Prima delle periferie urbane ci sono quelle della ragione, prima dell’occupazione abusiva c’è una casa del cuore non autorizzata a odiare, prima delle mense per i poveri ci sono le tavole imbandite di rancore, prima dei campi Rom ci sono le anime nomadi che si spostano tra un ghigno e un urlo, prima delle ruspe ci sono i barconi fatti rovesciare nel Mediterraneo con il loro carico di morte innocente, prima degli italiani c’è uno di noi, uno qualunque perduto nell’abisso della propria inadeguatezza e sconfitto dalla rabbia e dall’astio covati nel chiuso di vite banali. Uno, uno qualunque può bruciare la propria abiezione morale tra le fiamme di un campo di emarginati, può non avere consapevolezza delle conseguenze del proprio sardonico gesto, può uccidere una bambina, la più fragile di tutte, lei che somma su di sé tutta l’ingiustizia del mondo, lei così piccola e rom e disabile. Uno, uno qualunque può continuare a non comprendere davanti alla sofferenza e alla morte. Uno, uno qualunque può continuare a giustificarsi, a stordire il proprio cuore con parole d’inumana sensatezza. Uno qualunque non ha la caratura di un eroe tragico: occorrono sentimenti forti, azioni grandi, magnificenza di pensiero. Eppure, mettilo, uno qualunque, dentro una sequenza barbara del romanzo del nostro tempo ed ecco che al romanzo subentra la tragedia, il canto terribile e terrificante di un’umanità ancestrale diretta verso la catastrofe. La tragedia greca chiamava catàrsi la catastrofe, purificando il pathos nella libertà, fosse questa persino una punizione divina. Se non fosse troppo meschino nei pensieri e negli atti, uno qualunque potrebbe restare schiacciato dall’anànke che schiacciò il più contrastato degli eroi tragici, l’Edipo di Sofocle. Ma l’anànke a volte ha un’armonia di fisarmonica, mentre suona a un angolo di strada o si “sfarina” nel mistero del confine grigio e acquoso tra la vita e la morte. La necessità fatale ignora il risarcimento. Il lutto non presuppone la luce. L’eroe non è l’eroe e la nuova Ifigenia muore per una guerra ancora più assurda di ogni altra guerra, della prima delle guerre terminata nell’infamia del fuoco: nel buio tempo di quell’uomo e ancora adesso nel buio del tempo di quest’uomo “ciò che brucia/ non ritorna/mai”. Non è un essere straordinario ad appiccare il fuoco ma uno qualunque, uno apatico, annoiato, livoroso, frustrato. Un idiota, l’avrebbero detto ai tempi dei tragici; magari anche utile avrebbero detto secoli dopo. Utile a chi? Utile a cosa? “ero come incantato/tutto questo vociare/ tutte queste parole”. Parole d’ordine, propaganda. Uno qualunque con i tacchetti alle scarpe da calcetto, una moglie e una figlia, un lavoro, gli amici, lo stress, la paura. L’indifferenza, l’egoismo. Uno qualunque è un dis-eroe al quale può scattare l’adrenalina e allora agisce e incendia una baraccopoli, mentre dentro gli risuona l’eco nefasta “o noi o loro/questa è un’invasione bella e buona”. Ma loro abita un fiume di miserie e di sofferenze, loro è la bambina ustionata. Uno qualunque non ha pietà ma paura, la guarda nel letto d’ospedale e spera che si salvi per salvarsi lui stesso. Dalle indagini. Uno qualunque perde tutto per la follia di una sera, ma non se ne rende conto. Uno qualunque può riempire le pagine di una tragedia classica. Una storia di criminale guerriglia urbana entra nei luoghi del più alto dei generi letterari. Accade però che la forma letteraria dei conflitti estremi si plasmi dentro una materia paradossalmente antitragica in cui la mediocrità dell’azione e dei personaggi fluisce dentro un contesto anch’esso mediocre. Non esiste l’eccezionalità, piuttosto avvampa in un’inarrestabile deriva di luoghi comuni, alimentati da pericolose idee sovraniste e razziste. La tragedia di un uomo e di una bambina, il razzista e la diversa, si fa manifesto contro l’idiozia degli italiani, contro il rissoso spirito del tempo, contro la disumanizzazione dell’uomo. Noi che siamo tutti quell’uno, noi colpevoli “viviamo l’abbaglio di una visione/ abitiamo il frastuono”: canta il popolo/coro che dà ora voce agli zingari ora fa rimbombare gli slogan dei razzisti, ora ricrea il Kommos, lo scambio tra l’uno e il noi, tra coro e personaggio. E il tirso dionisiaco chiede ai Don Caballero il ritmo metallico, perché c’è rumore di ferraglie e di coscienze arrugginite là dove si è spianato il fiume, che ora scorre nella memoria disperata della bambina. Sono tre i fiumi, gli episodi della tragedia. A tre fiumi somiglia la baraccopoli all’uno qualunque sulla cartina mostratagli in commissariato. Il fiume è l’agorà- tempio- bosco della tragedia classica. Il fiume non è lavacro né trascina detriti dell’anima ma fa scorrere vite non vite: della bambina ferita, della moglie incredula, della figlia inconsapevole, dei testimoni, di “uno di noi”. Tutti sospesi nell’indeterminatezza morale, tutti stasimi di un patetico coro. Tutti dentro l’ultimo libro di Daniele Zito “Uno di noi”. Una tragedia contemporanea: intensa, disturbante, crudele, straziante, dirotta, sconcertante. Una formidabile intuizione di scrittura. Da leggere tutta d’un fiato e d’un pudore. E poi aspettare di vederla in scena. Perché no?
Quattro amici di vecchia data, alla fine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Lo fanno così, senza una ragiona precisa, spinti dall’euforia del momento. Purtroppo, il loro gesto si trasformerà in tragedia. Il drammatico evento lascia su tutti i personaggi coinvolti tracce indelebili, Uno di noi ne è il resoconto, senza escludere nessuno, né le vittime, né i carnefici. È un libro duro, fatto di rabbia, di odio, di frustrazione. Parla di padri minuscoli, delle loro colpe, del loro inutile pentimento. Parla del ventre molle del Paese, della sua inesorabile deriva forcaiola. Parla dell’impossibilità del perdono. E poi c’è la scrittura, che divora ogni cosa, trasformandola in letteratura.
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Daniele Zito ha trentanove anni, è nato a Siracusa, vive e lavora a Catania. Collabora con L’«Indice dei libri del mese» e «Che fare». Ha esordito nel 2013 con La solitudine di un riporto (Hacca). Il suo secondo romanzo, Robledo (2017, Fazi) è stato pubblicato anche in Francia. Nel 2018 ha pubblicato: Catania non guarda il mare (Laterza Contromano).
MUSICA SOLIDA. STORIA DELL’INDUSTRIA DEL VINILE IN ITALIA
L’industria discografica italiana nasce tra il 1899 e il 1901 a Milano e a Napoli, fiorisce per tutto il Novecento riempiendo di milioni di copie di pesanti 78 giri le case degli italiani, esplode negli anni 60 e 70 con i 45 giri e gli Lp e inizia un inesorabile declino negli anni 80, soppiantata dalla musica liquida. In 120 anni di storia, ci sono meno di dieci libri che possono concorrere a storicizzare il supporto fonografico, e sono tutti incompleti e parziali.
Oggi, ed è il caso di sottolineare finalmente, esce il testo di riferimento: Musica solida. Storia dell’industria del vinile in Italia (408 pagg., Miraggi Edizioni, 23 euro), di cui è autore una nostra vecchia conoscenza, Vito Vita. Nei nostri oscuri anni, in cui oltre alla musica si è liquefatta la memoria storica, si mandano al macero gli archivi, non si leggono più i giornali e i libri, la scrittura e la lingua parlata si sono impoverite come mai, c’è ancora qualcuno che raccoglie le informazioni con il metodo classico dello storiografo. Vito Vita ha concepito questo libro durante una cena nel 2009, nel ristorante Terra, sulla via Nomentana a Roma, sorto negli ex locali del Cenacolo della RCA Italiana. complici della sua visione, il sottoscritto, Michele Neri, Maurizio Becker e Luciano Ceri, praticamente il nucleo fondatore della nostra rivista «Vinile» e della mitica «Musica Leggera». In dieci anni di lavoro, Vito Vita ha fatto centinaia d’interviste, ha compulsato migliaia e migliaia di pagine di periodici e quotidiani nelle biblioteche, ha ricostruito, con la certosina e ossessiva precisione che ben conosciamo, gli avvenimenti, le circostanze, le date, e la storia delle persone che hanno vissuto l’avventura di cento anni di discografia italiana. Un libro di Storia che gratifica i sopravvissuti che ne hanno condivisa una parte, un libro di riferimento che traccia la strada per la ricerca che, ci auguriamo, fiorisca nei prossimi anni.
Il corredo di note a piè di pagina percorre la bibliografia e le fonti, l’indice dei nomi è presente ed efficace, la cura editoriale del volume è ineccepibile, e son tutte rarità nella cialtronesca editoria attuale. La prefazione di Giangilberto Monti non saltatela perché è divertente. Questo libro dobbiamo acquistarlo tutti!
Per gli antichi greci le tragedie erano rappresentazioni teatrali con una forte valenza religiosa, morale e sociale. Opere affascinanti e mistiche che hanno lasciato un’impronta nella storia del teatro, del costume, ma anche della letteratura.
Uno di noi, Miraggi edizioni, è l’ultimo lavoro editoriale di Daniele Zito. Siracusano, autore influenzato dalle radici culturali della sua terra, ripropone qui una tragedia in chiave contemporanea, ambientata in Italia.
Quattro amici con l’abitudine della partita di calcetto settimanale, a fine serata, cercano brio e spensieratezza giocando col fuoco.
Chi merita il fuoco?
Sicuramente i “neri”, gli invasori, “che tornassero a casa loro”, questi i pensieri striscianti della combriccola sportiva. Mariti, padri di famiglia, lavoratori, persone dotate di un organo pulsante nel petto, trasformano una serata come tante in un buco nero. Le fiamme appiccate in una baraccopoli prendono il sopravvento e a farne le spese è una bambina. Una piccola disabile che vede fumo, fiamme, ma non può scappare.
Costretta a respirare esalazioni tossiche e crudeltà fluttuanti e gratuite. Vittima sacrificale della stupidità umana. Una piccola anima sospesa nel limbo tra vita e morte, al cospetto della certezza spavalda di quattro miserabili convinti di non essere scoperti.
La verità, prima o poi, viene sempre a galla. E se quasi tutti i protagonisti non riescono a fare i conti con la propria coscienza, non possono sfuggire ai conti con un altro stato d’animo: la paura.
Paura di essere scoperti. Paura di perdere la libertà. Paura di essere arrestati.
Le voci dei protagonisti si susseguono in un vorticoso tifone di stati d’animo, contrastanti tra loro. Crudeltà ed efferatezza di ciò che hanno consapevolmente fatto tornano in superficie, proprio come l’olio sull’acqua. L’eco struggente dell’agnello sacrificale e la sua voce infantile e tenera squarcia il cuore come se fosse una lama.
Uno di noi è un’opera estremamente attuale: un libro che si stratifica nei meandri del male. In un periodo storico nero, in cui il diverso, lo straniero, l’immigrato, diventano capro espiatorio di frustrazioni e intolleranze becere. Stati d’animo che armano il polso di guerrieri “italici”, che, in nome di un falso patriottismo ideologico, scalfiscono la dignità umana, calpestando etica e moralità.
Leggere questo libro è stato difficile (e necessario), perché l’epica di Zito rimbalza dalle pagine e arriva prepotente al lettore, quasi fosse un ceffone in piena faccia. Attraverso le voci disparate e disperate degli “attori in scena” osserviamo la realtà che ci circonda come attraverso un caleidoscopio.
Questa tragedia 2.0 ha il dono dell’immediatezza, brutale e concreta. Difficile abbandonare quest’opera a cuor leggero, perché il sentimento della vergogna emerge tra acque stagnanti. Un germoglio di speranza, che può far fiorire le coscienze. Sperando, come scriveva il buon vecchio Queneau, che dal fango possano nascere fiori blu.
Forse sempre meno, ma in alcune risacche con maggiore devozione, il calcio resta metafora dell’Italia, quel campo da gioco nel quale ancora si prova a essere eroi, a fare squadra, a lottare contro la quotidiana mediocrità, a fare i campioni attirando a sé consenso nazionalpopolare, lottando per non retrocedere, facendo dello scandalo e della corruzione una banalità da espiare come peccato veniale, invocando una religione laica.
È la metafora di una società sfasciata, sull’orlo del fallimento la raccolta di racconti del siracusano Angelo Orlando Meloni Santi, poeti e commissari tecnici, Miraggi edizioni, cinque storie che usano il calcio per raccontare lo sport che è la carta di identità nazionale. Il titolo della raccolta è anche quello del primo racconto, dove si narrano le imprese della Vigor, squadra di Vezze sul mare, che da sempre non ha mai vinto una partita, condannata a un eterno limbo perché gioca in una categoria dalla quale non è possibile retrocedere. E anche la retrocessione a volte è salvezza. Gli altri racconti si intitolano “Ode al perfetto imbecille”, “Aeroplano”, “Perché no” e “Il campionato più brutto del mondo”.
I personaggi sono perdenti predestinati, ma in qualche modo con un grande cuore. C’è l’ex campione che medita vendetta perché ormai dimenticato, ci sono padri ansiosi che vessano gli allenatori pur di far giocare i figli, proteggendo la loro scarsa bravura, anzi portandola a modello, e ragazzini scattanti e gagliardi che pagano le conseguenze di un sistema corrotto.
Meloni ha una scrittura barocca che nel contesto calcistico innalza tutto a epica. Esagera, carambola sulle parole, esaspera i personaggi rendendo tutto comico e drammatico insieme, ma con lucidità e una penna felice che lo contraddistingue sin dai suoi esordi. Sullo sfondo delle storie alcune volte si intravede Siracusa, senza prosopopea, ma anzi rasoterra, con uno sguardo minuzioso e tenero si raccontano alcune ingiustizie sociali, drammi ambientali come se a guardar bene si giocasse tutti in uno sfigato campo di periferia, senza erba e senza porte, ma con l’ebrezza di essere in serie A.
Non c’è traccia di colpa o vergogna nei racconti dell’irregolare scrittore argentino Osvaldo Lamborghini (1940-1985). Lo riscopriamo oggi a poco più di trent’anni dalla morte grazie all’editore Miraggi che pubblica La pianura deglischerzi, una raccolta di quattro racconti che, per la loro impossibile aderenza a un canone già noto, sembrano provenire dal futuro.
Già César Aira lo eleva a «maestro», suo e degli scrittori argentini a venire, perché fu «qualcosa di eccezionalmente nuovo», scrive nella postfazione all’edizione completa in spagnolo delle sue opere. Pensatore arguto, in vita pubblicò molto poco, ma fu un personaggio stravagante. «Quel che fosse Osvaldo è difficile dirlo» prosegue Aira: «era un signore distinto, azzimato, dai modi aristocratici, un po’ altezzoso ma al tempo stesso molto affabile». Tuttavia, era anche capace di lasciarsi il pigiama sotto gli abiti da giorno. E poi, a letto mezzo svestito – com’è immortalato in molte fotografie – o seduto al tavolo da lavoro, scriveva circondato da pile di riviste pornografiche comprategli dalla moglie, da cui ritagliava le immagini per dedicarsi all’ancillare attività di pittore. Realizzava dipinti, fotomontaggi e collage che per la potenza evocativa richiamavano gli scatti più estremi di Robert Maplethorpe (nel 2015 tutta la sua produzione visuale è stata presentata al MACBA di Barcellona).
I protagonisti di questi quattro racconti vivono immersi, quasi annegati, nell’ambivalenza erotica tra delizia e dolore, tra l’essere vittime o autori del paciere. Eppure, soltanto all’apparenza è il sesso (e le sue perversioni) il centro d’attrazione della scrittura di Lamborghini, che invece lo utilizza e lo esaspera per estrarre alla fine il bello dal turpe: proprio come nei suoi quadri, anche in questi cuentos-collage (tradotti da Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montaldo) i partecipanti a un’orgia di Ilfiordo, il marchese gay e cocainomane di Sebregondiretrocede, le prostitute tratteggiate in Le figlie di Hegel e l’ambiguo ingegnere giapponese di La causa giusta vengono tutti colti mentre appagano i loro desideri. Nell’universo di Lamborghini è dunque il desiderio l’innesco di tutto. Ed è qui, mentre sottrae alla sua scrittura funambolica i concetti di salvezza e condanna, felicità o infelicità, e annulla ogni giudizio morale, che riesce a creare un mondo senza colpa o vergogna.
La rivoluzione generata da Lamborghini, la missione tutta politica della sua ispirazione per la quale è spesso accostato a Pasolini o Foucault, era liberare la letteratura argentina dal senso di colpa della tradizione culturale catto-europea (dunque dei conquistadores). E ci riesce benissimo.
Spesso si dice di un libro che sia “necessario”, abusando di questo aggettivo al punto da ottenere il risultato contrario all’intenzione, allontanando i lettori e rendendo quel libro tutto fuorché indispensabile.
Con Uno di noi, opera ultima di Daniele Zito, pubblicata da Miraggi, mi trovo però costretta a dire che in Italia, nell’attuale momento storico e politico, nessun libro sia più necessario di questo.
Uno di noi
Viene subito in mente il concetto di banalità del male, così ben espresso dalla filosofa Hannah Arendt nell’omonimo libro: sono realmente e intrinsecamente cattivi i quattro amici di vecchia data che una sera, dopo la consueta partita di calcetto, appiccano il fuoco a una baraccopoli?
O sono solo dei poveri inetti, superficiali oltre ogni buon senso, che si sono lasciati trascinare dalle parole violente ed estremiste di chi sta al potere e grida “È finita la pacchia!” e “Prima gli italiani?”.
visto quante fiamme?
visto come strillavano?
che goduria, ragazzi, che goduria
li abbiamo proprio castigati
tempo due giorni
e saranno via dalle palle
abbiamo bonificato la zona
l’abbiamo derattizzata
gli abbiamo fatto capire chi è che comanda
Quattro buoni padri di famiglia che dopo aver devastato la vita di persone ree di essere diverse, tornano a casa dalle mogli e dai figli, sperando che il loro gesto stupido e crudele diventi solo un aneddoto di cui vantarsi con i loro simili.
Ma qualcosa va storto. C’era una bambina in quella baraccopoli, una disabile che non è riuscita a fuggire e che ora giace, ustionata e in coma, in un letto d’ospedale.
Una bambina che diventa il peggior incubo per uno dei quattro, che solo per questo inizia a comprendere la follia di quel gesto. È la paura che inizia a scavare a fondo, che fa traballare la certezza di non essere scoperti. Zero rischi, zero conseguenze.
Mentre sulle pagine scorrono i punti di vista di chi è stato coinvolto quella notte e di chi in quella vicenda ha trovato nuova linfa per la propaganda politica – l’automobilista che ha segnalato l’incendio, l’infermiere che ha accolto in ospedale la bimba ferita, il ministro che dà la colpa all’immigrazione fuori controllo -, sale – come un violento conato di vomito – la rabbiosa certezza che la disumanità abbia ormai preso il sopravvento e che quei Noi siano ovunque, nemmeno più di tanto nascosti tra la gente che ogni giorno frequentiamo.
lo guardo e penso: io non sono come lui
io non ho nessuno qui
mia figlia è a casa
lontana da tutto questo clamore
che il mondo sia andato in frantumi in fondo m’importa poco
è la violenza con cui questi frantumi
si sono conficcati al centro stesso del mio cervello a darmi da pensare
Scritto in forma di tragedia greca, con tanto di cori che si conficcano nello stomaco e che s’insinuano subdoli nei pensieri del lettore, Uno di noi è un libro potente, che fotografa il momento presente e ci racconta chi siamo diventati e cosa possiamo arrivare a fare, madidi di ignoranza e sospinti da un’ideologia populista e malsana.
Ma questo pamphlet breve, incalzante, dilaniante è anche una storia di perdono e redenzione, che lascia uno spiraglio aperto alla speranza – mai perduta – che questo vacuo becerismo torni a dare spazio alla compassione.
Una scrittura che, si può qui ben dire, è vera letteratura e che, come spesso accade in questi rari casi, ha il potere di cambiare – anche solo di poco – chi ha il coraggio di affrontarla.
Assolutamente da leggere.
un libro per chi: non può rassegnarsi all’orrore di questi tempi
autore: Daniele Zito
titolo: Uno di noi
editore: Miraggi
pagg. 122
€ 13
SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI | ANGELO ORLANDO MELONI
Si sa che per noi Italiani il calcio non è semplicemente uno sport, ma quasi una ragione di vita, una religione; e mi ci metto dentro anch’io che fino a qualche anno fa lo seguivo in maniera quasi ossessiva, prima di darmi un po’ una calmata. Ci perdiamo allegramente in questo bailamme di acquisti, retrocessioni, campionati, scandali e pasticci di vario genere e sì, forse ci piace anche così. In Santi, poeti e commissari tecnici, uscito ad aprile per Miraggi edizioni, troviamo sei racconti in cui l’autore, Angelo Orlando Meloni, narra in maniera semiseria quello che spesso accade di nascosto (e non) in quel mondo sportivo che amiamo così tanto.
Il primo racconto è quello che dà il nome all’intera raccolta e al centro della storia troviamo la Vigor, squadra di Vezze Sul Mare, che fin dalla fondazione non ha mai vinto una partita e neanche è mai stata retrocessa, pur arrivando sempre ultima, perché dopo di essa c’è il nulla, non ci sono serie minori. L’allenatore, ormai abituato a quella solfa, inizia ad essere contattato dal parroco del paese che gli dà dei consigli sulla formazione che gli arrivano “dall’alto”, consigli che poi messi in pratica sembrano anche funzionare. E quando arriva il momento di giocare contro l’A. S. Marina, la squadra del comune gemello, Marina di Vezze, l’ansia sarà alle stelle, anche perché ci si aspetta quell’intervento dal cielo. Ma come finirà? E che c’entra la statua della beata Serafina?
Meloni in questi racconti prende ciò che di più strano e anche torbido c’è nell’ambiente calcistico e lo esaspera, trasformando la scaramanzia e la religione in una vera e propria fiducia nei confronti di una statua che tutto può risolvere e che realizza anche l’impossibile. Ma in altri casi porta alle estreme conseguenze uno scambio di favori, che diventa una serie di pasticci a catena in grado di far collassare tutte le squadre coinvolte e fallire il campionato intero (Il campionato più brutto del mondo).
Ma c’è anche un ex divo del pallone che medita vendetta con chi, anni prima, l’ha fatto scendere dal piedistallo e cadere nel dimenticatoio, o ancora un ragazzino che, pur essendo bravissimo a giocare, non viene mai messo in campo perché figlio di un tizio stravagante, e anzi a lui viene preferito un altro che ha il papà avvocato che pressa il presidente (Ode al perfetto imbecille).
I racconti di Angelo Orlando Meloni hanno un sapore tragicomico, sono quelle storie in cui l’umorismo non è fine a se stesso, ma lascia un retrogusto amaro sulla base del quale iniziamo a riflettere su questo pazzo mondo sportivo. L’autore parla di piccole cose, squadre di piccoli comuni, ragazzini che non vengono premiati ma anzi messi da parte, e lo fa per raccontare, quasi guardandole al microscopio, le ingiustizie, la tristezza e i problemi di un sistema che molte volte è malato in ogni sua parte. In effetti è proprio questo che l’umorismo, se usato in maniera intelligente fa: denunciare.
L’autore dichiara altrove che «In Italia la vera religione è il calcio. I miei personaggi sono perdenti con un cuore grande», e forse il problema è proprio che si prende tutto troppo sul serio. Lui porta alle estreme conseguenze questi comportamenti e ci regala una carrellata di storie che non sono solo per chi ama il calcio, ma possono essere benissimo lette da tutti, anche se probabilmente chi ha una maggiore preparazione in materia vi rintraccerà qualche collegamento interessante o troverà tra le righe qualcosa che ricorda vicende più note.
Fotografare il presente è un’operazione da attenti osservatori: richiede il giusto distacco dalle cose e dal tempo, richiede tempo e passione per ciò che si sta facendo. È una missione che solo alcuni, tra chi tenta, riesce a fare. “Uno di noi” siamo noi oggi, alcuni di noi oggi. Ogni singolo personaggio di questa amarissima narrazione ha un posto nella storia, tutti meno uno, tutti insieme meno uno, a cui è riservato l’oblio.
Il libro di Daniele è una riflessione e una speranza, è la rivelazione, nero su bianco, della bestialità a cui tutti noi stiamo tendendo assuefacendoci alla violenza, sublimando il dolore. Il coro, a tratti forcaiolo, altre volte capace di una compassione che si ferma alla superficie dell’infamia, è la platea dei talkshow che applaude al tuttologo di turno, sono le finte lacrime di chi in favore di camera racconta la sua triste e sfortunata storia, sono le chiacchiere al bar o alla fermata dell’autobus sui luoghi comuni che tutti abitiamo nella nostra testa. Ma soprattutto sono i commenti a status, a post, sono notifiche di relazioni umane con una fredda e inanimata tastiera che fa da medium tra carne e carne e rende tutto possibile, prima nell’immaginario e poi nella realtà.
La vita degli altri ha meno valore se la posta in gioco è scrivere la storia. Ma la storia guarda solo i vincitori, si diceva. Chi vince? Chi sono i protagonisti? Quale è la posta?
Non tutto è così scontato: l’eroe di un’epoca può essere considerato carnefice in un’altra. Ed è forse questa la speranza: che questa sia un’epoca di transizione e che si ristabilisca presto quel senso di umanità necessario alla coscienza, necessario alla sopravvivenza. Come un cerchio che si chiude, il funerale può essere simbolicamente fine e inizio. È la fine di un percorso in cui è il dolore, l’odio e il terrore ad avere vinto una battaglia; è l’inizio in cui colui che ha scritto quelle pagine è scomparso e al suo posto nascono germogli di umanissima presenza che chiede perdono – Irene ne è la testimonianza – che si assume le proprie responsabilità e insegna al futuro, Viola, ciò che è giusto fare, chi è giusto essere.
La trama lineare di questo racconto è in realtà la parabola di un’epoca che non sa di esserlo, che si crede eterna e vincente, che non si percepisce transitoria ed invece lo è, come tutto in questo mondo.
Cadranno le teste, bruceranno ancora case, cose, tanto dolore e fiamme invaderanno le vite di molti ma il suono di quella musica, la musica che unifica tutti, quella resterà come faro nella notte per ricordarci la nostra caducità e la nostra possibilità di toccare l’eterno, non come singoli ma come comunità umana.
E allora suona bambina, suona. Alcuni già ti sentono, altri ti sentiranno.
Un UFO è atterrato tra gli scaffali della Casa del libro: Uno di noi di Daniele Zito, pubblicato da Miraggi Edizioni, è un libro geniale e coraggioso, sublime e incatalogabile. Ballata avanguardista, teatro, romanzo, tragedia grottesca dei nostri tempi che diventa storia universale, tutto questo è Uno di noi, il libro che forse tutti dovremmo leggere in questo momento in cui gli avvelenatori aizzano gli animi.
Riportiamo dalla quarta di copertina:
Quattro amici di vecchia data, alla fine di una partita di calcetto, decidono di dare fuoco a una baraccopoli. Lo fanno così, senza una ragiona precisa, spinti dall’euforia del momento. Purtroppo, il loro gesto si trasformerà in tragedia.
Il drammatico evento lascia su tutti i personaggi coinvolti tracce indelebili, Uno di noi ne è il resoconto, senza escludere nessuno, né le vittime, né i carnefici.
È un libro duro, fatto di rabbia, di odio, di frustrazione. Parla di padri minuscoli, delle loro colpe, del loro inutile pentimento. Parla del ventre molle del Paese, della sua inesorabile deriva forcaiola. Parla dell’impossibilità del perdono.
E poi c’è la scrittura, che divora ogni cosa, trasformandola in letteratura.
Daniele Zito ha trentanove anni, è nato a Siracusa, vive e lavora a Catania. Collabora con L’«Indice dei libri del mese» e «Che fare». Ha esordito nel 2013 con La solitudine di un riporto (Hacca). Il suo secondo romanzo, Robledo (2017, Fazi) è stato pubblicato anche in Francia. Nel 2018 ha pubblicato: Catania non guarda il mare (Laterza Contromano).
“Scrivo il tuo nome sulla spiaggia, amore baciato dal sole,
mi brucia la pelle,
mai come il cuore,
incosciente senza protezione,
incurante di ciò che accadrà domani.”
La mia recensione di L’amore puzza d’odio di Massimiliano Boschini
L’amore puzza d’odio è una raccolta di poesie scritta da un uomo rimasto ormai solo, accompagnato dalla bottiglia, che racconta la nascita di un amore, la passione e la fine dello stesso amore.
Il libro è diviso in quattro parti e attraverso le quattro stagioni racconta un grande amore:
– la nascita, l’apice, la vita e il decadimento.
Cinquantadue poesie come le settimane di un anno. La primavera raffigura il primo appuntamento, l’estate il viaggio di nozze, l’autunno i sogni che iniziano ad infrangersi fino ad arrivare all’inverno, che è la fine.
Un uomo che mette a nudo la sua anima, la tristezza ed il buio della fine, come una confessione di sentimenti raccontati senza freni ad un amico che non giudica ma che ascolta come il lettore.
La mia opinione di L’amore puzza d’odio di Massimiliano Boschini
“Ti scrivo un epitaffio,
amore caro,
morto e da oggi sepolto,
durato il tempo di qualche stagione:
a perenne ricordo,
sarai sempre nel cuore di chi ti visse.”
L’amore descritto dall’autore è come un fiore che sboccia e poi improvvisamente muore ed appassisce.
Lui e lei si incrociano ma sembrano non incontrarsi mai davvero. Di Lei sappiamo poco, perchè se ne va e lui si trova appunto solo come Ulisse senza Penelope.
Sembra che nella loro storia sia sempre mancato il pezzo che consente ad una coppi di durare in eterno.
Il titolo è un ossimoro dove l’odio diventa l’altra medaglia dell’amore e nonostante la fine che già si conosce non si riesce a non essere coinvolti e a leggere fino alla fine.
L’ossimoro (dal greco ὀξύμωρον, composto da ὀξύς, «acuto» e μωρός, «ottuso») è una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro. Esempi: disgustoso piacere, illustre sconosciuta, silenzio assordante, lucida follia, e appunto l’amore puzza d’odio.
Segnale che oltre alle poesie ci sono anche delle belle illustrazioni.
L’autore
Massimiliano Boschini nasce a Mantova a metà degli anni Settanta. Inquieto, curioso, pigro, eterno indeciso, è abituato a imbrogliare le carte, i pixel e le parole. Le etichette gli stanno strette: per questo non ama definirsi fotografo né poeta, preferendo di gran lunga il termine di “agitatore”, con il quale si confronta con il resto del mondo.
Prima di iniziare a leggere Il lago di Bianca Bellová, è utile soffermarsi sulle considerazioni della traduttrice Laura Angeloni, riportate sui risvolti di copertina. Sono parole vibranti, cariche di emozione, capaci di preannunciare gli stessi stati d’animo che vivrà il lettore non appena si addentrerà nelle vicissitudini di Nami, il protagonista del romanzo.
Se Angeloni ricorda i «giorni in cui vai avanti a tradurre fino a notte fonda, perché […] non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per ora, almeno per un po’», il lettore si troverà in una situazione del tutto simile. La drammatica progressione di avversità che si abbattono su Nami crea un coinvolgimento emotivo talmente forte da rendere impossibile l’idea di allontanarsene. Non si può far altro che proseguire la lettura, nella speranza che riesca finalmente ad assaporare una felicità piena e inviolabile, o la sicurezza di un legame affettivo duraturo. «Quel bambino, poi adolescente, poi ragazzo, ti viene da prenderlo per mano e non lasciarlo più».
La prima volta che lo si incontra, Nami ha tre anni. È stato portato alla spiaggia del lago che lambisce Boros, il villaggio dove vive insieme ai nonni. Non si tratta di un giorno qualunque: è l’unica volta in cui è presente anche sua madre. Di lei conserva soltanto il nebuloso ricordo dei tre triangoli rossi del bikini, il potere calmante del suo canto e la dolcezza con cui lo ha assistito durante un attacco di vomito conseguente al bagno fatto nel lago.
La tossicità di quelle acque diventa presto evidente. La pelle degli abitanti di Boros viene marchiata con eczemi cronici e cominciano a nascere bambini deformi. I segni di un massiccio inquinamento ambientale permeano l’intera narrazione, con riferimenti puntuali e ricorrenti al disastro dell’Aral; tuttavia, a questi dati di realtà si affianca una dimensione animistica altrettanto pervasiva. Lo Spirito che dimora sul fondo del lago è arrabbiato e sta punendo il villaggio per una colpa che sembra riguardare anche Nami.
Il lago prende la vita di suo nonno durante una tempesta e, in un secondo momento, anche l’esistenza della nonna giunge a termine tra le sue acque. Da questo episodio straziante, in cui si mescolano riti sciamanici e metodi da regime totalitario – si può avvertire l’eco de La fattoria degli animali di George Orwell –, prende avvio il percorso di formazione di Nami, che passa attraverso prove sempre più terribili.
Il presidente del kolchoz si insedia in casa sua, trattandolo alla stregua di un servo. Quando le circostanze peggiorano a tal punto da privarlo di ogni dignità e affetto rimastogli, Nami decide di andarsene da Boros e raggiungere la capitale.
In città, le sue giornate sono scandite dagli insalubri lavori di fatica in cui viene impiegato, mentre nei momenti liberi gira per le strade e i locali pubblici con l’irrealistica speranza di imbattersi in sua madre. Sull’asfalto fresco che deve stendere attorno alla fabbrica di zolfo Nami «disegna di nascosto il suo dolore; le grandi mani della nonna, la curva di un corpo femminile, le galline nel pollaio puzzolente, i tre triangoli».
Non appena lo sfiora un po’ di umanità e tenerezza, arriva una nuova batosta. La Vecchia Vergine inghiotte tutto, lettore incluso. L’impatto della scena è devastante e viene ulteriormente rafforzato dallo stile letterario di Bellová. La sua scrittura scarna, cruda, priva di qualsiasi raffinatezza o eufemismo arriva diretta e lancinante come una coltellata, accordandosi alla perfezione all’andamento narrativo. A questo punto del romanzo, il timore che Nami non sia destinato a trovare pace comincia a profilarsi in modo netto, raggelante.
Quando entra a servizio del losco e facoltoso Johnny, la violenza delle vicende in cui viene coinvolto è talmente estrema da caricarsi di contorni surreali e raggiunge l’apice in quella corsa disperata, zigzagante fino al dorso della collina, dove rotola in cerca di riparo. Bellová, con una maestria letteraria indiscutibile, aveva già mostrato un episodio analogo, quando Nami era ancora a Boros, ma la sua valenza è ora del tutto diversa. Non si tratta più della fuga di un ragazzino impotente e sconfitto dagli eventi; la crescita interiore di Nami è in atto, ormai sta imparando a reagire ai soprusi e a difendersi.
La sua ribellione segna una svolta quasi fiabesca; viene infatti accolto dalla Vecchia dama che, come una fata madrina in piena regola, conosce tutto di lui e lo guida verso una nuova tappa del suo viaggio.
Nello svelamento finale, Bellová riconferma il suo talento: una prefigurazione di quanto sarebbe accaduto era già stata messa davanti agli occhi di Nami, quand’era ancora quel ragazzino di Boros che adesso non esiste più.
La sensazione è che non sia possibile conoscere quale sia davvero la verità. O, forse, una versione non esclude l’altra. Al lettore la scelta. Una cosa è certa: lo Spirito del lago è arrabbiato, e a ragione. Tuttavia, qualcosa può essere ancora recuperato e chissà se non spetterà proprio a Nami un intervento risolutivo.
Chiara Meistro
Miraggi edizioni sta portando avanti un programma editoriale di pubblicazione e ripubblicazione di autori della Repubblica Ceca, grazie all’interesse e alla cura di Alessandro De Vito.
Come un cantastorie Luca Ragagnin scrive una storia dagli echi deandreiani, che restituisce l’eco di un tempo sospeso e la risata degli Ultimi: una ragazza bellissima e chiacchierata, raccontata dal coro greco delle malelingue, e un destino segnato…
«Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore»
Pontescuro (160 pagine, 16 euro) di Luca Ragagnin, edito da Miraggi, con illustrazioni a cura di Enrico Remmert, (qui abbiamo scritto del suo La guerra dei Murazzi) attraverso voci, sentimenti e caratteri dei personaggi, ricama con filo noir una storia di morte e leggenda. Proprio come un cantastorie, un cantautore o forse un puparo capace di mettere in scena soggetti apparentemente privi di anima e sangue, quella raccontata dallo scrittore torinese (qui abbiamo scritto del suo Agenzia Pertica) è una splendida ballata triste dagli echi deandreiani capace di restituire al lettore l’eco di un tempo sospeso e la risata degli Ultimi.
La figlia scandalosa
A Pontescuro poche vicende, e di rado, sopraggiungono per sconvolgere il naturale fluire del tempo, eppure quando qualcosa accade, banale o eccezionale che sia, diviene per tutti il pretesto per discuterne a lungo, aggiungendo o accorciando la trama a discapito del risvolto desiderato, ciascuno a Dio giurando di non proferirne parola con nessuno.
« (…) gli uomini e le donne di Pontescuro avevano bisogno di vedere la sfortuna, la miseria e la stupidità premere sulle spalle di qualcun altro(…).»
Un giorno però, del 1922, la serenità del piccolo paese viene turbata dalla morte della scandalosa figlia del padrone locale, Cosimo Casadio. La giovane, bellissima e assai chiacchierata Dafne, bionda e dall’aspetto luminoso, decisamente fuori luogo per un borgo inghiottito dalla malsana nebbia e soffocato dalle vesti a lutto delle donne che lo abitano, a causa della sua condotta esuberante e scabrosa, troppo presto rimasta orfana di madre, già all’ età di sedici anni, per il coro dalle malelingue del villaggio, diventa la ninfetta che si concede a tutti, “la sgualdrina”. Lei, la Bocca di rosa .
«Dopo pochi mesi (…) il paese incominciò a disprezzarmi dritto negli occhi. E forse, se fossero stati almeno un poco intelligenti, tutti avrebbero capito dall’unico sorriso ebete, che ogni giorno cambiava volto ma non caratteristiche, chi era stato l’ultimo a slacciarsi la cinghia».
Un capro espiatorio?
Quando il suo corpo viene trovato senza vita lungo le sponde del torrente, proprio come la Marinella di De Andrè, nessuno prova rimorso nel puntare il dito contro Ciaccio, lo scemo del villaggio («perché al villaggio lo scemo deve essere maschio») che da qualche tempo, con fare sospetto, ha stretto amicizia con la troppo bella per lui, Dafne Casadio. L’accusa trova tutti concordi nel giudicare il taciturno Ciaccio, unico colpevole dell’atroce delitto. Pensano infatti che l’ingenuo si fosse invaghito della giovane e che, insoddisfatto nell’avere da lei forse solo la compassionevole amicizia, avesse preso con forza ciò che naturalmente non avrebbe mai potuto ottenere. Dunque, in un raptus di follia, l’avesse uccisa.
In questo coro di voci greche intente a ricostruire la vicenda intervengono tutti, anche coloro che a quel delitto non hanno preso parte e che quindi possono solo supporre le dinamiche. La verità però, come spesso accade, è affidata a chi non ha autorevolezza per farla emergere: ai pazzi, agli scemi, alla nebbia.
«Felice di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felice di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno il tonfo che fa cadendo per terra».
Tragedia e poesia
Pontescuro di Ravagnin è una storia tragica raccontata col garbo della poesia, il rosso dello scandalo, la primitiva innocenza del bosco, intricato e voluttuoso come Dafne (il cui nome è un chiaro riferimento alla leggenda), la libertà delle ghiandaie e il coraggio degli Ultimi che inconsapevolmente osano sfidare la nebbia, varcare i ponti e andare oltre.
Una vita spezzata, come un paese spezzato necessita di strade per riunire ciò che è rimasto nella nebbia, in sospeso così, durante il cammino, mentre si va incontro al sole, affidare al vento la magia di un’ultima risata.
«Tutto ciò che si smarrisce o si vuole dimenticare, le parole scartate, i passi non compiuti, le scelte non fatte, un giorno emergeranno dalla corda dell’orizzonte e prenderanno il posto del sole».
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