenica 1 dicembre|| alle 18.00
Zo Centro Culture Contemporanee
Di e con Matthias Martelli
Testo e Regia: Matthias Martelli in collaborazione con Alessia Donadio
Ideazioni Luci e Scene: Loris Spanu
Musiche originali: Matteo Castellan
Consulenza artistica: Domenico Lannutti
Artist Coach: Francesca Garrone
Costumi: Monica Di Pasqua
Elementi scenografici: Claudia Martore
Creazioni grafiche e video spettacolo: Imperfect
Management: Serena Guidelli
Produzione: Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani
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