Carlo Gozzini, l’io narrante, è un professore di economia innamorato di Blandine, attrice di vent’anni più giovane che non lo ama e non perde occasione per umiliarlo. La sua ossessione diventa paranoia quando Blandine viene ricoverata in un manicomio e quando Carlo scopre di essere spiato da una organizzazione criminale e da un uomo misterioso. Sono loro, non la donna, a condizionare la sua vita. Ed è questo, non l’amore, il tema centrale del romanzo. Quali sono le forze che trattengono i nostri desideri facendo sì che non si realizzino e trasformandoci in persone diverse da quello che siamo? “Sentivo che due sono le cose fondamentali: non giudicare la vita e non compiere atti che siano irreversibili”.
“Il mestiere del giudice è abominevole, perché condannare significa arrivare troppo tardi”. Immediatamente, di Dominique de Roux(traduzione di Francesco Forlani; Miraggi edizioni), è uno scomodo, riuscito e originale volume di frammenti che racchiudono la poetica e la visione del mondo di una delle figure più singolari del Novecento francese, e non solo.
Figlio nobile di una famiglia monarchica, errante tra Germania, Spagna e Inghilterra sul finire degli anni Cinquanta, polemico, traduttore, visionario, internazionalista gollista, vagabondo nei primi anni Settanta in Svizzera e Portogallo, si rifugia a Lisbona e si dedica al giornalismo, diventando corrispondente nelle colonie lusitane e intimo amico del discutibile Jonas Savimbi. Nell’aprile del 1974, al tempo della Rivoluzione dei Garofani, è l’unico giornalista francese presente a Lisbona.
Immediatamente, racconta questo lungo errare. Tracce di New York, Haiti, Amburgo, Ginevra, Parigi, Lisbona, di almeno quattro continenti e un numero cospicuo di nazioni. Sono presenti le interpretazioni filosofiche e politiche dell’autore sui fatti epocali che vanno dal Dopoguerra agli anni Settanta. Riflessioni sagaci, a volte destabilizzanti: “Il crollo delle ideologie a beneficio degli estremismi nazionali. Il razzismo nazista non è stato nient’altro che un’estetica dell’assassinio. Rinascimento estetico = assenza totale di carità (…) Appena terminata la biografia del maréchal de Richelieu, un cazzone con dietro un maréchal (…) Chi si prende la briga di parlare del Mein Kampf? Un giorno rimarrà di Hitler soltanto questo libro che non opera nella storia ma nell’inattuale. È un’antologia totale del totalitarismo”.
La bellezza – e anche la forza – di Immediatamente è data dal senso di incompiutezza che pervade tutto il volume. Frammenti che devono essere interpretati, parole che richiamano a un’infinità di parole non scritte, attacchi al moralismo in cerca di una libertà nuova, profondamente soggettiva, che Dominique de Roux nei suoi libri e nei suoi articoli ha ricercato per tutta la vita.
“Io sono un professore affermato, amato dai suoi studenti, tu un’attricetta senza futuro che, come si racconta, non esita ad andare a letto con chiunque le prometta una piccola parte in un film. Ma una volta che la rabbia mi aveva completamente stremato una seconda voce subentrava alla precedente: amore mio, non vivo senza di te, non respiro, torna, ti prego sei il mio ossigeno. Vivevo come in un ghetto mentale, emarginato in una regione fredda, non potevo ribellarmi, non potevo liberarmi. La sua scomparsa aveva creato il vuoto intorno a me, come quando si pompa via l’aria di un contenitore. Niente è onnipotente come la sofferenza”.Un economista, un’attrice di serie B, un oscuro pedinatole sono i personaggi che si muovono nel “singolarmente” lineare, intenso e a tratti malinconico, La realtà pura, romanzo di Riccardo De Gennaro (Miraggi edizioni), allegoria dell’intoppo continuativo che impedisce alle persone di essere ciò che vogliono, di avere ciò che desiderano.
Il protagonista della storia è un uomo ossessionato che si muove come un tardivo fugueur nei pressi del manicomio dove è ricoverata la sua amata, pedinato e sorvegliato, molto probabilmente, dall’Organizzazione criminale che non gli consente di gestire la propria esistenza in modo totalmente indipendente. La storia si dipana, tesa e angosciante, fino a un riuscito disvelamento narrativo, disseminato sapientemente nel romanzo.
Per certi versi La realtà pura, anche se lo stile – e la vicenda – sia assolutamente differente, mi ha ricordato un libro di un bravissimo autore coreano, Memorie di un assassino, di Kim Young-ha(traduzione di Andrea De Benedittis; Metropoli d’Asia), forse per l’analogo clima che si respira in queste due opere scorrendo tra le righe: un assillo sempre più abbagliante, il tormento della mente umana, pronta a incolpare costantemente qualcun altro per le nostre sconfitte, fino allo svelamento di qualcosa di nuovo, inaspettato: “È un animale, non fa altro che eseguire gli ordini che gli vengono impartiti. Un mulo dove lo attacchi sta. Pedinare qualcuno, d’altronde, non è un lavoro animale? Richiede forze intelligenza? Assolutamente no, l’intelligenza potrebbe essere dannosa e pensare gli è vietato. Nel migliore dei casi gli si richiede soltanto un po’ di pazienza. Gli occhi che non sono ancora riuscito a vedere saranno senz’altro bovini. Anche il suo continuo tenere la bocca semiaperta è un segno della sua stupidità. No, è inutile: non gli dirò nulla, continuerò a mantenere la guardia alta. Non si sa mai, uno stupido può provocare disastri anche quando è inattivo. D’altronde, più passano i giorni, meno sono le probabilità che mi voglia uccidere.”
Il regista Jan Nemec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime. Si accorda dunque al suo animo fiammeggiante il titolo italiano del suo libro “Volevo uccidere J. L. Godard”, una raccolta di 31 racconti autobiografici tra il memoir, l’aneddoto e l’apologo grottesco pubblicata in Italia da Alessandro De Vito, traduttore ed editore con Miraggi edizioni(pagg. 288, euro 17,00). Domani mattina De Vito presenterà il volume alle 12 al Caffè San Marco nell’ambito del Trieste Film Festival, del quale Nemec era stato ospite nel 2004.
«Sono di origine cecoslovacca da parte di madre, quindi ho un interesse personale per il paese», spiega De Vito. «In più mi sono laureato con una tesi sulla Nova Vlna, forse anche più importante della nouvelle vague francese: a Praga gli intellettuali, i teatranti, i cineasti e gli scrittori, come anche Hrabal, facevano funzione effettiva di opposizione politica».
I 31 racconti, scritti dal 1970 al 1990, «sono la storia di un uomo libero che ha fatto le sue scelte di vita anche rischiando, come quando, nel 1974, ha lasciato la Cecoslovacchia dove gli era impedito di lavorare, e ha vissuto negli Stati Uniti facendo film di matrimoni. Però non si è mai piegato». Nemec è stato anche un goliarda, un autentico viveur, un irrequieto che amava le feste e le donne, sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová.
La sua prosa schietta trabocca delle speranze della Primavera di Praga, delle disillusioni del post-invasione, e poi di tanta vita, sesso, amori, riflessioni taglienti. Il titolo del libro deriva dalla sua personale cronaca di quel cruciale Festival di Cannes del 1968: «Voci di corridoio dicevano che un premio sarebbe andato a Nemec, in concorso con “La festa e gli invitati”, Forman o Menzel», racconta De Vito. «Invece durante il festival scoppiò il maggio francese e registi “engagées” come Godard e Truffaut proposero di interrompere la manifestazione. La premiazione non si tenne. Nemec rimase arrabbiatissimo: vedere degli occidentali “comunisti” che volevano fare la rivoluzione era per lui un contrasto di campo totale, e in più un premio a Cannes avrebbe dato una svolta alla sua carriera».
Tra i racconti c’è anche quello, surreale e iperbolico, dell’infarto che lo avrebbe colto durante un rapporto sessuale e dal quale si sarebbe salvato letteralmente “stringendo le chiappe” per contrastare il rilascio degli sfinteri. «Nemec si appassiona quando parla del destino del suo popolo e dell’arte, valori assoluti, ma un minuto dopo magari sta pensando al seno di una donna». Ed è rocambolesco il racconto di come Nemec fece filtrare in Occidente le immagini dell’invasione sovietica che poi usò nel suo documentario “Oratorio per Praga”: «Aveva una macchina da dandy, una cabriolet Fiat 850, e conosceva la moglie di un funzionario dell’ambasciata italiana a Praga», dice De Vito. «Insieme alla ragazza e al diplomatico – racconta il traduttore del libro – si è finto italiano per varcare la frontiera con l’Austria e portare a Vienna il negativo. La mattina dopo, la televisione austriaca ha mostrato quelle immagini a tutto il mondo». –
Se scrivere significa spezzare il legame tra la parola e chi la imprime su carta, il libro di cui vi parlerò quest’oggi rappresenta un ottimo esempio di sacrificio, di sparizione, di solitudine, di messa al bando dell’autore. Una forma di liberazione che implica il passaggio dal soggetto alla moltitudine. Per l’autrice de “Il Lago”, Bianca Bellová, deve valere quell’assunto per il quale lo scrittore appartiene a un linguaggio che nessuno parla, incomunicabile, indicibile, che non rivela nulla se non l’interminabile cammino degli uomini, del mondo e la sua impossibilità a conoscersi del tutto.
Se la storia della letteratura è un racconto di anime, ve ne sono di stropicciate, sbrindellate, traviate, corrotte e miserabili nelle vicende delineate dalla scrittrice.
La voce italiana di Bianca Bellová è di Laura Angeloni, traduttrice di fiuto alchemico e di raffinata maestria interpretativa. Non stento a credere che il libro conti traduzioni in quindici lingue e che sia stato premiato nel 2017 con il “Premio Unione Europea per la Letteratura” e col “Magnesia Litera”.
L’editore, che per l’occasione inanella il secondo successo dopo “Volevo uccidere J.-L. Godard”, inserisce “Il lago” nella collana “NováVlna”, letteralmente “Nouvelle Vague”, che racchiude e solidifica quel rapporto costante tra innovazione e esistenzialismo degli anni della Primavera di Praga.
Protagonista della storia è la ricerca delle origini come punto di partenza del passaggio sulla Terra di Nami, un bambino senza genitori, che vive coi nonni, che ha un passato oscuro, inviso alla popolazione di Boros, un paese che confina con un lago, principio cardine della vita della comunità, presenza inquietante e sfigurata.
Il lago alberga nell’immaginario della collettività come origine della vita e caduta nella morte. Ma è anche luogo di perdizione ed emblema dello sfregio della natura. Ogni anno le sue acque si assottigliano sino a restituire corpi, oggetti, forme, fantasmi.
La nonna di Nami accarezza i capelli del nipote, dopo averlo fatto adagiare sulla sua pancia morbida, e gli racconta dello Spirito del lago e dei guerrieri dell’Orda d’Oro, di quanto dormano da secoli sulla rupe di Kolos, aspettando un potente guerriero che li svegli.
Nami non ha nessun ricordo del padre, e della madre rammenta tre macchie rosse, il suo bikini di quando andavano insieme in riva al lago. Perché Nami ha dimenticato il volto di sua madre?
Se apparentemente penserete di avere già sentito storie del genere, resterete di stucco per la lingua usata dalla scrittrice, perché è essa stessa strumento conoscitivo e intuitivo della storia, coi suoi furori sintattici e le sue staffette strutturali, scarni crudeli, rarefatti, necessari.
Si parte dal primo capitolo dal titolo “Uovo” e si procede con “Larva”, “Crisalide” e in ultimo, “Imago”.
E non sarà un caso se l’imago per Jung era un’immagine ancestrale, amata nell’infanzia, che corrispondeva di solito a un genitore, e che rimane, esercitando un’influenza nella psiche dell’adulto.
Nami cerca sua madre, la cercherà sino a quando non lo lasceremo, all’età di diciotto anni, e saremo passati insieme a lui attraverso la fame, la persecuzione, l’amore, la violenza, l’amicizia, la dittatura e il tradimento.
Nonostante non si faccia mai riferimento a un lago che abbia un suo corrispettivo nella vita reale, è indubbia l’affinità con l’Aral, il cui prosciugamento è uno dei più biechi disastri ambientali del novecento.
Il suo destino procede parallelo a quello del nostro protagonista. Nami custodisce memorie e lutti, ingloba l’amore sino a rappresentarlo come perdizione, allarga i suoi confini ma viene depredato di ogni sicurezza, così come succede al lago della storia e a quello della vita reale, a causa delle piantagioni di cotone. Non ultimo, nel libro compare il fantasma della dittatura russa, con le sue violenze, come quella compiuta da due soldati ai danni della fidanzata di Nami, Zaza, sotto i suoi occhi impotenti e pietrificati.
Bianca Bellová raschia via tutte le nostre convinzioni crivellando di colpi la scrittura, rivoltando il paradosso della perdita in una ritrovata comunione con l’elemento primordiale: quell’acqua di cui si avverte “il puzzo del fango fradicio” ma che è ricongiungimento nell’abbraccio finale.
L’Antiquario vi saluta.
Mi piace definire Dominique De Roux il Karl Kraus francese. Scrittore e intellettuale fuori dal comune, cavaliere delle lettere in territorio nemico, fa parte degli irregolari e degli impresentabili del Novecento.
Fu il creatore dei «Cahiers de l’Herne», una collana che riportò al centro della vita culturale scrittori maledetti, liberi e anticonformisti (che molto gli somigliavano) come Céline, Pound, Artaud, Lovercraft.
De Roux riuscì a presentare criticamente al grande pubblico autori del calibro di Borges, Gombrowicz, Solženicyn, Koestler e movimenti come la beat generation.
Siamo davanti a un grande scrittore controverso che decise di essere sempre un uomo libero, di non appartenere a nessuna banda letteraria. La sua penna e la sua intelligenza si schierarono apertamente contro il mondo culturale del suo tempo.
De Roux, come Kraus, nelle sue invettive non risparmiò proprio nessuno.
In Italia non è molto conosciuto e soprattutto è pubblicato poco. Grazie a Francesco Forlani da Miraggi edizioni esce Immediatamente, libro di frammenti e aforismi in cui l’irriverente scrittore francese intinge la sua penna corrosiva di provocatore e di agitatore culturale. Immediatamente esce in Francia nel 1971 e De Roux è vittima di una violenta reazione del mondo intellettuale francese. Il primo a scagliarsi contro di lui fu Roland Barthes.
Dolo l’uscita del libro «l’impresentabile» De Roux fu costretto a lasciare la Francia.
Dominique De Roux è uno straordinario inattuale che vale la pena conoscere e approfondire. Uno scrittore irregolare che rientra a pieno titolo nella tradizione dei pensatori controcorrente.
Un uomo e un intellettuale che veste da uomo sempre libero i panni del polemista e scrive del proprio tempo sedendosi orgogliosamente dalla parte del torto, in compagnia degli spiriti scomodi e degli infrequentabili. Immediatamente è un libro di illuminazioni che folgorano. Dominique De Roux è uno scrittore che scrive per disturbare e con i suoi aforismi taglienti ha squarciato, come sanno fare soltanto gli irregolari e gli uomini di pensiero che decidono di rispondere soltanto alla propria coscienza, tutto il marcio di un’epoca che sa solo esprimersi attraverso la rappresentazione ipocrita di se stessa.
«Viviamo il tempo degli istrioni di massa. Coloro che fanno gesti differenti non sono più originari di nessuna parte»; «Al gaullismo succederà la Germania, o peggio ancora i francesi».
Per De Roux scrivere è rinunciare al mondo. Una grande e coraggiosa lezione inattuale.
Quando le epoche si fanno torbide dobbiamo assolutamente leggere gli inattuali. Perché solo loro sanno dirci le cose come stanno.
Leggiamo assolutamente Dominique De Roux che, come Cioran, Kraus, Céline e tutti gli altri infrequentabili, ha diffamato e squartato il suo tempo.
Dominique De Roux (1935-1977) fu un letterato fine e controverso. Il primo romanzo, Mademoiselle Anicet, è del 1960; nel 1963 fonda la rivista «Cahiers de l’Herne», raccolta di numeri monografici dedicati alle figure maledette o misconosciute della letteratura europea (Céline, Gombrowicz e Pound, tra gli altri). Nel 1966 dà alle stampe il saggio La morte di Céline (Lantana), che inaugura il catalogo della casa editrice Christian Bourgois, co-fondata dallo stesso De Roux. Immediatamente esce nel 1971 e la violenta reazione del mondo intellettuale, con Roland Barthes in prima linea, costringe De Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo. Inviato soprattutto in Portogallo, documenta le guerre nelle colonie africane e nel 1974 è l’unico inviato speciale francese a Lisbona durante la rivoluzione dei garofani, che portò alla caduta di Salazar e della dittatura portoghese.
Pubblica l’ultimo romanzo, Le Cinquième Empire, cinque giorni prima di morire improvvisamente per infarto, nel 1977; La Jeune Fille au ballon rouge e Le Livre nègre usciranno postumi.
“La confusione non è mai stata così bella”, la raccolta poetica di Stefano Colucci (quasi 37mila seguaci su Instagram), è un invito a cogliere la bellezza delle piccole cose. La lettura dei suoi versi ci dà modo di ragionare sulla poesia 2.0 e su quel pubblico di giovani che ha trovato esattamente ciò che cercava: verità, brevità e semplicità”.
di Ilaria Giudice – 01.02.2019
La poesia di Stefano Colucci è quella delle piccole cose contemporanee: il Mc Donald’s, la metropolitana, La La Land, le felpe giganti, i gol di Totti, Whatsapp.
In La confusione non è mai stata così bella (Miraggi Edizioni), Colucci condensa tutta la concretezza dell’esistenza, ne coglie i particolari tipici dell’età giovanile, stila liste di cose attuali, elenca film e quadri da vedere (“cosa vuoi che me ne freghi/dei tramonti/del mare/dei film di Tarantino/dei quadri di Klimt”) usa il linguaggio di tutti i giorni, le parole quotidiane, pesca i termini nella rete delle conversazioni giornaliere tra ragazzi, (“perché quando andiamo al Mc Donald’s/mangi come se/nessuno ti stesse guardando/ e te ne freghi di ciò che gli altri pensano di te. Mi piaci…”).
Qui ci troviamo di fronte alla nuova poesia, quella che nasce su Instagram o sui social network in generale, quella che riceve migliaia di like, che piace perché è diretta, chiara, schietta. Basti pensare a Guido Catalano o a Gio Evan.
Stefano Colucci ha quasi 37mila followers su Instagram, i suoi post ricevono migliaia di mi piace e numerosi commenti. Il suo modo di fare poesia piace perché cattura, coinvolge ed è comprensibile a prima lettura. È la poesia dei Millennials, è la poesia pop; funziona e vende numeri di copie che gli altissimi della Letteratura si sognano. È la poesia che senza pretese raggiunge il suo pubblico, lo immerge in quella atmosfera Tumblr che tanto piace, lo trasporta dentro una promessa di vita che alletta, lo catapulta dentro la scena di un film in cui lei si alza dal letto, gira mezza nuda per casa e lui la guarda con occhi innamorati sotto lenzuola bianchissime. Questa è la poesia del sogno, è ciò che una ragazza vorrebbe sentirsi dire, è il dipinto di scene semplici, ma platoniche, o perlomeno rare.
“La notte non dormo/guardo il telefono/ogni cinque minuti/ho venti messaggi/ma nessuno è il tuo”.
L’amore fa da sfondo all’intera raccolta di Colucci, un amore tenero e adolescenziale, l’amore che un attimo spinge in altro tra gli eroi e un attimo dopo lacera (“Abbiamo litigato di brutto/ci siamo detti di tutto/ma mai addio”). Questa raccolta è un invito a rendere grande tutto ciò che di piccolo e quotidiano ci circonda perché per essere felici bisogna essere innamorati, di qualcuno o del mondo.
La critica si divide quando si parla di questo genere di poesia, e a ragione. Niente, però, può far male alla poesia e, anzi, questo è un modo efficace per avvicinare i più giovani a questo genere letterario. Si cerca la brevità e la poesia è breve, si cerca la semplicità e la poesia 2.0 è semplice.
I giovani sono liberi, impauriti e innamorati e questa poesia qui, la poesia di Stefano Colucci, i giovani li capisce, li comprende e gli dà esattamente quello di cui hanno bisogno: qualcosa di familiare in cui rintanarsi.
Colucci è nato nel 1995, e l’età che ha si rispecchia completamente nei suoi versi. Comincia a pubblicare i suoi versi sul web quando ha solo 16 anni. La confusione non è mai stata così bella è la sua seconda raccolta. Nel 2006 pubblica Precedenza al cuore che raggiunge in poco tempo il primo posto sulla classifica Amazon. Ha prodotto, ha scritto e ha fatto da voce narrante per cortometraggi diretti da Paolo Reali e da Elonora Sabet, diventati virali sul web.
Jan Nedoma, medico, muore. Alla compagna ma soprattutto ai tre figli che gli sopravvivono, Hans, Emil e Katerina, testimoni impotenti del suo inarrestabile spegnersi, oltre al dolore devastante resta un compito inatteso: restituirne intera la figura, macchiata da sospetti – illazioni, a loro dire – di corruzione e di collusione con un governo comunista mal visto nella Repubblica Ceca dove è ambientata la vicenda. Non collima l’immagine di uomo affidabile e integerrimo con ciò che vengono loro malgrado a sapere tramite le parole scritte di un sedicente amico, che lo accusano di bontà di sola facciata, di un’adesione al cristianesimo apparente e ipocrita, patina immacolata a celare crimini inconfessati.
È direttamente al padre che i tre figli dovrebbero e vorrebbero rivolgere molte domande sulle sue scelte e comportamenti. Quesiti a regime di urgenza che travalicano presto il confine della ricerca intima, familiare, e assumono tono di interrogativi universali, atemporali.
Chiedi a papà (Miraggi edizioni) è tentativo duro, a volte dolce, a tratti straziante, di porre rimedio e portare cura a ferite slabbrate, assenze improvvise, silenzi da infrangere, nell’equilibrio incerto della manutenzione del dolore personale per la perdita e la ricerca di risoluzione, sia essa pacificante o perturbante.
Tradotto per la prima volta in Italia da Alessandro De Vito, Jan Balabán – vincitore due volte del prestigioso premio Magnesia Litera e scomparso a 49 anni poco prima della pubblicazione di questo romanzo – sceglie con grande cura la costruzione più adatta: la trama deflagrata, unica modalità possibile a rendere lo sfaccettato, in assenza di definitivo.
Si muovono tra frammenti del passato e tentativi di conoscenza, figli e moglie del dottor Nedoma (“senza casa”, il significato del cognome), ognuno percorrendo strade personali da confrontare – in tiro incrociato – con quelle degli altri, attraverso una ricerca che si fa analisi lucida dei propri, di vissuti. (Il reparto del collega di papà endocrinologo era nello stesso edificio e allo stesso piano dove Katerina aveva trascorso parecchie settimane e mesi della sua vita di bambina e ragazza. Il pomeriggio, all’ospedale, è un tempo triste. Al mattino e fino all’ora di pranzo succede sempre qualcosa, si vanno a fare le visite, si ricevono cure. Ma al pomeriggio quasi tutte le infermiere e i medici se ne vanno […]. Al pomeriggio si aspetta solo che giunga la sera, quando sarà possibile andare a dormire. Ma come fare a sopravvivere a quelle lunghe ore di inutile luce, quando lo spirito ronza come una mosca sul riquadro della finestra e si devono trattenere le lacrime, col terrore che ormai tutta la vita non sarà che un simile infinito pomeriggio, in cui non si riuscirà più a vedere nessuno? E se arriva una visita, hai già paura di quanto sarai triste quando se ne andrà. Per questo Katerina non aveva voluto fare il medico, per non dover vivere in quel triste mondo pomeridiano, esortando le persone a essere pazienti. Lei è stata impaziente tutta la vita. E ora, impazientemente, era in ascolto delle parole del collega di suo padre, a cui aveva chiesto che cosa stesse cercando di insinuare quel Wolf con le sue maledette lettere).
Tocca registri diversi e affinati, Balabán, a comprendere quello ironico, intimo e complice negli scambi secchi tra fratelli, fino allo spietato, essenziale e trattenuto nel riportare – senza descrivere – il dolore in pagine crude, essenziali e chirurgiche che potrebbero essere firmate da Agota Kristov.
Narra il fallimento e la caduta, i giri a vuoto, le inutili conversazioni sui bordi, quando manca il centro, le umane debolezze, l’assenza del gesto che cura (Vide di nuovo il giallo di cera di quello che ancora il giorno prima era stato suo padre. Come stavano davanti a lui con le mani pesanti e inutili i parenti, con l’angoscia e con il sollievo, come davanti a un libro che si è finito di leggere).
Annoverato tra i più interessanti scrittori degli ultimi anni, paragonato più volte a William Faulkner, era uno scrittore ceco anomalo, Balabán, forse perché lontano geograficamente dalle affascinanti atmosfere praghesi cui si è soliti fare riferimento (ha vissuto in una piccola città mineraria): è buona cosa che il suo nome compaia tra quelli di NováVlna, la collana con cui Miraggi sta portando in Italia i maggiori rappresentanti della letteratura contemporanea ceca – tra cui Bianca Bellova -, esempi spesso felici di un’eredità di scrittura ironica, grottesca, surreale consolidata come poche altre.
Il romanzo di esordio di Massimo Anania,Autostop per la notte, edito da Miraggi edizioninel 2018, si presenta come un thriller, abbastanza classico nella struttura: un ragazzo che si imbatte in una situazione torbida dopo essere stato strappato alla sua quotidianità, personaggi loschi, giochi di potere, un nucleo malavitoso, la vittima, il complotto, la risoluzione finale.
Non amo i gialli/thriller perché li trovo tutto sommato prevedibili nella maggior parte dei casi. Tuttavia leggendo questo romanzo, ho avuto la sensazione, via via diventata più pregnante, che questo testo si muovesse sul crinale di mondi diversi e vari pur mantenendo quelle pose tipiche del genere entro cui è inquadrabile. All’interno di questa contaminazione (di cui fu maestro sommo Simenon), mi hanno colpito degli elementi che sembrano periferici rispetto alla tessitura generale. Partirei dall’ incipit- che è stato scelto appositamente per creare la situazione di rottura e immersione nel flusso di eventi a catena- constatando la sua originalità originale rispetto alle consuete trovate di spionaggio, intrigo politico, di cui abbondano i gialli e noir degli ultimi tempi. Un ragazzo, studente universitario nel cuore della notte chiede un passaggio in macchina, fa autostop per entrare a sua insaputa in una sorta di circuito infernale:
al quinto rosso una macchina tra quelle in coda alza i fari due volte. E un po indietro e aumenti il passo per raggiungerla . Il conducente accende la luce e ti fanno cenno di avvicinarti con la mano destra. (di solito ti caricano i ragazzi giovani, spesso alla guida di utilitarie scalcagnate che non hanno l ‘aria di poter percorrere tanti chilometri. Questa volta si è fermato qualcuno che guida un Audi .(…) quando la raggiungi ti accorgi che l’uomo alla guida avrà una quarantina d’anni e indossa una giacca nera e una cravatta rossa sopra una camicia bianca. Tu hai addosso un paio di jeans e una felpa nera col cappuccio dietro le spalle e capisci subito che non avete niente in comune.
Da questo momento in poi, Maurizio, un tipo un po’ strampalato, si avvia a vivere un’avventura torinese dal sapore estremo, coinvolto in festini a base di coca e sesso, personaggi della malavita, e donne ambigue e inafferrabili. La città, Torino e provincia, è lo sfondo ideale: architetture come fossero fili di una ragnatela, complici di un disegno avvinghiante ed opprimente, spianano un cammino dai ritmi parossistici e convulsi.
Le strade di Torino poco illuminate i quartieri deserti, un buio lugubre e tentacolare fanno da sfondo anche simbolico a questa densa storia. Procedendo speditamente (il romanzo scorre molto bene), ho avuto la netta sensazione che questo testo fosse stato centrifugato nel grande contenitore del genere “ picaresco” e ne fosse uscito maculato, meticciato. Vale la pena di rilevare qualche analogia: dal Lazarillo de Tormes al Viaggiatore sfortunato di Nashe, i due capisaldi di questo genere letterario, l’eroe picaro trova la sua canonizzazione: uomo della strada e per strada, giovane, senza mezzi economici, in cerca di fortuna e inerme preda degli eventi. Tutte caratteristiche che appartengono al protagonista Maurizio e che ne forgiano il carattere, il ruolo, il destino. Questo tipo di scrittura, così vertiginosa seppure ancorata ad una struttura forte, inaugura il romanzo moderno realista, per quanto riguarda lo spostamento del punto di vista al livello del protagonista. Nel romanzo di Anania in effetti tutto passa attraverso gli occhi della voce narrante in una focalizzazione interna che viene enfatizzata dalla particolare tecnica della seconda persona. Non di certo una novità, ma probabilmente la scelta più azzeccata per mantenere quella soggettività straniante e allucinata che si addice ad un giovane ragazzo in preda ai colpi del destino. Una sorta di diario interiore snocciolato nella memoria, pezzo per pezzo e rivolto a chi legge con una immediatezza e una velocità che non lascia respiro.
L’autore dimostra di sapere padroneggiare con maestria questa tecnica mantenedo un ritmo serrato e una sintassi accuratamente costruita per ottenere precisi effetti “scenici”:
premi sulla maniglia e ti ritrovi in quello che ha tutta l’aria di essre un bar di periferia […] ti avvicini al banco dietro al quale due bionde maggiorate preparano cocktail e quattro ragazzi sono seduti sugli sgabelli; […] ti fai preparare un whisky, dai della tirchia alla ragazza che ti sembra abbia usato troppo ghiaccio e poca sostanza e plei er dispetto ti riempie il bicchiere fin o all’orlo. allora fai il duro e lo svuoti tutto d’un fiato, le sorridi,sbatti il bicchieresul bancone e le ordini di riempirlo. ti giri, vai verso il biliardo con la gola in fiamme e il cuore che segue il ritmo della musica nell’altra stanza.
Se c’è un difetto è proprio questa preponderanza degli eventi a soffocare la personalità e i caratteri del romanzo che risultano a volte schematici e con una opacità psicologica che li appiattisce sullo sfondo. Maurizio ne esce anemico in determinati passaggi; tuttavia densi rivoli di vita riescono ad emergere nelle pause del flusso di coscienza, brevi e illuminanti flash che scavano nel pensiero e privi di filtri :
il bianco del soffitto fa vomitare vorrei che fosse trasparente per vedere le nuvole sarebbe bello avere una casa in mezzo al bosco nessuno che rompe i coglioni […] devo comprare delle tende nuove perchè quelle appese alle finestre sono proprio tristi […] potrei anche comprare dei soprammobili un vaso dove metterci dei fiori quando arriva Gabriella o una qualunque tanto non voglio mettere su famiglia forse starebbero bene delle spighe di grano.
Questo Renzo Tramaglino della Torino moderna che agisce prevalentemente per strada come il personaggio manzoniano si avventura e corre, mai fermo, mai tranquillo; a metà romanzo si trova immerso in una griglia un po’ ingarbugliata di eventi. I personaggi che si avvicendano sono Rodolfo Roppo e Giovanna Liseo: un “arrampicatore sociale che venderebbe anche sua madre per i suoi interessi e magari venderebbe anche te” e lei, una sconosciuta abbordata per una fugace notte di piacere e poi rivelatasi misteriosamente coinvolta in questo intrigo di gente che prende in carico Maurizio, per motivi che si chiariscono, gradatamente e con il classico colpo di scena finale.
Un personaggio positivo, o apparentemente tale, rompe questo schema dei personaggi. È l’ex- professore di liceo di Maurizio; quest’ultimo, come nel più classico dei thriller, ha un legame con il don Rogrigo della situazione: Antonello Zanna, una sorta di residuo putrido di tangentopoli, riciclatosi ai tempi del bunga bunga. Al centro della faccenda un bellissimo e ingannevole travestito che è stato picchiato da Maurizio e che alla fine restituisce il colpo con tutti gli interessi. La risoluzione finale serve a sigillare un precipitare di eventi che lascia un po’ a bocca asciutta.La sensazione che gli eventi abbiano fagocitato i caratteri è rimasta e si ripresenta. Ma forse da un rocambolesco autostop per la notte di un giovane ragazzo non ci si potrebbe aspettare altro. Una rêverie al cardiopalma con sottofondo rock.
Un ritratto dell’autore Massimo Anania-
Dirò di piu: la perdizione morale, l’attraversamento dei confini, il passaggio di vari livelli di conoscenza e di “prove” fisiche, morali, ne fanno anche un agile (nel senso della psicologia globale del personaggio) pendant del carattere tipico del romanzo di formazione: prima sprovveduto di fronte al caos degli eventi, poi spaventato e perso nei suoi disordini mentali, sempre più lucido nel dipanare la matassa ed infine come il più bravo dei detective a consegnare a ciascuno dei personaggi il loro ruolo la loro identità. Il mistero del tipico giallo risulta funzionale a questo nodo centrale di dinamiche e di traiettorie che coinvolgono tutti i personaggi a vari livelli. Un romanzo apprezzabile più per la sua struttura e per le tecniche narrative utilizzate (con grande precisione) che per lo scavo dei personaggi e per la sostanza umana delle storie narrate. A condire il tutto una sorta di colonna sonora di tutto rispetto che accompagna ogni capitolo e che rende questo testo più polimorfo e dinamico di quello che ci si potrebbe aspettare. Un inno infine alla letteratura on the road, alla quale Anania strizza l’occhiolino portando a termine questa buona prima prova che ci fa sperare in un brillante seguito.
Trentenne, Tereza Boucková, figlia dello scrittore controrivoluzionario Pavel Kohout, raccontò la sua infanzia, la sua adolescenza e la sua giovinezza, presentandosi come la sorella più piccola di Raggio di Sole e Bianca Luna, come figlia di Indiano, padre assente, e di Alfa, bulgara, esule da Sofia, madre passionale. Il libro esisteva, inizialmente, soltanto nel circuito clandestino, perché i comunisti non avevano simpatia per chi aveva firmato la Charta 77; tuttavia, nonostante circolasse in samizdat e nonostante non riferisse mai i nomi reali, nessuno faceva fatica a riconoscere certi personaggi. Il giochino, anzi, probabilmente era proprio fiutarli e smascherarli. Kohout disse alla piccola Tereza che il suo libro era pieno di rabbia e di bugie, e che non andava pubblicato così. Invece uscì esattamente come era stato scritto, come tenera filiale letteraria rappresaglia. Tereza si racconta a partire dal primo vagito: non voleva saperne di uscire da quella pancia accogliente, se ne infischiava se mamma Alfa voleva partorire presto per non perdersi una prima. Forse sentiva di non essere stata – come dire – “pensata”, come figlia: la conoscete la barzelletta, no? “L’Indiano ha tre figli. Il primo, maschio, si chiama Raggio di Sole. La seconda, femmina, Bianca Luna. E la terza, Preservativo Rotto”. Lei era la terza. Adorava questo papà fantasma, perso tra le chimere della controrivoluzione, i sogni d’arte e l’amore di un’altra donna, Musa; intanto veniva cresciuta, almeno per qualche tempo, da Azzardo, il nuovo compagno della mamma: un uomo che aveva portato in casa strane innovazioni come le cotolette di maiale, il libretto contabile, l’ordine e una serie di parole straniere. Quando era bambina, un giorno, Tereza si era ritrovata spaurita di fronte ai carri armati russi, che venivano a imporre il loro comunismo accompagnati da tanta puzza di nafta e di sporcizia. Alla radio si invocava aiuto, fuori qualcuno sparava. Mamma Alfa piangeva, silenziosamente. Papà Indiano era all’estero e non era bene che rientrasse, non in quei frangenti – era decisamente sgradito al regime. In compenso, i bambini potevano svuotare la sua famigerata dispensa. Fuori capitavano disgrazie, si cercava così di sublimare la realtà. Passò del tempo. Una volta, la nazionale cecoslovacca di hockey sconfisse l’URSS, ai Mondiali, e tutti i praghesi, pazzi di gioia, si ritrovarono in piazza, a festeggiare, cantando “Ivan, vai a casa, che Natascia ti aspetta”. Sulla tomba di Jan Palach bruciavano centinaia di candele. Qualcuno non gradì. Passò del tempo. La piccola non venne ammessa al ginnasio, perché era figlia di un artista controrivoluzionario; dopo parecchie ricerche e svariate umiliazioni, mamma Alfa riuscì a farla iscrivere almeno a una scuola di economia. Erano cose che potevano capitare, sotto regime. Non era una delle peggiori. La ragazzina, intanto, cominciava a scrivere – romanzi d’amore, come inizio. Era un’adolescente sensibile che sentiva tanta nostalgia del papà, e sognava di fare teatro per potergli stare più vicina…
Tereza Boučková, scrittrice praghese classe 1957, tra i firmatari della famigerata Charta 77, orgogliosamente e stoicamente dissidente, esordì pubblicando questo libro nel 1988, in un’edizione samizdat; a ruota ricevette il premio Jiří Orten nel 1990. La corsa indiana è un memoir caratterizzato da diversi aspetti interessanti: in primis, è la testimonianza (politica ed esistenziale) delle condizioni di vita di una giovane ceca sotto regime sovietico; non siamo stanchi di leggere e rileggere cosa significava essere controrivoluzionari sotto la grigia e infame dominazione russa, non abbiamo smesso di stupirci del clima paranoico, delle sinistre e sorde violenze, delle paurose limitazioni della libertà (tutte), delle infestanti pressioni sofferte dai nostri fratelli cechi e slovacchi. A un altro livello, La corsa indiana è il diario di una maternità sofferta e complicatissima: è la storia di un bambino tanto desiderato e più volte perduto, è la storia di due adozioni e di una nascita vissuta letteralmente come un dono, quella di Dárek. Da questo punto di vista, è un libro di una femminilità intensa e di una sensibilità e di una fragilità superiore; conosce dei picchi di crudezza che, come uomo, mi ammutoliscono. A un terzo e ultimo livello, questo libro è un lavoro che, per noi lettori italiani – e tra gli italiani includo la minoranza mitteleuropea composta dai triestini, dai friulani, dagli istriani, e ovviamente dai trentini e dai tirolesi – è di meno immediata e diretta percezione: ad esempio quando appare, in diversi episodi (è più corretto chiamarli “sketch”), sotto lo pseudonimo “Monologo”, l’ex presidente Vaclav Havel, un pubblico ceco (e slovacco, e probabilmente russo e germanico) trova certi incidenti e certi episodi ovviamente più liminari e comunque eclatanti e rumorosi; per la nostra competenza politica, così raramente mitteleuropa-centrica, si perde parecchio. Per chi volesse rimediare, consiglio almeno la lettura delle Lettere a Olga [Santi Quaranta, 2010], circa cento lettere scritte da Havel alla moglie, durante il triennio di ingiusta detenzione sotto comunismo, scritte con funambolismi e dissimulazioni di vario genere (per lo più per non patire ulteriori punizioni, come la cella d’isolamento). Rimane che La corsa indiana è un quaderno di narrativa estremamente leggibile e fluido, nonostante qualche improvviso sbalzo, parecchie (a volte, riconoscibili) omissioni e qualche sconnessione: un quaderno fascinoso dal punto di vista storico-documentaristico, corrosivo e crudo dal punto di vista della rappresentazione della maternità. L’edizione Miraggi, tradotta dalla solita, encomiabile Laura Angeloni, è completa di altri due racconti, accostati alla Corsa indiana per ragioni filologiche e per vicinanze tematiche: si tratta di Křepelice(1993), vale a dire La quaglia e Když milujete muže (1995), cioè Quando ami un uomo. La loro inclusione è una scelta saggia, soprattutto considerando che, ad oggi, niente conoscevamo della Boučková, nel Belpaese; questo pur ammettendo che poco, in fin dei conti, mutano nella profondità dell’esperienza estetica, al limite esasperando forse – soprattutto Quando ami un uomo – la comprensione di quanto allucinante e paranoica sia stata la quotidianità dei cittadini cechi sotto regime sovietico. Questo volume è la quarta uscita della preziosa collana di letteratura ceca «NováVlna», diretta da Alessandro De Vito; è stato pubblicato col sostegno del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca.
Quando vado a Roma, che l’editore, la libreria, o l’associazione, non includono nella proposta un minimo di ospitalità, la prima cosa che faccio è – nel senso che lo faccio qualche giorno prima – chiamare il mio amico Riccardo De Gennaro, torinese, che vive a Roma da anni in un appartamento al terzo o quarto piano sul Lungo Tevere, proprio davanti a un famoso ponte e con la vista su una villa molto bella di là del fiume. Naturalmente ogni volta lo invito a una presentazione, tempo fa ad esempio lo invitai a una cosa che si fece a Casalpalocco, ma Riccardo non ha mai tempo, ha sempre da chiudere il numero in uscita di Reportage, la rivista molto bella di cui è editore, e dice non posso, figurati. In genere dopo l’evento vado da lui e finiamo per farci un piatto di pasta. Ma anche quando, raramente, trova uno spicchio di tempo il pomeriggio tardi e accetta di accompagnarmi, come dai Trapezisti – io in quei casi per educazione lo invito a cena, un posto normale – finiamo per girare mezz’ora senza trovare parcheggio o per chiamare una trattoria e farci dire che non c’è posto, e allora, a tempo scaduto, gli dico: Riccardiño, maledizione, siamo costretti a farci un piatto di pasta da te, fermati da qualche parte che prendo un tubo di vino… No, quello ce l’ho… Bene. Da buon ligure.
Ma l’ultima volta non l’avvisai. Dissi che ero stato in Abruzzo e che avevo una mezza idea di saltare sull’inter city per Genova, ma se ci scappava un riposino… “Dove sei?”, chiese.
Gli dissi che ero sotto casa, col trolly.
“Asp… Ti vedo, anche se questa volta è rischioso”.
Il palazzo ha le finestre sul lungofiume, si attraversa la strada, ci sono dei platani e il muretto, qualche metro sotto il muretto la ciclabile e la riva del Tevere. Alzai la mano, anche lui, ma distratto, guardava in giro, come se cercasse qualcuno sul marciapiede. Poi lo vidi che chiamava e mi squillò il telefono. “Sali su, prima suona al citofono naturalmente, e se uno con la giacca finta di pelle e il berretto e il giornale sotto il braccio ti chiede dove vai non rispondere, si vuol infilare dentro casa, non permetterglielo…”. Ubbidii, chiamai l’ascensore, entrai (nessuno mi chiese nulla) col trolly e al quarto piano mi accolse Riccardo. In casa, andò alla finestra della sala (dove stanno le scatole dei numeri di Reportage, con le foto di Dondero, i racconti di Bravi e Voltolini, le rubriche di Magrelli), guardò in strada, sorrise e col mento mi indicò il divano. Ci sedemmo.
“Chi è l’uomo con la giacca di pelle, Riccardiño?”
“Un bastardo… Non puoi rimanere a lungo, mi spiace, ma stavolta è così”.
“Così come?”.
Aprì una scatola, che stava accanto al divano. Pensai fosse una delle solite scatole piene di Reportage, invece era piena di libri con la copertina azzurro cenere. Ne prese uno, e prima di porgermelo ci passò la mano come si fa per togliere la polvere, ma si vedeva bene che i libri erano freschi di stampa. L’oggetto in copertina assomigliava a una radio o a uno sbobinatore, collegato a un microfono, come copertina catturava, proprio per quel fatto che non si capiva l’oggetto, che agli occhi appariva come dovrebbero apparire gli oggetti dei nostri bagagli quando passano attraverso i detector dei filtri aeroportuali. Il titolo, La realtà pura (Miraggi, collana Scafiblù, euro 12, pagine 128). Glielo feci notare, l’effetto aeroportuale della copertina, probabilmente da collegare al suo recapito. Riccardo De Gennaro, Lungo Tevere…. Forse tutt’attaccato. Mi avvicinai alla vetrata. “Che c’entra quello di sotto col libro?”.
“Vedrai…”
Non avevo ancora perso le speranze sull’ospitalità, e dissi che l’avrei letto volentieri, anche subito, ma ero stanco, e affamato. “Non insistere… Un piatto di pasta però non posso negartelo, ho anche quel formaggio che ti piace… Poi lo so che vuoi lavare i piatti, e sai che è una cosa che amo veder fatta in fretta, perché si fa appunto più in fretta, solo con acqua, prima che il sugo entri nei pori della ceramica… Se vieni di là, mentre faccio il sugo, ti racconto giusto qualcosa, poi con calma lo leggerai… Anzi, prima leggiti la cosa che sta sul sito…”. Estrassi dal trolly il portatile, accesi, mi collegai, andai su Miraggi e lessi. La realtà pura è un romanzo-metafora dell’Impedimento, esistenziale e metafisico, che ci impedisce di essere ciò che vorremmo essere e ottenere ciò che desideriamo. Quali sono le forze che si oppongono ai nostri disegni? Chi ci impedisce di realizzare i nostri sogni? Il romanzo tenta di spiegarlo, o meglio tenta di dipanare i fili del destino che non riusciamo a sciogliere, fili che – nella finzione romanzesca – sono retti da una fantomatica Organizzazione criminale.
Un uomo di cui non si conosce la provenienza sorveglia e pedina il protagonista, Carlo Gozzini, un economista innamorato di una giovane donna, Blandine, di professione attrice, ricoverata in manicomio, la quale non ricambia (se non nella mente dello stesso Gozzini) l’amore dell’uomo. L’economista, l’io narrante, tenta di difendersi dalla morsa dell’Organizzazione, che non gli consente il pieno controllo della propria vita e, naturalmente, di raggiungere l’amata. Gozzini vive così una duplice ossessione di matrice paranoide: la “prigionia” e la passione per Blandine, due situazioni che potrebbero essere le facce della stessa medaglia. Il romanzo si conclude con il disvelamento della verità: in forma non di discesa, bensì di ascesa all’inferno.
Mentre preparava il soffritto (ma ogni tanto andava in sala e prendeva il binocolo e lo puntava, credo, oltre il ponte, sulla villa rossa, poi tornava e riprendeva a parlarmi della Realtà pura) venni a sapere che la storia era ben più complessa e inquietante di come si presentava in quella dozzina di righe. Blandine era un’attrice in cerca di parti e provini, ben consapevole del fatto che il professor Gozzini, con la sua ventina di anni in più, ne era perdutamente innamorato; per questo lei sapeva di poter disporre di lui come e quando voleva. Il romanzo iniziava con un buon respiro fino a stringere le aperture e a costringere il lettore come si fa quando si ospita qualcuno a casa e man mano che costui è lì gli si stringono gli spazi, il corridoio, le camere, la sala, con nuove librerie e nuove pile di libri. Una scrittura stupenda, sorvegliatissima, ma angosciante. Gozzini, l’io narrante, dopo un po’ ci fa penetrare da quel mondo che all’apparenza rasentava la comicità, a un mondo “realmente” comico, fatto di strani uomini con la giacca di finta pelle che ci seguono, comprano il giornale e tornano a piazzarsi sui nostri usci, e strani custodi di una clinica dove, pare, sia stata ricoverata Blandine. E su tutto appunto, appunto, Blandine che è sparita, Blandine che Gozzini rivuole anche se lo umiliava, Blandine da liberare, ma Blandine prigioniera… Nel mentre la pasta era nel piatto, ci sedemmo e mangiammo, bevemmo, anzi, facevo tutto io perché Riccardo De Gennaro seguitava a raccontare. Era quasi sera, e speravo ancora parecchio in un ripensamento e in un invito. Dissi: “Riccardiño, i piatti li lavo dopo, anche il caffè lo prendo dopo… Ora se permetti, mi siedo in sala e leggo…”. Alzò il mento. Mi portai in sala con La realtà, prima di sedermi mi avvicinai alla vetrata. L’uomo con la giacca in finta pelle ecc. da giù probabilmente si aspettava di vedermi, in fatti teneva la faccia alta e quando mi vide sorrise.
Gozzini ogni tanto fa dei sogni e si sveglia con dei dolori ai piedi e alle ginocchia. Non esce più, ma controlla il suo controllore, al quale non chiede spiegazioni, perché ha scoperto che il burattinaio che tiene collegato pedinatore e Custode della clinica che non lo fa entrare a cercare Blandine, risponde a un entità, all’Organizzazione. Non appena Gozzini sta meglio progetta una vendetta, ma non è facile, anche perché ogni tanto, dopo il ginocchio, a patire sono gli occhi, una strana punizione che gli in qualche modo gli viene inflitta dall’Organizzazione, ma Gozzini è forte e la coscienza di esserlo non l’abbandona mai … “Gli dimostrerò che anch’io, un intellettuale, posso essere cattivo, molto cattivo, più cattivo di loro, malato e molto cattivo, non immaginano quanto io possa essere malato e cattivo. Ci sono momenti in cui, se mi concentro, raggiungo livelli di collera senza uguali, le pareti dello stomaco diventano dure come il cuoio, la dentatura superiore va a incastrarsi davanti a quella inferiore e preme e schiaccia e digrigna, come la macina di un frantoio. Il cranio, poi, diventa una boccia di ferro, la cassa toracica una fornace. Potrei attraversare i muri, saltare dal terzo piano e rimanere incolume…”
A pagina 96 leggo che “i medici – mi è stato riferito dal mio anonimo informatore – non le consentono di uscire per nessuna ragione, nemmeno per una passeggiata…”.
Mi alzo, il tipo giù non c’è. Informo in fretta Riccardo: “Sparito”.
“Sì, fa orari da cartellino”.
“Senti, sono a pagina 96… Mi sono perso chi è l’anonimo informatore…” Riccardo muove gli ossicini della mandibola. “La ami ancora molto?”. Gli ossicini. “Ma è un romanzo… Che c’entra? C’è una documentazione pazzesca. C’è tutto uno studio sui quadri di Magritte e tu mi chiedi se la amo… C’è la condanna senza reato, capisci…”. Mi prese di mano il libro, ossicini, e lesse: Provo ormai compassione per questa persona, una compassione suscitata dal fatto che nessuno si sceglie il proprio destino, ci si finisce dentro e spesso il dramma è già contenuto nella vita della vittima senza che se ne renda conto. Quanto a Blandine, è la distanza sentimentale che mi preoccupa, non quella geografica.
Era a pagina 105 e iniziai a leggere da pagina 104, prima che mi dicesse: “Non eri lì, te l’ho preso di mano che eri a 98…”.
In realtà gli occhi erano caduti su una parola di pagina103-104 e a tutti i costi volevo leggere la frase. La parola era in corsivo. Uscirne. La frase: Non ne uscirai facilmente, non ne uscirai se non saremo noi a deciderlo, dicevano ancora i suoi pensieri. Sul momento provai una certa inquietudine, ma una volta a casa considerai che un omicidio permette in ogni caso alla vittima di uscirne, dunque se io non dovevo uscirne facilmente, non sarei stato ucciso.
Tornai a pagina 98, finii il libro e, dopo qualche minuto, la caffettiera. Non ci dicemmo nulla. Volevo dirgli che era un romanzo incredibile, e lo pensavo davvero, che mai più sarei riuscito a leggerlo se non fosse che tentavo di fermarmi a dormire, ma ora che l’avevo finito e probabilmente mi prendevo il trolly e salivo sul 170 diretto a Termini e mi cercavo un b&b a buon prezzo, o saltavo sul treno delle undici per la Liguria, avrei voluto dirgli che era davvero una grande esperienza quella scrittura. “Ma tu mi vuoi dire che l’uomo con la giacca di finta pelle ecc. è apparso da quando ti sei messo a scrivere questa storia?”.
“Dal giorno in cui il libro è uscito, esatto”.
“E lei?”.
“ Lei cosa, a volte fai davvero delle domande sceme… L’hai letto il libro? Abbi pazienza, ma non ti capisco”.
“Hai ragione… Sì, l’ho letto. Mi è piaciuto molto. E ora me ne vado ma tornerei domani, fosse solo per andare alle spalle dell’uomo con la giacca eccetera e prenderlo per il bavero”.
“Puoi prenderti la soddisfazione fin da ora. Nel romanzo lo facevo abbandonare la postazione verso le 18 e dopo qualche ora, a volte due, a volte tre, ma mai più di quattro, lo facevo tornare… E lui ora fa esattamente così”.
Andarci a guardare era ammettere che non ci credevo. “Ne sei convinto ora?”. Presi con me la copia de “La realtà pura” e, come facevo di solito anche con gli ultimi numeri di Reportage, infilai tutto nel trolly, Riccardo mi disse che i piatti li lavava lui, e così ci salutammo. In strada mi diressi verso l’uomo, che se ne stava sul marciapiede a guardare le acque fangose del Tevere, che trasportavano giunchi, illuminati qua e là dai lampioni.
Affiancai l’uomo, mollai il trolly, non ci dicemmo nulla. Di là del fiume c’era la grande villa rossa, la clinica in cui nel romanzo lavorava il Custode. Era lui che impediva l’ingresso a Gozzini e non faceva uscire Blandine dal reparto in cui si trovava ricoverata.
“Lo volete lasciare in pace?”.
“Parli con me?”.
“Sì, con te, con la tua cazzo di giacca di finta pelle”. Si guardò la giacca, posò il giornale sul muretto, si aggiustò il berretto.
“Credi ci prenda gusto, a star qui all’umidità?”. Non aggiunsi nulla, mi avviai verso il ponte, e prima di imboccarlo alzai gli occhi. Riccardone era lassù alla vetrata, non poteva sapere cosa ci eravamo detti, ma a quel punto intuiva che stavo imboccando il ponte, che tante volte avevo attraversato con lui, e mi dirigevo alla villa. Credevo che mi avrebbe chiamato, ma mi sbagliai. Giunsi alla villa con l’entrata come il quadro di Magritte. Dissi al Custode: “Senta, vorrei parlare con Blandine, so che è ricoverata qui”. Mi aspettavo mi dicesse si sbaglia, in questo luogo non ci sono ricoverati. Invece si fece una risatina. “Impossibile, lei pensa di venir qui con un cazzo di trolly e di poter far visita ai pazienti?”.
“Per chi lavora?”.
Si alzò, zoppicava. Andò a chiudere il cancello che dava sul cortile interno, lasciandomi al bancone. Da lì non sarei potuto andare da nessuna parte se non uscire. Alla piccola televisione della videocamera che stava sul tavolino oltre il bancone vidi il movimento del Custode… E tre numeri di telefono sul foglio accanto al cordless. Veloce, estrassi il mio, allungai la mano, feci una foto… Se ne accorse, lasciò perdere il cancello e si avventò su di me, all’apparenza senza alcun problema di locomozione.
“Ma tu non zoppichi”.
“Cancella quella foto ed esci immeditamente”. Ripresi il mio trolly e uscii. Non mi seguì, ma dal ponte vidi che di là, il pedinatore stava parlando al telefono e immaginai lo stesse chiamando il Custode. Guardai su, le finestre. Riccardo non c’era. Passò un taxi, lo fermai, saltai su. Dissi che andavamo a Termini. Il tassista mi chiese se volevo mettere il trolly nel bagagliaio, dissi di no.
Dopo un po’, nel mezzo di Trastevere, in mezzo a una serie di gracchianti chiamate della centrale, immagino, alle quali il tassista non rispose, giunse un messaggio diverso, e allora il tassista afferrò il ricevitore. Mentre guidava e ascoltava mi guardava nello specchietto. Quanto a me, facevo caso solo a lui, provando a capire anche solo una parola di cosa gli stessero dicendo, e non mi accorsi che anziché proseguire verso Termini, stavamo tornando al ponte.
Autostop per la notte è il titolo più appropriato per il thriller mozzafiato scritto da Massimo Anania e pubblicato dalla casa editrice torinese “Miraggi”.
La notte è sicuramente il momento temporale in cui iniziano le disavventure, via via culminanti in una spirale di violenza tanto cruenta quanto efferata, del non più tanto giovane ma squattrinatostudente universitario Maurizio, protagonista principale dello story-telling.
Ma la notte è anche la metafora di un vortice apparentemente infinito di guai e sciagure, conditi di fughe disperate e riacciuffamenti insperati indi farciti di alcol e cocaina.
Tutto comincia col passaggio di uno sconosciuto, Rodolfo Roppo, subito calatosi nelle mentite spoglie dell’amico fidato, o, addirittura, del saggio e protettivo fratello maggiore (che alla fine si scoprirà essere stato non tanto casuale), all’altezza del grande spartitraffico di corso Orbassano a Torino.
Proprio la splendida città della Mole e il suo hinterland, magistralmente descritti da Anania (che quasi ci proietta nei luoghi di ambientazione della trama, alla stregua di un vero e proprio proiettore di immagini tridimensionali), fagocitano – mai ombreggiando o nullificando – tutti gli altri personaggi; che sono pochi e possono, come però si scoprirà arrivando con spasmodico e anelante piacere all’ultimo rigo della pagina conclusiva, ben dividersi in buoni e cattivi (rispetto alle sorti del protagonista) senza strane interferenze di improbabili commistioni tipologiche: la bella ma cinica Giovanna Liseo, la seducente seppur ingenua Camilla Roppo (cugina di Rodolfo, ma di tutt’altra pasta), l’anfitrione e faccendiere Antonello Zanza, il rassicurante risolutore di problemi Sandro Corda, l’innominato becero travestito.
Il libro è breve ma angosciantemente bello.
Apprezzabili, sul piano stilistico, l’utilizzo costante della seconda persona singolare (che – a prescindere da qualsivoglia tendenza empatica – induce il lettore a immedesimarsi nel protagonista) e l’esplicitazione, in corsivo, dei flussi mentali del buon Maurizio stesso.
Musica consigliata: Luciano Ligabue (Hai un momento, Dio). Bevanda suggerita: Erbaluce di Caluso passito (ottimo vino del Canavese)
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