Josef Čapek appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka. È morto da poeta e da combattente antifascista e antinazista in un lager. Durante la sua detenzione nel campo di concentramento scrisse poesie.
Questi versi rappresentano una testimonianza e un paradosso. Il poeta – intellettuale – prigioniero scrive dal terribile baratro dell’universo concentrazionario con l’intenzione di scavare nell’impossibilità della parola e allo stesso tempo è vigile e presente davanti al terrore dei suoi aguzzini.
L’editore Miraggi pubblica una scelta delle poesie dello scrittore boemo. Poesie dal campo di concentramento (traduzione di Lara Fortunato) è un viaggio nel calvario di un uomo privato della sua libertà. La poesia di Čapeck affonda i suoi artigli nella rappresentazione più feroce che il male ha raggiunto nel secolo breve.
Dall’inferno del campo di concentramento il poeta scrive del baratro senza fine, perde il sonno per scrivere poesie come tracce di bene davanti all’orrore del sangue.
La poesia per Čapek è l’unica istanza di verità. Nella poesia la parola rimane viva e sveglia. È proprio grazie alla sua lucidità che il poeta è in grado nei suoi versi di catturare nell’essenzialità l’inferno mortale del campo di concentramento.
«A tratti i componimenti – scrive Laura Fortunato nella prefazione – si fanno cronache condensate dello sterminio in atto, riuscendo a ignorare del tutto la miseria degli aguzzini, per porre invece al centro la condizione dei prigionieri».
Josef Čapek prese apertamente posizione contro l’avanzata del nazismo, nel 1939 fu arrestato e deportato in un campo di concentramento.
Qui scelse la poesia per cantare la disgrazia, il lutto e il dolore dei giorni infernali trascorsi nell’orrore terribile del campo di concentramento dove «le cose umane si sgretolano» e l’angelo della morte arriva in volo per oscurare con le ali il palpito della vita.
Nel campo di concentramento, dove il nulla fiorisce e gli uccelli non cantano e primavera e inverno sono una catena di giorni di pena continua e tristezza, Josef Čapek scrive poesie chiedendo alla parola di donargli tutto il suo impeto per descrivere dal vivo e nel vero tutto il turbamento dell’orrore.
Il 25 febbraio del 1945 Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen –Belsen, dove morì qualche mese dopo.
Consapevole di andare incontro alla morte scrisse la sua ultima struggente poesia.
Si congedò dal mondo con Prima del grande viaggio:
«Difficili momenti, giorni difficili / non vi è scelta, decisione, / ultimi giorni scuri, / siete giorni di vita o di morte? / Indietro alla vita o nelle fauci della morte / – cosa vi sarà alla fine del viaggio? / A migliaia vanno, non sei solo… / Avrai, non avrai fortuna? / Sorto è il giorno del grande viaggio / – da tempo vi sei preparato: / messe di vita o di morte / – tanto vai verso casa – tu torni a casa!».
Poesie dal campo di concentramento è un libro da leggere. Solo un poeta poteva lasciarci in eredità la testimonianza straziante e viva dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani.
Josef Capek (Hronov, 23 marzo 1887 – Bergen Belsen, aprile 1945) è stato un pittore e scrittore ceco, e appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka.
Fratello di Karel Capek, fu autore di varie opere in collaborazione col fratello (tra cui Della vita degli insetti, 1925), ma ne scrisse anche altre autonomamente. Tra queste Lelio (1917) e La terra dei molti nomi(1923). Fu l’inventore della parola “Robot”.
Morì nell’aprile del 1945 nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania, dove venne deportato a causa del suo atteggiamento ostile nei confronti della politica di Hitler e del Führer stesso. Durante la prigionia scrisse Básne z koncentracního tabora, una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946.
«Iveri pericoli a Pontescuro sono sopra, nella ricerca difettosa di pulizia e ordine.
Preferisco il popolo delle radici. Lìalmeno nessuno ammazza nessuno. Nel carnaio di sopravvivenza e nutrimento, dove sto io, nessuno farebbe quello che hanno fatto a Dafne.»
Dafne Casadio, figlia del signorotto di Pontescuro viene ritrovata morta con stretto al collo un nastro rosso: è facile incolpare lo scemo del paese, Ciaccio l’ amico sincero della scandalosa e spudorata ragazza.
Pontescuro di Luca Ragagnin, edito da Miraggi Edizioni,èuna favola noir, dove il male dimora nelle persone, dove la nebbia, il fiume, una blatta e lo stesso cadavere di Dafne danno voce al male.,
«Mi chiamo Dafne Casadio e avròper sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore.»
Immaginate ora di essere nel lontano 1922 in un piccolo paese di campagna dove il tempo resta sospeso, un paese diviso a metà da un ponte dove la continuitàdi questo luogoèdata dall’interruzione, come le persone che sono nate e cresciute qui, interrotte dai lori segreti o da peccati inconfessabili, ma del resto negli anni Venti tutto taceva sotto una coltre di piccoli e nefandi segretucci di paesi.
Un paese che non risente dei tempi che stanno cambiando, le case restano di paglia e pietra, il cuore di cento anime, poco più, è di paglia e pietra.
Tutti colpevoli, ma solo uno pagherà, l’unico innocente.
Una narrazione, quella di Pontescuro, semplice e diretta, ma che ti stupisce: un coro di voci astanti a dir poco inconsueto, si fanno carico di raccontare la morte e la vita della sfrontata Dafne.
Una ragazza nata con la luce nei capelli, un affronto per quel paese incolore e nebbioso.
Per le donne che chiudevano gli scuri al suo passaggio, per gli uomini che la desideravano, ma a Pontescuro i desideri non sono contemplati.
Pontescuro è una storia di male viscerale, di uomini e di donne, di bigotti che non percepiscono la vera essenza del bene, inneggiando senza scrupoli, puntando il dito, e sentenziando dal pulpito o dal banco di un tribunale di anime nere. Una bellissima storia amara, la spinta della gelosia fa commettere crimini orribili, oscurando il cuore degli uomini, che saziano la loro sete di vendetta, stringendo un nastro rosso, non di seta, non sarebbe stato adatto a sgualdrina. E infine l’amicizia tra Ciacco e Dafne e di una bellezza straordinaria…come straordinarie sono le pagine di Pontescuro che via via si lasciano leggere e amare…ti lasciano sospesi felicemente.
«Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, uno di quei dipinti che le gallerie importanti delle grandi cittàrifiutano perchéce ne sono di migliori, nel genere, e nessuno ha bisogno di un paesaggista ubriaco.«Ma non eravamo ubriachi, soltanto sospesi, e nella sospensione, felici.
«Felici di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felici di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno del tonfo che fa,
cadendo a terra.«Non piacevano a nessuno, quei due, ma a me sì»
Luca Ragagnin è scrittore e paroliere.
Inizia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna.
È autore di romanzi (“Marmo rosso”, “Arcano 21”, “Agenzia Pertica”, “Pontescuro”), racconti (tra gli altri, “Pulci”, “Un amore supremo”), testi teatrali (“Misfatti unici”, “Cinque sigilli”) e poesie (tra le altre, le raccolte “Biopsie” e “La balbuzie degli oracoli”), tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.
Nelle vesti di paroliere ha scritto testi di canzoni, tra gli altri, per Mina, Antonello Venditti, Garbo, Subsonica, Delta V, Totò Zingaro e Mao e la Rivoluzione.
Davanti al mare crollano le barriere e si apre lo scrigno delle emozioni. Tra il desiderio di essere trascinati via dall’amore e la realtà, restano le domande e la nostalgia. Nostalgia di un amore intenso fatto di piccoli gesti, di quotidianità. A nulla serve cancellare ogni traccia se nella mente indelebili restano i ricordi. Fuggire via ma insieme, godersi il mare, i baci e gli abbracci, le risate e gli sguardi. Passeggiare mano nella mano, dormire teneramente vicini e struggersi dal desiderio. Nottate ad occhi spalancati e cuore ferito, pensare e ripensare a chi è lontano ma non smette di essere lì, nello stesso letto che odora ancora d’amore. Un amore che non è mai abbastanza, una fame di baci che non saziano, un desiderio di ‘per sempre’ che ritorna prepotente ad ogni sguardo. L’amore è tutto ciò che serve, è il luogo dove far riposare il cuore dalle scorribande della giovinezza, è il sogno che si avvera, è un corpo da esplorare. Ma anche vuoto da colmare, dolore che non permette di reagire, attendere e sperare in un ritorno. Ritrovarsi a cercare ancora lei e illudersi di trovarla in una bottiglia di Jack Daniels o nelle braccia di un’altra. Fermare il tempo nel ricordo dell’ultimo bacio fino a smettere di aspettare…
Quattro capitoli (Il mare, Io e te, Il cuore spezzato e Il tramonto) per dipingere, attraverso più di cinquanta poesie, una storia d’amore contemporanea, fresca e giovane come i protagonisti. Stefano Colucci, classe 1995, rappresenta certamente la “generazione 2.0” e racconta, con una scrittura liquida e veloce (espressione di una instancabile frequentazione di numerosi social network), l’amore attraverso gesti, luoghi ed oggetti anche banali: le sigarette, le felpe oversize, il Mc Donald’s. Un autore giovane e molto ‘social’, un linguaggio schietto e concreto, un tema evergreen, una pioggia di ‘like’ sui social che precede la pubblicazione e la raccolta di poesie è presto fatta. Successo garantito tra i giovani lettori che possono rispecchiarsi in un linguaggio fatto di brevi, lapidarie frasi (lo stesso che sperimentano quotidianamente fuori e dentro i social network) e di uno stile con interessanti potenzialità ma che risulta ancora acerbo. Esattamente come la generazione che rappresenta. Istantanee di una quotidianità che chiede di andare oltre e di sperimentare sentimenti ed emozioni che non hanno tempo. La raccolta si conclude con un monito che diventa quasi uno slogan, un consiglio, una speranza: “Innamorati di tutto”. Più che una dichiarazione d’amore, una dichiarazione all’amore.
IL LAGO – Bianca Bellová, edito da Miraggi Edizioni.
Tutti serbiamo dei ricordi della nostra infanzia che custodiamo gelosi nello scrigno della nostra memoria. Ricordi che divengono veri e propri luoghi dell’anima, e in cui ci rifugiamo nei momenti in cui la vita ci sembra insopportabile.
Ricordi che possono essere una stanza, una canzone, uno sguardo, o semplicemente un profumo.
Nel caso di Nami son tre macchie rosse di un costume, e quella voce muliebre che lo placa, lo rasserena.
Nami vive in una piccola e sconquassata casetta di Boros, piccolo villaggio affacciato su un lago ove si vive principalmente di pesca. Vive insieme ai nonni materni. Dei suoi genitori non sa quasi nulla, e quando chiede qualcosa tutti cambiano discorso.
Ma lui ricorda, ricorda sempre quelle tre macchie rosse, e quella voce.
Nel frattempo il lago, mese dopo mese, si ritira, in una sorta di bassa marea senza fine; lago che provoca rush cutanei con talvolta conati di vomito a chi ci si immerge per un bagno. Anche i pesci cominciano a scarseggiare.
Lo Spirito del Lago è infuriato, si dice.
Boros lentamente cade nella miseria.
(Il lago, seppur nel romanzo non venga mai citato, è il Lago Aral, che infatti sotto l’occupazione russa si prosciugò quasi totalmente in quanto i russi deviarono i corsi di alcuni fiumi immissari per irrigare immense piantagioni di cotone, provocando così un’immensa catastrofe ecologica, forse una delle peggiori del novecento)
Dopo la morte dei nonni, mentre il Lago prosegue nella sua disastrosa ritirata, deglutendo e trascinando via vite, sogni, oggetti e segreti, Nami, malgrado non abbia indizi, decide di partire per andare alla ricerca di quelle tre macchie rosse e di quella voce che da piccolo lo coccolava.
Nel suo rocambolesco viaggio vedremo Nami farsi uomo (da Larva a Imago) e di peripezia in peripezia, infine, sanguinante, scalfito, levigato, lo vedremo tornare a Boros, per poter chiudere così il cerchio della sua affannata ricerca.
Lo stile è accuratamente asciutto, rugoso, frutto di un raffinato lavoro di erosione e affilamento, che accresce la forza narrativa del testo; il tutto accompagnato da una dose, mai eccedente, di lirismo.
Insomma: solo come i grandi autori sanno fare, Bianca Bellovà, resta in ombra facendosi serva della storia, in un libro che ha la potenza del romanzo storico, seppur non essendolo affatto, e l’affilatezza del romanzo di denuncia, senza mai essere pedante.
Insomma. Un romanzo che è un piccolo capolavoro. Che farei leggere in tutte le scuole e che consiglierei a chiunque, a prescindere dai gusti e dall’età.
(I complimenti alla traduttrice Laura Angeloni, immensa; e grazie a chi questo libro lo ha portato in Italia, Alessandro De Vito e Mendo Fabio Mendolicchio; e infine grazie ad Angelo Di Liberto, che come al solito consiglia e spaccia libri pazzeschi).
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La playlist che ho associato a questo romanzo, come sempre spazia diversi generi. Ci tengo a precisare che non ho preso in analisi il significato dei testi delle canzoni, ma mi sono lasciato ispirare solo dalla musicalità, considerando la voce come uno strumento.
Inoltre vi avviso che nella didascalia canzone per canzone vi sono numerose anticipazioni.
Ecco dove ascoltare la playlist: https://open.spotify.com/user/11138896871/playlist/2SMZcXurr11uZo3kdALKgO
1) Outro (Preludio al ritorno) – Nefesh: Questo brano a mio avviso s’intona bene al romanzo. E’ un preludio. Tutto deve ancora accadere. Cinematograficamente è come se stessimo vedendo il Lago dall’alto, ancora immenso, prosperoso, che bagna la Capitale brulicante di vita e tutti gli altri villaggi sparsi sulla riva. Le case, viste da quassù, son puntini. Poi lentamente la cinepresa scende, sino a lambire la superficie increspata del Lago, e comincia a muoversi a fior d’acqua alla volta di Boros. Raggiungiamo così le barche attraccate nel porto, troneggia la rupe di Kolos, e cominciamo a risalire la via centrale, polverosa, che risale la collina dove sorgono le casupole dei pescatori, case in muratura, solide, di solito a un piano solo, tranne un paio che ne hanno due. Ed è proprio su una di queste che la ripresa tergiversa, sino a fermarsi sull’uscio. E’ la casa ove Nami vive insieme ai nonni. E con la fine della traccia, il video sfuma.
2) Gobi road (acoustic) – Tengger Cavalry: Minuscola cavalcata sonora vagamente nostalgica e vagamente noiosa (come possono essere noiosi certi pomeriggi d’estate in un minuscolo villaggio di pescatori) con la quale si entra nel vivo della narrazione. Con questa traccia in sottofondo Nami lentamente da Uovo si fa Larva, e flash veloci si rincorrono. Le prime immagini sono di un Nami fanciullo, è tra le braccia del nonno che immergendolo nel Lago quasi lo affoga, poi le favole che gli narra la nonna sullo Spirito del Lago, il Giorno della Pesca interrotto da un nubifragio, il nonno disperso insieme ad altri pescatori, la scuola, le prime scaramucce fra compagni, Zaza, il primo invaghimento, e la nonna issata su una zattera data in pasto al Lago, il presidente del kolchoz che s’impossessa della casa ove vive Nami, i colpi a sangue, le notti nel pollaio, i russi che violentano Zaza sotto gli occhi impotenti di un Nami adolescente, e infine la decisione di quest’ultimo di partire per la Capitale, alla ricerca, senza un indizio che sia uno, di quelle tre macchie rosse di un costume.
3) Aerials – System of a down: Nami, dopo un viaggio di nausea e febbre a bordo di un battello, giunge nella Capitale. E’ lì, in piedi, Larva, appena sbarcato. Davanti a sé un mondo nuovo. Sbalordito spaurito spaesato speranzoso, comincia a muovere i primi passi. Ma presto la Capitale lo inghiotte, e di nuovo flash rapidi che si rincorrono. La fila alla Borsa del lavoro, notti trascorse all’addiaccio, l’attesa, poi lavori estenuanti che lo riconsegnano alla vita sfinito, senza più forze, il Bordello Sinfonia, le lunghe passeggiate senza meta alla vana ricerca di quelle tre macchie rosse di un costume, un collega che diventa quasi un amico, ma che presto perde, come perde diversi lavori tra cui quello di tuttofare di Johnny, esperienza lavorativa che si conclude quasi tragicamente e da cui viene salvato da Vaska che lo consegna, infine, alla Vecchia dama che, commossa dalle sue gesta, raccoglierà informazioni intorno a sua madre e gli indicherà la via per ritrovarla.
4) Arto – System of a down: Kuce, con questa traccia siamo improvvisamente in mezzo al deserto, in un minuscolo villaggio dedito alla raccolta del cotone. E Nami, Crisalide, qui la ritrova, riabbraccia lo sguardo di sua madre, un madre che stenta a riconoscere, e si abbandona febbricitante alle sue cure. Ma presto la pace raggiunta e quel barlume di felicità si disperdono al vento, come polline. Nami sente che deve tornare a Boros, vorrebbe tornarci con sua madre, ma lei no, al Lago non vuole e non può tornarci, e così, da solo, intraprende il viaggio a ritroso.
5) Summon the warrior – Tengger Cavalry: Un Nami Imago dunque fa rientro nella Capitale, che nel frattempo è sfigurata, ammutolita, con carcasse di automobili bruciate al bordo delle strade e pattuglie russe che han dovuto sedare rivolte autoctone. Il Lago continua la sua inesorabile ritirata, mentre tutto si fa decadente, compresa la villa della Vecchia dama, dove Nami alloggia per un po’, il tempo di farle fiorire una rosa bianca per poi ripartire alla volta di Boros. Questa volta a piedi, masticando forse rabbia, pensieri, e poco cibo; Quando giunge però (ri)trova una Boros che sotto le sferzate inesorabili del tempo quasi non riconosce. Sconforto, rabbia, impotenza, stanchezza. Rivede anche Zaza, incinta, che nel frattempo s’è fidanzata con Alex, suo ex-compagno di scuola, e infine, tornando nella sua vecchia casa vi trova ancora il presidente del kolchoz. Sta poco, giusto il tempo di raccogliere informazioni sul suo presunto nonno paterno, e riparte.
6) Ceasuri Rele – Negura Bunget: Con questa traccia m’immagino Nami, di notte, davanti al Lago. Non vi è alcuna descrizione di questa scena nel libro, è mia immaginazione. Ma mi sembra di vederlo, Nami, innanzi a questa entità sempre presente nella sua vita, il Lago, un protagonista a tutti gli effetti (che a tratti sembra quasi il suo antagonista), che respira davanti a lui, tenebroso, emaciato. E Nami piange, singhiozza, si lamenta, gli parla, e urla, liberatorio, disperato, rabbioso, rivolgendosi allo Spirito del Lago, o forse a sé stesso. O forse a nessuno.
7) Against the nature – Gogol Bordello: Infine, il finale. Anche questo di mia immaginazione. Capita infatti che finito di leggere un libro, di quelli che restano e sedimentano, si continui a fantasticare intorno a questo, abbozzando finali quando questi son aperti, o semplicemente fantasticando sul futuro dei personaggi. Io, finito di leggere questo libro, mi sono immaginato questa scena. Mi sono immaginato che Nami, dopo averlo conosciuto, resta a vivere col presunto (anche se poi non sembra esserlo) nonno paterno. E mi sono immaginato che quasi tutti i giorni, dopo essersi immersi insieme nel Lago alla ricerca di oggetti, corpi, ricordi, frammenti di vite, e dopo aver mangiato insieme pane fritto e uova strapazzate, si siedono in riva al Lago, al tramonto, suonando e canticchiando insieme questa canzone: Against the nature.
Era da tanto tempo che leggendo un libro non mi ritrovavo a sentire nitidamente dei rumori. Luca Ragagnin è riuscito a restituirmi questa bellissima sensazione. In Pontesuro tutto parla, direttamente, o come nel mio caso, lasciandoti una sensazione. Così la nebbia, gli uccelli, il ponte il fiume, gli insetti mi restituiscono un mondo, un tempo, rumori e colori che incoraggiano la fantasia e mi guidano nel loro universo. Ne riemergo commosso e scosso.
Un gran bel corollario è costituito anche dai disegni di Enrico Remmert. Semplici, divertenti ed efficaci!
Pontescuro è una favola nera, indaga la malvagità dell’animo umano senza sconti; la scrittura di Luca è precisa e potente, colta e avvolgente. Come i suoi personaggi ti accompagna senza ergersi a protagonista e, lasciandoti cullare, ti ritrovi a piangere e ridere, ad amare e a odiare.
Si potrebbe pensare ad un mondo senza luogo e senza tempo, ma un luogo ed un tempo ci sono eccome, seppur non invadenti, ad ammonirci col ricordo di tempi scuri.
Un’ultima cosa: non avessi saputo l’identità dell’autore avrei attribuito questo romanzo a Leskov o a Gogol, e per me beh…
Vi lascio con un consiglio: Pontescuro a differenza di tanti libri si può leggere anche la sera, prima di addormentarsi, perchè accende sogni pieni di gioie e di lacrime che fanno bene al cuore.
Carlo Gozzini riflette sulla sua relazione con la bella e provocante Blandine: se ne rende conto, è un cumulo di macerie. Hanno trascorso insieme cinque anni, tra pochi alti e molti bassi, hanno costruito qualcosa solo per poi distruggerlo, hanno corso insieme, a perdifiato, solo per ritrovarsi improvvisamente e inevitabilmente al punto di partenza. Alla fine, soli. E infelici: lei sicuramente dato che si trova in cura presso una clinica psichiatrica. Lui non la può vedere, ma se la immagina camminare tra le altre pazienti afflitta e incompresa, senza mai rivolgere la parola ad alcuno, mantenendo quella freddezza da attrice consumata che tanto ha amato Carlo. A lui non va certo meglio. Non fa che pensare a Blandine, alla sua bellezza e a quanto gli manca, ai momenti passati insieme; in più, anche lui è controllato. Non da medici ed infermieri come la sua amata, ma da un Uomo che da qualche tempo lo sta pedinando. L’Uomo indossa una giacca di pelle nera, occhiali con la montatura argentata, una berretta di lana ficcata in testa, spesso ha un giornale sotto il braccio. Non fa molto per nascondersi, e Carlo lo spia a sua volta, dalla finestra di casa; crede che la base dell’Uomo e della organizzazione di cui fa parte sia proprio quell’edificio di fronte alla sua abitazione…
Annoso problema quello della realtà. Esiste una realtà oggettiva e veritiera, indipendente dal soggetto che la osserva oppure esistono tante realtà quante sono i soggetti pensanti? Ed è la mente che crea quanto ci sta intorno, la cultura da cui proveniamo, le nostre esperienze oppure dovremmo, al contrario -o proprio per questo- affidarci ai nostri sensi e alle nostre percezioni, le uniche che possono svelarci ciò che siamo e cosa stiamo vivendo? Se cominciamo a riflettere su cosa sia La realtà pura , entriamo in un vortice di pensieri dal quale difficilmente usciremo con la soluzione in tasca. La stessa sensazione estraniante e di appannamento la si prova leggendo questo romanzo di De Gennaro – fondatore e direttore della rivista trimestrale “il Reportage” – non a caso presente nella sezione Scafiblù di Miraggi (collana dedicata a romanzi italiani disobbedienti e controcorrente). E non è la scrittura a creare questo senso di annebbiamento, che al contrario è essenziale, pulita, diretta, ma i significati sottesi alla trama, anch’essa semplice ma impregnata di significati a diversi livelli di interpretazione. Il romanzo ha un finale ad effetto, piano piano si capisce quanto siamo artefici della nostra felicità e nello stesso tempo avversari di noi stessi, protagonisti e antagonisti del romanzo della nostra vita.
Nella città che prepara l’annessione alla Germania nazista, un bonario impiegato diventa un serial killer del regime trovando giustificazione nella cultura tibetana: uscito ai tempi della Primavera cecoslovacca, il romanzo divenne celebre anche per il film di Jurai Hertz
Se in Italia si conosce Ladislav Fuks, uno dei nomi più importanti della cultura mitteleuropea del 900, questo è dovuto soprattutto a due fattori. Uno è lo straordinario film L’uomo che bruciava i cadaveri, girato nel 1969 da Juraj Herz, vincitore del primo premio al festival di Sitges e uscito da noi quando l’attenzione di tutti era puntata su quell’esperimento di «primavera praghese» interrotto dai c…continua
Gentili lettori,
quanti modi ci sono per raccontare un luogo? Forse sarebbe necessario comprendere cosa sia in realtà un luogo al di là della sua posizione geografica e della cultura che lo permea. Arrivare alla conclusione che si tratti di una dimensione evocativa ancor prima che manifesta, così come la scrittura, la cui grandezza consiste nel riuscire a evocare l’assenza di ogni cosa.
Secondo Borges qualsiasi luogo è archeologico, perché se scavassimo vi ritroveremmo tutte le rovine di costruzioni antiche e i sedimenti del pensiero di chi lo ha abitato. Va da sé che anche il corpo sia il luogo dell’archeologia, con il suo corredo cromosomico, semantico, simbolico.
Non esiste dunque un posto in cui non sia chiara la connotazione umana di chi lo ha attraversato, almeno nella letteratura.
Per far sì che ogni vita non sia confine ma linea infinita, i luoghi cambiano non solo in virtù dell’occhio dell’osservatore, ma soprattutto nella penna di chi li ricompone. La semiologia di uno spazio diventa l’anticamera del reato e l’emblema di chi lo attraversa o lo abita.
Ma come si può riuscire a rappresentare la sempiterna coscienza degli sterminati orizzonti della colpa che nascono a partire da “quel” luogo? In fondo ogni paese è la sintesi della sua capacità a rigenerarsi, a rendersi competitivo, epitome di un cambiamento di prospettiva.
“Pontescuro era il mondo configurato dopo la fine di ogni mondo conosciuto”, scrive Luca Ragagnin in un libro dal titolo, per l’appunto “Pontescuro”, edito da Miraggi edizioni e candidato in prima istanza al Premio Strega 2019.
Si tratta di una storia corale in cui il luogo è sostanza di ogni atto formale, di ogni più piccolo anelito. Pontescuro nasce, prima ancora che come paese, nella struttura di un ponte insicuro. L’uomo che l’aveva costruito è pervaso dai dubbi sulla sua stabilità e il diavolo, messosi a servizio, ne garantirà la tenuta.
“La tua opera si chiamerà Pontescuro”, gli disse “e così il paese che gli sorgerà intorno. A nessuno dei tuoi uomini capiterà nulla di male. Moriranno di vecchiaia e di stupidità, e tu non farai una fine diversa. Io posso aspettare le nuove generazioni”.
Pontescuro nasce con queste prerogative e la nebbia che lo avvolge è protagonista delle vicende. Ogni voce che l’io narrante sgranerà sarà la posta di un rosario di perdizione. Tutti i personaggi sono Pontescuro e Pontescuro è tutti i suoi personaggi. Persino Dafne Casadio, la figlia del ricco Cosimo Casadio, che conoscerà carnalmente gli uomini del paese, prendendo da loro il piacere e la rudezza.
Persino la ghiandaia, lo scarafaggio, il vento e il fiume parlano agli uomini, perché ciascuno di questi elementi è il mondo. Sottoterra le creature striscianti, nel cielo i volanti, per mare i nuotanti. Vite che analizzano altre vite; esistenze impercettibili che contrappuntano uomini e donne e fungono da presagio.
Un giorno Dafne viene trovata morta strangolata e al collo è stretto un nastro rosso, uno di quelli che Ciaccio, lo scemo del villaggio, utilizza per adornare i rami degli alberi, tanto che da lontano il verde delle foglie è imporporato dalla stoffa.
Inutile dire che i sospetti ricadranno su di lui e che verrà chiamato l’ispettore Eugenio Romanelli per fare luce sull’accaduto.
“Mi chiamo Dafne Casadio e avrò per sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore. No, non quel sentiero, prendete a destra. Sì, questo. Fate attenzione, si scivola. No, non è ancora acqua, gli argini del fiume tengono bene. E anche se mi piacerebbe, se farebbe di me ciò che in vita non sono riuscita a essere, non sono nemmeno le mie lacrime”.
Ma se pensate che il fulcro della vicenda sia lo scioglimento dell’enigma, vi sbagliate.
Luca Ragagnin scrive un libro di inquietante bellezza in cui ogni cosa non è ciò che sembra e utilizzando la potenza della parola per semantizzare il destino.
L’epica della sua narrazione si snoda in un’inarrestabile caduta libera di gesti, azioni, pensieri nitidi, immagini rarefatte in cui il giudizio è sospeso e la lingua, semmai, funge da strumento ottico d’ingrandimento dell’umano.
E mentre Ciaccio è introvabile, i suoi passi sono conferma di un’avvenuta liberazione dalla colpa. La memoria di ciò che è stato servirà, perché “tutto ciò che si smarrisce o si vuole dimenticare, le parole scartate, i passi non compiuti, le scelte non fatte, un giorno emergeranno dalla corda dell’orizzonte e prenderanno il posto del sole”.
L’Antiquario vi saluta.
Non c’è l’arte che fu lo sfondo alla malattia dei quattro giovani pucciniani. Qui c’è l’eroina. Non c’è nemmeno il fascino del quartiere latino di Parigi. Qui c’è una teoria di palazzoni di cemento del quartiere Mazzarrona di Siracusa. Ma di quel mondo sognatore e ribelle, senza acuti e con tanta disillusione, pare arrivare l’eco tra le pagine bellissime di “Mazzarrona”, l’ultimo romanzo di Veronica Tomassini. Sì, bellissime. Così sarà immediatamente chiaro il senso delle righe che seguono. Che vogliono essere non tanto una recensione quanto lo sguardo ammirato davanti a una scrittura vertiginosa e luminosa prestata a una storia di disagio, di paure, di lotte, di amore, di morte. Raccontato da Veronica Tomassini, quel quartiere – che a Siracusa rappresenta la periferia umana prima che urbana – imprigiona le esistenze fatali di un gruppo di ragazzi e le traduce in un’elegia d’amore e di amicizia. La voce dentro campo è quella di un’adolescente, io narrante di febbricitante dolcezza, consapevole della propria disarmonia di testa, di corpo, di vita, di ambiente, desiderosa di affetti sbagliati che possano inspiegabilmente risarcire il rifiuto di quelli corretti (ma corretti per chi? sbagliati per chi?). La voce fuori campo è quella delle lamiere contorte, delle carcasse di automobili, dei pneumatici abbandonati, delle facciate erose dei falansteri (tributo continuo al Buzzati di “Un amore”) a metà tra cemento e mare: è la voce di Mazzarrona. L’adolescente scontrosa e la periferia violenta inscenano il dramma ecolalico dell’imperfezione. Imperfetta è la liceale perbene, dalla sensibilità scontenta e dall’amore disperato per Massimo il tossico. Imperfetta nella sua sospensione tra espiazione e trasgressione. Lei che sa espiare (forse) ma che non sa trasgredire (forse). Imperfetta, nel senso più vero, è quella periferia, “una geografia di assenti”. Case su case a far da confini a labirinti di strade senza un criterio urbanistico, senza volontà di bellezza che non sia lo squarcio della più incantevole e dannata costa di Siracusa o quella ferina e involontaria degli inquilini di quelle case. Perché, nonostante i fuseaux pacchiani di Romina e le enormi tette di Mary, nonostante il pallore cadaverico di Massimo, quel mondo di reietti diventa nel monologo di Tomassini un mondo impoeticamente poetico, dunque inevitabilmente bello. Non è un invito a guardare i bohemiens non riusciti di Mazzarrona con l’indulgenza pasoliniana, oppure con il distacco celebrativo dei miti tersitici di Pavese o con il paternalismo di Pratolini e nemmeno con il gusto indagatore di Buzzati. La poesia -della ragazzina che narra, di Massimo, di Mary, di Romina, anche di Andrea (perché no?) – sgorga non dalle loro esistenze (nessuna narrazione potrebbe tradurle se non nel luogo dell’infelicità, dove sono rimasti da vivi e da morti) ma dalla scrittura della ragazzina ora donna tornata in quel quartiere (che abitava solo come fuga e ricerca di sé) che riesce a trasformare la loro adolescenza in epica della marginalità e in elegante romanzo di formazione. E ha ragione, il professore e critico letterario Antonio Di Grado quando scrive, anche a proposito di “Mazzarrona”, che ci sono scrittrici che “si sono impadronite del romanzo della sua forma come loro duttile e dilemmatica, febbrilmente mutevole e spietatamente demistificatrice”.
Duttile, spietata e demistificatrice è, appunto, la scrittura di Veronica Tomassini. E aggiungerei straziante, limpida, commovente, insolente, vorticosa. Linearità e irregolarità sono i contrasti del linguaggio di Tomassini, mimesi di quell’impasto di purezza e marciume che è Mazzarrona. L’antitesi è tanto nella storia (non si può redimere l’irredimibile né si può sfuggire alla circolarità del destino, dentro o fuori Mazzarrona) quanto nella scrittura che innesta nel vortice delle analogie le tracce di vita “Torpori lontani, simili a bisbigli. Romina non faceva tante storie come me, non so come facesse a sopportarmi così piagnucolosa. Sedevo sopra la gomma di automobile nel cortile di Mazzarrona, guardavo i soliti brutti visi, torvi e diffidenti, presi dai loro impicci, mai a guardare su il cielo che non smetteva di tuonare con la sua bellezza una possibilità diversa di esser felici o di esistere”. Tocca alla scrittura ricucire i contrasti, ridefinire gli orli sdruciti dell’esistenza. Allora accade che Mazzarrona sia spazio di movimento e di memoria e nello stesso tempo simulacro dell’io narrante; accade che la ragazzina ossuta e dagli occhi di gatto cangianti nei giorni di pioggia trovi le parole, prima nei libri degli altri poi nei suoi, e magari il segreto dello slang di Mazzarrona “mai capito il dialetto, maledizione, il mio stupido accento anonimo era la ragione che mi impediva di essere a parte di un segreto, di essere dentro veramente le cose, le complicità”. La complicità: forse è qui il punto d’arrivo (se un approdo è necessario) di “Mazzarrona”. La complicità con il passato vuol dire appropriarsi della parola, unico espediente per ritornare e riconoscersi. “E questo succedeva con la scrittura, rendeva me migliore, gli altri, le cose. Non riconoscevo alcun potere in essa, non ancora, la scrittura era nascosta segretamente nei giorni che avanzavano a Mazzarrona, nel silenzio della mia stanza, nei rimpianti dei pochi desideri”. Parola che ingurgita cose e personaggi e li rigetta in pagine limpide e prive di svenevoli intimismi, come raramente capita di leggere. È un errore vedere nel romanzo di Veronica Tomassini, che avrebbe ben figurato nella dozzina dei finalisti del premio Strega di quest’anno, solo una storia di emarginazione o la narrazione di un milieu senza scampo, sebbene sia il quartiere di Siracusa, in questi giorni al centro di un progetto di riqualificazione finanziato da Renzo Piano, il centro del romanzo. Ma è un centro in fuga. Verso almeno quattro stupendi e laceranti camei di personaggi, delle loro paure e dei loro disgraziati sogni. Verso la scrittura, che forse non salva ma anche sì. Se ogni luogo fisico o mentale che la parola trattiene non sia abisso ma luce “Una sera, sulla punta dell’abisso, a Mazzarrona, vidi una luce lontana, era un faro alla fine dei tempi, lampeggiava per me, mi aveva avvertito, nell’alternanza del suo chiarore, così sarebbe stato tutto molto breve, ora l’una ora l’altra riva, del bene e del male. Come la luce e la notte. Come ogni opposto.”
La scheda del libro
Le piste alle tre del pomeriggio, la scuola e le ragazze, le spade, le baracche. Il ballo inaspettato. Massimo mi ami? L’attesa di parole, parole troppo lunghe, il sicomoro a Mazzarrona. La divisa delle case, quella vita un po’ più vera. L’eroina che la accende e si consuma. Quando mi amerai? Romina è donna vera a Mazzarrona, ma ha pochi anni come Ilaria, l’amica della scuola. Tra loro due c’è lei, la voce del romanzo: Buzzati e Pratolini come sogni nel degrado e rivolta nella scuola, dove il professore che imbastisce questo corpo adolescente vale molto, perché sa dedicarsi al di là dell’offerta formativa. Mazzarrona è la sua assenza anni Novanta, e personaggi incandescenti: supernove sempiterne. La vita che persiste nella morte reiterata.
Veronica Tomassini, siciliana di origini umbre, vive a Siracusa. Il suo romanzo d’esordio, Sangue di cane(Laurana 2010) fu un caso letterario. Successivamente ha pubblicato Il polacco Maciej (Feltrinelli Zoom 2012) e Christiane deve morire (Gaffi 2014). A lungo collaboratrice del quotidiano catanese «La Sicilia», dal 2012 scrive per «il Fatto Quotidiano». Il suo precedente lavoro, L’altro addio, è stato pubblicato da Marsilio.
Un economista è ossessionato da una donna che lo maltratta e lo abbandona di continuo, intanto osserva con il binocolo uno strano personaggio che sembra spiarlo e pedinarlo
La bellezza di questo breve romanzo risiede più di ogni altra cosa nella sua enigmaticità: cosa abbiamo letto, ci chiediamo, giunti alla parola fine? Una storia d’amore, una storia di follia, o né l’una né l’altra, bensì il dipanarsi di una metafora oscura? Restare con il dubbio, come in una stanza dalle cento porte indecisi su quale aprire, è il piacere sottile, che si mescola al disagio, che ci riservano opere come ques…continua
Lucia si definisce “una delle persone più sole sulla faccia della Terra”. Lavora come traduttrice per diverse case editrici ma un brutto incidente d’auto le ha lasciato una antipatica zoppia e quella strana sensazione di bastare a sé e di non volersi far coinvolgere dal mondo. Ancor più da quando suo marito è andato via, sostituendola con un’altra donna. Carlo è stato ‒ per una parentesi di tre anni ‒ l’uomo della sua vita, la sua famiglia, il suo grande amore. Ora davvero non le rimane più nulla. La monotonia delle sue giornate è interrotta da numerose telefonate di sconosciuti che a causa del suo numero di telefono chiamano lei erroneamente. L’ultima telefonata è di un tale Francesco, ex carabiniere appassionato di caccia, ossessivo e geloso tanto da confessare di aver ammazzato la sua compagna. Fingendosi Marta, ex dello sconosciuto, Lucia rimprovera a lui tutto quello che avrebbe voluto rimproverare al suo Carlo. Ma la curiosità, si sa, è femmina e il desiderio di saperne di più porta Lucia ad avviare una ricerca ai limiti del pericolo su questo misterioso interlocutore. Sarà davvero un assassino? Riuscirà a trovarlo o sarà lui a trovare inaspettatamente lei? E intanto, ha tra le mani i documenti da firmare per il divorzio. Chiudere un capitolo della propria vita non è affatto semplice ma può voler dire ripartire e ricominciare, a dispetto di tutto e di tutti…
Lucia non sopporta le cose fuori posto, la mancanza di pulizia e di ordine, le cose lasciate a metà. Eppure Amor è un sussurro interrotto, è la cesura a ciò che sarebbe stato e non potrà più essere, è l’ultima speranza tranciata di netto: Lucia interrompe Carlo proprio quando sta per chiamarla “amore”, per chiudere definitivamente con il passato. Ma passato e presente, in questo caleidoscopico romanzo di Eva Clesis, pseudonimo di una quarantenne scrittrice barese, sembrano mescolarsi, rincorrersi, in un gioco di specchi che tiene alta la tensione, soprattutto emotiva. Il flusso di pensieri della protagonista è interrotto da eventi che Lucia sembra subire, fino a che si risveglierà dal suo torpore esistenziale per riprendere le redini della sua vita. Con uno stile frizzante e fluido, il lungo monologo della protagonista tiene legati alle pagine, fino all’ultima parola. Eppure al lettore resta un dubbio: il mondo della protagonista, ciò che racconta, è reale o è solo frutto della sua mente? Un mondo interiore raccontato come se fosse vero, tanto da far pensare a tratti autobiografici perché, come la stessa Lucia ammette “Chi scrive deve sempre partire da qualcosa che sa per arrivare a descrivere quel che non sa”. E che non sa dove porterà.
Saper di riuscire, di essere nel firmamento, quello più platinato, perché in quello dorato ci si è approdati subito. La determinazione, la stilistica, la gentilezza, la caparbietà. Tutto questo non è vanto, ma purezza, comprensione di se stessi, rimandi ai momenti delle proprie ere, mandare al diavolo passaggi, vissuti storici, non per esorcizzarli alla maniera della scomparsa, ma per metabolizzarli in quella che Veronica Tomassini, ha definito «il mio romanzo, in toto, più siciliano». La madre di tutti i riposi indotti e itineranti, ma non letali (per molti si, però), dove quel culmine della disperazione di cioraniana memoria, svetta sull’abilità dell’accettare la vita, sino a rivoltarla, riconoscendo, senza vanità, né vanto, la propria capacità di esser-ci, proprio quello della gettatezza: il desain di Heidegger. E la crudezza, nel narrare senza finzione letteraria, un romanzo storico, sempre vivo e attuale. Questo è Mazzarrona: il ritorno, coi botti, negli scaffali libreschi di Veronica Tomassini, pubblicato per Miraggi Edizioni.
La prova d’autrice l’aveva dimostrata all’esordio, un decennio fa, con Sangue Cane, ma i riconoscimenti arrivavano solo dai lettori più attenti, non necessariamente di nicchia. Un premio, poi un altro e ancora altri: niente! Poi ancora, la Sicilia come sfondo, in quasi tutti i romanzi a seguire, ma non assoluta. Certezza dicevamo: «So di averlo il talento, potrei farcela. Una meta posso raggiungerla». A Febbraio esce ufficialmente Mazzarrona. Due giorni i media nazionali e di genere danno la notizia: “Veronica Tomassini è candidata al Premio Strega 2019”.
Il riconoscere nella propria ‘penna’, che non rimane l’oggetto che usiamo per firmare ma che è la liaison del ripercorrere l’esistenza intera di una esplosione di pensieri a decorrere dalla propria vita, dalle proprie esperienze, dall’eroina rammentata e raccontata con occhi e voce esterni da una adolescente, in uno spaccato di un quartiere, che seppur bonificato, non perde la sua essenza, per i brontosauri che «tengono affamata la bestia», perché è così che conviene… ecco che quel riconoscere a se stessi il rischio di farsi male o finire male, è meritevole di lodi, anche quando Veronica ha dichiarato di essere «forse arrabbiata, perché ho talento e so di esserci».
La ‘penna’ è tutto: è schiettezza, è il non mandarle a dire, è altre certezze: «Solo chi mi vuole davvero bene: non sbaglia a chiamarmi per cognome, Tomassini e non Tommasini», che è quell’atteggiamento nella retorica della forma linguistica, un intercalare errato che rende chiaro il concetto di disimpegno, dove tutto deve essere facile o scandalosamente equipollente, tanto hai capito a chi mi riferiscoè la classica e inutile spiegazione.
Ma cerchiamo di saperne ancora di più, un pozzo senza fine di novità e sorprese questo libro subito candidato allo Strega, che sia la rivelazione? Lo sapremo. Presto.
Mazzarrona (quartiere), i tuoi 7 anni, che male ti ha fatto?
«Nessun male intenzionale (è un luogo destinato a evocazioni grevi, pesanti), ma fu un castigo, un passaggio della mia vita che mi ha stancato moltissimo, tolto tutte le forze, eppure oggi ogni crimine, ogni distrazione, ogni volgarità è diventata nobiltà, scrittura. A diciassette anni mi sembrava di essere già vecchia, di aver visto tutto, di aver compiuto il viaggio, averlo finito tra i tossici, in un deserto siciliano. Erano assurdamente germogli, e gli adolescenti, quella vita, la campagna e l’insulto che sottace la periferia, concepita come un’istigazione preconcetta al suicidio, traducevano piuttosto la metafora dei fiori carnosi, fiori che non muoiono mai, o erano simbolicamente l’aspidistra di Orwell, capace di sopravvivere a tutto, bene male, caldo freddo».
Il tuo Mazzarrona (libro), ti ha restituito benessere grazie a quel “so di esserci, so di avere talento, so che posso farcela” che mi dichiarasti, attraverso la candidatura allo Strega?
«Sì, c’è questo riscatto, oggi, dopo tanti anni, imprevedibilmente, me lo auguro perlomeno. Il talento non è un mio merito, è un regalo di Dio, ne devo fare un uso giusto, onesto».
Tutte anteprime scaraventatasi con forza e adrenalinica violenza che scuote perché Mazzarrona che il 17 marzo finalmente sarà presentato a Catania presso la Libreria Prampolini in Via Vittorio Emanule 333, con la presentaizone dell’italianista Antonio Di Grado, doveva essere la prima anteprima nazionale, ma questioni di calamità naturale il 24 febbraio hanno costretto a rinviare il tutto) «esce ufficialmente in questi giorni di marzo, ci siamo già».
Patrizio Zurru, Fabio Mendolicchio e tutti quanti hanno lavorato e lavorano per questo libro, sono ‘energie’ che rinforzano il tuo talento?
«Se non avessi avuto un agente come Patrizio Zurru non sarei andata da nessuna parte, vale lo stesso per Fabio e il gruppo di Miraggi edizioni. Deve essere un lavoro di squadra, lo è stato difatti».
Lo continuerà ad essere per questa filantropica autrice che nella crudezza del suo romanzo, ha dato incipit per riprendersi ciò che si perde, o ciò che mai abbiamo pensato potessimo avere nostro.
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