Questi immigrati brutti e sporchi, che vengono a degradare le nostre città, a contaminarle… Leggere il verdetto su una panchina qualsiasi, con in mano una busta qualsiasi, la differenza tra la libertà e la galera… Figlio mio, che ne sanno gli altri, quando ti chiamo così, di cosa condividiamo io e te, mio peloso compagno… Perché non possiamo anche noi darci un bacio per la strada, camminare mano nella mano?… Da tanto tempo non succedeva, di svegliarmi così angosciato, di soprassalto. È bastato incrociarla per strada e tutte le antiche ferite si sono riaperte… Mi chiamate tutti Dondolo perché per me dondolare è stare in equilibrio in mezzo al vostro clamore, magari un modo per tenervi lontani… Iole si laurea, oggi, Iole la temeraria, Iole dalle mani veloci con cui comunica con tutto il mondo… La spiaggia al tramonto è il ritrovo ideale degli innamorati, ma chi ha detto che debbano essere per forza ragazzini al primo bacio?… Sto male papà, ho una malattia incurabile, e tu sei vecchio papà, chi si prenderà cura di te quando io non ci sarò più?… Solo adesso mi ricordo di cosa aveva biascicato tutto il giorno mio padre, furioso, tra i denti stretti, quando aveva dato un passaggio a quella ragazza, diceva “uomini di merda”… Sto uscendo di galera, sono libero ma questo odore non se ne andrà mai… Antonio mi citofona a mezzanotte della Viglia di Natale. È solo, vuole uscire. Anto, ma sei pazzo?… Alessandro e Anita in un attimo sono nudi nella camera d’albergo, a farsi una scopata di puro istinto e passione… Ulisse proprio non se l’aspettava, un ritorno così…
Quattordici racconti piccoli piccoli, storie di vita, momenti segnanti di intere esistenze. O forse è meglio dire esistenze segnate, perché i racconti fotografano vite diverse, al margine della società o della normalità o dell’equilibrio. Ma poi diverse per chi? I protagonisti si sentono diversi perché qualcuno, il mondo, la società, gli altri appiccicano loro questa etichetta. Così, è diverso l’immigrato, il disabile, l’omosessuale, l’ex galeotto, il malato terminale. E perfino chi ha un cane. Perfino chi è vecchio. Perfino chi ha subito una violenza. Come a dire, a ben pensarci, che siamo tutti diversi, perché vittime o carnefici siamo comunque diversi agli occhi di qualcun altro. Un tema attualissimo trattato senza retorica che, anzi, dalla formula breve del racconto trae una maggiore forza perché gli stati d’animo sono cristallizzati lì, in quel preciso momento, senza quindi dare l’occasione al lettore di seguire un percorso razionale ma quasi chiedendo la pura e semplice adesione empatica, umana. Una raccolta che ben si inserisce nella generosa produzione dell’autore, che già conosciamo grazie anche alla bella intervista proprio su “Mangialibri” e che non poteva che concludersi con un racconto tutto capitolino, un finale alternativo, amaramente comico, per l’amore tra Ulisse e Penelope, che qui sfugge alla retorica dell’eroismo del poema per prendere una dimensione, di nuovo, completamente umana.
«Musica solida», un colossal, si direbbe al cinema, sulla storia dei supporti fonografici da fine Ottocento ai giorni nostri. Ne è autore il torinese Vito Vita, giornalista e musicista leader della band Powerillusi. In quel “solida” c’è tutto l’amore per il vinile, per l’oggetto disco, a 78, 33 o 45 giri che sia, contrapposto alla bufera di musica liquida che non risparmia nessun angolo del mondo.
«L’idea mi venne dieci anni fa a Roma – racconta l’autore – durante un pranzo di lavoro in trattoria con la redazione del periodico “Musica Leggera”. Mi dissero che un tempo in quei locali si ritrovavano gli artisti della famosa RCA Records, indicandomi i punti della sala in cui De Gregori realizzò il primo provino di Rimmel e l’angolo in cui scriveva i pezzi Rino Gaetano». Ora l’ambiente è una trattoria, e solo gli specialisti sanno cosa accadeva lì dentro negli Anni ’70: «In Francia l’avrebbero trasformato in un museo, e così pure gli uffici della RCA, che ora sono un anonimo magazzino di scarpe. Qui non ne siamo capaci, così decisi di raccogliere la sfida: salvare la memoria della discografia italiana». Partendo anche da una suggestione personale: proprio “Rimmel” di Francesco De Gregori fu il primo disco che l’autore del libro acquistò a 11 anni rompendo il salvadanaio.
Non è materia da poco. Tagliando al massimo sulle illustrazioni l’oggi cinquantacinquenne studioso torinese è riuscito a stare nelle 400 pagine, fitte di notizie, interviste, ricostruzioni storiche. Con un’altra missione in cuore: rendere giustizia al ruolo della sua città in questa vicenda: «L’etichetta più famosa era la Cetra, ma intorno a essa si svilupparono altre vicende significative. Penso alla Emanuela Records, cui va il merito di aver fatto decollare i Brutos, con lo storico album Destinazione Luna, come pure alla Shirak Records di Jonny Betti, cui si deve un gioiello ingiustamente dimenticato della canzone d’autore italiana, il 33 giri di Carlo Credi». Si intitola “Chi è Carlo Credi”, e chi lo ha di solito se lo tiene stretto.
Regola che dovrebbe sempre valere per il vinile, additato da qualcuno come inquinante: «Certo, è pur sempre un derivato del petrolio. Ma per noi appassionati il problema dello smaltimento non si pone: non si buttano mai via i dischi. E non dimentichiamo che possono essere custodi del suono anche il giorno in cui venisse a mancare la corrente elettrica: bastano un cavo e un corno per sentore, girando a mano, la musica che comunque i solchi contengono. Il cd senza elettricità è morto».
Quella della discografia italiana è anche una storia industriale, e come tale viene trattata nel corposo tomo di Vita: «Torno alla RCA, un’azienda che dava lavoro a circa tremila dipendenti. E poi c’era tutto l’indotto, un fiorire di piccole aziende anche di dimensione artigianale che con l’avvento del monopolio delle multinazionali sono andate a rotoli. Una grande, lunga avventura iniziata dai rulli e passata dalla gomma-lacca per poi approdare al vinile che tutto conosciamo. E che è in ripresa, i dati sono inoppugnabili. Sta finendo l’era dei cd, è al top la musica digitale, ma come supporto fisico 33 e 45 giri sono alla riscossa. Rispetto a Stati Uniti e Inghilterra l’Italia è più lenta, ma sta a sua volta dando segnali importanti.
Gentili lettori, in quanti modi si può guardare alla Storia? Ci sono eventi chehanno inciso solchi nelle coscienze e impedito, per contro, l’intuizione di un’esistenza minima.
Roger Salloch, scrittore, sceneggiatore e fotografo statunitense sembra avere trovato una chiave di lettura di un periodo cogente del nostro passato che, sublimando il dolore, rappresenta una metafora storica d’incisiva visione filosofica.
«Quando tutto diventa collettivo, il privato diventa compulsione». È una frase contenuta in “Una storia tedesca”, libro che inaugura la collana “tamizdat” dell’editore “Miraggi”.
«Col termine tamizdat si indicavano, nel blocco comunista e in Urss, le opere straniere, per lo più occidentali, fatte circolare clandestinamente». E clandestinamente “Una storia tedesca” si aggira per il mercato editoriale, fatto dai giganti ingordi di spazi e lettori.
Laura Berna traduce con soavità un dispositivo narrativo di grande caratura letteraria e metafisica, fatto di rimandi continui alla pittura, alla filosofia, al cinema, alla musica e ai miti religiosi.
Siamo a Berlino nel 1935 e seguiamo la vita di Reinhardt Korber, maestro d’arte in una scuola frequentata da adolescenti come potrebbero essere quelli attuali. Leggono poco, sono immersi nel contesto politico per via del nazismo. Si odono gli stivali dei soldati in adunata. Si respira il clima del totalitarismo. Tra gli studenti spiccano Rebecca e Lotte, le allieve predilette. Korber
ha un dialogo onesto, emancipato e lungimirante con le ragazze. Rebecca è ebrea e seguirà il suo destino; Lotte è ariana ma nemmeno per lei l’esistenza sarà libera. Ogni pagina è intrisa di splendore e miseria, tanto quanto è possibile vivere dell’uno e dell’altra in tempo di guerra. Korber di tanto in tanto va a trovare la madre, che ha l’ossessione per la storia dei tre Re Magi. Essi, nonostante gli ordini di Erode, fecero ritorno nei loro paesi per un’altra strada per non fornire alcuna informazione circa il luogo in cui si trovava Gesù.
Sembra prendere vita da questo passo biblico la metafora di Salloch sulla storia. Korber, Rebecca e Lotte, seppur travolti dalla vita, manterranno integri gli spazi esistenziali che hanno creato insieme. Quando Korber viene sorpreso durante la sua lezione al bianco, al vuoto di senso, all’interno della Stadt-Galerie, da un delegato dell’esercito che proclama: «Non c’è niente da guardare qui», il maestro d’arte dice che sono lì per quel motivo e Lotte risponde: «Siamo qui per chiudere gli occhi». È la soluzione finale, il male che annichilisce. L’arte ha fatto il suo tempo, è stata svuotata, censurata, proibita. Ci si rivolge al vuoto, al mistero. Salloch interroga quel mistero e lo sostanzia con la Storia per disarcionare ogni certezza. In fondo la vita vera nasce dal buio, ma solo la consapevolezza ci può scuotere e portarci in salvo. Come per Rebecca e la sua piccola casa su una foglia adagiata sull’acqua. Sarà in salvo, lontana dal male.
L’Antiquario vi saluta,
Il mondiale di calcio polarizza l’interesse di molti anche non direttamente coinvolti dall’avvenimento sportivo e a sua volta risente di eventi più grandi e catalizzanti. Altre volte l’evento sportivo e gli accadimenti estranei ad esso camminano come rette parallele che mai si intersecano. Nel libro In un cielo di stelle rotte(Miraggi Edizioni, 2019) di Lorenzo Mazzoni il mondiale è coprotagonista o spettatore o semplicemente convitato di pietra nel grande spettacolo dell’esistenza.
Si parte dal primo mondiale nel 1930 via via fino all’ultimo che ha visto la presenza della squadra italiana e cioè l’edizione del 2014. L’autore sceglie in parallelo partite a volte importanti e nell’immaginario collettivo altri incontri meno noti a chi non è troppo calciofilo per costruire dei racconti paralleli o influenzati o influenzabili dall’evento sportivo. Il lettore si tuffa in situazioni decisamente originali. Nella fascistissima Italia del 1934 Mazzoni descrive con dovizia i riti voodoo che avrebbero favorito la prima conquista della coppa Rimet da parte degli azzurri. Nel 1982 mentre la Nazionale Italiana si muove prima imbrigliata poi sempre più libera verso la conquista del terzo titolo, si parla di una squallida vicenda di bassa criminalità con implicazioni più politiche, ma altre situazioni decisamente extra sportive sono al centro del libro.
In In un cielo di stelle rottetroviamo una scrittura originale, che non celebra lo sport più bello del mondo, né lo demolisce, ma semplicemente lo inserisce nelle umane vicissitudini.
LA STORIA SEGRETA DEL DISCO. TRA CHIESA E SERVIZI SEGRETI
[…]
L’era della “Musica Solida” (adesso è “liquida”, o secondo altre definizioni vagamente ironiche “gassosa”) merita un’esplorazione appassionata. Se n’è fatto carico Vito Vita, in un esaustivo volume edito da Miraggi (23 euro) per quella che nel sottotitolo è precisata come una “Storia dell’industria del vinile in Italia”. E tale è, dagli albori ai giorni nostri. Nella costruzione dello scenario nulla sfugge alla puntualizzazione dell’ostinato Vita, un passato nelle radio torinesi e nelle band di rock demenziale “Powerillusi”.
Nel suo “Musica Solida” una sorta di baedeker per studiosi del settore, ci trovi tutti, dagli impresari ai discografici e agli artisti che abbiano inciso almeno un singolo di qualche rilevanza. Ma la sua non è una mera elencazione di nomi, date, indirizzi di etichette e cambi di scuderia: nel volo del suo drone, Vita disegna quella che è stata, per buona parte del Novecento, l’avventurosa parabola delle fortune discografiche nazionali. Una galleria di volti, circostanze, strategie imprenditoriali, brani rimasti nella memoria collettiva. E, a leggerli in filigrana, riscopri gustosi paradossi. Come quello della Rca Italiana: nacque per volontà di Pio XII, che agli americani chiedeva un “risarcimento” per i bombardamenti di San Lorenzo e li indusse a costruire a Roma una decisiva filiale europea del corso Usa. Dopo una prima sede provvisoria, quella mitologica fu a via Tiburtina, che oggi è solo un desolato magazzino di scarpe all’ingrosso ma negli anni d’ora era stabilimento, mausoleo e fucina di talenti sotto la guida dell’illuminato Ennio Melis, anch’egli uomo del Vaticano.
Insomma, il cantautorato ribelle e scapigliato era nato per iniziativa del Vicario di Cristo, così come la rivoluzione hippie era stata incubata al “Piper” di Giancarlo Bornigia, che aveva militato nella fascistissima Decima Mas. E che dire degli inquietanti incroci tra servizi segreti e canzonette? L’oscuro proto-rocker Jerry Puyell, che ronzava nel coté del primo Celentano, era seguito come un’ombra dal padre, il capitano dell’esercito Giuseppe Puglielli, 007 sotto copertura con la missione di vigilare sugli scapestrati teddy-boys che movimentavano la scena milanese di fine anni Cinquanta. Mentre nota è la vicenda di Enrico Rovelli, manager di Vasco fino al giorno del ’97 in cui Dario Fo, con una lettera sull’Unità, fece luce sui suoi trascorsi da talpa dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Nel ’69, in cambio della licenza per un locale, Rovelli aveva fornito alla questura meneghina informazioni sul circolo anarchico frequentato da Pinelli. E poi, accanto ai big, ecco le figure perse nel buio della cronaca: il non chiarito suicidio (per amore di una famosa attrice, forse) di un interprete di successo come Rossano. O l’omicidio mai punito della cantante Lolita, orrendamente massacrata da chi osteggiava una sua love-story. O l’apparizione della cometa Donato, che non sfondò come artista, ma da politico sì: il suo vero nome è Umberto Bossi.
Storie, nascoste o accennate tra i solchi dell’irripetibile epoca della “Musica Solida”. Che dai cilindri ai V-Disc degli Alleati, passando per i 78 giri, i 45 e i 33, alla fine si è fermata, per lasciare il passo al gas di Internet. A meno che qualcuno non rimetta sul piatto la puntina inceppata.
Nello studio, oltre, con ogni evidenza, alla laurea, risalta un’istantanea. Una foto in formato gigante, quasi a grandezza naturale, che lo ritrae giovane in divisa, per la precisione una di quelle da allievo ufficiale, in atteggiamento forzatamente militaresco, con tanto di stivali e spada. Spiccano gli occhi rotondi e le labbra carnose, marcate da punti angolosi decisi. Gli occhi del bambino che osserva l’immagine però si focalizzano su un oggetto intruso in quello studio di posa, che ha lo sfondo di una tela dipinta: un libriccino. Piccolo, quasi invisibile, spunta appena da dietro il tacco dello stivale, gettato in apparenza frettolosamente sul tappeto, forse scalciato verso il retro, per nasconderlo alla vista. Da bambino, quando guarda quella foto, il narratore sogna, o forse vede davvero, chissà che non sia così, la figura staccarsi dal fondo e avanzare verso di lui, a velocità impercettibile, come quella alla quale si muovono le lancette delle ore…
Il tempo del secondo dopoguerra è la mitologia dei tempi più recenti, un po’ come è stato il Risorgimento per diverse generazioni tempo addietro: è come se l’epoca del boom fosse ammantata di una sorta di aura di felicità, come se improvvisamente l’Italia fosse divenuta la terra promessa dove scorrevano latte e miele. Certo, i progressi, in ogni campo, dalle infrastrutture alla società, sono innegabili, e davvero per non trovare lavoro bisognava non aver voglia di farlo, ma gli avanzamenti sono pure minori di quanto avrebbero potuto essere, e se sono apparsi così sfavillanti è anche perché si partiva da una situazione di grande arretratezza, oltre che di orrore dittatoriale e bellico: gli anni Sessanta del Novecento, dunque, non sono quasi mai raccontati con toni meno che iperbolici ed entusiastici. Curti, classe ’43, torinese, laureato in fisica, docente di matematica, autore di poesie, racconti, gialli, testi drammaturgici, direttore di festival, teatri e compagnie, porta invece con mano sicura il lettore, per così dire, a visitare la faccia nascosta della luna, descrivendo lo smarrimento della generazione che ha fatto la guerra – in piena sintonia col tema primonovecentesco dell’alienazione dell’uomo moderno – rappresentata da un latinista di provincia piuttosto sfortunato e al tempo stesso lo sguardo dei figli, che non solo cominciano a vivere i primi palpiti del cuore, ma sempre più cercano la propria strada lontano dal solco tracciato da chi li ha preceduti.
Traduzione dall’italiano di Christian Abel, Nota critica di Biagio Cepollaro
Francesco Forlani è poeta, cabarettista, traduttore dal francese, conduttore radiofonico, scrittore-calciatore…fondatore di una rivista qua, redattore di un’altra là. Un esempio raro di agitatore culturale. Un performer vulcanico, un folletto che legge benissimo le sue opere (e di quanti autori si può dire davvero?), un fiume di idee costantemente in allerta alluvione. Non dovrei scrivere di questo libro perché non è il mio lavoro (ma qual è, poi?).
Scrivo già di musica, storia, romanzi gialli, tento spericolati approcci culturali tra mondi lontani, mescolo pastiche tuttologi. Scrivere di poesia così, d’emblée? Non dovrei, però sento di volerlo fare perché la vita di Forlani -transfuga in Francia per insegnare in una scuola di banlieue, un universo raggiungibile via metropolitana partendo dal centro della più bella città del mondo- è di per sé una metafora della vita di molti, ovunque. Siamo tanti a essere penultimi. Allora visto che questo libricino, una volta richiuso, mi ha imposto di reagire, salvo la mia bronzea faccia di mestatore culturale affermando con certezza che qui tutte le frasi e i componimenti di Forlani possiedono una propria musica interna. Un lungo blues che attraversa le pagine, che segue le fotografie a corredo del testo, che parla di partenze all’alba e di sfatti rientri serali.
Sono davvero poche le cose che il penultimo
chiede alle cose, a volte solo un segno, un cenno,
da parte a parte della vita, ma inequivocabile
preciso che non solo ti indica il cammino e la distanza
ma sembra quasi che ti tenga la porta al vivere.
Un inizio sommesso che in qualche modo prende di petto l’argomento e invece lo sfiora soltanto, con delicatezza. Un blues dei migliori.
La stanchezza del ménage nella vita globalizzata, nella quale gli essere umani sono sbatacchiati ovunque a faticare in maniera indicibile per guadagnarsi la sopravvivenza. La sera tutta la stanchezza di questo tipo di vita ci piomba addosso e ci impone un esame. Quanto abbiamo combattuto? Quanto ci siamo arresi all’ordine costituito delle cose?
Dovremmo forse smettere di pensare alla vita in modo militare, accettare la resa alle cose nell’ordine naturale in cui ci parlano, generalmente alla fine del giorno.
La vita dei pendolari assume a volte nella descrizione di Forlani una densità dantesca, mentre le persone scendono silenziose nella metro e affrontano il viaggio-purgatorio verso gli inferi lavorativi.
Se ne stanno seduti i penultimi
alle cinque e mezza del mattino
tutti occupati i sedili sulla banchina
prima che il primo treno del giorno
salpi e porti per mari di moquettes
e vetri negli uffici le donne delle pulizie
o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani
senza più nulla chiedere né altro domandare
Lavoro, routine quotidiana, ma anche amore. L’amore assume i toni di una ballata lentissima, dall’incedere quasi sfinito nel tentare delle riflessioni di autobiografia metafisica.
Nelle storie d’amore ho a volte come l’impressione che tutta la propria storia, le proprie storie d’amore, non siano altro che il tentativo di forgiare le armi che in quella prima grande storia avrebbero potuto salvarci dalla disfatta.
La ballata sfuma e torna il blues, prepotente:
perché nero è il colore della pelle
e perché fuori l’alba è ancora senza luce
Potrebbero tranquillamente essere le parole cantate da un uomo di colore con la sua chitarra in spalla, all’angolo di una dura strada degli Stati Uniti del Sud. O degli stati di tutto il mondo e di ogni tempo.
Bolaño, un florilegio di scritti per ricostruire le influenze continentali
Critica latinoamericana. Contributi saggistici e accademici sullo scrittore cileno: «Bolaño selvaggio», da Miraggi
In un memorabile passaggio dei Detective selvaggi uno dei due protagonisti, Arturito Belano – giovane poeta invischiato nelle prime, focose battaglie stilistiche ed esistenziali – sfida alla sciabola un critico letterario che forse vuole dire male del suo ultimo libro. L’esito del duello, su una spiaggia isolata di Barcellona verso sera, è incerto.
Non è dato sapere se la lama del poeta abbia raggiunto l’insoddisfatto recensore, tuttavia ben altri sentimenti avrebbero animato Roberto Bolaño se avesse potuto tenere tra le mani il florilegio di scritti che lo riguardano e che ora arrivano in Italia tradotti da Marino Magliani e Giovanni Agnoloni per Miraggi.
È una raccolta pubblicata in spagnolo nel 2008 e rivista nel 2013, sotto il titolo Bolaño selvaggio (pp. 437, euro 24,00) a cura di Edmundo Paz Soldán e Gustavo Faverón Patriau, studiosi e scrittori sudamericani di formazione accademica statunitense; un volume che cerca di dare conto della vastità dell’influenza dell’opera di Bolaño mettendo assieme testi tra loro molto disomogenei, organizzati con un criterio improntato più alla suggestione che non a un vero rigore espositivo.
Apre un’illuminante introduzione di Paz Soldán, mirabile nel chiamare in causa Julio Cortázar e il suo racconto seminale Apocalisse a Solentiname per collocare Bolaño nella «tradizione apocalittica» della letteratura sudamericana. Il primo e l’ultimo testo della raccolta riportano parole dello stesso autore cileno («Discorso di Caracas» e un’intervista inedita di Sónia Harnández e Marta Puig). Nel mezzo, alcuni studi inediti (non tutti significativi) danno un saggio dei nuovi percorsi che la critica accademica – in America latina, in Spagna e negli Stati Uniti – ha intrapreso nello studio di un corpus letterario che va acquisendo, negli anni, una forma sempre più consistente.
Molti lavori di natura saggistica guardano allo scrittore cileno da prospettive biografiche e bibliografiche non convenzionali: alcuni inediti, ma anche molti testi già noti, a firma di scrittori e critici, in alcuni casi autori vicini a Bolaño o più spesso appassionati conoscitori della sua opera. Tra i più significativi, il saggio dello stesso Faverón Patriau sul rapporto dell’autore di Puttane assassine con la tradizione letteraria argentina, e lo scritto di Enrique Vila-Matas tra ricordo personale e sovrapposizioni Bolaño-Perec. E, ancora, i testi di Jorge Volpi, di Juan Villoro, e soprattutto del cileno Carlos Franz sulla malinconia in Bolaño. Allucinato dai «poeti senza opera» dei Detective selvaggi, Alan Pauls dichiara anch’egli la sua ammirazione.
Di certo utile, Bolaño selvaggio restituisce bene la tentazione di canonizzare in fretta uno scrittore che forse non lo avrebbe gradito: non al punto di arrivare a brandire la sciabola, certo, anche se a un intervistatore secondo lui troppo generoso con la sua opera, rispose, mimando Breton: «Chi sono io»?
Di recente Walter Siti, parlando della scrittura di Roberto Saviano, ha dichiarato che ‘difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti’. E’ un assunto condivisibile e necessario, che riporta le due questioni al denominatore comune del loro carattere di urgenza. Esiste però anche una terza possibilità e cioè che le due cose non debbano affatto essere contrapposte, e semmai che si rafforzino sinergicamente. E’ in questa direzione che va Uno di noi di Daniele Zito (Miraggi Edizioni), che scegliendo di farlo in forma drammaturgica racconta la vicenda di quattro quasi cinquantenni che dopo una partitella di calcetto, fanno una bravata e danno fuoco a un campo rom, uccidendo colposamente una bambina disabile e dunque impossibilitata a scappare. Storie di povertà spirituale ma anche storie di una follia un bel po’ ordinaria, in anni in cui in Italia è diventato normale autorizzare sui migranti scelte politiche di morte, in qualche caso persino legittimate da un’accorta retorica dell’odio e da una violenza di Stato avallata dallo scorso governo, un odio irrelato che spesso discende da generiche frustrazioni personali camuffate da necessità logistiche (“o noi o loro. Non c’è posto per tutti, etc.”). Daniele Zito affida a voci diverse la narrazione di una verità che per forza di cose risulta prospettica, raccontata in soggettiva dai personaggi che in quella verità hanno un ruolo: il carnefice (“Uno di noi”, appunto) che in sé riassume anche gli altri tre balordi che hanno incendiato il campo, sua moglie, il medico dell’ospedale dove viene portata la piccola vittima, il padre, la bambina stessa. Fa da sapiente controcanto il coro che, come è tradizione della tragedia antica, esprime il punto di vista della città, della comunità entro cui la vicenda si svolge. E dunque parla quel linguaggio ‘comune’ che ben conosciamo, si serve di espressioni come “Prima gli Italiani” e affini, ormai diventate automatismi al punto che rischiano di risultare scusabili, di non produrre più l’indignazione che meritano senza tuttavia perdere nulla della loro violenza. Ma l’opera di Zito non è un documentario, non è un’inchiesta e intenzionalmente non si inserisce nel genere tardo neorealistico (alla Saviano, per intenderci) che nell’urgenza di denunciare l’orrore, considera la forma un fatto accessorio. Già nella scelta del genere infatti, Zito si posiziona su un versante più sperimentale e, trascegliendo volutamente solo alcuni elementi strutturali della tragedia greca (mancano infatti molti tratti distintivi: agnizione, espansione tragica, complessità dell’eroe e sua dialettica interna ed esterna, catarsi, fato e necessità, etc.), racconta una storia di privata aberrazione che consiste innanzitutto nella mancanza di coscienza del protagonista che non si pente affatto del suo gesto e non mostra nessun senso di colpa, in tal senso smarcandosi completamente da potenziali modelli dostoevskiani, esclusivamente agito dalla paura d’essere scoperto, dalla volontà ‘di farla franca’. Zito mette in gioco un contro-eroe umanamente poverissimo, un nano se paragonato ai titanici protagonisti della tragedia greca, un personaggio che non evolve e in nessun momento ci dà speranza di redenzione, incapace fino alla fine di maturare una consapevolezza. ‘Uno di noi’ è quello in cui non vogliamo immedesimarci perché ci disturba e che proprio in assenza di una punizione o un ravvedimento, cioè di una rassicurante catarsi finale, resta a molestarci ancora e ancora. Come deve essere. È qui lo scopo di quest’opera drammaturgica ed è forse questa la ragione per cui Zito intende ricollegarsi alla tragedia greca: la sua militanza civile, l’intenzione destabilizzante che però qui, in questo consiste la modernità dell’opera, non viene compensata. Il carnefice infatti non guadagna la conoscenza profonda del senso della sua azione né della sua povertà spirituale, proprio perché sennò sarebbe in contraddizione con sé stesso: non ne ha i mezzi, non può. Nell’intenzione di raccontare questa storia così tristemente plausibile nel nostro tempo, Zito fa delle scelte stilistiche accorte che miscelano il linguaggio mimetico, trito e basico con cui i personaggi si esprimono, con un registro poetico che via via nel testo progredisce verso un abbandono del primo a favore di un linguaggio sempre più onirico, poetico fino a diventare musica soltanto, con cui, altra scelta felicissima dell’autore, viene data voce alla bambina rom (vero ‘pharmakos’, capro espiatorio innocente su cui si riversano tutti i mali della comunità). Con ritmo pienamente drammaturgico e agio tecnico, Zito fa dunque frequente ricorso all’anafora ossessiva (“Nessuno ha visto niente/Nessuno ha sentito niente/Nessuno è in grado di testimoniare”, oppure ”Tu prova ad andare nelle fabbriche/Tu prova ad andare nei bar/Tu prova ad andare nei cantieri”), alla ripetitività di alcuni mantra (“Il buonismo ci sta ammazzando”, “Questa è un’invasione bella e buona”) che hanno infestato l’immaginario collettivo verbale fino a pochi mesi fa e che ora l’autore fissa sulla pagina nella loro posa sconcia, nella banalità espressiva cui fa da contrappunto la finezza lirica che dà espressione ai pensieri della bambina, metafora di tutte le vittime che subiscono la Storia. Come è norma della tragedia greca, non vediamo l’atto criminale compiersi sulla scena ma l’orrore che si consuma affiora poco a poco dalla ricostruzione a posteriori che ne fanno le voci, riemerge e galleggia una bruttura morale che resta anche dopo, quando il martirio della bambina diventa metafora di tutti i morti in mare, vittime come lei di una collettiva ingiustizia autorizzata dalla legge, e che sono tanti. Tantissimi. Come le stelle, innumerabili. L’orrore resta e ci interroga, anche quando ‘Uno di noi’ rimane “a guardare quei granuli dissolversi nel liquido aromatico/finché non ne è rimasta più alcuna traccia”; anche quando ognuno di noi, che l’autore chiama a testimoni responsabili di questa Storia, lascia dietro di sé “soltanto le barchette”.
Leggere Piergianni Curti oggi è un ottimo modo per capire il presente. La narrazione sviluppata a partire dall’immediato dopoguerra ci restituisce un’Italia giovane, confusa, in perenne ricerca di un proprio centro di gravità. Un’Italia povera ma elegante, comunista e democristiana, rabbiosa e impaurita. Il “Mio Padre” di Curti è un po’ il padre di tutti noi, un uomo coraggioso e idealista che nasconde grandi contraddizioni e fragilità tra le mura domestiche.
Il libro è scritto superbamente, le numerosi divagazioni e riflessioni (a volte vere e proprie perle) non inficiano la godibilità del tessuto narrativo. È molto divertente trovare luoghi comuni che si perpetrano ai giorni nostri come quando il Padre studia una conferenza su “questi giovani che non si impegnano più”. Siamo negli anni ’50, pensate a quante frotte di persone non si sono più impegnate da allora…
Quando i padri camminavano nel vuoto, sabato 26 novembre 2019, sarà nella nostra libreria e sarei molto felice di trovarmi davanti un pubblico il più eterogeneo possibile; mi piacerebbe veder scorrere negli occhi dei settantenni una pellicola della loro infanzia, nei ricordi dei cinquantenni racconti ormai leggermente sbiaditi dal tempo e nei più giovani l’invidia di un tempo che ci assomiglia così tanto, ma che forse aveva più TEMPO per raccontarsi e starsi a sentire.
Sarà un vero piacere conoscere PierGianni, perchè se la sua ironia è pari a quella che trasuda dalle pagine che ho appena letto ci sarà da divertirsi.
Ho letto con grande godimento le oltre 400 pagine di questo libro, scritto dal competentissimo Vito Vita, che amplia e completa il lavoro del rimpianto Mario De Luigi nel suo “Storia dell’industria fonografica in Italia” (recensito qui più di dieci anni fa https://www.rockol.it/recensioni-musicali/libri/537/mario-de-luigi-storia-dell-industria-fonografica-in-italia) avendo come sottotitolo “Storia dell’industria del vinile in Italia (interessante notare come non sia stata scelta la dizione “Industria discografica”: del resto ormai parlare di “dischi” non ha quasi più senso, e il destino di un’industria privata dell’oggetto che le ha dato il nome è inevitabilmente grigio se non nero).
Vita mette in fila, cronologicamente secondo la loro data di nascita, le mille (o quasi) aziende produttrici di dischi che sono nate, cresciute e morte in Italia a partire dalla fine dell’Ottocento. Il suo è un lavoro certosino e meritorio, non solo perché ci ricorda che ci sono stati momenti (creativamente ed economicamente) assai più gloriosi di quello che stiamo vivendo, ma anche perché riporta alla memoria i nomi delle persone che alla discografia italiana hanno dato lustro. A titolo del tutto personale, mi ha anche fatto ricordare tanta gente che credevo di aver dimenticato, e che invece era solo nascosta in qualche intreccio arrugginito dei miei neuroni cerebrali (Mela Bacchini! Giusta Spotti! Gianna Morello!).
Se questo libro ha un limite, è che spesso la massa enorme di informazioni che contiene lo riduce, inevitabilmente, a un mero elenco di nomi e di titoli – e non dubito che Vita avrebbe potuto scrivere il doppio delle pagine (ma chi gliele avrebbe pubblicate?) arricchendolo ulteriormente di informazioni e riflessioni. Ecco, magari le tre interviste conclusive sono pleonastiche, ma le scelte autoriali vanno comprese e accettate.
Tuttavia, “Musica solida” – bel titolo, in contrapposizione alla fastidiosissima definizione di “musica liquida” – ha i pregi del libro storico, e sono certo che Mario De Luigi l’avrebbe apprezzato come indubitabilmente merita.
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