L’ispettore Malatesta lascia spazio a uno scrittore senza nome che osserva l’Ippodromo… e lo stadio Mazza
Torna in libreria lo scrittore ferrarese Lorenzo Mazzoni con un nuovo romanzo, In un cielo di stelle rotte (Miraggi Edizioni). Si tratta di un lavoro molto più articolato rispetto alla saga che lo ha reso celebre nell’universo dell’editoria indipendente (quella dell’ispettore Pietro Malatesta) e ai già calidoscopici Quando le chitarre facevano l’amore e Il Muggito di Sarajevo, ma anche in questo testo Ferrara, e i suoi riti, entrano prepotentemente tra le righe e fanno da collante a una struttura che richiama ai lavori non lineari di John Dos Passos, Antonio Muñoz Molina e Paco Ignacio Taibo II.
La voce narrante è uno scrittore senza nome seduto sul balcone della sua vecchia casa di Ferrara, a osservare l’Ippodromo, gli orti e i voli circolari dei piccioni, alle prese con gli appunti di storie che non ha mai pubblicato.
Attraverso libri, canzoni e ricordi cerca di comporre innumerevoli tessere in un mosaico unitario, utilizzando i mondiali di calcio come innesco narrativo. Il risultato è la ricostruzione di un lungo periodo storico attraverso racconti tangenti, intersecanti o paralleli alle varie edizioni della competizione internazionale.
Non si tratta di un “romanzo sportivo”, tutt’altro, nel mosaico di Mazzoni trovano posto un anarchico a Montevideo, le tigri di Mompracem, riti voodoo a Tresigallo durante il periodo Littorio, un vecchio ubriacone in un bar di Rio che spiega cos’è il dolore a una prostituta mulatta, l’isola caraibica di Saint-Barthélemy e rapporti sessuali estremi, l’Lsd, la Corea del Nord e la psichedelia proletaria, la guerra del Vietnam e la controcultura, la Ddr, i desaparecidos, la guerra delle Falkland, i Nar, Le fiabe di Antonio Gramsci, la Colombia di Escobar, l’Iran, l’attrice porno Karen Lancaume, Nizza, l’Angola, Bucarest, Aruba, New York, Keith Moon, i Beatles…
Senza dubbio un lavoro intenso e capace di portare il lettore in varie epoche e continenti, dove l’esplorazione dei confini e i ritratti degli emarginati della Storia si susseguono cadenzati da canzoni, colori, accadimenti minori dell’ultimo secolo.
Un romanzo che si può leggere anche come un manifesto del pensiero dell’autore, della sua idea di narrativa, una spiegazione personale su come nascano le storie, un tributo allo stile dei suoi eroi letterari e non solo. Un viaggio emotivo all’ombra del Paolo Mazza, in una Ferrara in rotta tra Lewisham e Amsterdam.
Il buon scrivere può ancora in qualche modo sorprenderci, se solo lo lasciassimo succedere! Ma possono sorprenderci anche le testimonianze dirette, quelle in cui si dicono parole. Non è il caso di opporre resistenza alle belle parole. Per questo, bisogna sempre seguire il consiglio di leggere cose belle e ascoltare parole importanti. Mercoledì 10 aprile ai Diari è accaduto di ospitare un evento di caratura internazionale con la presentazione del libro “La corsa indiana”, esordio nel 1990 di Tereza Boučková,tradotto in Germania, Olanda e Ungheria e per la prima volta in Italia da Miraggi edizioni nella Collana Novàvlna.
Una testimonianza forte, intensa anche se la lingua era il ceco. Con due occhi luminosi come laghetti e un sorriso costante, fermo questa donna, dissidente e figlia di dissidenti, anche quando il racconto diventava duro e di forte emotività ha toccato il cuore di tutti noi. Si parlava di padri assenti, grandi letterati, grandi politici, grandi ideali. Si parlava di occupazione e carri armati. Di sogni di libertà stroncati. Di figli persi nella droga e nella Libertà. Quella testimonianza di vita spezzava le vene delle mani, in un silenzio irreale, che neanche i colpi di tosse miei e di Laura Angeloni andavano a intaccare. Il nostro angolo di cultura, succede sempre più spesso, che schiude in queste circostanze orizzonti, aggancia ricordi, richiama eventi. Dovevamo presentare un libro, “La Corsa Indiana”, e invece tutti si sono ritrovati con gli occhi gonfi di lacrime e il cuore che batteva forte.
Con l’autrice la sua sua voce italiana Laura Angeloni, molto conosciuta tra i nostri lettori per aver tradotto precedentemente un altro libro parecchio apprezzato, “Il lago” di Bianca Bellová, sempre della stessa Collana di Miraggi, NovàVlna. Si tratta di nuova collana italiana di letteratura ceca che prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca degli anni della Primavera di Praga.In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali. Questo carattere di “nouvelle vague permanente” è disseminato in tutta la sua storia: alle opere di nuovi autori si affiancheranno in un progetto organico recuperi di testi preziosi ingiustamente dimenticati e altri incredibilmente mai giunti al pubblico italiano.
“La Corsa Indiana” è un romanzo breve o racconto lungo come più ci aggrada chiamarlo, fu pubblicato per la prima volta nel 1988 in un’edizione samizdat e vinse nel 1990 il prestigioso premio letterario Jiří Orten.
Narrata in prima persona è una prosa vivace, originale e riccamente autobiografica che segue la vita della protagonista dalla nascita fino all’età adulta. Quando l’autrice è la figlia di Pavel Kohout, noto intellettuale dissidente, scrittore e drammaturgo, attivo nel circolo delle persone più in vista dell’underground di quegli anni, una storia autobiografica non è esattamente quel che si dice innocua, specialmente se la narrazione si attiene ai fatti accaduti non risparmiando le personalità più note (nel racconto compare, col soprannome di Monologo, anche l’ex presidente Vaclav Havel che la Boučková ha avuto modo di conoscere da vicino), pur celandole sotto ironici soprannomi. Una scrittura catartica che ripercorre l’infanzia vissuta con la madre Alfa e i due fratelli Luna e Raggio di Sole, dopo che il padre, qui chiamato l’Indiano, li abbandonò per trasferirsi all’estero con Musa, la sua nuova donna, dimostrando verso di loro un disinteresse quasi assoluto. E poi la giovinezza, gli amori e le difficoltà della madre Alfa, il matrimonio, la ricerca disperata di un figlio. Infine l’adozione di due bambini, le gioie e difficoltà della nuova vita, e finalmente, inaspettato, un ventre che germoglia. “Il tuo libro è pieno di rabbia e bugie. Mi auguro che non lo pubblicherai così. Ecco l’Indiano, che dopo dodici anni è tornato a casa”. Ma Tereza Boučková il suo libro lo pubblicò. Esattamente come l’aveva scritto.
Brevi note su L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien di Enrico Pastore.
Libro chiama libro. Vien da pensare a Ernst Bloch, al suo Lo spirito dell’utopia, a una idea di arte (e in particolar modo di musica) che non realizza l’utopia, ma la preannuncia: la musica, per Bloch, è forma che prelude all’espressione, lingua non ancora formata, «balbettio di bimbo» che tende alla condizione di linguaggio.
Libro chiama libro. Come non ricordare la raccolta poetica di Andrea Zanzotto, La beltà? Siamo nel 1968, a far rivoluzioni dentro e attraverso la lingua. Parola come istanza di liberazione dalla repressione e dalla scontata omogeneità dell’idioma ufficiale, alla ricerca del dire primordiale: il balbettio del petèl è l’incarnazione linguistica del desiderio.
Libro chiama libro. Desiderio e morte si agitano nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, nell’incessante lavorìo volto a identificare le manifestazioni (la “scienza di ciò che appare”: fenomenologia, appunto) attraverso le quali lo spirito si innalza dalle forme più semplici di conoscenza a quelle più generali.
Si potrebbe a lungo continuare, tanto è feconda di stimoli e sviluppi rizomatici quest’opera minuscola e monumentale di Enrico Pastore, intellettuale piemontese che con rigorosa attitudine da «storico immediato del reale» racconta la vicenda del «ghetto modello» di Terezín attraverso la lente de L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, «una di quelle rare opere che hanno il potere di portare alla luce un frammento di verità abbagliante», come lo stesso autore annuncia in Premessa (p. 7).
Il libro di Pastore parla di Terezín, «il ghetto modello voluto da Eichmann per ingannare il mondo» (p.9), e lo si fa con solida attitudine scientifica, affondando con precisione analitica nel «campo nelle menzogne», nelle biografie degli autori, nelle paradossali condizioni produttive, per poi analizzare da molteplici punti di vista l’opera e riportarne, infine, il libretto.
Vien da pensare a Foucault, alla sua Archeologia del sapere, a un’idea e una prassi di cultura che mette al centro le conoscenze imperfette, le lingue fluttuanti.
Il grande merito di questo saggio, si può forse sintetizzare, è quello di aprire una quantità di fonde domande sull’oggi e sul nostro essere attraversati dal (e costituiti di) linguaggio, mediante il rigoroso affondo in una vicenda storica e dunque, a rigore, affatto altra da noi.
Come non istituire un feroce parallelo tra «l’illusione messa in scena per raggirare il mondo» (p. 17) e la manipolazione della quale tutti oggi siamo oggetto nella «società dello spettacolo» (Debord docet), anche se con mezzi più suadenti e sottili?
Come non accorgersi che i modi di reagire all’infida, bipolare, sbandierata opportunità di praticare le arti nel Campo di Concentramento Theresienstadt, tra coloro che «dimenticarono il ghetto e si gettarono nell’attività artistica come se si trovassero sui palcoscenici di Praga o Berlino prima dell’avvento del nazismo» (p.17) e quelli che «continuarono a utilizzare l’arte come forma di diniego e resistenza all’orrore nazista a rischio della propria incolumità» (ibidem), rispecchia esattamente le analoghe, opposte attitudini degli uomini e delle donne di scena d’oggi?
«Gli strumenti musicali furono da principio vietati e il loro solo possesso passibile di pena capitale» si legge a p. 56 «Solo in un secondo momento, quando i nazisti realizzarono di poter sfruttare le attività spettacolari per i loro fini di propaganda essi furono resi disponibili, anche se spesso erano di cattiva, se non pessima, qualità»: come non pensare alle dinamiche familistiche, se non di smaccata convenienza, che regolano le scelte di coloro i quali, nelle odierne posizioni di potere, hanno la possibilità di decretare la (s)fortuna, se non addirittura la sopravvivenza, di questo o quel soggetto artistico?
Detto altrimenti: questo affondo su L’imperatore di Atlantide dà la possibilità di «rovesciare il piano estetico della composizione e dell’esecuzione su quello etico», come efficacemente sintetizza Marida Rizzuti nella densa Guida all’ascolto (p. 120).
Un libro che ci sentiamo di consigliare con calore a tutti: per conoscere meglio una vicenda non abbastanza nota e, attraverso di essa, porsi molteplici, salutari domande sul nostro sghembo, smemorato presente.
Chapeau.
MICHELE PASCARELLA
Enrico Pastore, L’imperatore di Atlantide di Viktor Ullmann e Petr Kien, Miraggi edizioni, Torino, 2019, 208 pagine, € 18
Ce la doveva raccontare lei la verità sull’amore, Kants Exhibition (pseudonimo di Giulia Usala), ragazza nata nel 1993 con tanti problemi quante sono le scuole che ha cambiato tra un’anoressia e un attacco di autolesionismo. Lei, che scrive sbronza di lacrime e vino e chissà cosa ancora. Il suo Amore, cinismo e technicolor (Miraggi Edizioni, 2019, pp. 144, € 13), illustrato da Ombretta Tavano, classe 1998, ha la sincerità che ruba le nostre parole. Quelle che teniamo segrete e che non fingono. Che ci incidono la gola e spostano il cuore a destra. “Io lo sento a destra”, dice, “sento il cuore che palpita a destra del mio corpo, talmente strattonato che ha cambiato posizione.”
Ammesso che se ne sappia qualcosa dell’amore, perché tanti, figuriamoci. Sono troppo impegnati a fare i loro conti e a guardarsi allo specchio. Come il protagonista di questa invocazione piena di languore, l’innamorato che ha lasciato l’autrice senza nemmeno più il tempo e lo spazio. “Avessi soldi mi comprerei una stazione per sapere da dove partire.”
Ma l’aveva mai davvero stretta a sé?
“Investitemi vi prego perché vorrei sentire meno dolore.”
E lui chi è? Un pazzo? Uno perso nelle convulsioni del proprio egocentrismo? Questa entità che riesce a essere indifferente e perciò superiore all’amore, alla meraviglia sovrumana dell’amore – possibile che sia tanto forte?
Ecco, lui appare così immenso da indurre lei ad amarlo il doppio, il triplo, ad amarlo di rabbia e struggimento. Struggimento e abbandono, che la porta fino a uscire da sé e trasformare il proprio parlare in preghiera. E come ogni preghiera questo libro affonda dentro il grido che c’è dentro di noi. Dentro. Dentro. Con il suo lirismo. “Facciamo che io ero una stella che si suicida nel cielo, facciamo che io sono una stella cometa.” Con la sua precisione ben più che scientifica. “Fa sorridere gli angoli della bocca pensare che mi dicevi di proteggermi.”
Ci trascina verso l’alto di ciò che non è stato e non sarà mai, verso il nostro mai che nell’alto più alto somiglia a un sempre, questa preghiera piena delle nostre parole e del silenzio che ci fa ‘impietrare’ quando le parole non hanno nessun senso. Quando la voglia di baci diventa solo una contrazione di un nervo facciale e una scarica di battiti sbagliati del cuore.
“Ho paura di scrivere perché se vuoi puoi dirla la realtà, la verità. Te la faccio semplice, scrivo per non scriverti.”
E tanta altra verità scopriamo di pagina in pagina, mentre Spotify fa scorrere la colonna sonora della creazione del mondo. E c’è uno che è moltissimi che non ascolta.
Già da un po’ in edicola il nuovo numero di Rumore che sfoggia un elegante bianco/nero di copertina con un’immagine senza fronzoli dei Bad Religion. Il mio l’ho fatto recensendo tre album stranieri piuttosto interessanti, l’esordio dei canadesi Corner Boys e i nuovi di Ausmuteants e Mattiel. Ho scritto anche della ristampa del primo e finora unico album delle australiane BLANK STATEMENTS e dei nuovi album degli italiani Jesus Franco & The Drogas e Tony Borlotti e i suoi Flauers. Sul podio del boxino “Weird RnR” c’è finito il piccolo-grande esordio dei trentini GOOFY AND THE GOOFERS di Marcello, Edoardo e Seba Omezzolli, poi GONZO, Model Zero, NEGATIVE GEARS e LOS INFARTOS che tengono alta la bandiera del garage r’n’r teramano. A sventolare con energia la bandiera del r’n’r stortarello della mia città anche Marianna D’ama che ha messo fuori un buon singolo assieme al fido collaboratore, gran musicista e gentiluomo Davide Grotta: del 7″ in vinile trasparente ho scritto due parole nello spazio “Singolare” dove altre due parole le ho scritte pure per i 7″ di Cave Curse e Vintage Crop.
Infine 1.100 battute di numero sul nuovo libro del professore-ultras Domenico Mungo “Il suono di Torino – Racconti urbani con colonna sonora punk” Miraggi Edizioni.
Lotta di classe, detriti post industriali, risorse umane che non sono più uomini, pulizie etniche olimpioniche, stragi (dal Cinema Statuto alla ThyssenKrupp), morti bianche, squatterismo e slanci d’insurrezione e lotta.Creatività collettiva antagonista, avanguardie alternative, sabotatori di un io che si fa noi nella Torino di ieri e di oggi. È un gioco di specchi non riflessi. Sfruttati e sfruttatori, alta borghesia e sottoproletariato, movimenti anarchici e torbide trame di Stato, Che Guevara e Pulici, sì Tav e no Tav, cultura alta e sottocultura di strada, CSOA e architettura monumentale, Nerorgasmo e Italo Calvino.Un libro impegnativo da leggere e, immagino, da scrivere.Mungo slitta tra alto e basso, scavando nella storia sociale e nella narrativafamiliare, come nel toccante“Un’auto targata TO” che prende il nome dal pezzo di Dalla/Roversi.La scritturaè urgente, rumorosa, al contempo ridondante, massimalista, a tratti visionaria,figlia dell’individualismo del punk e del collettivismo di movimento.Assai belle le (poche ma buone) illustrazioni neorealiste di Fabrizio Visone.
Nel momento in cui si ritorna a parlare di realismo in letteratura, è il caso di domandarsi: ma che cos’è il realismo? Il libro di Riccardo De Gennaro, La realtà pura (edito dalla casa editrice Miraggi di Torino) offre una prova convincente del fatto che la realtà non è affatto realistica: non soltanto perché il mondo interiore – fatto di sogni e incubi e impossibili aneliti – travalica di continuo quello esterno, ma perché il raggiungimento della “realtà pura” è tutt’uno con il conseguimento di una consapevolezza leopardiana circa “l’infinita vanità del tutto”.
È quanto si ricava dal racconto lungo di De Gennaro – il contrario di quelle scritture che presto si dimenticano a causa della loro facile fruibilità: piuttosto un preparato, composto in prima persona, teso a bruciare a lungo nella mente del lettore dopo averlo tenuto in uno stato di sospensione durante poco più di cento pagine. C’è anzitutto l’incipit che introduce all’infelicità costitutiva dell’esperienza amorosa (“Uno, attendere; due, desiderare; tre, ricordare. L’amore è questo, mi diceva…”), poi un finale a sorpresa in cui l’io narrante si scopre folle almeno quanto l’oggetto del suo desiderio. La tonalità emotiva del racconto è un po’ da anni sessanta del Novecento, la stessa analizzata da Ottiero Ottieri nel suo libro probabilmente migliore, L’irrealtà quotidiana. Se qui, tuttavia, l’alienazione e il sentimento di “derealizzazione” erano il portato di uno sviluppo tecnico-industriale troppo rapido per non generare dei gravi riflessi nevrotici, il senso di spaesamento prodotto dal testo di De Gennaro è più profondo perché privo di connotazione sociologica. C’è sì l’attricetta di cui s’innamora il professore – ma si tratta di un topos letterario e cinematografico più che di una precisa ricostruzione di ambiente. La “realtà pura” altro non è che l’ipercoscienza del suo totale vuoto. “È la solitudine che muove le cose”: questa la desolata conclusione dell’io narrante. Non l’amore o il desiderio, certamente neppure ciò che siamo soliti chiamare “società”, ma soltanto i prolungamenti di tutto ciò in una specie di lucida semovente follia.
La trama – al netto della rivelazione finale – si lascerebbe riassumere come la storia dei rapporti di un uomo già quasi anziano, afflitto da una “normale” condizione masochistica, con una giovane donna pazza che gli si nega e un po’ lo tiranneggia. Ma già l’alternanza, nello scorrere dei brevi capitoli, tra questa vicenda amorosa e la situazione dell’io narrante, perseguitato da una misteriosa organizzazione che sembra spiarlo e tenerlo sotto controllo, serve a mettere sull’avviso il lettore: non è affatto erotico il racconto di De Gennaro, l’autore tratta, con il vuoto pneumatico indotto dalla “realtà pura”, di quel vero e proprio sradicamento dall’intero mondo circostante creato da un’esperienza di dissidio e “lotta dei sessi” (per usare un’espressione primonovecentesca).
Il professore di De Gennaro, a differenza del professor Unrat di Heinrich Mann (portato a imperitura fama dal film L’angelo azzurro di von Sternberg con Marlene Dietrich), fa la prima conoscenza del suo oggetto del desiderio non in un tabarin, luogo di perdizione, ma nel corso di una conferenza, cioè in uno dei tanti incontri di cui si compone la vita del mondo intellettuale. Questo mondo però scompare subito dopo – e ci sono soltanto i due con la loro contesa senza fine. È una vita malata, improntata a una rarefatta superfluità, quella del personaggio maschile di questo libro, in un certo senso tardo epigono dell’“uomo inutile” della letteratura russa dell’Ottocento. Se il personaggio femminile finisce con l’essere la pura proiezione mentale di questa stessa “inutilità”, ciò è la dichiarazione di un’impossibilità del desiderio in generale, che genera da sé il fantasma, e in cui lo svolgersi di una qualsiasi analisi circa la scarsa consistenza della vita intellettuale nel mondo contemporaneo sarebbe fuori posto. Restano infatti come un fondale mancante tutti i significati a cui dovrebbe rinviare la realtà sociale che circonda il rapporto tra i due: è la scelta di un registro narrativo che si limita ad alludere al loro carattere tuttavia presente e incombente, magari nella forma di un disciplinamento psichiatrico, facendo dei personaggi del racconto quasi dei modellini chiusi in una bottiglia.
[Immagine: Gregory Crewdson, Untitled (Girl in Window), particolare].
Quando si parla di cifra narrativa a proposito di uno scrittore, non si intende solo la peculiarità di uno stile che lo distingue da tutti gli altri. La cifra, letteralmente, è una sorta di scrittura riassunta, fatta di iniziali affiancate o intrecciate del nome e cognome, un monogramma che sostituisce la firma, un sigillo che comprova l’appartenenza e la riconoscibilità. Il grottesco, la ferocia, il nonsense, una sorta di suspense apparente, una caustica ironia sono la cifra di Eva Clesis e nonostante la (quasi) certezza di ritrovarli in ogni sua opera, c’è sempre la curiosità di scoprire quale sarà il nervo scoperto al quale avrà mirato con questo o con quell’altro scritto. E quanto sanguinerai, soffrirai, piangerai leggendo… ma piangere di gioia, perché alla fine trovare qualcuno capace di dare voce a quello che senti dentro, qualcuno che ha trovato le parole che tu avevi perso, liberandole dalla prigionia del pudore, del dolore, e che te le restituisce intatte, crudeli ma necessarie, è un dono che solo i grandi scrittori possono fare e che solo la letteratura può suggellare.
Questa premessa, prima di parlarvi di Amor (Miraggi Edizioni) mi è parsa da un lato doverosa per spiegare la mia affinità elettiva con questa autrice da quando – poco a dire il vero – l’ho scoperta (un annetto fa circa), dall’altro difficile perché la chimica che ho sviluppato con la Clesisè una forma di amor(e) indefinibile come tutti i sentimenti astratti per natura ma non per sostanza.
Ma veniamo ad Amor. Lucia, scrittrice e traduttrice, è sopravvissuta per miracolo a un incidente stradale che l’ha lasciata, tuttavia, con una gamba “guasta”. Zoppa e piena di cicatrici, deve affrontare anche la separazione non voluta dal marito Carlo, scoperto mano nella mano di un’altra poco prima dell’incidente. Sola, nel suo monolocale (o monoloculo) in zona Prati, a Roma, vive aggrappata alle sue manie, idiosincrasie, ossessioni, compulsioni, inclusa quella di attaccar bottone con gli sconosciuti che puntualmente sbagliano numero e la chiamano per sbaglio. È così che inciampa in Francesco, che invece pensava di aver telefonato a Marta, l’amore della sua vita. Tipo strano Francesco: parla per oltre un’ora con una sconosciuta scambiandola per la ragazza di cui è innamorato senza nemmeno accorgersene; millanta (o racconta) fantasie criminali; vuole riconquistare la sua ex ma non rinuncia agli stereotipi del maschio dominatore. Chi è davvero Francesco? Cosa farà quando si accorgerà di aver confessato l’inconfessabile a una perfetta estranea? E intanto, in una parossistica giornata di marzo, Lucia deve fare i conti anche col passato, con Carlo, con sé stessa, col suo lavoro, e con tutti gli altri demoni che nessuna pulizia, per maniacale che sia, riuscirà mai a lavare via da sé.
Bizzarro, paradossale, flirta con il nonsense, il thriller, il romanzo d’amore e quello di introspezione senza tradire nessuno, mantenendo integra la personalità (la cifra di cui sopra, appunto), lo spirito, e anche la carne, metaforicamente parlando. Sarà che Eva Clesis sa come usare le parole, e sa quando e quante usarne (cosa non scontata per uno scrittore) misurandone la precisione lessicale al microgrammo. Sarà che Amor è come una pallottola in cerca del suo bersaglio e quando lo trova, colpisce dritto al cuore. O da qualche altra parte. Fatto sta che è impossibile sfuggirgli. Sfuggire alle atmosfere angoscianti che tanto ricordano Il terrore corre sul filo, film di Anatol Litvack del 1948 con Barbara Stanwyck e Burt Lancaster tratto dal dramma radiofonico Sorry, wrong numberdi Lucille Fletcher, e quindi alla trepidazione e alle emozioni anche violenti. E a qualche sorriso sardonico e compiaciuto. «Ogni tanto metterci la verità». E la verità è che la vita è assurda, più della trama di un romanzo. L’arte sarà pure mimesi del reale. Ma il reale può raggiungere livelli di fantasia tali da negare alla finzione ogni possibile imitazione.
«Ma adesso un romanzo che parla di sogni o riflessioni non farebbero pubblicare, posto che tu sia in grado di scriverne uno. Adesso le case editrici cercano l’azione, chi mostra senza dire, chi inscena senza descrivere, chi imita il cinema, l’arena, lo spot o il salotto tv, e il redattore come tua nonna col punto croce ti impartisce lezioni su come dovresti fare un intreccio, per cui non è vero che è morto il romanzo, ma che intanto lo scrittore si impicca»
Che poi è anche un po’ il sugo della storia: sotto il livello della trama, Amor della Clesis è una rappresentazione, a tratti spietata, di certi aspetti del mondo editoriale. E anche questo è surreale, o per meglio dire meta-reale. Più di ogni altra cosa, però, Amorè un romanzo impossibile da lasciare e duro da sostituire: nella sua brevità esperisce tutto quanto un lettore può cercare.
A questo punto, ogni buon blogger che si rispetti scriverebbe: «ve lo consiglio!». Ma se non sono riuscita fin qui a convincervi vuol dire che non sono una brava blogger e allora cosa vi consiglio a fare?
Se Pinocchio filtra con David Lynch, tra le campagne di una Twin Peaks padana. “Pontescuro”: novellistica gotica e allegoria nel capolavoro di Luca Ragagnin
«Nello spiazzo angusto, creato dalle case di Paolo di Ca’ Bassa e da quella di Giorgione, smangiate e polverose una di fronte all’altra come due duellanti senz’arme e stanchi, si formò un capannello di gente intimorita. Un consesso di malati con i demoni nascosti sottopelle, disposti in semicerchio per potersi guardare tutti negli occhi e legarsi con l’incrocio degli sguardi a una fitta rete di salvataggio, ecco a cosa assomigliavano ora. Erano ombre malvestite, in via di disfacimento, e diventavano, con il sole ormai issato nel vuoto, impietoso nella messa a fuoco del turbamento, esseri capovolti: l’umanità avuta in dote si rovesciava nelle viscere e il demone personale si arrampicava fuori dal buio, distendendosi sui lineamenti».
Ogni romanzo ha un difetto. Quello di “Pontescuro”, di Luca Ragagnin, è di non essere riuscito a “bucare lo schermo” come avrebbe meritato: dozzina dello Strega sfiorata, per esempio, un passaparola tra i lettori che non fa il paio con l’esaltazione della critica “mainstream”, troppo impegnata forse, be’, con il “mainstream”.
Sta a noi, allora, a chi ha avuto la fortuna di incappare in questo libro e di amarlo, ai lettori, agli scrittori agli addetti ai lavori che dalla prima pagina si sono sentiti magicamente proiettati in un posto nuovo e diverso dal solito, spetta a noi parlarne, sta a noi renderlo un romanzo “chiacchierato”.
Romanzo ambiziosissimo, breve, inatteso. In una parola: “strano”, un’ibridazione incestuosa tra una certa tradizione popolare italiana, da Collodi e Rodari, e quella americana più “weird” (sarò pazzo, ma vi ho trovato dei punti di contatto con Twin Peaks di David Lynch, soprattutto per come il Male viene rappresentato in senso metafisico).
Novellistica gotica e allegoria: geniale. Il tono è favolistico, da “c’era una volta”: le voci narranti sono svariate, romanticissime (la nebbia, un cadavere, una ghiandaia, delle barche): ogni capitolo, soprattutto all’inizio, porta la voce di un personaggio diverso. Ambientazione: 1922, l’anno della marcia su Roma.
Siamo nella Bassa padana, nel villaggio di Pontescuro e c‘è un delitto. A morire è la scandalosa e provocante figlia del signorotto locale, una meravigliosa “Bocca di Rosa” che a un certo punto, già da morta, parla così dei propri “carnefici”: «Dopo pochi mesi il paese incominciò a disprezzarmi dritto negli occhi. E forse, se fossero stati almeno un poco intelligenti, tutti avrebbero capito dall’unico sorriso ebete, che ogni giorno cambiava volto ma non caratteristiche, chi era stato l’ultimo a slacciarsi la cinghia». C’è un colpevole e un capro espiatorio, ma c’è tutto l’orrore proprio della provincia, l’omertà, il sesso, la superstizione. C’è pure un ispettore, che a un certo punto arriva da Roma, tuttavia senza che con lui arrivi anche una vera e propria indagine. La scrittura è superba, forse la prova apicale di uno scrittore con una lunghissima carriera alle spalle.
Si sente forte la “carriera” di Ragagnin, la sua cultura, l’erudizione, le infinite letture, lo spasmodico rapporto carnale con altre forme espressive come la poesia, la musica.
“Pontescuro”, senza strizzare l’occhio a niente e a nessuno (tantomeno alle mode) riesce a essere sia ipercontemporaneo, per i motivi già addotti, sia già un piccolo classico, soprattutto per ragioni di lingua, di lessico e di forma.
La realtà pura dell’omonimo romanzo di Riccardo de Gennaro (Miraggi edizioni, pp. 125, euro 12) è una stanza completamente bianca, inondata di una luce abbacinante, nella quale il protagonista Carlo Gozzini, un economista dai ragionamenti molto razionali, viene a trovarsi in un finale che ribalta il punto di vista sul quale è costruito il libro.
È IL PUNTO D’ARRIVO di una storia che si costruisce tutta attraverso il filtro della finestra di un’abitazione affacciata sul Tevere capitolino, attraverso la quale si snoda una spy story tutta immaginaria, fatta di pedinamenti e controlli ad opera di un’Organizzazione misteriosa che ha sede in una fantomatica «Casa al di là del fiume» che vuole impedirgli l’amore per una donna di vent’anni più giovane, attrice di bella presenza ma senza talento.
Il romanzo è la storia di un amore impossibile, il racconto lucido di un’ossessione che sfocia nel delirio, dove il protagonista arriva a determinare ogni situazione attraverso il suo immaginario, finendo per ritrovarsi invischiato in una prigione mentale simboleggiata dalla casa sul Tevere dalla quale osserva il mondo così come crede di vederlo.
Gozzini, in un gioco di proiezioni estreme, ne attribuisce la costruzione all’Organizzazione, si mette in testa che Blandine – questo il nome della ragazza oggetto dei suoi turbamenti – è stata ricoverata in una clinica psichiatrica, arrivando ad attribuire a lei, che non corrisponde ai suoi sentimenti, i propri disturbi mentali. Il protagonista del romanzo, che ricorda il Joseph K. de Il processo di Kafka, in un disperato tentativo di razionalizzare il proprio malessere interiore, finisce per costruirsi un mondo immaginario che dà forma al suo stato mentale.
DE GENNARO – firma nota ai lettori di Alias domenica e del manifesto, autore di una biografia dello scrittore Lucio Mastronardi (La rivolta impossibile, uscita per Ediesse) e fondatore del trimestrale Il Reportage – costruisce un congegno narrativo che non è altro che una metafora dell’impedimento, di quelle forze interne che bloccano ogni spinta a realizzare i propri desideri e, in fin dei conti, ci impediscono di trasformarci in quello che vogliamo essere.
“Il futuro è sempre incerto. Nessuno sa che cosa ci aspetta o ci toccherà, l’unica certezza che abbiamo nella vita, è la morte”
Karel Kopfrkingl, il protagonista creato da Fuks nel 1962 nel grottesco e quasi surreale libro Il bruciacadaveri, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1972, e oggi con una nuova traduzione a cura di Alessandro De Vito, per Miraggi Edizioni, è semplicemente geniale!
Fuks ha racchiuso nel morigerato e premuroso padre di famiglia e marito amorevole – al limite dello stucchevole – tutta l’atrocità e la contraddizione di uno dei periodi più abietti della storia: la follia delle persecuzioni naziste.
Praga 1938-39, Kopfrkingl è impiegato nel crematorio comunale, il suo Tempio della Morte, ama il suo lavoro a tal punto da giudicarlo un aiuto necessario a Dio per estirpare il male definitivamente, e far tornare in polvere, ciò che il Creatore ha disposto. Ma Karel, come dicevo, è anche un marito presente e innamorato della sua celeste moglie dai capelli neri (un particolare che spesso ritorna nelle sue affermazioni). Ossessivo, logorroico, abitudinario e maniacale, in cerca della perfezione estetica, ama adornare casa con ninnoli (di dubbio gusto), passeggiare con la famiglia, e recarsi spesso da un dottore, suo vicino di casa, specializzato in “malattie veneree”. Ma nell’epoca dei grandi movimenti nazisti per ristabilire e ripulire la razza ariana, Roman/Karel, si lascia soggiogare dalle idee nazionalsocialiste tanto da prendere in considerazione il divorzio da Lakmè/Marie, di origini ebraiche. La sua goccia di sangue tedesco ribolle, mostrando un angelo nero, che armato di cappio, ucciderà la sua celestiale moglie, mentre risuona la grande aria di Lucia.
“Quando Lakmé salì sulla sedia, il signor Kopfrkingl le accarezzò il polpaccio, le gettò il cappio al collo e con un tenero sorriso le disse:
« E se ti impiccassi, cara? »
Lei gli sorrise dall’alto, forse non aveva capito bene le sue parole, anche lui sorrise, calciò via la sedia ed ecco fatto.”
L’atto criminoso di Karel completa la trasformazione, il nazista che è dentro di lui implode, la follia ha raggiunto l’apoteosi riservando un destino crudele al resto della famiglia.
Fuks ha rappresentato il male in tutto il suo orrore, ha creato un personaggio vestito da uomo perbene, zuccheroso oltremodo ridondante, che si lascia accarezzare dal diavolo (Willie Reinke) persuaso dalle ideologie di purificazione, (in seguito con la creazione delle camere a gas) calandosi, ad esempio, nei panni di un mendicante per spiare i nemici ebrei, inculcato dal suo serpente tentatore.
Sottilmente, Fuks sparge tanti piccoli particolari che riportano al periodo nazista, persino i solenni rituali di Karel, come leggere sempre lo stesso libro sul Tibet, per poi sfociare nella pazzia; anche l’ossessione della stanza da bagno, l’arredamento…
…e ancora, i nomi non hanno valore, la simbologia degli animali, dei capelli neri delle donne tutto meticolosamente orchestrato per dar vita alla morte, una macabra pantomima che porta in scena la ferocia di un leopardo e la subdola destrezza di un serpente, il tutto scandito dall’orario di viaggio della morte.
“La morte libera l’uomo dal dolore e dalla sofferenza”
Il bruciacadaveri non risponde a nessuna domanda, anzi ne pone come tanti capolavori letterari. Inquietante e stupefacente!
Ladislav Fuks è stato uno dei più noti e rappresentativi scrittori cechi del Novecento (Praga 1923 – 1994). La nuova traduzione è affidata ad Alessandro de Vito, mentre la
Josef Čapek appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka. È morto da poeta e da combattente antifascista e antinazista in un lager. Durante la sua detenzione nel campo di concentramento scrisse poesie.
Questi versi rappresentano una testimonianza e un paradosso. Il poeta – intellettuale – prigioniero scrive dal terribile baratro dell’universo concentrazionario con l’intenzione di scavare nell’impossibilità della parola e allo stesso tempo è vigile e presente davanti al terrore dei suoi aguzzini.
L’editore Miraggi pubblica una scelta delle poesie dello scrittore boemo. Poesie dal campo di concentramento (traduzione di Lara Fortunato) è un viaggio nel calvario di un uomo privato della sua libertà. La poesia di Čapeck affonda i suoi artigli nella rappresentazione più feroce che il male ha raggiunto nel secolo breve.
Dall’inferno del campo di concentramento il poeta scrive del baratro senza fine, perde il sonno per scrivere poesie come tracce di bene davanti all’orrore del sangue.
La poesia per Čapek è l’unica istanza di verità. Nella poesia la parola rimane viva e sveglia. È proprio grazie alla sua lucidità che il poeta è in grado nei suoi versi di catturare nell’essenzialità l’inferno mortale del campo di concentramento.
«A tratti i componimenti – scrive Laura Fortunato nella prefazione – si fanno cronache condensate dello sterminio in atto, riuscendo a ignorare del tutto la miseria degli aguzzini, per porre invece al centro la condizione dei prigionieri».
Josef Čapek prese apertamente posizione contro l’avanzata del nazismo, nel 1939 fu arrestato e deportato in un campo di concentramento.
Qui scelse la poesia per cantare la disgrazia, il lutto e il dolore dei giorni infernali trascorsi nell’orrore terribile del campo di concentramento dove «le cose umane si sgretolano» e l’angelo della morte arriva in volo per oscurare con le ali il palpito della vita.
Nel campo di concentramento, dove il nulla fiorisce e gli uccelli non cantano e primavera e inverno sono una catena di giorni di pena continua e tristezza, Josef Čapek scrive poesie chiedendo alla parola di donargli tutto il suo impeto per descrivere dal vivo e nel vero tutto il turbamento dell’orrore.
Il 25 febbraio del 1945 Čapek venne trasportato nel campo di concentramento di Bergen –Belsen, dove morì qualche mese dopo.
Consapevole di andare incontro alla morte scrisse la sua ultima struggente poesia.
Si congedò dal mondo con Prima del grande viaggio:
«Difficili momenti, giorni difficili / non vi è scelta, decisione, / ultimi giorni scuri, / siete giorni di vita o di morte? / Indietro alla vita o nelle fauci della morte / – cosa vi sarà alla fine del viaggio? / A migliaia vanno, non sei solo… / Avrai, non avrai fortuna? / Sorto è il giorno del grande viaggio / – da tempo vi sei preparato: / messe di vita o di morte / – tanto vai verso casa – tu torni a casa!».
Poesie dal campo di concentramento è un libro da leggere. Solo un poeta poteva lasciarci in eredità la testimonianza straziante e viva dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani.
Josef Capek (Hronov, 23 marzo 1887 – Bergen Belsen, aprile 1945) è stato un pittore e scrittore ceco, e appartiene alla stessa generazione di Franz Kafka.
Fratello di Karel Capek, fu autore di varie opere in collaborazione col fratello (tra cui Della vita degli insetti, 1925), ma ne scrisse anche altre autonomamente. Tra queste Lelio (1917) e La terra dei molti nomi(1923). Fu l’inventore della parola “Robot”.
Morì nell’aprile del 1945 nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania, dove venne deportato a causa del suo atteggiamento ostile nei confronti della politica di Hitler e del Führer stesso. Durante la prigionia scrisse Básne z koncentracního tabora, una raccolta di poesie, pubblicata postuma nel 1946.
«Iveri pericoli a Pontescuro sono sopra, nella ricerca difettosa di pulizia e ordine.
Preferisco il popolo delle radici. Lìalmeno nessuno ammazza nessuno. Nel carnaio di sopravvivenza e nutrimento, dove sto io, nessuno farebbe quello che hanno fatto a Dafne.»
Dafne Casadio, figlia del signorotto di Pontescuro viene ritrovata morta con stretto al collo un nastro rosso: è facile incolpare lo scemo del paese, Ciaccio l’ amico sincero della scandalosa e spudorata ragazza.
Pontescuro di Luca Ragagnin, edito da Miraggi Edizioni,èuna favola noir, dove il male dimora nelle persone, dove la nebbia, il fiume, una blatta e lo stesso cadavere di Dafne danno voce al male.,
«Mi chiamo Dafne Casadio e avròper sempre ventiquattro anni. Sono morta da sette ore.»
Immaginate ora di essere nel lontano 1922 in un piccolo paese di campagna dove il tempo resta sospeso, un paese diviso a metà da un ponte dove la continuitàdi questo luogoèdata dall’interruzione, come le persone che sono nate e cresciute qui, interrotte dai lori segreti o da peccati inconfessabili, ma del resto negli anni Venti tutto taceva sotto una coltre di piccoli e nefandi segretucci di paesi.
Un paese che non risente dei tempi che stanno cambiando, le case restano di paglia e pietra, il cuore di cento anime, poco più, è di paglia e pietra.
Tutti colpevoli, ma solo uno pagherà, l’unico innocente.
Una narrazione, quella di Pontescuro, semplice e diretta, ma che ti stupisce: un coro di voci astanti a dir poco inconsueto, si fanno carico di raccontare la morte e la vita della sfrontata Dafne.
Una ragazza nata con la luce nei capelli, un affronto per quel paese incolore e nebbioso.
Per le donne che chiudevano gli scuri al suo passaggio, per gli uomini che la desideravano, ma a Pontescuro i desideri non sono contemplati.
Pontescuro è una storia di male viscerale, di uomini e di donne, di bigotti che non percepiscono la vera essenza del bene, inneggiando senza scrupoli, puntando il dito, e sentenziando dal pulpito o dal banco di un tribunale di anime nere. Una bellissima storia amara, la spinta della gelosia fa commettere crimini orribili, oscurando il cuore degli uomini, che saziano la loro sete di vendetta, stringendo un nastro rosso, non di seta, non sarebbe stato adatto a sgualdrina. E infine l’amicizia tra Ciacco e Dafne e di una bellezza straordinaria…come straordinarie sono le pagine di Pontescuro che via via si lasciano leggere e amare…ti lasciano sospesi felicemente.
«Visti da lontano assomigliavamo a un quadro, uno di quei dipinti che le gallerie importanti delle grandi cittàrifiutano perchéce ne sono di migliori, nel genere, e nessuno ha bisogno di un paesaggista ubriaco.«Ma non eravamo ubriachi, soltanto sospesi, e nella sospensione, felici.
«Felici di essere una ghiandaia, lo scemo del villaggio e la sgualdrina ribelle. Felici di non avere soldi ma solo corde, stupore e aria, maledetti o compatiti da tutti. Felici di farci scappare il tempo dalle mani e dalle ali senza accorgerci nemmeno del tonfo che fa,
cadendo a terra.«Non piacevano a nessuno, quei due, ma a me sì»
Luca Ragagnin è scrittore e paroliere.
Inizia a scrivere racconti e poesie nei primi anni ’80 e a pubblicare su rivista all’inizio dei ’90. Nel 1992 il testo teatrale “Eclisse del corpo” viene rappresentato a Torino e a Bologna.
È autore di romanzi (“Marmo rosso”, “Arcano 21”, “Agenzia Pertica”, “Pontescuro”), racconti (tra gli altri, “Pulci”, “Un amore supremo”), testi teatrali (“Misfatti unici”, “Cinque sigilli”) e poesie (tra le altre, le raccolte “Biopsie” e “La balbuzie degli oracoli”), tradotte in Francia, Svizzera, Portogallo, Polonia, Romania e Montenegro.
Nelle vesti di paroliere ha scritto testi di canzoni, tra gli altri, per Mina, Antonello Venditti, Garbo, Subsonica, Delta V, Totò Zingaro e Mao e la Rivoluzione.
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