Il bruciacadaveri | Ladislav Fuks Miraggi edizioni 2019 Traduzione di Alessandro De Vito
La morte, in Europa, pare più vecchia dell’uomo stesso e per liberarcene è necessario che smetta di esser morte, di questo è convinto il signor Kopfrkingl secondo cui “La sepoltura mediante cremazione è assolutamente sicura, e libera chiunque, in modo definitivo, dal timore di ritornare in vita. Chi decide di farsi cremare ha per tutta la vita la certezza di non dover temere nulla, e può morire in piena tranquillità. La cremazione gli risparmia ogni preoccupazione, se anche vogliamo credere che accadano anche oggi dei casi di reviviscenza”. Il signor Kopfrkingl è un uomo tenero, affettuoso, padre premuroso e marito pieno di amore per la consorte, lavora come funzionario al crematorio ed è ossessionato dalla procedura chimica di bruciare un cadavere; questo omino è una delle figure più inquietanti del Novecento scritta da uno scrittore straordinario e poco conosciuto: Ladislav Fuks (1923-1994). “Il bruciacadaveri” (Miraggi, tr.it. Alessandro De Vito, pag. 220, euro 18) è un romanzo di una potenza funerea come poche in letteratura, gli altri personaggi vengono travolti dalla figura del signor Kopfrkingl, sembra più un lunghissimo monologo che un romanzo a più voci. Ambientato nella Praga del 1938 – 1939, poco prima dell’invasione nazista, quest’uomo mellifluo e ambiguo, del tutto indifferente a qualunque espressione umana, è il servo giusto per l’ideologia hitleriana e Fuks con maestria descrive la sua naturale evoluzione verso la distruzione degli altri, in special modo degli ebrei. Capolavoro della letteratura cèca, tradotto con incisiva efficacia da De Vito, descrive con smaniosa insofferenza la sua tranquilla ferocia di Kopfrkingl il quale legge “Il libro tibetano dei morti” con devota ottusità, ascolta musica classica e si distingue per modi gelidi ma gentili; per lui l’uomo è morte, è la morte e vive solo per morire: c’è una tensione heideggeriana che fa dell’esistere una dissolvenza continua. Fuks adopera un linguaggio che schiaccia ogni cosa dentro una scatola nera, man mano che si va avanti si crea un clima di oppressione, i figli di Kopfrkingl, i suoi colleghi, gli amici svaniscono con meticolosa precisione da ogni storia, non sono mai stati niente, come se mai fossero esistiti. Le pagine dove spiega il processo di cremazione sono di una bellezza violentissima con la sua carica di ordinaria cattiveria e di credenza nella metempsicosi. “Ma l’anima non va a finire lì dentro, non è nata per stare nella latta, ma nell’etere. Sollevata dalle catene della sofferenza, liberata, illuminata, soggetta ad altre leggi che non quelle di questi cilindri di latta, trasmigra in un altro corpo”. Il cielo di Praga, per Kopfrkingl, è sempre grigio come la cenere che esce da un forno crematorio, lui non vede altri colori, è l’unico che percepisce, non ne esistono altri. Per questo anonimo signore praghese la morte ha una geometria che manca alla vita, ha un’esattezza che mai ci riesce di trovare (“il futuro è sempre incerto. L’unica cosa certa al mondo, è la morte”); il Reich, però, pian piano lo ammalia, lo seduce, è forse l’unico che possa provare a dargli quella precisione che somigli alla morte. Romanzo prodigioso perché si conficca dentro come un male oscuro, in tempi in cui si sfornano libri per intrattenere in modo leggero questo di Fuks (del 1962) si presenta come uno di quelli scritti per dare senso alla vita e alla lettura. “La dichiarazione di morte è l’atto burocratico di maggiore responsabilità, ma anche il più sublime che abbia luogo, è un atto decisivo, e noi qui ottemperiamo con precisione al nostro dovere”. Leggendolo, avrete la sensazione di avere tra le mani la Bibbia inaridita, ridotta a polvere, quella di cui parla il Qoelet e il sospetto è che pure Dio sia un cielo grigio.
Per concessione della casa editrice vi proponiamo anche la lettura di un ESTRATTO dall’incipit.
1
« Tesoro, » disse il signor Karel Kopfrkingl alla sua bella moglie dai capelli neri sulla soglia del padiglione delle belve feroci, mentre un leggero venticello quasi primaverile gli scompigliava i capelli, « eccoci di nuovo qui. Qui, in questo caro benedetto luogo dove ci siamo conosciuti diciassette anni fa. Allora, Lakmé, chissà se ti ricordi ancora davanti a chi è successo? » E quando Lakmé annuì, sorrise tenero verso il fondo del padiglione, e disse: « Sì, davanti a quel leopardo laggiù. Vieni, andiamo a vedere ». E una volta varcata la soglia ed essere andati verso il leopardo attraversando l’afa pesantemente animale, il signor Kopfrkingl disse:
« Mi sa proprio, Lakmé, che qui in questi diciassette anni non è cambiato niente. Guarda, anche quel serpente là nell’angolo è qui come quella volta, » indicò il serpente nell’angolo, che da un ramo osservava una giovanissima ragazza dalle guance rosse col vestito nero davanti alla gabbia, « io allora, diciassette anni fa, mi ero stupito che avessero messo un serpente nel padiglione delle belve feroci, visto che c’è un padiglione a parte per i serpenti… « e guarda, anche la ringhiera è la stessa… » indicò la ringhiera davanti al leopardo alla quale stavano per arrivare, poi, una volta giunti davanti al leopardo, si fermarono.
« È tutto come quella volta, diciassette anni fa, » disse il signor Kopfrkingl « salvo forse il leopardo. Quello di allora ormai sarà in cielo. Già da tempo la natura gentile l’avrà strappato alle catene animali. Lo vedi, cara, » disse, osservando il leopardo, che sbatteva gli occhi dietro le sbarre, « non facciamo che parlare di natura gentile, di sorte benevola, dell’indulgenza di Dio… valutiamo e giudichiamo gli altri, biasimandoli per questo o quello… per essere malfidenti, calunniatori, invidiosi e non so più cos’altro, ma noi come siamo, proprio noi, siamo gentili, benevoli, buoni?… io ho sempre la sensazione di fare tremendamente poco per voi. L’articolo sul giornale di oggi, di quel padre che ha abbandonato la moglie e i figli per non doverli mantenere, è una cosa terribile. Povera donna, che farà ora con i bambini? Ci sarà una legge a proteggerli. Almeno le leggi dovrebbero servire a proteggere le persone. »
« Esiste di certo una legge così, Roman, » disse Lakmé a voce bassa « di certo non lasceranno morire di fame quella donna con i bambini. Tu stesso dici che viviamo in un buon paese civile, dove vigono la giustizia e il bene, lo dici tu stesso no? E noi, Roman… » sorrise « non ce la passiamo poi male… Hai un buono stipendio, abbiamo un appartamento grande e bello, e mi occupo con tranquillità delle cose di casa, dei bambini… »
« Non ce la passiamo male, » disse il signor Kopfrkingl « grazie a te. Avevi la dote. Ci ha aiutato quella beata di tua madre. Ci aiuta la tua zia di Slatiňany, che, se fosse cattolica, una volta morta sarebbe certamente dichiarata santa. Ma io cosa ho combinato? Ho giusto provveduto alla nostra casa, e se è vero che è una bella casa, resta tutto quello che ho fatto. No, cara, » il signor Kopfrkingl scosse la testa e guardò il leopardo « Zinuška ha sedici anni, Milivoij quattordici, sono proprio nell’età in cui hanno più bisogno e io devo occuparmi di voi, è il mio sacro dovere. Mi è venuta un’idea su come aumentare i miei guadagni extra ». E visto che Lakmé lo guardava senza dire una parola, si voltò verso di lei e a tu per tu le disse:
« Prenderò un agente e gli darò un terzo della mia provvigione. Sarà il signor Strauss. Sarò d’aiuto a voi, mia celeste, e anche a lui. È un buon uomo, per bene, e ha avuto una vita terrificante, ma te lo racconterò, chi non aiuterebbe un brav’uomo? Lo inviteremo al ristorante Al cofanetto d’argento. »
Lakmé si strinse al marito, lo sguardo sorridente, e guardò il leopardo che continuava a sbattere gli occhi come un grande cane bonario, anche il signor Kopfrkingl guardò il leopardo sorridendo in volto, poi disse:
« Lo vedi, tesoro, che animo tenero possono avere gli animali? Come riescono a essere amabili, quando l’uomo sa avvicinarsi a loro ed entrare nella loro trista anima chiusa. Quante persone malvagie diventerebbero buone, gentili, se si trovasse qualcuno capace di comprenderle, di ascoltarle, di accarezzare un po’ la loro anima inaridita… perché ogni uomo ha bisogno di amore, forse persino la polizia, che persegue la prostituzione, ha bisogno di amore, le persone malvagie sono malvagie solo per questo motivo, che nessuno mai ha concesso loro un po’ d’amore… Il leopardo di oggi è un altro rispetto a quello di diciassette anni fa, ma anche per questo un giorno arriverà il momento della liberazione. Anche lui un giorno tornerà a vedere, quando cadrà il muro che lo circonda e sarà illuminato da una luce che oggi ancora non scorge. La nostra incantevole ha avuto il latte? » chiese, intendendo la gatta che avevano in casa, e non appena Lakmé, in silenzio, annuì, il signor Kopfrkingl sorrise per l’ultima volta al leopardo e poi pian piano, attraverso l’afa pesantemente animale, da quel caro, benedetto posto davanti alla gabbia del leopardo, dove diciassette anni prima si erano conosciuti, ritornarono verso l’uscita. Il signor Kopfrkingl gettò uno sguardo nell’angolo, al serpente, che dal ramo continuava a tenere d’occhio la ragazza dalle guance rosse col vestito nero davanti alla gabbia, e disse: « È strano che abbiano messo un rettile vicino alle belve feroci, sembra messo lì come una semplice decorazione o come un riempitivo… » poi con tenerezza condusse Lakmé oltre la soglia del padiglione sulla strada contornata di cespugli e lì Lakmé sorrise e disse:
« Sì, Roman, invita il signor Strauss al ristorante. Ma indicaglielo col nome giusto, che non debba cercarlo. »
C’era una volta, nella bassa padana, un pontescuro costruito con pietre, sangue e nebbia, in mezzo al vuoto dei campi. Intorno al ponte, sulle due rive che annoda, sono sorti poi un castello, dove abitano da sempre i padroni, e un villaggio…
Quando ho cominciato il libro, terminato in un solo giorno perché nulla poteva distogliermi dalla storia, da quelle voci che non potevo ignorare, me lo aspettavo proprio così: intenso, dalla prima all’ultima riga.
Ho vissuto sensazioni molto diverse. Da una parte sono stata cullata da una prosa che è poesia, e dall’altra mi sentivo costantemente turbata. Proverò a raccontarvi Pontescuro anche se non sarà facile.
Avete presente la nebbia? Dicono che faccia del male alle persone. Sono quelle dicerie che nascono un giorno, non si sa come, e poi quel giorno si perde nel tempo. Nella notte del tempo, anzi, nella nebbia del tempo. E così le origini di un’affermazione così forte, così perentoria, svaniscono, come dire, nel tempo.
Pontescuro è un luogo in cui ogni elemento ha la sua voce. A chi piace pensare che le cose che abbiamo toccato, vissuto, conservino tracce di noi? A me sicuramente. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e che mi fa tornare in mente Pavese e la sua famosa citazione sui paesi che restano ad aspettarti perché hanno qualcosa di tuo, persino l’erba si ricorda di te. E a Pontescuro è così: i ponti, gli alberi, gli uccelli e persino gli scarafaggi hanno una storia da raccontare. Ed è proprio la natura a descriverci l’atmosfera che si respira in quel paese di campagna nel 1922. Ed è sempre l’ambiente circostante a dare una lezione agli abitanti e a noi…
Dafne è troppo diversa dagli abitanti di Pontescuro che sono grigi, ignavi, schiavi della mediocrità. Prigionieri di loro stessi non comprenderanno mai che la bella Dafne si concede a tutti per disprezzo. E’ un concetto che non li sfiora nemmeno lontanamente. Perché? Perché sono incapaci di immedesimarsi, l’empatia non esiste. (Vi ricorda qualcosa?)
«Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni.
«Sono morta da sette ore.
«No, non quel sentiero, prendete a destra. Sì, questo. Fate attenzione, si scivola. No, non è ancora acqua, gli argini del fiume tengono bene. E anche se mi piacerebbe, se farebbe di me ciò che in vita non sono riuscita ad essere, non sono nemmeno le mie lacrime. È la nebbia che se ne va, sbavando. Tra poco sarà chiaro e qualcuno mi troverà. Con il mio nastro rosso stretto intorno al collo. È così che sono morta: con un nastro rosso stretto intorno al collo. Strangolata, diranno. E non è nemmeno di seta, diranno. D’altronde la seta non le sia addiceva. Quella sgualdrina.»
Dafne però non è sola. E’ vero, quando ci racconta la sua storia è già morta, ma non ci sono solo elementi negativi. E’ amica di Ciaccio: lo scemo del villaggio. A Ciaccio voglio bene subito. E’ stato abbandonato da neonato sulla riva del fiume e il suo nome glielo dà il verso degli uccelli (galeotto fu il passo letto a Palermo che mi ha fatto innamorare) . E’ ritardato ma ha il cuore buono e Dafne se ne accorge. La loro amicizia viene descritta con purezza e incanto. La stessa che adopera Ciaccio per addobbare gli alberi:
Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, che per qualche diavoleria si fosse improvvisamente animato. Uno di quei quadri esposti nelle gallerie importanti delle grandi città.
Incuranti delle etichette, felici di abbellire gli alberi con i pezzi di stoffa, Ciaccio e Dafne colorano e stravolgono Pontescuro. Incantano la nebbia, il fiume e tutto ciò che toccano.
Finché… finché Dafne non viene trovata morta. Ovviamente è stato Ciaccio, poteva essere soltanto lo scemo del villaggio. Lo sanno i preti, le pettegole, persino l’investigatore inviato da Roma. Perché farsi ulteriori domande?
Caso chiuso, anche per noi lettori. D’altra parte il punto non è trovare o non trovare l’assassino, far andare d’accordo la realtà dei fatti con quella degli abitanti. L’intento di Ragagnin è un altro. E’ il racconto delle azioni incompiute, delle strade non intraprese, delle possibilità dimenticate. Ragagnin ci ha descritto l’incompiuto, l’immobilità dell’essere umano. E alla fine scopriamo che il colpevole lo conoscevamo già dalle prime righe: l’invidia (sociale, sessuale, sentimentale) accompagnata dalla pigrizia.
Pontescuro di Luca Ragagnin è…
Poesia, racconto, riflessione. Ragagnin ci stupisce mescolando elementi diversi: ci sono frasi simili a versi, rumori che rimandano a canzoni… tenerezze e descrizioni che mi hanno fatto pensare ai racconti per bambini ( tra l’altro la storia è accompagnata dalle illustrazioni di Enrico Remmert) e riflessioni dal sapore del saggio. Primo libro che leggo di Ragagnin e di Miraggi, credo che non potessi aspettarmi di meglio.
In Pontescuro ci sono tantissimi temi, è vero la storia è ambientata nel 1922 ma guardando più a fondo si nota che Pontescuro è il luogo oscuro di ognuno di noi. E’ il rovescio della medaglia dei social, è la vita nei paesi ristretti e bigotti, è la malignità che si affaccia ogni tanto dentro di noi. Siamo fatti di azioni incompiute, spesso di ignavia, e meno male che ogni tanto la natura riesce a riportarci sulla retta via.
Consigliato per chi ha voglia di immergersi in un mondo solo all’apparenza lontanissimo. Per chi ha voglia di tuffarsi in una storia senza pregiudizi. Pronti a lasciarvi togliere la maschera da Ragagnin?
Luca Ragagnin (Torino, 1965) è uno scrittore e paroliere italiano.
Incomincia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna presso il Teatro di Leo de Berardinis. Dal 1994 collabora come paroliere con musicisti di varia estrazione. Nel 1995 vince il Premio Montale per la poesia con una silloge inedita, letta nello stesso anno da Vittorio Gassman nel ciclo televisivo “Cammin leggendo” e pubblicata l’anno successivo dall’editore Scheiwiller. Nel 1996 viene invitato al Festival Internazionale di Poesia di Bar, in Montenegro, e un’antologia di sue poesie viene tradotta in serbocroato. Collabora con quotidiani e riviste di vario genere e, dal 1998 al 2003, ha tenuto una rubrica fissa su “Duel”, mensile di cinema e cultura dell’immagine. Nel 2007, insieme a Enrico Remmert, adatta per ii teatro il libro Elogio della sbronza consapevole”. Lo spettacolo viene portato in tournée in Italia e in Francia da Assemblea Teatro. Nel 2009, sempre con Enrico Remmert, scrive “2984”, testo teatrale ispirato a “1984” di George Orwell. Lo spettacolo debutta al Festival delle Scienze di Genova con la regia di Emanuele Conte e la produzione del Teatro della Tosse. Nel 2011 collabora alla stesura di “Operetta in nero”, testo teatrale scritto e musicato da Andrea Liberovici e scrive, con Michele Di Mauro, “Alla fine di un nuovo giorno”, spettacolo commissionato da Torino Spiritualità e portato in scena dallo stesso Di Mauro e dal compositore messicano Murcof. Nel 2012 scrive per Lella Costa “Elsa Shocking”, monologo basato sull’autobiografia di Elsa Schiaparelli Shocking Life, che va in scena il 20 ottobre al Teatro Carignano di Torino. Nel 2014 scrive per Angela Baraldi lo spettacolo “The Wedding Singers”, che debutta al Teatro della Tosse di Genova, con la regia di Emanuele Conte. Le sue poesie sono tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.
È autore di romanzi (Marmo rosso, Arcano 21), racconti (tra gli altri, Pulci e Un amore supremo), testi teatrali (Misfatti unici, Cinque sigilli) e poesie (tra le altre, le raccolte Biopsie e La balbuzie degli oracoli) e testi di canzoni (tra gli altri, per Subsonica, Delta V, Serena Abrami e Antonello Venditti). Con Miraggi ha pubblicato il volume di racconti Musica per Orsi e Teiere, il saggio Capitomboli e, insieme ai Totò Zingaro, la trilogia musicale Imperdibili perdenti, composta dai dischi «Il fazzoletto di Robert Johnson», «Salgariprivato» e «Fiodor», di cui è autore di tutti i testi.
Praga, fine anni Trenta: il signor Kopfrkingl non fuma e non beve, rispetta lo Stato, apprezza la lettura (anche se la sua biblioteca si riduce a un volume sui monasteri tibetani e alle poche pagine della legge sulla cremazione del 1921), adora la sua famiglia, ama la bellezza, ma sopra ogni cosa ama il proprio lavoro presso un crematorio. Kopfrkingl è un fervente sostenitore di “sora nostra morte corporale” poiché «La morte libera l’uomo dal dolore e dalla sofferenza, elimina il muro che lo circonda durante tutta la vita impedendogli la vista, e lo illumina». La sepoltura mediante cremazione è vantaggiosa «perché è più automatica e meccanica, velocizza il processo del ritorno nella polvere, da cui l’uomo è stato creato, e in questo «aiuta l’opera dì Dio». Kopfrkingl è consapevole di vivere in tempi difficili, ma è confortato da due certezze: tutto ciò che vive deve necessariamente morire; nonostante gli ostacoli, il Führer sta costruendo una “nuova, felice Europa”. E per queste due certezze il modesto impiegato lotterà. A modo suo.
Pubblicato da Einaudi nel 1972 grazie all’officina Ripellino (introduzione di Angelo Maria, traduzione di Ela), dopo una lunga assenza Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks (1923-1994) ritorna da Miraggi edizioni (rimarchevoli la traduzione di Alessandro de Vito e la postfazione di Alessandro Catalano) all’interno di una collana intitolata NováVlna, come lo straordinario movimento cinematografico ceco degli anni Sessanta (il film L’uomo che bruciava i cadaveri, diretto da Herz e sceneggiata da Fuks, ne è uno dei capolavori). Il romanzo, in cui Fuks racconta con maestria la resistibile ascesa di un borghese piccolo piccolo, ruota attorno ai deliranti monologhi del mostruoso e melenso protagonista, interrotti a tratti da altre figure (una coppia di borghesi che sembra uscita da una commedia di Ionesco; un vecchio amico, diventato un fervente nazista, nelle vesti del diavolo tentatore; un dottore ebreo, forse l’unica figura positiva). A poco a poco il lettore entra in un labirinto claustrofobico che accoglie gli psicopatici creati da Hitchcock e Lang, il teatro della minaccia di Pinter, le riflessioni sulla banalità del male di Arendt, l’umorismo grottesco di Hasek e gli incubi di Kafka. In questa Praga, di magico non c’è nulla.
La storia à la nostra memoria mentre l’oblio è il punto in cui la coscienza termina a causa dalla perdita delle conoscenze pregresse.
Tutti siamo in grado di focalizzare il periodo storico dell’ascesa al potere del Nazismo così come siamo capaci di provare orrore per ciò che accedeva nei campi di concentramento che quel regime costruì e sistematicamente utilizzò per lo sterminio degli ebrei, di altre minoranze etniche e di soggetti non graditi. Non molti sono a conoscenza, forse, che la propaganda nazionalsocialista riuscì a tenere nascoste per un lungo periodo di tempo, sia in Germania che fuori dallo stesso Paese, quali fossero le reali funzioni di quei luoghi di dolore, terrore e morte e questo anche grazie ad alcuni abili stratagemmi. Terezín (in tedesco Theresienstadt), una piccola città fortificata del XVIII secolo sita nella Repubblica Ceca a circa 60 km da Praga, fu il perfetto “palcoscenico” per il mascheramento della verità. In questo campo, dove erano internati principalmente «anziani decorati, eroi di guerra e personalità illustri», le “personalità illustri” erano: pittori, attori, scrittori, musicisti che, proprio per la loro “notorietà”, godevano di una certa libertà quantomeno “creativa”. Sotto la supervisione dei loro aguzzini infatti, in quella sede, era tollerata una discreta attività artistica che già dal 1943 portò a: «una fioritura culturale […] che non aveva paragoni non solo in nessun altro territorio dell’Europa occupata, ma persino di molte città di medie dimensioni […]» tant’è che un programma della Freizeitgestaltung (l’Organizzazione per il Tempo Libero del campo) mostra che: «dall’ 1 all’8 novembre 1943 [… si tennero] diciotto rappresentazioni per una popolazione di quarantamila persone, con dieci diverse opere di cui cinque serie, quattro leggere ed una per bambini».
Sotto le pressioni del governo danese e sotto l’egida della Croce Rossa e, dopo un primo controllo effettuato nell’estate del 1943 (il cui esito non venne divulgato per ragioni politiche in quanto metteva in mostra le reali condizioni di vita degli internati), se ne ebbe un secondo, l’anno successivo, che dopo una “approfondita” ispezione internazionale (23 giugno 1944) dichiarò che la vivibilità nel campo era buona oltre ogni ragionevole dubbio. Come si era riusciti a costruire una tale mistificazione? L’apparato nazista aveva coinvolto i deportati rendendoli protagonisti di una enorme farsa – durata alcune ore, a favore del “pubblico” degli ispettori – in cui i prigionieri risultavano essere più degli “ospiti” che dei reclusi. La “recita” riuscì così bene che le SS pensarono di sfruttare fino in fondo la mefistofelica idea realizzando, nel successivo autunno, una pellicola di propaganda (dal titolo incerto) conosciuta come: Die jüdische selbstverwaltung in theresienstadt (ma anche come Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet o anche Theresienstadt, l’ironico Der Führer schenkt den Juden eine Stadt o, più semplicemente Theresienstadt) con la regia di Kurt Gerron (l’interprete del mago Kiepert nel film L’angelo azzurro) di cui si sono salvati alcuni brani visibili anche su YouTube.
È in questo quadro generale che nella prigione-ghetto di Terezín si incontrarono l’anziano e affermato compositore, Viktor Ullmann (allievo di Schönberg) e il giovane drammaturgo e poeta Petr Kien. I due artisti, pur provenendo da esperienze culturali molto differenti e nati in epoche distanti tra loro, riuscirono a realizzare, con intenti comuni, Der Kaiser von Atlantis (L’imperatore di Atlantide), un’opera del genere Singspiel composta in quattro quadri e un prologo salvatasi, a dispetto degli autori, dai campi di sterminio.
Proprio a Der Kaiser von Atlantis, Enrico Pastore, noto regista e scrittore (con il contributo della musicologa Marida Rizzuti e la traduzione del libretto di Isabella Amico di Meane) ha dedicato un interessante volume di ricerca, edito dalla Miraggi edizioni, dal titolo: L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien.
Dopo una ampia introduzione della situazione del campo di Terezín e, dopo aver ricostruito, nei limiti del possibile, le biografie dei due autori e le condizioni operative/produttive degli spettacoli sotto l’egida del sistema concentrazionario, Pastore si sofferma ad analizzare il Singspiel alla ricerca del messaggio universale, mitico, in esso contenuto.
La storia narra che l’Imperatore di Atlantide (1), Overall, tramite i suoi “meccanizzati” strumenti di propaganda e morte, un Altoparlante e un Tamburo, tenti di consolidare il suo potere grazie alla sopraffazione derivante da un continuo stato di guerra. Tutto ciò accade sotto lo sguardo dolente e disincantato di un Arlecchino anziano (che rappresenta lo spirito annichilito del “vivere”) e della Morte. Ma la protervia di Overall è tale che anche la Morte, disgustata dal suo comportamento, non può far altro che ribellarsi alla volontà distruttiva dell’uomo scegliendo di entrare in “sciopero”. Smetterà, quindi, di accogliere anime, impedendo ai viventi di terminare la loro esistenza. Sul campo di battaglia due opposte fazioni si scontrano: sono il Soldato e Bubikopf (una ragazza con i capelli alla garçon) ma, riconosciutisi uomo e donna, si innamorano cessando di combattere. Stremati dal loro stato di indeterminatezza anche i “non morti” decidono di porre fine alla loro sofferenza e assaltano il palazzo del Kaiser per farlo capitolare. Questi, vedendosi sconfitto, si consegna alla Morte che lo accoglie ritornando a svolgere il suo compito di mietitrice di anime.
Nell’accurata analisi dell’opera, Pastore rileva gli innumerevoli richiami, sia testuali che musicali, alle tante allegorie in essa contenuta.
Nella parte testuale, solo per accennare ai personaggi, non è difficile riconoscere in Overall lo stesso Hitler, mentre nei suoi collaboratori – Altoparlante e Tamburo – si intuiscono le figure di Goebbels e, presumibilmente, Göring. Nell’allegoria del Soldato e di Bubikopf si intravedono: «i rappresentanti di tutte le vittime del nazismo e di coloro, soprattutto in Germania, che avevano dimenticato i valori della democrazia», mentre in Arlecchino e nella Morte si esaltano i valori – universali – dell’esistenza.
Anche la partitura è piena di richiami a significati “reconditi”, almeno per i non addetti ai lavori, ma la vera “ricchezza” della trama musicale è nascosta negli arrangiamenti. Se è vero che i brani, a volte, fanno riferimento a composizioni pregresse di autori di musica “colta” come Schönberg o Mahler è pur vero che, nella maggioranza dei casi, essi vengono costruiti usando un insieme di stilemi: «dallo shimmy, al blues, al fox-trot, [… un] trionfo dell’entartete Musik» tipici della musica “degenerata” tanto odiata dai nazisti. Per Ullmann e Kien questo è, chiaramente, un atto di piena e consapevole ribellione artistica e tutto, in qualche modo, preconizza (auspica) la fine del regime. «L’imperatore di Atlantide […] propone una opzione alternativa al pensiero unico nazista: una visione costituita da differenze che si integrano in una unità».
Lavoro pregevole quello di Pastore che permette di focalizzare le numerose chiavi di lettura de L’imperatore di Atlantide, opera creduta persa e rinvenuta solo alla fine degli anni Sessanta presso lo studio del Prof. H.G. Adler che l’aveva ricevuta dal direttore della biblioteca di Terezín cui Ullmann l’aveva affidata prima di partire per il suo ultimo viaggio verso la camera a gas.
Gli autori non videro mai la messa in scena del loro lavoro (anche se è il componimento, nel campo di concentramento, fu provato più volte e, probabilmente, presentato in una sorta di “prova generale” per il vaglio di gradimento da parte delle SS).
Nel dicembre del 1975, il direttore d’orchestra Kerry Woodward, dopo aver ritrovato la partitura originale da Adler, ebbe l’onore di dirigere la Nederlandse Opera, presso il Bellevue Centre di Amsterdam, per la prima rappresentazione mondiale.
1) Atlantide era considerato dai nazisti, a seguito degli studi teosofici di Helena Blavatsky, il continente da cui provenivano gli ariani; tale tesi fu avvalorata, nel 1934, anche dal responsabile della formazione e dell’educazione del Partito Nazista, Alfred Rosenberg, con la stesura del volume Der Mythus des 20. Jahrhunderts (Il mito del XX secolo).
Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e PetrKien, Miraggi edizioni, Torino 2019, pp. 210, euro 18,00.
L’ispettore Malatesta lascia spazio a uno scrittore senza nome che osserva l’Ippodromo… e lo stadio Mazza
Torna in libreria lo scrittore ferrarese Lorenzo Mazzoni con un nuovo romanzo, In un cielo di stelle rotte (Miraggi Edizioni). Si tratta di un lavoro molto più articolato rispetto alla saga che lo ha reso celebre nell’universo dell’editoria indipendente (quella dell’ispettore Pietro Malatesta) e ai già calidoscopici Quando le chitarre facevano l’amore e Il Muggito di Sarajevo, ma anche in questo testo Ferrara, e i suoi riti, entrano prepotentemente tra le righe e fanno da collante a una struttura che richiama ai lavori non lineari di John Dos Passos, Antonio Muñoz Molina e Paco Ignacio Taibo II.
La voce narrante è uno scrittore senza nome seduto sul balcone della sua vecchia casa di Ferrara, a osservare l’Ippodromo, gli orti e i voli circolari dei piccioni, alle prese con gli appunti di storie che non ha mai pubblicato.
Attraverso libri, canzoni e ricordi cerca di comporre innumerevoli tessere in un mosaico unitario, utilizzando i mondiali di calcio come innesco narrativo. Il risultato è la ricostruzione di un lungo periodo storico attraverso racconti tangenti, intersecanti o paralleli alle varie edizioni della competizione internazionale.
Non si tratta di un “romanzo sportivo”, tutt’altro, nel mosaico di Mazzoni trovano posto un anarchico a Montevideo, le tigri di Mompracem, riti voodoo a Tresigallo durante il periodo Littorio, un vecchio ubriacone in un bar di Rio che spiega cos’è il dolore a una prostituta mulatta, l’isola caraibica di Saint-Barthélemy e rapporti sessuali estremi, l’Lsd, la Corea del Nord e la psichedelia proletaria, la guerra del Vietnam e la controcultura, la Ddr, i desaparecidos, la guerra delle Falkland, i Nar, Le fiabe di Antonio Gramsci, la Colombia di Escobar, l’Iran, l’attrice porno Karen Lancaume, Nizza, l’Angola, Bucarest, Aruba, New York, Keith Moon, i Beatles…
Senza dubbio un lavoro intenso e capace di portare il lettore in varie epoche e continenti, dove l’esplorazione dei confini e i ritratti degli emarginati della Storia si susseguono cadenzati da canzoni, colori, accadimenti minori dell’ultimo secolo.
Un romanzo che si può leggere anche come un manifesto del pensiero dell’autore, della sua idea di narrativa, una spiegazione personale su come nascano le storie, un tributo allo stile dei suoi eroi letterari e non solo. Un viaggio emotivo all’ombra del Paolo Mazza, in una Ferrara in rotta tra Lewisham e Amsterdam.
Il buon scrivere può ancora in qualche modo sorprenderci, se solo lo lasciassimo succedere! Ma possono sorprenderci anche le testimonianze dirette, quelle in cui si dicono parole. Non è il caso di opporre resistenza alle belle parole. Per questo, bisogna sempre seguire il consiglio di leggere cose belle e ascoltare parole importanti. Mercoledì 10 aprile ai Diari è accaduto di ospitare un evento di caratura internazionale con la presentazione del libro “La corsa indiana”, esordio nel 1990 di Tereza Boučková,tradotto in Germania, Olanda e Ungheria e per la prima volta in Italia da Miraggi edizioni nella Collana Novàvlna.
Una testimonianza forte, intensa anche se la lingua era il ceco. Con due occhi luminosi come laghetti e un sorriso costante, fermo questa donna, dissidente e figlia di dissidenti, anche quando il racconto diventava duro e di forte emotività ha toccato il cuore di tutti noi. Si parlava di padri assenti, grandi letterati, grandi politici, grandi ideali. Si parlava di occupazione e carri armati. Di sogni di libertà stroncati. Di figli persi nella droga e nella Libertà. Quella testimonianza di vita spezzava le vene delle mani, in un silenzio irreale, che neanche i colpi di tosse miei e di Laura Angeloni andavano a intaccare. Il nostro angolo di cultura, succede sempre più spesso, che schiude in queste circostanze orizzonti, aggancia ricordi, richiama eventi. Dovevamo presentare un libro, “La Corsa Indiana”, e invece tutti si sono ritrovati con gli occhi gonfi di lacrime e il cuore che batteva forte.
Con l’autrice la sua sua voce italiana Laura Angeloni, molto conosciuta tra i nostri lettori per aver tradotto precedentemente un altro libro parecchio apprezzato, “Il lago” di Bianca Bellová, sempre della stessa Collana di Miraggi, NovàVlna. Si tratta di nuova collana italiana di letteratura ceca che prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca degli anni della Primavera di Praga.In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali. Questo carattere di “nouvelle vague permanente” è disseminato in tutta la sua storia: alle opere di nuovi autori si affiancheranno in un progetto organico recuperi di testi preziosi ingiustamente dimenticati e altri incredibilmente mai giunti al pubblico italiano.
“La Corsa Indiana” è un romanzo breve o racconto lungo come più ci aggrada chiamarlo, fu pubblicato per la prima volta nel 1988 in un’edizione samizdat e vinse nel 1990 il prestigioso premio letterario Jiří Orten.
Narrata in prima persona è una prosa vivace, originale e riccamente autobiografica che segue la vita della protagonista dalla nascita fino all’età adulta. Quando l’autrice è la figlia di Pavel Kohout, noto intellettuale dissidente, scrittore e drammaturgo, attivo nel circolo delle persone più in vista dell’underground di quegli anni, una storia autobiografica non è esattamente quel che si dice innocua, specialmente se la narrazione si attiene ai fatti accaduti non risparmiando le personalità più note (nel racconto compare, col soprannome di Monologo, anche l’ex presidente Vaclav Havel che la Boučková ha avuto modo di conoscere da vicino), pur celandole sotto ironici soprannomi. Una scrittura catartica che ripercorre l’infanzia vissuta con la madre Alfa e i due fratelli Luna e Raggio di Sole, dopo che il padre, qui chiamato l’Indiano, li abbandonò per trasferirsi all’estero con Musa, la sua nuova donna, dimostrando verso di loro un disinteresse quasi assoluto. E poi la giovinezza, gli amori e le difficoltà della madre Alfa, il matrimonio, la ricerca disperata di un figlio. Infine l’adozione di due bambini, le gioie e difficoltà della nuova vita, e finalmente, inaspettato, un ventre che germoglia. “Il tuo libro è pieno di rabbia e bugie. Mi auguro che non lo pubblicherai così. Ecco l’Indiano, che dopo dodici anni è tornato a casa”. Ma Tereza Boučková il suo libro lo pubblicò. Esattamente come l’aveva scritto.
Brevi note su L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien di Enrico Pastore.
Libro chiama libro. Vien da pensare a Ernst Bloch, al suo Lo spirito dell’utopia, a una idea di arte (e in particolar modo di musica) che non realizza l’utopia, ma la preannuncia: la musica, per Bloch, è forma che prelude all’espressione, lingua non ancora formata, «balbettio di bimbo» che tende alla condizione di linguaggio.
Libro chiama libro. Come non ricordare la raccolta poetica di Andrea Zanzotto, La beltà? Siamo nel 1968, a far rivoluzioni dentro e attraverso la lingua. Parola come istanza di liberazione dalla repressione e dalla scontata omogeneità dell’idioma ufficiale, alla ricerca del dire primordiale: il balbettio del petèl è l’incarnazione linguistica del desiderio.
Libro chiama libro. Desiderio e morte si agitano nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, nell’incessante lavorìo volto a identificare le manifestazioni (la “scienza di ciò che appare”: fenomenologia, appunto) attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali.
Si potrebbe a lungo continuare, tanto è feconda di stimoli e sviluppi rizomatici quest’opera minuscola e monumentale di Enrico Pastore, intellettuale piemontese che con rigorosa attitudine da «storico immediato del reale» racconta la vicenda del «ghetto modello» di Terezín attraverso la lente de L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, «una di quelle rare opere che hanno il potere di portare alla luce un frammento di verità abbagliante», come lo stesso autore annuncia in Premessa (p. 7).
Il libro di Pastore parla di Terezín, «il ghetto modello voluto da Eichmann per ingannare il mondo» (p.9), e lo si fa con solida attitudine scientifica, affondando con precisione analitica nel «campo nelle menzogne», nelle biografie degli autori, nelle paradossali condizioni produttive, per poi analizzare da molteplici punti di vista l’opera e riportarne, infine, il libretto.
Vien da pensare a Foucault, alla sua Archeologia del sapere, a un’idea e una prassi di cultura che mette al centro le conoscenze imperfette, le lingue fluttuanti.
Il grande merito di questo saggio, si può forse sintetizzare, è quello di aprire una quantità di fonde domande sull’oggi e sul nostro essere attraversati dal (e costituiti di) linguaggio, mediante il rigoroso affondo in una vicenda storica e dunque, a rigore, affatto altra da noi.
Come non istituire un feroce parallelo tra «l’illusione messa in scena per raggirare il mondo» (p. 17) e la manipolazione della quale tutti oggi siamo oggetto nella «società dello spettacolo» (Debord docet), anche se con mezzi più suadenti e sottili?
Come non accorgersi che i modi di reagire all’infida, bipolare, sbandierata opportunità di praticare le arti nel Campo di Concentramento Theresienstadt, tra coloro che «dimenticarono il ghetto e si gettarono nell’attività artistica come se si trovassero sui palcoscenici di Praga o Berlino prima dell’avvento del nazismo» (p.17) e quelli che «continuarono a utilizzare l’arte come forma di diniego e resistenza all’orrore nazista a rischio della propria incolumità» (ibidem), rispecchia esattamente le analoghe, opposte attitudini degli uomini e delle donne di scena d’oggi?
«Gli strumenti musicali furono da principio vietati e il loro solo possesso passibile di pena capitale» si legge a p. 56 «Solo in un secondo momento, quando i nazisti realizzarono di poter sfruttare le attività spettacolari per i loro fini di propaganda essi furono resi disponibili, anche se spesso erano di cattiva, se non pessima, qualità»: come non pensare alle dinamiche familistiche, se non di smaccata convenienza, che regolano le scelte di coloro i quali, nelle odierne posizioni di potere, hanno la possibilità di decretare la (s)fortuna, se non addirittura la sopravvivenza, di questo o quel soggetto artistico?
Detto altrimenti: questo affondo su L’imperatore di Atlantide dà la possibilità di «rovesciare il piano estetico della composizione e dell’esecuzione su quello etico», come efficacemente sintetizza Marida Rizzuti nella densa Guida all’ascolto (p. 120).
Un libro che ci sentiamo di consigliare con calore a tutti: per conoscere meglio una vicenda non abbastanza nota e, attraverso di essa, porsi molteplici, salutari domande sul nostro sghembo, smemorato presente.
Chapeau.
MICHELE PASCARELLA
Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, Miraggi edizioni, Torino, 2019, 208 pagine, € 18
Ce la doveva raccontare lei la verità sull’amore, Kants Exhibition (pseudonimo di Giulia Usala), ragazza nata nel 1993 con tanti problemi quante sono le scuole che ha cambiato tra un’anoressia e un attacco di autolesionismo. Lei, che scrive sbronza di lacrime e vino e chissà cosa ancora. Il suo Amore, cinismo e technicolor (Miraggi Edizioni, 2019, pp. 144, € 13), illustrato da Ombretta Tavano, classe 1998, ha la sincerità che ruba le nostre parole. Quelle che teniamo segrete e che non fingono. Che ci incidono la gola e spostano il cuore a destra. “Io lo sento a destra”, dice, “sento il cuore che palpita a destra del mio corpo, talmente strattonato che ha cambiato posizione.”
Ammesso che se ne sappia qualcosa dell’amore, perché tanti, figuriamoci. Sono troppo impegnati a fare i loro conti e a guardarsi allo specchio. Come il protagonista di questa invocazione piena di languore, l’innamorato che ha lasciato l’autrice senza nemmeno più il tempo e lo spazio. “Avessi soldi mi comprerei una stazione per sapere da dove partire.”
Ma l’aveva mai davvero stretta a sé?
“Investitemi vi prego perché vorrei sentire meno dolore.”
E lui chi è? Un pazzo? Uno perso nelle convulsioni del proprio egocentrismo? Questa entità che riesce a essere indifferente e perciò superiore all’amore, alla meraviglia sovrumana dell’amore – possibile che sia tanto forte?
Ecco, lui appare così immenso da indurre lei ad amarlo il doppio, il triplo, ad amarlo di rabbia e struggimento. Struggimento e abbandono, che la porta fino a uscire da sé e trasformare il proprio parlare in preghiera. E come ogni preghiera questo libro affonda dentro il grido che c’è dentro di noi. Dentro. Dentro. Con il suo lirismo. “Facciamo che io ero una stella che si suicida nel cielo, facciamo che io sono una stella cometa.” Con la sua precisione ben più che scientifica. “Fa sorridere gli angoli della bocca pensare che mi dicevi di proteggermi.”
Ci trascina verso l’alto di ciò che non è stato e non sarà mai, verso il nostro mai che nell’alto più alto somiglia a un sempre, questa preghiera piena delle nostre parole e del silenzio che ci fa ‘impietrare’ quando le parole non hanno nessun senso. Quando la voglia di baci diventa solo una contrazione di un nervo facciale e una scarica di battiti sbagliati del cuore.
“Ho paura di scrivere perché se vuoi puoi dirla la realtà, la verità. Te la faccio semplice, scrivo per non scriverti.”
E tanta altra verità scopriamo di pagina in pagina, mentre Spotify fa scorrere la colonna sonora della creazione del mondo. E c’è uno che è moltissimi che non ascolta.
Già da un po’ in edicola il nuovo numero di Rumore che sfoggia un elegante bianco/nero di copertina con un’immagine senza fronzoli dei Bad Religion. Il mio l’ho fatto recensendo tre album stranieri piuttosto interessanti, l’esordio dei canadesi Corner Boys e i nuovi di Ausmuteants e Mattiel. Ho scritto anche della ristampa del primo e finora unico album delle australiane BLANK STATEMENTS e dei nuovi album degli italiani Jesus Franco & The Drogas e Tony Borlotti e i suoi Flauers. Sul podio del boxino “Weird RnR” c’è finito il piccolo-grande esordio dei trentini GOOFY AND THE GOOFERS di Marcello, Edoardo e Seba Omezzolli, poi GONZO, Model Zero, NEGATIVE GEARS e LOS INFARTOS che tengono alta la bandiera del garage r’n’r teramano. A sventolare con energia la bandiera del r’n’r stortarello della mia città anche Marianna D’ama che ha messo fuori un buon singolo assieme al fido collaboratore, gran musicista e gentiluomo Davide Grotta: del 7″ in vinile trasparente ho scritto due parole nello spazio “Singolare” dove altre due parole le ho scritte pure per i 7″ di Cave Curse e Vintage Crop.
Infine 1.100 battute di numero sul nuovo libro del professore-ultras Domenico Mungo “Il suono di Torino – Racconti urbani con colonna sonora punk” Miraggi Edizioni.
Lotta di classe, detriti post industriali, risorse umane che non sono più uomini, pulizie etniche olimpioniche, stragi (dal Cinema Statuto alla ThyssenKrupp), morti bianche, squatterismo e slanci d’insurrezione e lotta.Creatività collettiva antagonista, avanguardie alternative, sabotatori di un io che si fa noi nella Torino di ieri e di oggi. È un gioco di specchi non riflessi. Sfruttati e sfruttatori, alta borghesia e sottoproletariato, movimenti anarchici e torbide trame di Stato, Che Guevara e Pulici, sì Tav e no Tav, cultura alta e sottocultura di strada, CSOA e architettura monumentale, Nerorgasmo e Italo Calvino.Un libro impegnativo da leggere e, immagino, da scrivere.Mungo slitta tra alto e basso, scavando nella storia sociale e nella narrativafamiliare, come nel toccante“Un’auto targata TO” che prende il nome dal pezzo di Dalla/Roversi.La scritturaè urgente, rumorosa, al contempo ridondante, massimalista, a tratti visionaria,figlia dell’individualismo del punk e del collettivismo di movimento.Assai belle le (poche ma buone) illustrazioni neorealiste di Fabrizio Visone.
Nel momento in cui si ritorna a parlare di realismo in letteratura, è il caso di domandarsi: ma che cos’è il realismo? Il libro di Riccardo De Gennaro, La realtà pura (edito dalla casa editrice Miraggi di Torino) offre una prova convincente del fatto che la realtà non è affatto realistica: non soltanto perché il mondo interiore – fatto di sogni e incubi e impossibili aneliti – travalica di continuo quello esterno, ma perché il raggiungimento della “realtà pura” è tutt’uno con il conseguimento di una consapevolezza leopardiana circa “l’infinita vanità del tutto”.
È quanto si ricava dal racconto lungo di De Gennaro – il contrario di quelle scritture che presto si dimenticano a causa della loro facile fruibilità: piuttosto un preparato, composto in prima persona, teso a bruciare a lungo nella mente del lettore dopo averlo tenuto in uno stato di sospensione durante poco più di cento pagine. C’è anzitutto l’incipit che introduce all’infelicità costitutiva dell’esperienza amorosa (“Uno, attendere; due, desiderare; tre, ricordare. L’amore è questo, mi diceva…”), poi un finale a sorpresa in cui l’io narrante si scopre folle almeno quanto l’oggetto del suo desiderio. La tonalità emotiva del racconto è un po’ da anni sessanta del Novecento, la stessa analizzata da Ottiero Ottieri nel suo libro probabilmente migliore, L’irrealtà quotidiana. Se qui, tuttavia, l’alienazione e il sentimento di “derealizzazione” erano il portato di uno sviluppo tecnico-industriale troppo rapido per non generare dei gravi riflessi nevrotici, il senso di spaesamento prodotto dal testo di De Gennaro è più profondo perché privo di connotazione sociologica. C’è sì l’attricetta di cui s’innamora il professore – ma si tratta di un topos letterario e cinematografico più che di una precisa ricostruzione di ambiente. La “realtà pura” altro non è che l’ipercoscienza del suo totale vuoto. “È la solitudine che muove le cose”: questa la desolata conclusione dell’io narrante. Non l’amore o il desiderio, certamente neppure ciò che siamo soliti chiamare “società”, ma soltanto i prolungamenti di tutto ciò in una specie di lucida semovente follia.
La trama – al netto della rivelazione finale – si lascerebbe riassumere come la storia dei rapporti di un uomo già quasi anziano, afflitto da una “normale” condizione masochistica, con una giovane donna pazza che gli si nega e un po’ lo tiranneggia. Ma già l’alternanza, nello scorrere dei brevi capitoli, tra questa vicenda amorosa e la situazione dell’io narrante, perseguitato da una misteriosa organizzazione che sembra spiarlo e tenerlo sotto controllo, serve a mettere sull’avviso il lettore: non è affatto erotico il racconto di De Gennaro, l’autore tratta, con il vuoto pneumatico indotto dalla “realtà pura”, di quel vero e proprio sradicamento dall’intero mondo circostante creato da un’esperienza di dissidio e “lotta dei sessi” (per usare un’espressione primonovecentesca).
Il professore di De Gennaro, a differenza del professor Unrat di Heinrich Mann (portato a imperitura fama dal film L’angelo azzurro di von Sternberg con Marlene Dietrich), fa la prima conoscenza del suo oggetto del desiderio non in un tabarin, luogo di perdizione, ma nel corso di una conferenza, cioè in uno dei tanti incontri di cui si compone la vita del mondo intellettuale. Questo mondo però scompare subito dopo – e ci sono soltanto i due con la loro contesa senza fine. È una vita malata, improntata a una rarefatta superfluità, quella del personaggio maschile di questo libro, in un certo senso tardo epigono dell’“uomo inutile” della letteratura russa dell’Ottocento. Se il personaggio femminile finisce con l’essere la pura proiezione mentale di questa stessa “inutilità”, ciò è la dichiarazione di un’impossibilità del desiderio in generale, che genera da sé il fantasma, e in cui lo svolgersi di una qualsiasi analisi circa la scarsa consistenza della vita intellettuale nel mondo contemporaneo sarebbe fuori posto. Restano infatti come un fondale mancante tutti i significati a cui dovrebbe rinviare la realtà sociale che circonda il rapporto tra i due: è la scelta di un registro narrativo che si limita ad alludere al loro carattere tuttavia presente e incombente, magari nella forma di un disciplinamento psichiatrico, facendo dei personaggi del racconto quasi dei modellini chiusi in una bottiglia.
[Immagine: Gregory Crewdson, Untitled (Girl in Window), particolare].
Quando si parla di cifra narrativa a proposito di uno scrittore, non si intende solo la peculiarità di uno stile che lo distingue da tutti gli altri. La cifra, letteralmente, è una sorta di scrittura riassunta, fatta di iniziali affiancate o intrecciate del nome e cognome, un monogramma che sostituisce la firma, un sigillo che comprova l’appartenenza e la riconoscibilità. Il grottesco, la ferocia, il nonsense, una sorta di suspense apparente, una caustica ironia sono la cifra di Eva Clesis e nonostante la (quasi) certezza di ritrovarli in ogni sua opera, c’è sempre la curiosità di scoprire quale sarà il nervo scoperto al quale avrà mirato con questo o con quell’altro scritto. E quanto sanguinerai, soffrirai, piangerai leggendo… ma piangere di gioia, perché alla fine trovare qualcuno capace di dare voce a quello che senti dentro, qualcuno che ha trovato le parole che tu avevi perso, liberandole dalla prigionia del pudore, del dolore, e che te le restituisce intatte, crudeli ma necessarie, è un dono che solo i grandi scrittori possono fare e che solo la letteratura può suggellare.
Questa premessa, prima di parlarvi di Amor (Miraggi Edizioni) mi è parsa da un lato doverosa per spiegare la mia affinità elettiva con questa autrice da quando – poco a dire il vero – l’ho scoperta (un annetto fa circa), dall’altro difficile perché la chimica che ho sviluppato con la Clesisè una forma di amor(e) indefinibile come tutti i sentimenti astratti per natura ma non per sostanza.
Ma veniamo ad Amor. Lucia, scrittrice e traduttrice, è sopravvissuta per miracolo a un incidente stradale che l’ha lasciata, tuttavia, con una gamba “guasta”. Zoppa e piena di cicatrici, deve affrontare anche la separazione non voluta dal marito Carlo, scoperto mano nella mano di un’altra poco prima dell’incidente. Sola, nel suo monolocale (o monoloculo) in zona Prati, a Roma, vive aggrappata alle sue manie, idiosincrasie, ossessioni, compulsioni, inclusa quella di attaccar bottone con gli sconosciuti che puntualmente sbagliano numero e la chiamano per sbaglio. È così che inciampa in Francesco, che invece pensava di aver telefonato a Marta, l’amore della sua vita. Tipo strano Francesco: parla per oltre un’ora con una sconosciuta scambiandola per la ragazza di cui è innamorato senza nemmeno accorgersene; millanta (o racconta) fantasie criminali; vuole riconquistare la sua ex ma non rinuncia agli stereotipi del maschio dominatore. Chi è davvero Francesco? Cosa farà quando si accorgerà di aver confessato l’inconfessabile a una perfetta estranea? E intanto, in una parossistica giornata di marzo, Lucia deve fare i conti anche col passato, con Carlo, con sé stessa, col suo lavoro, e con tutti gli altri demoni che nessuna pulizia, per maniacale che sia, riuscirà mai a lavare via da sé.
Bizzarro, paradossale, flirta con il nonsense, il thriller, il romanzo d’amore e quello di introspezione senza tradire nessuno, mantenendo integra la personalità (la cifra di cui sopra, appunto), lo spirito, e anche la carne, metaforicamente parlando. Sarà che Eva Clesis sa come usare le parole, e sa quando e quante usarne (cosa non scontata per uno scrittore) misurandone la precisione lessicale al microgrammo. Sarà che Amor è come una pallottola in cerca del suo bersaglio e quando lo trova, colpisce dritto al cuore. O da qualche altra parte. Fatto sta che è impossibile sfuggirgli. Sfuggire alle atmosfere angoscianti che tanto ricordano Il terrore corre sul filo, film di Anatol Litvack del 1948 con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster tratto dal dramma radiofonico Sorry, wrong numberdi Lucille Fletcher, e quindi alla trepidazione e alle emozioni anche violenti. E a qualche sorriso sardonico e compiaciuto. «Ogni tanto metterci la verità». E la verità è che la vita è assurda, più della trama di un romanzo. L’arte sarà pure mimesi del reale. Ma il reale può raggiungere livelli di fantasia tali da negare alla finzione ogni possibile imitazione.
«Ma adesso un romanzo che parla di sogni o riflessioni non farebbero pubblicare, posto che tu sia in grado di scriverne uno. Adesso le case editrici cercano l’azione, chi mostra senza dire, chi inscena senza descrivere, chi imita il cinema, l’arena, lo spot o il salotto tv, e il redattore come tua nonna col punto croce ti impartisce lezioni su come dovresti fare un intreccio, per cui non è vero che è morto il romanzo, ma che intanto lo scrittore si impicca»
Che poi è anche un po’ il sugo della storia: sotto il livello della trama, Amor della Clesis è una rappresentazione, a tratti spietata, di certi aspetti del mondo editoriale. E anche questo è surreale, o per meglio dire meta-reale. Più di ogni altra cosa, però, Amorè un romanzo impossibile da lasciare e duro da sostituire: nella sua brevità esperisce tutto quanto un lettore può cercare.
A questo punto, ogni buon blogger che si rispetti scriverebbe: «ve lo consiglio!». Ma se non sono riuscita fin qui a convincervi vuol dire che non sono una brava blogger e allora cosa vi consiglio a fare?
Se Pinocchio filtra con David Lynch, tra le campagne di una Twin Peaks padana. “Pontescuro”: novellistica gotica e allegoria nel capolavoro di Luca Ragagnin
«Nello spiazzo angusto, creato dalle case di Paolo di Ca’ Bassa e da quella di Giorgione, smangiate e polverose una di fronte all’altra come due duellanti senz’arme e stanchi, si formò un capannello di gente intimorita. Un consesso di malati con i demoni nascosti sottopelle, disposti in semicerchio per potersi guardare tutti negli occhi e legarsi con l’incrocio degli sguardi a una fitta rete di salvataggio, ecco a cosa assomigliavano ora. Erano ombre malvestite, in via di disfacimento, e diventavano, con il sole ormai issato nel vuoto, impietoso nella messa a fuoco del turbamento, esseri capovolti: l’umanità avuta in dote si rovesciava nelle viscere e il demone personale si arrampicava fuori dal buio, distendendosi sui lineamenti».
Ogni romanzo ha un difetto. Quello di “Pontescuro”, di Luca Ragagnin, è di non essere riuscito a “bucare lo schermo” come avrebbe meritato: dozzina dello Strega sfiorata, per esempio, un passaparola tra i lettori che non fa il paio con l’esaltazione della critica “mainstream”, troppo impegnata forse, be’, con il “mainstream”.
Sta a noi, allora, a chi ha avuto la fortuna di incappare in questo libro e di amarlo, ai lettori, agli scrittori agli addetti ai lavori che dalla prima pagina si sono sentiti magicamente proiettati in un posto nuovo e diverso dal solito, spetta a noi parlarne, sta a noi renderlo un romanzo “chiacchierato”.
Romanzo ambiziosissimo, breve, inatteso. In una parola: “strano”, un’ibridazione incestuosa tra una certa tradizione popolare italiana, da Collodi e Rodari, e quella americana più “weird” (sarò pazzo, ma vi ho trovato dei punti di contatto con Twin Peaks di David Lynch, soprattutto per come il Male viene rappresentato in senso metafisico).
Novellistica gotica e allegoria: geniale. Il tono è favolistico, da “c’era una volta”: le voci narranti sono svariate, romanticissime (la nebbia, un cadavere, una ghiandaia, delle barche): ogni capitolo, soprattutto all’inizio, porta la voce di un personaggio diverso. Ambientazione: 1922, l’anno della marcia su Roma.
Siamo nella Bassa padana, nel villaggio di Pontescuro e c‘è un delitto. A morire è la scandalosa e provocante figlia del signorotto locale, una meravigliosa “Bocca di Rosa” che a un certo punto, già da morta, parla così dei propri “carnefici”: «Dopo pochi mesi il paese incominciò a disprezzarmi dritto negli occhi. E forse, se fossero stati almeno un poco intelligenti, tutti avrebbero capito dall’unico sorriso ebete, che ogni giorno cambiava volto ma non caratteristiche, chi era stato l’ultimo a slacciarsi la cinghia». C’è un colpevole e un capro espiatorio, ma c’è tutto l’orrore proprio della provincia, l’omertà, il sesso, la superstizione. C’è pure un ispettore, che a un certo punto arriva da Roma, tuttavia senza che con lui arrivi anche una vera e propria indagine. La scrittura è superba, forse la prova apicale di uno scrittore con una lunghissima carriera alle spalle.
Si sente forte la “carriera” di Ragagnin, la sua cultura, l’erudizione, le infinite letture, lo spasmodico rapporto carnale con altre forme espressive come la poesia, la musica.
“Pontescuro”, senza strizzare l’occhio a niente e a nessuno (tantomeno alle mode) riesce a essere sia ipercontemporaneo, per i motivi già addotti, sia già un piccolo classico, soprattutto per ragioni di lingua, di lessico e di forma.
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