Il gol vincente di Lorenzo Mazzoni In un cielo di stelle rotte – Recensione di Loredana Cilento
“la verosimiglianza sta nei dettagli, che l’apparente verità è contenuta nei particolari, che tutte le storie possono essere migliorate o peggiorate a seconda di chi le racconta. Le performance teatrali, le confessioni davanti a un falò, i romanzi funzionano per il modo in cui vengono raccontati, non per quello che raccontano.”
Seduto alla sua scrivania, ricolma di fogli, appunti, fotografie, uno scrittore senza nome, con migliaia di libri attorno, il posacenere traboccante di mozziconi, mentre le vibranti note di vecchio giradischi, risuonano nell’afosa Ferrara/Bangkok, dà inizio a una storia sotto un cielo di stelle rotte.
Jimi Hendrix intona l’infinita Voodoo Chile…
Quando un autore supera se stesso lo fa con un esercizio di stile impeccabile, Lorenzo Mazzoni con In un cielo di Stelle rotte (Miraggi Edizioni, 2019) riesce laddove molti tentano di varcare i confini dei racconti, mettendo a segno un’opera davvero interessante.
Venti storie in cinque parti, dal 1930 al 2014, la storia attraverso i mondiali di calcio, un intreccio di eventi che si muovono in parallelo con le più attese sfide calcistiche in un turbinio di speranze e clamore.
E così prendono vita strani riti voodoo nel periodo dell’Italia fascista, per rinvigorire i giocatori e vincere una partita, ma a scapito di malcapitati; o mentre l’ Uruguay festeggia la vittoria, le Tigri di Mompracen vendicano una innocente ragazza barbaramente uccisa; o il ritorno dalle Falkland, dopo una guerra crudele che ha spezzato giovani vite.
L’innesto degli eventi è abilmente costruito da Lorenzo, i personaggi, le atmosfere, i dialoghi s’incastrano perfettamente nel susseguirsi di rapide e fulminee azioni…
“La palla calciata da Rahan cancella i demoni in maglia rossa e si infila in rete, alla destra di Gyula Grosics, suggellando il 3 a 2 per i dopatissimi teutonici contro i proletari e anticlericali magiari, Jacob Bloch si appoggia la canna sotto la gola e, dopo un sospiro, preme il grilletto” [1954 – Finale – Ungheria-Germania Ovest 2-3]
In un cielo di stelle rotte è anche un omaggio agli scritti, alla musica, a luoghi lontani nel tempo e nello spazio, echi di una cultura imprescindibile; un faro nel tempestoso e complesso mare della letteratura che sfocia spesso in opere modeste.
Lo scrittore senza nome si pone domande assai complesse, domande che spesso mi sono posta anch’io: “A volte mi chiedo come sia possibile che bipedi che non leggono possano bramare di scrivere e, cosa più raccapricciante, piacere a qualcuno…”
Leggere, sempre leggere, fortissimamente leggere, è il primo passo per iniziare a scrivere, e così che si scrivono le storie, è così che Lorenzo Mazzoni, attraverso un percorso narrativo affiancato dai grandi della letteratura mondiale, ha scritto un’opera di ampio respiro, vibrante e potente.
Un’ovattata sensazione di conforto. Mi trovo improvviso spettatore di un’esistenza che ha espresso a pieno le proprie potenzialità.
Sin dall’introduzione di Simon & The Stars in “Matelda cammina lieve sull’acqua” (Miraggi, 2017), la penna di Daniela Cicchetta prende per mano il lettore e con la grazia che la caratterizza lo invita a un viaggio.
Quella di Matelda, che volge lo sguardo all’indietro senza particolari rimpianti per ripercorrere interamente il cerchio della propria vita e tracciarne un sommario bilancio, in cui non lesina giudizi impietosi verso i suoi errori che pure l’hanno aiutata a crescere interiormente e a migliorarsi, è la volontà di valutare con soddisfazione i traguardi realizzati.
Coraggio, intraprendenza, determinazione, desiderio di emancipazione, fragilità e testardaggine: sono questi gli elementi che costituiscono il suo universo rendendola ai miei occhi, in tutta la sua umanità, un personaggio ideale: “Non percorreva i binari del conformismo del tempo, non cercava l’aggregazione con altre donne per raggiungere degli obiettivi. Lei seguiva la sua strada, senza timore e incurante dei giudizi altrui ma sempre con moderazione e discrezione e spegneva ogni focolaio di contrasto con il marito con la logica più disarmante”.
Se nel percorso mentale di Matelda la passione per il nuoto è la prima indispensabile tappa – con l’acqua sua grande amica, l’unica in grado di accoglierla, assecondarla, senza farsi sopraffare dai suoi sbalzi d’umore – nel palcoscenico della sua vita reale il personaggio principale è Giuseppe, il vero amore, il marito complice, con cui stringe un rapporto equilibrato e paritario, contrastato a volte, ma indissolubile.
Il sentiero esistenziale di questa figura straordinariamente poliedrica è contrassegnato anche dal forte interesse per i libri e la lettura, un’inclinazione che solo grazie alla sua volontà incrollabile, alla complicità di un’amica libraia e al coraggio di sfidare le consuetudini del tempo che volevano la donna moglie e madre molto più che lavoratrice, si trasforma in un vero e proprio lavoro: “Sentiva di avere il mondo tra le mani, soprattutto quando tornava a casa e allineava i volumi sulla libreria, sapendoli ormai suoi”.
Il romanzo ci avvolge con uno stile semplice e immediato e una scrittura densa e ricca di riferimenti a fatti storici, ricostruiti con esattezza e consapevolezza: avvenimenti quali la Seconda guerra mondiale, il boom economico, l’ingresso nelle case delle prime televisioni, la rivoluzione sessuale, lo sbarco sulla luna fanno da sfondo alle vicende di Matelda e dei suoi familiari influenzando inevitabilmente l’evolversi delle loro personalità.
In tutto questo una data particolare – il 2 luglio 1994, giorno in cui si svolse a Roma il primo Gay Pride – si impone con prepotenza quale spinta sociale necessaria per superare la paura della diversità in favore di una maggiore accettazione. Una data che riaccende in Matelda il ricordo di un grande errore commesso, la chiusura di fronte alla rivelazione dell’omosessualità della figlia, il coraggio di affrontare a testa alta ogni sfida che proprio in un momento così importante viene meno: “Erano stati anni difficili per quella figlia, aiutata dall’amore del padre e dei fratelli, e isolata dal suo; anni nei quali la ragazza non aveva mai manifestato alcun rancore nei suoi confronti ma solo un grandissimo imbarazzo e una dedizione in cui i ruoli sembravano invertiti”.
Un romanzo che scava dentro ricavandosi il posto privilegiato, per poi diffondere un calore intimo, “Matelda cammina lieve sull’acqua” è un appassionato racconto sulla forza di superare ogni ostacolo con la giusta caparbietà, sul coraggio di rialzarsi e affrontare i propri errori per ritornare più forti e decisi di prima. È soprattutto un meraviglioso messaggio di amore universale: “Saremo tutti uguali, ma prima dovrà passare il pregiudizio universale”.
Una guerra quella ispanico-marocchina spesso dimenticata, che ancora oggi può dare chiavi di lettura a risoluzioni sociali.
Casamatta (El blocao, titolo originale), è il capolavoro indiscusso di uno dei più brillanti scrittori spagnoli, morto in giovanissima età.
L’inutilità della guerra
Fernández, dedicò molte delle sue scritture al conflitto marocchino-spagnolo, sino a infondere nel cuore del lettore, quanto pericolosa e al contempo inutile sia la guerra. La prosa del castigliano, morto in Francia, è tra le più ‘gentili’ e armoniose che possiamo trovare nel panorama culturale letterario dal secolo scorso.
Tutta la prova umana in Casamatta
Tra errori, prove, e dialoghi, Fernández racconta cosa accade a un battaglione che deve essere sempre pronto alla difesa della propria bandiera. Difesa di una libertà che i regimi totalitari e despoti mettono a dura prova. Una prova dettata da forme di malattia che spesso vengono confuse come follia vicino alla genialità. Follie che spingono altri a folleggiare per una giusta considerazione della difesa, che diventa attacco, infamità, tragedia. Si pensi per un attimo alla donna, amata, desiderata, all’eros che manca in un campo di battaglia. Una donna, della stessa nazionalità del nemico, ma che a veder delle milizie ispaniche è una persona che non ha nulla a che fare con strategie di inganno e offesa. Per portare dunque i propri connazionali nella tana del nemico. Una donna che ha tradito la bontà, la semplicità e il rispetto e che nonostante tutto, viene miracolata da chi ha subito l’oltraggio.
Ancora una volta è donna la Casamatta: Angustias
Angustias, che ha intenzioni di rivalsa. Che offende Occhialini perché a suo dire è un borghese e non può battagliare. Pertanto lo mette alla prova. Scacco ad una fabbrica con le tre B in un unico oggetto: bambola/bimbo/bomba. La velocità del testo del bravo Fernandez ti immette nella storia. L’offesa, lo scherno, la provocazione sino a sfiorare la rissa. Non c’è lì un interesse di reale cooperazione, non esiste nemmeno la cooptazione, non c’è discepolanza, c’è solo la volontà di restituire ciò che forse ancora non è chiaro: non l’uomo che va al fronte deve essere disintegrato, quanto il pazzo furioso che ha deciso di colonizzare con violenza.
Dunque Angustias, con Occhialini, messo alla prova, che non si vuol far schiacciare, (è un misogino? è un fittizio ardito?) dal coraggio, folle anche in questo caso, di una donna che lo ha provocato fino allo sfinimento. La fabbrica, l’invenzione che Angustias abbia un marito da poco assunto, sferrare il colpo con un attentato, in breve tempo. L’attentato fallisce. Angustias che si ritroverà Occhialini ad arrestarla, per quella militanza che lei ha insegnatogli. terroristi e barbari devono essere bloccati, nulla importa che siano anarchici.
Racconti dal fronte Casamatta
Diversi sono i racconti, proposti in capitoli, che trovano la base nell’appendice del libro, quando il giovane autore, raccoglieva un pò tutto quanto osservava da cronista. Traslitterazioni di momenti reali vissuti, con la presenza della morte di un cagnolino, o ancora della mossa azzardata dell’anarchica, della quale abbiamo scritto sopra, che coinvolge, prima con la provocazione e secondariamente ad personam, un giovane che non accetta di essere da meno nell’agire al fine di far esplodere un “ambiente, dove dentro vi sarebbe mio marito neo assunto” (questa la balla che denota il poco controllo in ambienti militari, ma anche un aspetto umano di persone che non dimenticano che tutti possono avere chi li aspetta).
Il ricordo mai sbiadito
Fernandez, esalta con la sua penna ogni singolo episodio, che va ad incrociarsi con altri, coinvolgendo il lettore che frattanto apprende dettagli importanti di quella guerra che ancor oggi porta con se degli strascichi non risolti. E allora nel taccuino dei racconti troviamo Come muoiono i soldati. Un racconto dettagliato sulla perdita della vita in quella inutileria che è la guerra: un giovane soldato che forse i 23 anni nemmeno li ha raggiunti. Si coglie tutto il malessere, nel paradosso quasi ironico, della letteratura del Fernandez.
Malinconia, che forse necessita a far crescere, a far capire oggi, anno del Signore 2019, chi è il narratore perfetto e chi l’imbecille che fa demagogia politica con libri, film, rappresentazioni e polemiche, che discrimina ‘fascisticamente‘, personaggi della uguale bandiera (rossa!), solo perché non si inchinano, come voleva Angustias, al proprio pensiero: scrittori, offesa alla scrittura, ma che nel condominio della città di residenza, sono pompati a più non posso.
Bravi narratori e imbecilli contemporanei
Quelle immagini incancellabili dalla memoria di un uomo che vede morire un altro uomo, che narra le vicende di uomini più che di milizie pronti a difendere la propria patria dall’attacco della follia altrui, che rendono bene l’dea di chi è il grande narratore anti franchista e chi l’idiota contemporaneo che oggi scriverebbe di guerre e politiche tanto per far ridere se stesso e il proprio ego, mentre brancolatori lo espongono in fittizie indipendenti per fargli raggiungere la vetta locale di vendite, con dialoghi e negazioni di fenomeni post comunisti… elaborando minchiate che gettano fumo su nuovi speranzosi compagni a difesa delle libertà.
La diagonale Casamatta portata avanti da Magliani, Ferrazzi e Miraggi edizioni
Sembra quasi una miscellanea/monade mai abbandonatasi, ma che si era persa negli anni, il quartetto formato da Fernandez, Magliani, Ferrazzi e Miraggi edizioni.
Appaiono come una diagonale in un campo di calcio che partendo dalla difesa, col personaggio più eccentrico, perché cosi vogliono le regole, il portiere con la maglia di colore diverso per non confondersi dal resto della squadra, attraversa la storia di un conflitto, la storia di una scrittura degna, e veloce, come veloce era l’ala destra Gianluigi Lentini simbolo del Vecchio cuore granata, il Toro, a dribblare avversità giungendo in porta e abbattendo l’avversario con gol capolavori ma anche necessari a salvare la squadra dalla retrocessione.
Ecco questa è la metafora che nei quattro intravediamo: un attraversare la storia, fatta per bene, poi dimenticata (perché anche le vicende della bandiera del Toro furono dimenticate dopo la scelta di giocare in categorie minori, se non il famoso incidente stradale che gli cambiò il corso della vita), con un linguaggio che inizia da Fernandez e grazie ai traduttori e all’intuito e volontà di Miraggi, giunge ferrato a noi lettori, per non lasciar morire questo autore solo in orticelli di demagogica memoria.
Mazzarronaè il nuovo romanzo di Veronica Tomassini, uscito lo scorso febbraio a cura di Miraggi Edizioni. È stato candidato al premio Strega di quest’anno.
È un romanzo che ricorda ed evoca in prima persona vicende adolescenziali vissute da una ragazza senza nome, nell’omonima periferia (Mazzarrona, periferia di Siracusa) a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
L’ambientazione è un quartiere desolato e indolente, in stato di abbandono materiale e morale, che diviene simbolo di ogni periferia. La poetica della scrittrice Veronica Tomassini è in questo fedele a sé stessa, nel reiterare il suo racconto di aree suburbane, di esistenze dimenticate e perdute. Con occhio impietoso e denudante va nuovamente a cercare luoghi di povertà e abbandono, a raccontare amori incompiuti o difficili, inopportuni e pericolosi, come accadeva in modo diverso ma emotivamente simile in alcuni suoi lavori precedenti, come Sangue di cane (definito caso letterario, edito da Laurana, 2010), Il polacco Maciej (Feltrinelli Zoom 2012), Christiane deve morire (Gaffi, 2014) e L’altro addio (Marsilio, 2017).
La voce narrante nel romanzo fin da principio prende le distanze dall’ambiente relativamente protetto e borghese in cui la società l’ha collocata e corre a mescolarsi all’umanità smarrita e sofferente degli isolati di Mazzarrona. La Tomassini descrive questo suburbio come una lingua di terra afflitta, stretta tra la ferrovia e le ciminiere, un ghetto tra le torrette nere delle fabbriche e un mare velenoso di scarichi, un non-luogo dove l’indolenza dei silenzi polverosi e allucinati del mezzogiorno, insieme all’assenza di qualsiasi stimolo o speranza di lavoro, porta i giovani nel precipizio della droga.
La protagonista della storia è indubbiamente attratta da questo mondo per una forma di struggimento adolescenziale, mentre teme e disprezza il proprio stato borghese. Non si identifica nel proprio ambiente – il liceo e i compagni – e, pur tra mille autodenigrazioni e crisi di identità – l’Andreina di Moravia e l’Aspidistra di Orwell come spettri di opportunismo, come simboli di un’essenza vile, borghese che la insegue – sceglie la devozione per il suo grande amore preteso, Massimo. Tossicodipendente ormai sfinito dall’eroina, lui finisce col cederle forse più per inerzia che non per amore corrisposto, coinvolgendola però suo malgrado nell’umanità disperata che lo circonda, facendone una testimone e compagna inappropriata, perché incolume e intatta
Non mi bucavo. Non ero malata di Aids. Era solo la morte degli altri, che avanzava implacabile e lenta, ad avermi contagiato […] Ero fortunata, la mia temperanza mi teneva fuori dagli impicci […] Il mio male cospirava, apparteneva al mio spirito in ombra […] Avrei dovuto forse temere la mia curiosità, un mostro con mille teste, o almeno due afarsi la guerra: le due nature esattamente in conflitto, la mia provenienza borghese e la mia noia ingovernabile o il desiderio di deregolamentare o l’inappropriatezza. O cosa ancora?
Alle tematiche care alla Tomassini non mancano certo gli antecedenti, poiché il disagio giovanile e la desolazione delle periferie urbane post-industriali attraversano molta letteratura del secondo novecento, facendo da sfondo e contraltare a stati d’animo tormentati e afflitti – come nell’ultima, cupa e introspettiva Elsa Morante di Aracoeli – o intervenendo nella narrazione da veri protagonisti – come negli scritti di Pasolini, nelle sue periferie barbare e impure, o nel ritratto dell’umanità popolare e operaia che si affanna nei vicoli di Pratolini o di altri neo realisti. Senza scomodare poi L.F. Céline, o Curzio Malaparte come substrato per quell’avversione a certa umanità borghese, asservita alla società imperante, il cui successo esala volgarità e poggia sull’altrui quotidiana sofferenza.
Quanto alle dipendenze, siano esse da alcool o da droghe, inutile ricordarne i riferimenti radicati e diffusi in tutta la letteratura più recente, valgano per tutti il Bulgakov di Morfina(1927), ma ancor più il diario-testimonianza di Christiane Felscherinow (Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, 1981) divenuto emblematico per una intera generazione, passando per il Burroughs di Junkie (La scimmia sulla schiena, 1953), o per l’Huxley de Le porte della percezione (1958) che, com’è noto, ispirò persino il nome della celebre band musicale “The Doors”.
Pertanto l’unicità – va da sé – dell’opera di Veronica Tomassini non risiede chiaramente nelle tematiche, già ben rappresentate benché mai certamente esaurite in letteratura. Questo non solo nei testi, ma anche nelle biografie di molti scrittori, sperimentatori seriali di degrado sociale, uso di droghe o deplorazione dello stato di borghese. Né si può dire che il tema dell’amore difficile per uomini perduti sia da un punto di vista letterario poco frequentato. Ma la narratrice va oltre. I suoi profeti di strada resi vili dalla droga, dall’alcool, dalla povertà che diventa degrado e violenza, sono mezzo per raggiungere una poetica più alta e universale, dell’abbandono e dell’impossibile, che scandaglia cupi anfratti di solitudine umana, intesa come mancanza, strenuo desiderio di essere amati e di affermare un futuro e una speranza.
Le vicende sono inquadrate senza pietismo né condanna, ma piuttosto con intento di lucida testimonianza, non indenne da bagliori di lirismo, ispirato tanto da apparire ipnotico, benché inframmezzato da passaggi crudi, realisti fino allo stremo, che danno all’insieme una dimensione di misurato equilibrio, di credibile tensione.
Tecnicamente non c’è una vera trama nel testo, ma piuttosto un alternarsi di descrizioni e riflessioni, fatti dichiarati d’improvviso con un nitore sferzante, doloroso, che si ripetono in cerchi concentrici, ritornando con le loro immagini come il ritornello di una canzone. In questo è funzionale che il tempo della narrazione prenda il via dalla fine della vicenda, l’incipit è il momento del ritorno, è evocazione.
Sono tornata a Mazzarrona. Le baracche. L’umanità vile e sregolata. Non sorrido più. Sono sveglia. Guardo l’ora. Sono le 10.45.
La voce narrante dall’incipit ritorna allora indietro con il ricordo, all’inizio di tutto, e ripercorre le vicende ben note più e più volte, andando a fondo, facendo ruotare i personaggi come su una giostra dapprima accennata, sfumata, poi in episodi e dialoghi che li rendono via via più nitidi, compiuti, intensi. Massimo bianco, pallido, profumato, la camicia bianca chiusa ai polsi, Mary bellissima, la negazione della morte con il suo corpo vivo e carnoso. Poi c’è Romina, l’amica tanto amata, la sua risata rauca, le corse, la vita pratica e adulta, il suo lottare. Romina con la sua praticità è pura salvezza.
Sono fedeli a loro stessi i personaggi di Mazzarrona, e dichiarano subito tutto, mostrando ogni cosa di sé, con la loro fisicità, i loro comportamenti. La narrazione rifugge la volgarità del colpo di scena, è progressiva realizzazione di ciò che è preannunciato, in un ritmo circolare che ritorna, confermandosi, ampliandosi, fino a lasciare esterrefatti di fronte al compimento di ciò che era chiaro fin dalle prime pagine. C’è l’incedere tetro, ritmico di un calvario stralunato, l’avvicinarsi ad un epilogo preannunciato, che nella sua realizzazione lascia sgomenti più dell’imprevisto.
È chiaro da subito che Romina si salverà – la sua stessa essenza di persona ha a che vedere con la salvezza – che in Mary vincerà la bellezza, la freschezza, il turgore del corpo. La sua carne di donna bellissima, rosea e giovane, deciderà di non soccombere alla consunzione e al degrado, ma piuttosto di perdere una battaglia dignitosa, fiera, lo scontro epico con il cancro.
Il personaggio centrale, più intenso, è chiaramente Massimo, l’amore preteso, colui che non si può salvare, l’agnello che vive fino in fondo il martirio della propria debolezza. Massimo è il simbolo di come il dolore possa divenire innocenza, a prescindere dall’errore, se pur reiterato. Perché se c’è qualcosa di pulito a Mazzarrona, tra le cartine di stagnola e le siringhe infilate nelle crepe della terra, è il dolore.
Se le descrizioni sono dei colpi di frusta, tra i cumuli di lamiere, le case di amianto, i sentieri con gli spuntoni dei cardi, il sole polveroso e verticale che ferisce gli occhi e sprona alla più arresa indolenza fisica e morale, il tema centrale del libro pare proprio il dolore come condizione umana universale, nucleo da cui ogni squallore emana e trae nutrimento. In quest’ottica la sofferenza è causa e non conseguenza dell’eroina. Un dolore sempre presente, in alcuni luoghi più che in altri – e grazie proprio alla frequentazione di quei luoghi finalmente detto, dichiarato, riconosciuto come tale – che scorre nelle vicende del libro come una liturgia, un rituale amaro che si ripete nell’alternarsi di pace dolorosa [cit dell’autrice stessa, da C. Pavese, ne Il carcere] e rota, l’astinenza dall’eroina che morde la carne, piega le ginocchia. Un dolore la cui dichiarazione di esistenza è comunque liberatoria, rispetto alla futilità di coetanei vuoti e segreganti, proni alle mode, che rendono il cortile di un liceo un inferno peggiore delle lamiere d’amianto della periferia più desolata.
Quando presi a bucarmi, scriveva Christiane F. (Christiane F., Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) mi sono sentita così superiore, così malvagia, così unica.
E il controcanto della Tomassini, a questo, recita così: Non importava quanto fosse grande la sventura, quando accadeva, ed eravamo lì, in un punto esatto del deserto, soccombere era persino determinarsi. Esistere nel nostro modo maldestro di averla incontrata la vita, qualsiasi cosa significasse.
Le ferite insanabili della vita di strada, le dinamiche feroci e ineluttabili che accompagnano giovani vite fino al loro insensato epilogo lasciano in bocca al lettore un sapore amaro. Ma rimangono bagliori di improvvise rivelazioni, una regia candida e magistrale del raccontare. Un testo raffinato, nella sua aggettivazione mai pigra, nel linguaggio multiforme, a tratti crudo, gergale, a tratti etereo, colto, ricco di riflessioni e riferimenti intertestuali che fanno riflettere.
Una lettura che ha la grazia del chiaroscuro, e contenuti di conoscenza, da cui si esce con la sensazione di aver compreso qualcosa di più che – al di là delle particolarità del narrato – profondamente tutti ci riguarda.
E il naufragar m’è dolce agro in questo mare.Lui, naufrago su un divano-scialuppa, circondato da mobili-relitti, indirizza i suoi messaggi in bottiglia a Lei.L’amore puzza d’odio di Massimiliano Boschini (Miraggi Edizioni, 2019) è un poema insolito e geniale: un anti-Canzoniere caustico, una raccolta di istantanee in versi che raccontano la storia di un amore colato a picco.
Cinquantadue schegge di poesia, tante quante le settimane di un anno, illustrano le quattro stagioni di una relazione sentimentale: Primavera-Primo appuntamento, Estate-Viaggio di nozze, Autunno-Sogni infranti e Inverno-Epitaffio. Questo amore assomiglia a un fragile fiore: sboccia, esplode in un tripudio di sensuali colori, poi, all’improvviso, perde un petalo e un altro ancora, sino ad appassire del tutto.
Sin dal primo verso, noi lettori sappiamo già come andrà a finire questa storia (male), eppure non possiamo fare a meno di lasciarci coinvolgere: ogni strofa tocca le corde del nostro cuore, costringendoci a ricordare l’istante in cui ci siamo resi conto di quanto siano appuntite le frecce di Cupido.
Lui, narratore inaffidabile, ci ammalia con i suoi beffardi giochi di parole:
2. Premonizioni
Era un gruppo divino
ma che dico, di vino,
nel quale tu, per fare la figa
ti davi arie da tonica,
sciantosa da bar quasi fossi gazzosa. […]
Di stagione in stagione, continuiamo a gravitare attorno a un punto fisso, a un divano-scialuppa che si rivela troppo stretto per due persone:
33. Parliamo del tempo
Parliamo del tempo
per non fare altro,
così da non dover lasciare quella scialuppa chiamata divano,
pronta ad affondare al primo raggio di sole:
«Brutto oggi, vero?!»
Vedi un raggio di sole,
non ti accorgi del trucco;
è un filo da pesca,
che di coda in coda ci porta sul lago,
dove affonderemo sereni:
«Bello oggi, vero?!»
Il Lui e la Lei di Boschini cercano di arginare le falle del loro rapporto ripetendo ossessivamente la formula magica “ti amo”: due paroline che perdono un po’ di smalto ogni volta che vengono pronunciate. Questa non è una favola, qui non c’è posto per la magia: Lui non è un principe azzurro, al massimo è un Re di bastoni, mentre Lei, al mattino, senza il suo trucco di scena, non appare più comeuna Regina di cuori(Magia). Lui e Lei si riflettono nello specchio dis-incantato di due strofe speculari: si sfiorano, si incrociano, ma non si incontrano davvero.
L’Amoragia – dolorosa emorragia di un amore in fuga – non può essere arrestata. Infine giunge l’inverno: Lei prende il largo, senza darci la possibilità di conoscere la sua versione dei fatti, lasciandoci con un cuore spaccato a metà. Lui, novello Catullo, si ritrova a fare i conti con un ossimoro, con un amore che puzza d’odio. Il fiore è appassito. Il naufragio preannunciato si è compiuto.
Cosa resta di questa storia, di questa breve eternità? Resta solo un Lui-Ulisse senza Penelope, Re Pescatore di una terra desolata comprata all’Ikea e assemblata alla meno peggio. Come si smonta una relazione? Dov’è finito il libretto delle istruzioni? I pezzi non combaciano più, anzi forse è sempre mancato un tassello: il misterioso pezzo-chiave che permette a una coppia di durare nel tempo, di non andare alla deriva.
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Di un sentimento con una data di scadenza, destinato ad andare a male? Lui, come gli uomini soli di Carver, si affida alla bottiglia, puttana traditrice (Solitario con birra) e fidata messaggera:
43. Bere per dimenticare
Scrivo un messaggio,
perfetto per una bottiglia;
mi brucia in gola, forse è il whisky,
forse ciò che non ti ho mai detto:
non posso fare a meno di te.
Scrivo un messaggio,
da infilare in una bottiglia;
vorrei incendiasse il tuo cuore,
molotov d’amore,
ma nemmeno si accende,
bagnata dalle lacrime di un ubriaco.
Sul divano-scialuppa non c’è più posto per l’amore: nel salotto ristagnano, come cattivi odori, solo l’odio e la nostalgia. Il poemetto si chiude all’insegna della disillusione: per tutta la vita è solo una penosa bugia, così come rimaniamo amici. Non ci resta che sperare che dal letame di questo amore morto e da oggi sepolto(Epitaffio) possa nascere un fiore.
L’amore puzza d’odio di Massimiliano Boschini è un librino costruito ad arte, ricco di sagaci citazioni tutte da scoprire (Dammi mille baci, Se inizierò a parlare di amore e stelle, vi prego: abbattetemi). Questo poemetto si presta ad essere letto e riletto: viene voglia di riassaporare il suo gusto frizzante e asprigno e di riascoltare le sue “tracce”, ballate dedicate a un amore che è più stronzo che cieco.
Se volete saperne di più su Max Boschini (è un personaggio decisamente interessante e poliedrico), vi consiglio di leggere anche i suoi articoli su Mattatoio n°5
Nascita e fine d’una storia d’amore descritte in poesia da Boschini
È uscito il nuovo libro di Massimiliano Boschini, L’amore puzza d’odio (Miraggi Edizioni, Torino). Dopo la pubblicazione di Mòrs. Vita, morsi e miracoli tra Berlino Est e la Pianura Padana, nell’aprile del 2016 per Sometti, l’autore mantovano torna sui propri passi solo in parte, rimanendo nell’alveo della poesia ma abbandonando il dialetto a favore della lingua italiana e concentrandosi su un tema solo sfiorato nel precedente libro: le relazioni di coppia, con annessi e connessi. Nel farlo con la sua ormai usuale ironia e irriverenza, Boschini accompagna il lettore dove nemmeno Charles Bukowski si spinse: a parlare di amore e di stelle. La precisazione è importante, ma da sola non basta. L’amore puzza d’odio racconta dal punto di vista maschile la nascita, la passione, il declino e la fine di una storia d’amore, attraverso la scansione allegorica delle stagioni. E col passare del tempo, lo stile muta e si ripiega su se stesso: da scanzonate e romantiche, le pagine virano al nero, alla tristezza e alla rabbia, senza perdere di vista quella spudorata ruffianeria che spariglia le carte e fa saltare i canoni classici della poesia.
Il libro è una sorta di poemetto, dove musica, arte, fumetti, social network e cultura pop, fanno capolino, stagione dopo stagione, pagina dopo pagina. In questo viaggio il lettore troverà modo di immedesimarsi in uno dei due protagonisti, aiutato da suggestioni visive, che sbucano ogni tanto tra una poesia e l’altra. Boschini non è nuovo alle collaborazioni; se in Mòrs era ricorso alla matita di Dino Fumaretto, in questo libro l’autore delle illustrazioni è Vincenzo Denti, pittore, artista e insegnante del liceo artistico Giulio Romano di Mantova. Il fotografo Giuseppe Gradella è invece l’autore del suggestivo scatto utilizzato per la copertina, che vede Boschini ripreso ad un tavolo di biliardo, meditativo, tra il serio e il faceto, in una sintesi perfetta di ciò che è il libro stesso.
Massimiliano Boschini è un nome ricorrente nell’alveo della cultura cittadina; chi lo conosce bene sa che s’è occupato di molte cose e lui stesso ci scherza sopra, nella quarta di copertina del nuovo libro: non ama definirsi fotografo né poeta, ma preferisce di gran lunga il termine di agitatore.
I cardi ostili di Mazzarrona di Veronica Tomassini
Titolo: Mazzarrona
Autrice: Veronica Tomassini
Edizione: Miraggi
Pubblicazione: 2019
Pagg: 180
Recensione di Loredana Cilento
“Non volevo tornare a casa. La nostra solitudine morale era il terrore che dominava all’infinito ogni risveglio. Massimo era come me. La differenza era che esauriva il suo terrore con l’eroina. Io non avevo dove estinguerlo. Non avevo pace. Forse quei libri maledetti mi avevano rovinato
la vita, guastato i pensieri. Tenevo con me un paio di romanzi, li portavo in borsa, li leggevo ai compagni. Ma la vita era un’altra cosa. Oggi quando ripenso a noi, i compagni della valle, mi vengono i brividi. Non conoscevamo l’abbandono e la preghiera. Eravamo l’aspidistra di Orwell, duri al freddo e al caldo. Non ci siamo mai detti le nostre vite, confidati senza prima mentire. Avrei dovuto urlarvi sul muso: siete pazzi, morirete! siete pazzi.”
Leggere Mazzarrona di Veronica Tomassini(Miraggi Edizioni) è lacerante, doloroso, spietato, amaro, crudo: i colori sono sfumature compassionevoli di degrado urbano, una periferia fumosa, grigia, dai cardi, irti, ostili come occhi di drago. Lì si consumano le storie dei giovani degli anni ottanta, dalle poche parole slabbrate e impastate di eroina; è lei l’eroina non quelle delle favole che salva, bensì quella che ti lega un braccio e la vita. Sono storie di ragazzi emarginati, forse scontenti della vita o semplicemente rifuggono il presente per abbandonarsi e farsi cullare tra le spire della droga. Una liceale innamorata di un tossicodipendente… in attesa di un bacio che faccia boom
Mi avvicinai, il nostro bacio. Fu un boato in testa. Boom.
Oh, l’amavo. Non avevo ancora provato niente del genere.
Era fragile, bianco, però quando stavamo insieme, alle baracche,
succedeva qualcosa. E io dopo guardavo verso il
mare, lo immaginavo oltre la finestrella che sbatteva noiosamente.
Ma è un bacio che sa di metallo, un bacio all’eroina. Sono personaggi fragili il cui equilibrio è labile e si deforma in un contesto ostile, quella della periferia siciliana dove si intravedono pochi scorci di mare, l’azzurro del cielo è ottenebrato dalle ciminiere l’orizzonte offuscato dalle petroliere. Un profumo nell’aria che mette tristezza, come i giovani strafatti che giacciono ai piedi di un albero. Sono giovani deboli che si nascondono dietro falsi miti, in un paesaggio che li avvolge come un manto spettrale e il cemento arrogante.
Veronica Tomassini dipinge senza fronzoli, senza peli sulla lingua, con uno stile vero, sincero, crudo se vogliamo, ma sorprendentemente ammaliante; una narrazione impastata di realismo, non si fa scudo di una cultura letteraria incentrata sulle belle parole, ma scrive e scrive fiumi di parole che sanno di vita, di anime perse con cauta umanità.
Era la fine dei tempi.
Con delusione, capii che si poteva dimenticare. Ricordare,
dimenticando gli altri, il peggio, la vergogna. Il volto
bianco di Massimo. I suoi capelli bruni. Lui che mi chiede
al centro della pista: balli?
Io gli ho detto: sì
Veronica Tomassini vive in Sicilia ma è di origini umbre e abruzzesi. Scrittrice e giornalista, collabora con Il Fatto Quotidiano. Ama le ambientazioni suburbane, gli outsider, gli immigrati, chi sta fuori dal sentire borghese. Parla di antieroi e profeti delle panchine, di tutti coloro che rimangono sul bordo delle ciglia e che chiunque fa finta di non vedere.
Questo è il suo ultimo romanzo…e io aggiungo bellissimo!
«C’era il paese e altri che vivevano nel paese, non molti, qualche bambino, un po’ di vecchie, gli animali. Il paese si chiamava Pontescuro».
«Si chiamavano Gené, che non sapeva cosa sono i pensieri, e si chiamavano Emilio, detto il Zuntura, l’aggiustatutto, che tutto sapeva aggiustare tranne il suo cuore. Si chiamavano Làinfondo, perché il nome non gliel’avevano mai dato e allora indicava dove viveva, e si chiamavano Ciaccio, come il verso degli uccelli, don Andreino e don Antonio perché erano dei preti, e c’era Furàza, la vongola, una cosa che non si può aprire senza il prezzo di ucciderla». Siamo nella bassa padana, anno 1922. Gli avvenimenti storici che hanno interessato l’Italia in questo e negli anni a venire, fatti di camicie nere di tentativi di resistenza e di passi che marciano sulla capitale, sono solo echi che non oltrepassano la cortina di nebbia che qui delinea il contorno delle cose e delle persone.
«La nebbia da queste parti è sempre stata molto importante, una di quelle cose impalpabili che però determina, per il solo fatto di osservarla da un punto o da un altro, o di starci dentro, chi sei, perché porti il tuo nome e com’è fatta la casa nella quale dormi, e su quale letto dormi, se è un letto».
Pontescuro è un paese che prende il nome dal ponte che fu costruito per unire due sponde del fiume Po fino a quel momento disabitate. «Perché volete collegare due nulla” chiedevano le donne di quei costruttori». Loro rispondevano che se avessero edificato solo su una sponda, l’altra sarebbe rimasta disabitata; il paese si sviluppò così in forma circolare intorno al ponte.
La nebbia e il ponte sono solo alcuni degli esseri “non umani”, tanto determinanti nel racconto, da divenire voci di questo romanzo corale che con linguaggio poetico ci immerge nella meschinità dei non detto di un piccolo borgo di provincia dove molti degli abitanti non hanno occhi capaci di vedere la bellezza, perché «la bellezza non è nel nostro destino» e «Noi lavoriamo la terra da generazioni e la terra non è pulita, anzi sotto fa schifo, e non è pulito il padrone».
Sono rozzi contadini gli abitanti di Pontescuro sfruttati dal signorotto del paese dal quale dipendono, che non conoscono il significato delle parole possibilità, evasione e amore, parole capaci solo di dare inutili illusioni. Per questo «quelli incantati da tutte le bellezze che non ci appartengono, che siano di proprietà dell’uomo o della natura stessa, noi li rendiamo innocui, li neutralizziamo, li spingiamo ai margini della nostra terra, che siano un ubriacone muto o un declamatore di libertà, un poeta ignorante, un sognatore».
Ecco allora che quando la figlia del padrone locale, una ragazza ribelle che si concede per rabbia e per sfida diventando “la sgualdrina”, viene assassinata, i paesani, riuniti in chiesa sotto la guida del parroco reticente, non fanno altro che puntare il dito contro l’unico colpevole possibile: lo scemo del villaggio, quel giovane trovatello che si erano sforzati di accettare, ma sempre guardato con sospetto perché “fuori dagli schemi” del loro squallido vivere.
Di questo romanzo di Luca Ragagnin – Miraggi edizioni – ho amato tutto: la scrittura evocativa che ti fa “sentire” i suoni e i colori della terra in cui è ambientata, i personaggi così ben costruiti che te li porti dietro anche a lettura finita e le illustrazioni in bianco e nero di Enrico Remmert, semplici ed efficaci nel farti calare ancor più nella storia.
Il bruciacadaveri | Ladislav Fuks Miraggi edizioni 2019 Traduzione di Alessandro De Vito
La morte, in Europa, pare più vecchia dell’uomo stesso e per liberarcene è necessario che smetta di esser morte, di questo è convinto il signor Kopfrkingl secondo cui “La sepoltura mediante cremazione è assolutamente sicura, e libera chiunque, in modo definitivo, dal timore di ritornare in vita. Chi decide di farsi cremare ha per tutta la vita la certezza di non dover temere nulla, e può morire in piena tranquillità. La cremazione gli risparmia ogni preoccupazione, se anche vogliamo credere che accadano anche oggi dei casi di reviviscenza”. Il signor Kopfrkingl è un uomo tenero, affettuoso, padre premuroso e marito pieno di amore per la consorte, lavora come funzionario al crematorio ed è ossessionato dalla procedura chimica di bruciare un cadavere; questo omino è una delle figure più inquietanti del Novecento scritta da uno scrittore straordinario e poco conosciuto: Ladislav Fuks (1923-1994). “Il bruciacadaveri” (Miraggi, tr.it. Alessandro De Vito, pag. 220, euro 18) è un romanzo di una potenza funerea come poche in letteratura, gli altri personaggi vengono travolti dalla figura del signor Kopfrkingl, sembra più un lunghissimo monologo che un romanzo a più voci. Ambientato nella Praga del 1938 – 1939, poco prima dell’invasione nazista, quest’uomo mellifluo e ambiguo, del tutto indifferente a qualunque espressione umana, è il servo giusto per l’ideologia hitleriana e Fuks con maestria descrive la sua naturale evoluzione verso la distruzione degli altri, in special modo degli ebrei. Capolavoro della letteratura cèca, tradotto con incisiva efficacia da De Vito, descrive con smaniosa insofferenza la sua tranquilla ferocia di Kopfrkingl il quale legge “Il libro tibetano dei morti” con devota ottusità, ascolta musica classica e si distingue per modi gelidi ma gentili; per lui l’uomo è morte, è la morte e vive solo per morire: c’è una tensione heideggeriana che fa dell’esistere una dissolvenza continua. Fuks adopera un linguaggio che schiaccia ogni cosa dentro una scatola nera, man mano che si va avanti si crea un clima di oppressione, i figli di Kopfrkingl, i suoi colleghi, gli amici svaniscono con meticolosa precisione da ogni storia, non sono mai stati niente, come se mai fossero esistiti. Le pagine dove spiega il processo di cremazione sono di una bellezza violentissima con la sua carica di ordinaria cattiveria e di credenza nella metempsicosi. “Ma l’anima non va a finire lì dentro, non è nata per stare nella latta, ma nell’etere. Sollevata dalle catene della sofferenza, liberata, illuminata, soggetta ad altre leggi che non quelle di questi cilindri di latta, trasmigra in un altro corpo”. Il cielo di Praga, per Kopfrkingl, è sempre grigio come la cenere che esce da un forno crematorio, lui non vede altri colori, è l’unico che percepisce, non ne esistono altri. Per questo anonimo signore praghese la morte ha una geometria che manca alla vita, ha un’esattezza che mai ci riesce di trovare (“il futuro è sempre incerto. L’unica cosa certa al mondo, è la morte”); il Reich, però, pian piano lo ammalia, lo seduce, è forse l’unico che possa provare a dargli quella precisione che somigli alla morte. Romanzo prodigioso perché si conficca dentro come un male oscuro, in tempi in cui si sfornano libri per intrattenere in modo leggero questo di Fuks (del 1962) si presenta come uno di quelli scritti per dare senso alla vita e alla lettura. “La dichiarazione di morte è l’atto burocratico di maggiore responsabilità, ma anche il più sublime che abbia luogo, è un atto decisivo, e noi qui ottemperiamo con precisione al nostro dovere”. Leggendolo, avrete la sensazione di avere tra le mani la Bibbia inaridita, ridotta a polvere, quella di cui parla il Qoelet e il sospetto è che pure Dio sia un cielo grigio.
Per concessione della casa editrice vi proponiamo anche la lettura di un ESTRATTO dall’incipit.
1
« Tesoro, » disse il signor Karel Kopfrkingl alla sua bella moglie dai capelli neri sulla soglia del padiglione delle belve feroci, mentre un leggero venticello quasi primaverile gli scompigliava i capelli, « eccoci di nuovo qui. Qui, in questo caro benedetto luogo dove ci siamo conosciuti diciassette anni fa. Allora, Lakmé, chissà se ti ricordi ancora davanti a chi è successo? » E quando Lakmé annuì, sorrise tenero verso il fondo del padiglione, e disse: « Sì, davanti a quel leopardo laggiù. Vieni, andiamo a vedere ». E una volta varcata la soglia ed essere andati verso il leopardo attraversando l’afa pesantemente animale, il signor Kopfrkingl disse:
« Mi sa proprio, Lakmé, che qui in questi diciassette anni non è cambiato niente. Guarda, anche quel serpente là nell’angolo è qui come quella volta, » indicò il serpente nell’angolo, che da un ramo osservava una giovanissima ragazza dalle guance rosse col vestito nero davanti alla gabbia, « io allora, diciassette anni fa, mi ero stupito che avessero messo un serpente nel padiglione delle belve feroci, visto che c’è un padiglione a parte per i serpenti… « e guarda, anche la ringhiera è la stessa… » indicò la ringhiera davanti al leopardo alla quale stavano per arrivare, poi, una volta giunti davanti al leopardo, si fermarono.
« È tutto come quella volta, diciassette anni fa, » disse il signor Kopfrkingl « salvo forse il leopardo. Quello di allora ormai sarà in cielo. Già da tempo la natura gentile l’avrà strappato alle catene animali. Lo vedi, cara, » disse, osservando il leopardo, che sbatteva gli occhi dietro le sbarre, « non facciamo che parlare di natura gentile, di sorte benevola, dell’indulgenza di Dio… valutiamo e giudichiamo gli altri, biasimandoli per questo o quello… per essere malfidenti, calunniatori, invidiosi e non so più cos’altro, ma noi come siamo, proprio noi, siamo gentili, benevoli, buoni?… io ho sempre la sensazione di fare tremendamente poco per voi. L’articolo sul giornale di oggi, di quel padre che ha abbandonato la moglie e i figli per non doverli mantenere, è una cosa terribile. Povera donna, che farà ora con i bambini? Ci sarà una legge a proteggerli. Almeno le leggi dovrebbero servire a proteggere le persone. »
« Esiste di certo una legge così, Roman, » disse Lakmé a voce bassa « di certo non lasceranno morire di fame quella donna con i bambini. Tu stesso dici che viviamo in un buon paese civile, dove vigono la giustizia e il bene, lo dici tu stesso no? E noi, Roman… » sorrise « non ce la passiamo poi male… Hai un buono stipendio, abbiamo un appartamento grande e bello, e mi occupo con tranquillità delle cose di casa, dei bambini… »
« Non ce la passiamo male, » disse il signor Kopfrkingl « grazie a te. Avevi la dote. Ci ha aiutato quella beata di tua madre. Ci aiuta la tua zia di Slatiňany, che, se fosse cattolica, una volta morta sarebbe certamente dichiarata santa. Ma io cosa ho combinato? Ho giusto provveduto alla nostra casa, e se è vero che è una bella casa, resta tutto quello che ho fatto. No, cara, » il signor Kopfrkingl scosse la testa e guardò il leopardo « Zinuška ha sedici anni, Milivoij quattordici, sono proprio nell’età in cui hanno più bisogno e io devo occuparmi di voi, è il mio sacro dovere. Mi è venuta un’idea su come aumentare i miei guadagni extra ». E visto che Lakmé lo guardava senza dire una parola, si voltò verso di lei e a tu per tu le disse:
« Prenderò un agente e gli darò un terzo della mia provvigione. Sarà il signor Strauss. Sarò d’aiuto a voi, mia celeste, e anche a lui. È un buon uomo, per bene, e ha avuto una vita terrificante, ma te lo racconterò, chi non aiuterebbe un brav’uomo? Lo inviteremo al ristorante Al cofanetto d’argento. »
Lakmé si strinse al marito, lo sguardo sorridente, e guardò il leopardo che continuava a sbattere gli occhi come un grande cane bonario, anche il signor Kopfrkingl guardò il leopardo sorridendo in volto, poi disse:
« Lo vedi, tesoro, che animo tenero possono avere gli animali? Come riescono a essere amabili, quando l’uomo sa avvicinarsi a loro ed entrare nella loro trista anima chiusa. Quante persone malvagie diventerebbero buone, gentili, se si trovasse qualcuno capace di comprenderle, di ascoltarle, di accarezzare un po’ la loro anima inaridita… perché ogni uomo ha bisogno di amore, forse persino la polizia, che persegue la prostituzione, ha bisogno di amore, le persone malvagie sono malvagie solo per questo motivo, che nessuno mai ha concesso loro un po’ d’amore… Il leopardo di oggi è un altro rispetto a quello di diciassette anni fa, ma anche per questo un giorno arriverà il momento della liberazione. Anche lui un giorno tornerà a vedere, quando cadrà il muro che lo circonda e sarà illuminato da una luce che oggi ancora non scorge. La nostra incantevole ha avuto il latte? » chiese, intendendo la gatta che avevano in casa, e non appena Lakmé, in silenzio, annuì, il signor Kopfrkingl sorrise per l’ultima volta al leopardo e poi pian piano, attraverso l’afa pesantemente animale, da quel caro, benedetto posto davanti alla gabbia del leopardo, dove diciassette anni prima si erano conosciuti, ritornarono verso l’uscita. Il signor Kopfrkingl gettò uno sguardo nell’angolo, al serpente, che dal ramo continuava a tenere d’occhio la ragazza dalle guance rosse col vestito nero davanti alla gabbia, e disse: « È strano che abbiano messo un rettile vicino alle belve feroci, sembra messo lì come una semplice decorazione o come un riempitivo… » poi con tenerezza condusse Lakmé oltre la soglia del padiglione sulla strada contornata di cespugli e lì Lakmé sorrise e disse:
« Sì, Roman, invita il signor Strauss al ristorante. Ma indicaglielo col nome giusto, che non debba cercarlo. »
C’era una volta, nella bassa padana, un pontescuro costruito con pietre, sangue e nebbia, in mezzo al vuoto dei campi. Intorno al ponte, sulle due rive che annoda, sono sorti poi un castello, dove abitano da sempre i padroni, e un villaggio…
Quando ho cominciato il libro, terminato in un solo giorno perché nulla poteva distogliermi dalla storia, da quelle voci che non potevo ignorare, me lo aspettavo proprio così: intenso, dalla prima all’ultima riga.
Ho vissuto sensazioni molto diverse. Da una parte sono stata cullata da una prosa che è poesia, e dall’altra mi sentivo costantemente turbata. Proverò a raccontarvi Pontescuro anche se non sarà facile.
Avete presente la nebbia? Dicono che faccia del male alle persone. Sono quelle dicerie che nascono un giorno, non si sa come, e poi quel giorno si perde nel tempo. Nella notte del tempo, anzi, nella nebbia del tempo. E così le origini di un’affermazione così forte, così perentoria, svaniscono, come dire, nel tempo.
Pontescuro è un luogo in cui ogni elemento ha la sua voce. A chi piace pensare che le cose che abbiamo toccato, vissuto, conservino tracce di noi? A me sicuramente. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e che mi fa tornare in mente Pavese e la sua famosa citazione sui paesi che restano ad aspettarti perché hanno qualcosa di tuo, persino l’erba si ricorda di te. E a Pontescuro è così: i ponti, gli alberi, gli uccelli e persino gli scarafaggi hanno una storia da raccontare. Ed è proprio la natura a descriverci l’atmosfera che si respira in quel paese di campagna nel 1922. Ed è sempre l’ambiente circostante a dare una lezione agli abitanti e a noi…
Dafne è troppo diversa dagli abitanti di Pontescuro che sono grigi, ignavi, schiavi della mediocrità. Prigionieri di loro stessi non comprenderanno mai che la bella Dafne si concede a tutti per disprezzo. E’ un concetto che non li sfiora nemmeno lontanamente. Perché? Perché sono incapaci di immedesimarsi, l’empatia non esiste. (Vi ricorda qualcosa?)
«Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni.
«Sono morta da sette ore.
«No, non quel sentiero, prendete a destra. Sì, questo. Fate attenzione, si scivola. No, non è ancora acqua, gli argini del fiume tengono bene. E anche se mi piacerebbe, se farebbe di me ciò che in vita non sono riuscita ad essere, non sono nemmeno le mie lacrime. È la nebbia che se ne va, sbavando. Tra poco sarà chiaro e qualcuno mi troverà. Con il mio nastro rosso stretto intorno al collo. È così che sono morta: con un nastro rosso stretto intorno al collo. Strangolata, diranno. E non è nemmeno di seta, diranno. D’altronde la seta non le sia addiceva. Quella sgualdrina.»
Dafne però non è sola. E’ vero, quando ci racconta la sua storia è già morta, ma non ci sono solo elementi negativi. E’ amica di Ciaccio: lo scemo del villaggio. A Ciaccio voglio bene subito. E’ stato abbandonato da neonato sulla riva del fiume e il suo nome glielo dà il verso degli uccelli (galeotto fu il passo letto a Palermo che mi ha fatto innamorare) . E’ ritardato ma ha il cuore buono e Dafne se ne accorge. La loro amicizia viene descritta con purezza e incanto. La stessa che adopera Ciaccio per addobbare gli alberi:
Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, che per qualche diavoleria si fosse improvvisamente animato. Uno di quei quadri esposti nelle gallerie importanti delle grandi città.
Incuranti delle etichette, felici di abbellire gli alberi con i pezzi di stoffa, Ciaccio e Dafne colorano e stravolgono Pontescuro. Incantano la nebbia, il fiume e tutto ciò che toccano.
Finché… finché Dafne non viene trovata morta. Ovviamente è stato Ciaccio, poteva essere soltanto lo scemo del villaggio. Lo sanno i preti, le pettegole, persino l’investigatore inviato da Roma. Perché farsi ulteriori domande?
Caso chiuso, anche per noi lettori. D’altra parte il punto non è trovare o non trovare l’assassino, far andare d’accordo la realtà dei fatti con quella degli abitanti. L’intento di Ragagnin è un altro. E’ il racconto delle azioni incompiute, delle strade non intraprese, delle possibilità dimenticate. Ragagnin ci ha descritto l’incompiuto, l’immobilità dell’essere umano. E alla fine scopriamo che il colpevole lo conoscevamo già dalle prime righe: l’invidia (sociale, sessuale, sentimentale) accompagnata dalla pigrizia.
Pontescuro di Luca Ragagnin è…
Poesia, racconto, riflessione. Ragagnin ci stupisce mescolando elementi diversi: ci sono frasi simili a versi, rumori che rimandano a canzoni… tenerezze e descrizioni che mi hanno fatto pensare ai racconti per bambini ( tra l’altro la storia è accompagnata dalle illustrazioni di Enrico Remmert) e riflessioni dal sapore del saggio. Primo libro che leggo di Ragagnin e di Miraggi, credo che non potessi aspettarmi di meglio.
In Pontescuro ci sono tantissimi temi, è vero la storia è ambientata nel 1922 ma guardando più a fondo si nota che Pontescuro è il luogo oscuro di ognuno di noi. E’ il rovescio della medaglia dei social, è la vita nei paesi ristretti e bigotti, è la malignità che si affaccia ogni tanto dentro di noi. Siamo fatti di azioni incompiute, spesso di ignavia, e meno male che ogni tanto la natura riesce a riportarci sulla retta via.
Consigliato per chi ha voglia di immergersi in un mondo solo all’apparenza lontanissimo. Per chi ha voglia di tuffarsi in una storia senza pregiudizi. Pronti a lasciarvi togliere la maschera da Ragagnin?
Luca Ragagnin (Torino, 1965) è uno scrittore e paroliere italiano.
Incomincia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna presso il Teatro di Leo de Berardinis. Dal 1994 collabora come paroliere con musicisti di varia estrazione. Nel 1995 vince il Premio Montale per la poesia con una silloge inedita, letta nello stesso anno da Vittorio Gassman nel ciclo televisivo “Cammin leggendo” e pubblicata l’anno successivo dall’editore Scheiwiller. Nel 1996 viene invitato al Festival Internazionale di Poesia di Bar, in Montenegro, e un’antologia di sue poesie viene tradotta in serbocroato. Collabora con quotidiani e riviste di vario genere e, dal 1998 al 2003, ha tenuto una rubrica fissa su “Duel”, mensile di cinema e cultura dell’immagine. Nel 2007, insieme a Enrico Remmert, adatta per ii teatro il libro Elogio della sbronza consapevole”. Lo spettacolo viene portato in tournée in Italia e in Francia da Assemblea Teatro. Nel 2009, sempre con Enrico Remmert, scrive “2984”, testo teatrale ispirato a “1984” di George Orwell. Lo spettacolo debutta al Festival delle Scienze di Genova con la regia di Emanuele Conte e la produzione del Teatro della Tosse. Nel 2011 collabora alla stesura di “Operetta in nero”, testo teatrale scritto e musicato da Andrea Liberovici e scrive, con Michele Di Mauro, “Alla fine di un nuovo giorno”, spettacolo commissionato da Torino Spiritualità e portato in scena dallo stesso Di Mauro e dal compositore messicano Murcof. Nel 2012 scrive per Lella Costa “Elsa Shocking”, monologo basato sull’autobiografia di Elsa Schiaparelli Shocking Life, che va in scena il 20 ottobre al Teatro Carignano di Torino. Nel 2014 scrive per Angela Baraldi lo spettacolo “The Wedding Singers”, che debutta al Teatro della Tosse di Genova, con la regia di Emanuele Conte. Le sue poesie sono tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.
È autore di romanzi (Marmo rosso, Arcano 21), racconti (tra gli altri, Pulci e Un amore supremo), testi teatrali (Misfatti unici, Cinque sigilli) e poesie (tra le altre, le raccolte Biopsie e La balbuzie degli oracoli) e testi di canzoni (tra gli altri, per Subsonica, Delta V, Serena Abrami e Antonello Venditti). Con Miraggi ha pubblicato il volume di racconti Musica per Orsi e Teiere, il saggio Capitomboli e, insieme ai Totò Zingaro, la trilogia musicale Imperdibili perdenti, composta dai dischi «Il fazzoletto di Robert Johnson», «Salgariprivato» e «Fiodor», di cui è autore di tutti i testi.
Praga, fine anni Trenta: il signor Kopfrkingl non fuma e non beve, rispetta lo Stato, apprezza la lettura (anche se la sua biblioteca si riduce a un volume sui monasteri tibetani e alle poche pagine della legge sulla cremazione del 1921), adora la sua famiglia, ama la bellezza, ma sopra ogni cosa ama il proprio lavoro presso un crematorio. Kopfrkingl è un fervente sostenitore di “sora nostra morte corporale” poiché «La morte libera l’uomo dal dolore e dalla sofferenza, elimina il muro che lo circonda durante tutta la vita impedendogli la vista, e lo illumina». La sepoltura mediante cremazione è vantaggiosa «perché è più automatica e meccanica, velocizza il processo del ritorno nella polvere, da cui l’uomo è stato creato, e in questo «aiuta l’opera dì Dio». Kopfrkingl è consapevole di vivere in tempi difficili, ma è confortato da due certezze: tutto ciò che vive deve necessariamente morire; nonostante gli ostacoli, il Führer sta costruendo una “nuova, felice Europa”. E per queste due certezze il modesto impiegato lotterà. A modo suo.
Pubblicato da Einaudi nel 1972 grazie all’officina Ripellino (introduzione di Angelo Maria, traduzione di Ela), dopo una lunga assenza Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks (1923-1994) ritorna da Miraggi edizioni (rimarchevoli la traduzione di Alessandro de Vito e la postfazione di Alessandro Catalano) all’interno di una collana intitolata NováVlna, come lo straordinario movimento cinematografico ceco degli anni Sessanta (il film L’uomo che bruciava i cadaveri, diretto da Herz e sceneggiata da Fuks, ne è uno dei capolavori). Il romanzo, in cui Fuks racconta con maestria la resistibile ascesa di un borghese piccolo piccolo, ruota attorno ai deliranti monologhi del mostruoso e melenso protagonista, interrotti a tratti da altre figure (una coppia di borghesi che sembra uscita da una commedia di Ionesco; un vecchio amico, diventato un fervente nazista, nelle vesti del diavolo tentatore; un dottore ebreo, forse l’unica figura positiva). A poco a poco il lettore entra in un labirinto claustrofobico che accoglie gli psicopatici creati da Hitchcock e Lang, il teatro della minaccia di Pinter, le riflessioni sulla banalità del male di Arendt, l’umorismo grottesco di Hasek e gli incubi di Kafka. In questa Praga, di magico non c’è nulla.
La storia à la nostra memoria mentre l’oblio è il punto in cui la coscienza termina a causa dalla perdita delle conoscenze pregresse.
Tutti siamo in grado di focalizzare il periodo storico dell’ascesa al potere del Nazismo così come siamo capaci di provare orrore per ciò che accedeva nei campi di concentramento che quel regime costruì e sistematicamente utilizzò per lo sterminio degli ebrei, di altre minoranze etniche e di soggetti non graditi. Non molti sono a conoscenza, forse, che la propaganda nazionalsocialista riuscì a tenere nascoste per un lungo periodo di tempo, sia in Germania che fuori dallo stesso Paese, quali fossero le reali funzioni di quei luoghi di dolore, terrore e morte e questo anche grazie ad alcuni abili stratagemmi. Terezín (in tedesco Theresienstadt), una piccola città fortificata del XVIII secolo sita nella Repubblica Ceca a circa 60 km da Praga, fu il perfetto “palcoscenico” per il mascheramento della verità. In questo campo, dove erano internati principalmente «anziani decorati, eroi di guerra e personalità illustri», le “personalità illustri” erano: pittori, attori, scrittori, musicisti che, proprio per la loro “notorietà”, godevano di una certa libertà quantomeno “creativa”. Sotto la supervisione dei loro aguzzini infatti, in quella sede, era tollerata una discreta attività artistica che già dal 1943 portò a: «una fioritura culturale […] che non aveva paragoni non solo in nessun altro territorio dell’Europa occupata, ma persino di molte città di medie dimensioni […]» tant’è che un programma della Freizeitgestaltung (l’Organizzazione per il Tempo Libero del campo) mostra che: «dall’ 1 all’8 novembre 1943 [… si tennero] diciotto rappresentazioni per una popolazione di quarantamila persone, con dieci diverse opere di cui cinque serie, quattro leggere ed una per bambini».
Sotto le pressioni del governo danese e sotto l’egida della Croce Rossa e, dopo un primo controllo effettuato nell’estate del 1943 (il cui esito non venne divulgato per ragioni politiche in quanto metteva in mostra le reali condizioni di vita degli internati), se ne ebbe un secondo, l’anno successivo, che dopo una “approfondita” ispezione internazionale (23 giugno 1944) dichiarò che la vivibilità nel campo era buona oltre ogni ragionevole dubbio. Come si era riusciti a costruire una tale mistificazione? L’apparato nazista aveva coinvolto i deportati rendendoli protagonisti di una enorme farsa – durata alcune ore, a favore del “pubblico” degli ispettori – in cui i prigionieri risultavano essere più degli “ospiti” che dei reclusi. La “recita” riuscì così bene che le SS pensarono di sfruttare fino in fondo la mefistofelica idea realizzando, nel successivo autunno, una pellicola di propaganda (dal titolo incerto) conosciuta come: Die jüdische selbstverwaltung in theresienstadt (ma anche come Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet o anche Theresienstadt, l’ironico Der Führer schenkt den Juden eine Stadt o, più semplicemente Theresienstadt) con la regia di Kurt Gerron (l’interprete del mago Kiepert nel film L’angelo azzurro) di cui si sono salvati alcuni brani visibili anche su YouTube.
È in questo quadro generale che nella prigione-ghetto di Terezín si incontrarono l’anziano e affermato compositore, Viktor Ullmann (allievo di Schönberg) e il giovane drammaturgo e poeta Petr Kien. I due artisti, pur provenendo da esperienze culturali molto differenti e nati in epoche distanti tra loro, riuscirono a realizzare, con intenti comuni, Der Kaiser von Atlantis (L’imperatore di Atlantide), un’opera del genere Singspiel composta in quattro quadri e un prologo salvatasi, a dispetto degli autori, dai campi di sterminio.
Proprio a Der Kaiser von Atlantis, Enrico Pastore, noto regista e scrittore (con il contributo della musicologa Marida Rizzuti e la traduzione del libretto di Isabella Amico di Meane) ha dedicato un interessante volume di ricerca, edito dalla Miraggi edizioni, dal titolo: L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien.
Dopo una ampia introduzione della situazione del campo di Terezín e, dopo aver ricostruito, nei limiti del possibile, le biografie dei due autori e le condizioni operative/produttive degli spettacoli sotto l’egida del sistema concentrazionario, Pastore si sofferma ad analizzare il Singspiel alla ricerca del messaggio universale, mitico, in esso contenuto.
La storia narra che l’Imperatore di Atlantide (1), Overall, tramite i suoi “meccanizzati” strumenti di propaganda e morte, un Altoparlante e un Tamburo, tenti di consolidare il suo potere grazie alla sopraffazione derivante da un continuo stato di guerra. Tutto ciò accade sotto lo sguardo dolente e disincantato di un Arlecchino anziano (che rappresenta lo spirito annichilito del “vivere”) e della Morte. Ma la protervia di Overall è tale che anche la Morte, disgustata dal suo comportamento, non può far altro che ribellarsi alla volontà distruttiva dell’uomo scegliendo di entrare in “sciopero”. Smetterà, quindi, di accogliere anime, impedendo ai viventi di terminare la loro esistenza. Sul campo di battaglia due opposte fazioni si scontrano: sono il Soldato e Bubikopf (una ragazza con i capelli alla garçon) ma, riconosciutisi uomo e donna, si innamorano cessando di combattere. Stremati dal loro stato di indeterminatezza anche i “non morti” decidono di porre fine alla loro sofferenza e assaltano il palazzo del Kaiser per farlo capitolare. Questi, vedendosi sconfitto, si consegna alla Morte che lo accoglie ritornando a svolgere il suo compito di mietitrice di anime.
Nell’accurata analisi dell’opera, Pastore rileva gli innumerevoli richiami, sia testuali che musicali, alle tante allegorie in essa contenuta.
Nella parte testuale, solo per accennare ai personaggi, non è difficile riconoscere in Overall lo stesso Hitler, mentre nei suoi collaboratori – Altoparlante e Tamburo – si intuiscono le figure di Goebbels e, presumibilmente, Göring. Nell’allegoria del Soldato e di Bubikopf si intravedono: «i rappresentanti di tutte le vittime del nazismo e di coloro, soprattutto in Germania, che avevano dimenticato i valori della democrazia», mentre in Arlecchino e nella Morte si esaltano i valori – universali – dell’esistenza.
Anche la partitura è piena di richiami a significati “reconditi”, almeno per i non addetti ai lavori, ma la vera “ricchezza” della trama musicale è nascosta negli arrangiamenti. Se è vero che i brani, a volte, fanno riferimento a composizioni pregresse di autori di musica “colta” come Schönberg o Mahler è pur vero che, nella maggioranza dei casi, essi vengono costruiti usando un insieme di stilemi: «dallo shimmy, al blues, al fox-trot, [… un] trionfo dell’entartete Musik» tipici della musica “degenerata” tanto odiata dai nazisti. Per Ullmann e Kien questo è, chiaramente, un atto di piena e consapevole ribellione artistica e tutto, in qualche modo, preconizza (auspica) la fine del regime. «L’imperatore di Atlantide […] propone una opzione alternativa al pensiero unico nazista: una visione costituita da differenze che si integrano in una unità».
Lavoro pregevole quello di Pastore che permette di focalizzare le numerose chiavi di lettura de L’imperatore di Atlantide, opera creduta persa e rinvenuta solo alla fine degli anni Sessanta presso lo studio del Prof. H.G. Adler che l’aveva ricevuta dal direttore della biblioteca di Terezín cui Ullmann l’aveva affidata prima di partire per il suo ultimo viaggio verso la camera a gas.
Gli autori non videro mai la messa in scena del loro lavoro (anche se è il componimento, nel campo di concentramento, fu provato più volte e, probabilmente, presentato in una sorta di “prova generale” per il vaglio di gradimento da parte delle SS).
Nel dicembre del 1975, il direttore d’orchestra Kerry Woodward, dopo aver ritrovato la partitura originale da Adler, ebbe l’onore di dirigere la Nederlandse Opera, presso il Bellevue Centre di Amsterdam, per la prima rappresentazione mondiale.
1) Atlantide era considerato dai nazisti, a seguito degli studi teosofici di Helena Blavatsky, il continente da cui provenivano gli ariani; tale tesi fu avvalorata, nel 1934, anche dal responsabile della formazione e dell’educazione del Partito Nazista, Alfred Rosenberg, con la stesura del volume Der Mythus des 20. Jahrhunderts (Il mito del XX secolo).
Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e PetrKien, Miraggi edizioni, Torino 2019, pp. 210, euro 18,00.
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