Quando vado a Roma, che l’editore, la libreria, o l’associazione, non includono nella proposta un minimo di ospitalità, la prima cosa che faccio è – nel senso che lo faccio qualche giorno prima – chiamare il mio amico Riccardo De Gennaro, torinese, che vive a Roma da anni in un appartamento al terzo o quarto piano sul Lungo Tevere, proprio davanti a un famoso ponte e con la vista su una villa molto bella di là del fiume. Naturalmente ogni volta lo invito a una presentazione, tempo fa ad esempio lo invitai a una cosa che si fece a Casalpalocco, ma Riccardo non ha mai tempo, ha sempre da chiudere il numero in uscita di Reportage, la rivista molto bella di cui è editore, e dice non posso, figurati. In genere dopo l’evento vado da lui e finiamo per farci un piatto di pasta. Ma anche quando, raramente, trova uno spicchio di tempo il pomeriggio tardi e accetta di accompagnarmi, come dai Trapezisti – io in quei casi per educazione lo invito a cena, un posto normale – finiamo per girare mezz’ora senza trovare parcheggio o per chiamare una trattoria e farci dire che non c’è posto, e allora, a tempo scaduto, gli dico: Riccardiño, maledizione, siamo costretti a farci un piatto di pasta da te, fermati da qualche parte che prendo un tubo di vino… No, quello ce l’ho… Bene. Da buon ligure.
Ma l’ultima volta non l’avvisai. Dissi che ero stato in Abruzzo e che avevo una mezza idea di saltare sull’inter city per Genova, ma se ci scappava un riposino… “Dove sei?”, chiese.
Gli dissi che ero sotto casa, col trolly.
“Asp… Ti vedo, anche se questa volta è rischioso”.
Il palazzo ha le finestre sul lungofiume, si attraversa la strada, ci sono dei platani e il muretto, qualche metro sotto il muretto la ciclabile e la riva del Tevere. Alzai la mano, anche lui, ma distratto, guardava in giro, come se cercasse qualcuno sul marciapiede. Poi lo vidi che chiamava e mi squillò il telefono. “Sali su, prima suona al citofono naturalmente, e se uno con la giacca finta di pelle e il berretto e il giornale sotto il braccio ti chiede dove vai non rispondere, si vuol infilare dentro casa, non permetterglielo…”. Ubbidii, chiamai l’ascensore, entrai (nessuno mi chiese nulla) col trolly e al quarto piano mi accolse Riccardo. In casa, andò alla finestra della sala (dove stanno le scatole dei numeri di Reportage, con le foto di Dondero, i racconti di Bravi e Voltolini, le rubriche di Magrelli), guardò in strada, sorrise e col mento mi indicò il divano. Ci sedemmo.
“Chi è l’uomo con la giacca di pelle, Riccardiño?”
“Un bastardo… Non puoi rimanere a lungo, mi spiace, ma stavolta è così”.
“Così come?”.
Aprì una scatola, che stava accanto al divano. Pensai fosse una delle solite scatole piene di Reportage, invece era piena di libri con la copertina azzurro cenere. Ne prese uno, e prima di porgermelo ci passò la mano come si fa per togliere la polvere, ma si vedeva bene che i libri erano freschi di stampa. L’oggetto in copertina assomigliava a una radio o a uno sbobinatore, collegato a un microfono, come copertina catturava, proprio per quel fatto che non si capiva l’oggetto, che agli occhi appariva come dovrebbero apparire gli oggetti dei nostri bagagli quando passano attraverso i detector dei filtri aeroportuali. Il titolo, La realtà pura (Miraggi, collana Scafiblù, euro 12, pagine 128). Glielo feci notare, l’effetto aeroportuale della copertina, probabilmente da collegare al suo recapito. Riccardo De Gennaro, Lungo Tevere…. Forse tutt’attaccato. Mi avvicinai alla vetrata. “Che c’entra quello di sotto col libro?”.
“Vedrai…”
Non avevo ancora perso le speranze sull’ospitalità, e dissi che l’avrei letto volentieri, anche subito, ma ero stanco, e affamato. “Non insistere… Un piatto di pasta però non posso negartelo, ho anche quel formaggio che ti piace… Poi lo so che vuoi lavare i piatti, e sai che è una cosa che amo veder fatta in fretta, perché si fa appunto più in fretta, solo con acqua, prima che il sugo entri nei pori della ceramica… Se vieni di là, mentre faccio il sugo, ti racconto giusto qualcosa, poi con calma lo leggerai… Anzi, prima leggiti la cosa che sta sul sito…”. Estrassi dal trolly il portatile, accesi, mi collegai, andai su Miraggi e lessi. La realtà pura è un romanzo-metafora dell’Impedimento, esistenziale e metafisico, che ci impedisce di essere ciò che vorremmo essere e ottenere ciò che desideriamo. Quali sono le forze che si oppongono ai nostri disegni? Chi ci impedisce di realizzare i nostri sogni? Il romanzo tenta di spiegarlo, o meglio tenta di dipanare i fili del destino che non riusciamo a sciogliere, fili che – nella finzione romanzesca – sono retti da una fantomatica Organizzazione criminale.
Un uomo di cui non si conosce la provenienza sorveglia e pedina il protagonista, Carlo Gozzini, un economista innamorato di una giovane donna, Blandine, di professione attrice, ricoverata in manicomio, la quale non ricambia (se non nella mente dello stesso Gozzini) l’amore dell’uomo. L’economista, l’io narrante, tenta di difendersi dalla morsa dell’Organizzazione, che non gli consente il pieno controllo della propria vita e, naturalmente, di raggiungere l’amata. Gozzini vive così una duplice ossessione di matrice paranoide: la “prigionia” e la passione per Blandine, due situazioni che potrebbero essere le facce della stessa medaglia. Il romanzo si conclude con il disvelamento della verità: in forma non di discesa, bensì di ascesa all’inferno.
Mentre preparava il soffritto (ma ogni tanto andava in sala e prendeva il binocolo e lo puntava, credo, oltre il ponte, sulla villa rossa, poi tornava e riprendeva a parlarmi della Realtà pura) venni a sapere che la storia era ben più complessa e inquietante di come si presentava in quella dozzina di righe. Blandine era un’attrice in cerca di parti e provini, ben consapevole del fatto che il professor Gozzini, con la sua ventina di anni in più, ne era perdutamente innamorato; per questo lei sapeva di poter disporre di lui come e quando voleva. Il romanzo iniziava con un buon respiro fino a stringere le aperture e a costringere il lettore come si fa quando si ospita qualcuno a casa e man mano che costui è lì gli si stringono gli spazi, il corridoio, le camere, la sala, con nuove librerie e nuove pile di libri. Una scrittura stupenda, sorvegliatissima, ma angosciante. Gozzini, l’io narrante, dopo un po’ ci fa penetrare da quel mondo che all’apparenza rasentava la comicità, a un mondo “realmente” comico, fatto di strani uomini con la giacca di finta pelle che ci seguono, comprano il giornale e tornano a piazzarsi sui nostri usci, e strani custodi di una clinica dove, pare, sia stata ricoverata Blandine. E su tutto appunto, appunto, Blandine che è sparita, Blandine che Gozzini rivuole anche se lo umiliava, Blandine da liberare, ma Blandine prigioniera… Nel mentre la pasta era nel piatto, ci sedemmo e mangiammo, bevemmo, anzi, facevo tutto io perché Riccardo De Gennaro seguitava a raccontare. Era quasi sera, e speravo ancora parecchio in un ripensamento e in un invito. Dissi: “Riccardiño, i piatti li lavo dopo, anche il caffè lo prendo dopo… Ora se permetti, mi siedo in sala e leggo…”. Alzò il mento. Mi portai in sala con La realtà, prima di sedermi mi avvicinai alla vetrata. L’uomo con la giacca in finta pelle ecc. da giù probabilmente si aspettava di vedermi, in fatti teneva la faccia alta e quando mi vide sorrise.
Gozzini ogni tanto fa dei sogni e si sveglia con dei dolori ai piedi e alle ginocchia. Non esce più, ma controlla il suo controllore, al quale non chiede spiegazioni, perché ha scoperto che il burattinaio che tiene collegato pedinatore e Custode della clinica che non lo fa entrare a cercare Blandine, risponde a un entità, all’Organizzazione. Non appena Gozzini sta meglio progetta una vendetta, ma non è facile, anche perché ogni tanto, dopo il ginocchio, a patire sono gli occhi, una strana punizione che gli in qualche modo gli viene inflitta dall’Organizzazione, ma Gozzini è forte e la coscienza di esserlo non l’abbandona mai … “Gli dimostrerò che anch’io, un intellettuale, posso essere cattivo, molto cattivo, più cattivo di loro, malato e molto cattivo, non immaginano quanto io possa essere malato e cattivo. Ci sono momenti in cui, se mi concentro, raggiungo livelli di collera senza uguali, le pareti dello stomaco diventano dure come il cuoio, la dentatura superiore va a incastrarsi davanti a quella inferiore e preme e schiaccia e digrigna, come la macina di un frantoio. Il cranio, poi, diventa una boccia di ferro, la cassa toracica una fornace. Potrei attraversare i muri, saltare dal terzo piano e rimanere incolume…”
A pagina 96 leggo che “i medici – mi è stato riferito dal mio anonimo informatore – non le consentono di uscire per nessuna ragione, nemmeno per una passeggiata…”.
Mi alzo, il tipo giù non c’è. Informo in fretta Riccardo: “Sparito”.
“Sì, fa orari da cartellino”.
“Senti, sono a pagina 96… Mi sono perso chi è l’anonimo informatore…” Riccardo muove gli ossicini della mandibola. “La ami ancora molto?”. Gli ossicini. “Ma è un romanzo… Che c’entra? C’è una documentazione pazzesca. C’è tutto uno studio sui quadri di Magritte e tu mi chiedi se la amo… C’è la condanna senza reato, capisci…”. Mi prese di mano il libro, ossicini, e lesse: Provo ormai compassione per questa persona, una compassione suscitata dal fatto che nessuno si sceglie il proprio destino, ci si finisce dentro e spesso il dramma è già contenuto nella vita della vittima senza che se ne renda conto. Quanto a Blandine, è la distanza sentimentale che mi preoccupa, non quella geografica.
Era a pagina 105 e iniziai a leggere da pagina 104, prima che mi dicesse: “Non eri lì, te l’ho preso di mano che eri a 98…”.
In realtà gli occhi erano caduti su una parola di pagina103-104 e a tutti i costi volevo leggere la frase. La parola era in corsivo. Uscirne. La frase: Non ne uscirai facilmente, non ne uscirai se non saremo noi a deciderlo, dicevano ancora i suoi pensieri. Sul momento provai una certa inquietudine, ma una volta a casa considerai che un omicidio permette in ogni caso alla vittima di uscirne, dunque se io non dovevo uscirne facilmente, non sarei stato ucciso.
Tornai a pagina 98, finii il libro e, dopo qualche minuto, la caffettiera. Non ci dicemmo nulla. Volevo dirgli che era un romanzo incredibile, e lo pensavo davvero, che mai più sarei riuscito a leggerlo se non fosse che tentavo di fermarmi a dormire, ma ora che l’avevo finito e probabilmente mi prendevo il trolly e salivo sul 170 diretto a Termini e mi cercavo un b&b a buon prezzo, o saltavo sul treno delle undici per la Liguria, avrei voluto dirgli che era davvero una grande esperienza quella scrittura. “Ma tu mi vuoi dire che l’uomo con la giacca di finta pelle ecc. è apparso da quando ti sei messo a scrivere questa storia?”.
“Dal giorno in cui il libro è uscito, esatto”.
“E lei?”.
“ Lei cosa, a volte fai davvero delle domande sceme… L’hai letto il libro? Abbi pazienza, ma non ti capisco”.
“Hai ragione… Sì, l’ho letto. Mi è piaciuto molto. E ora me ne vado ma tornerei domani, fosse solo per andare alle spalle dell’uomo con la giacca eccetera e prenderlo per il bavero”.
“Puoi prenderti la soddisfazione fin da ora. Nel romanzo lo facevo abbandonare la postazione verso le 18 e dopo qualche ora, a volte due, a volte tre, ma mai più di quattro, lo facevo tornare… E lui ora fa esattamente così”.
Andarci a guardare era ammettere che non ci credevo. “Ne sei convinto ora?”. Presi con me la copia de “La realtà pura” e, come facevo di solito anche con gli ultimi numeri di Reportage, infilai tutto nel trolly, Riccardo mi disse che i piatti li lavava lui, e così ci salutammo. In strada mi diressi verso l’uomo, che se ne stava sul marciapiede a guardare le acque fangose del Tevere, che trasportavano giunchi, illuminati qua e là dai lampioni.
Affiancai l’uomo, mollai il trolly, non ci dicemmo nulla. Di là del fiume c’era la grande villa rossa, la clinica in cui nel romanzo lavorava il Custode. Era lui che impediva l’ingresso a Gozzini e non faceva uscire Blandine dal reparto in cui si trovava ricoverata.
“Lo volete lasciare in pace?”.
“Parli con me?”.
“Sì, con te, con la tua cazzo di giacca di finta pelle”. Si guardò la giacca, posò il giornale sul muretto, si aggiustò il berretto.
“Credi ci prenda gusto, a star qui all’umidità?”. Non aggiunsi nulla, mi avviai verso il ponte, e prima di imboccarlo alzai gli occhi. Riccardone era lassù alla vetrata, non poteva sapere cosa ci eravamo detti, ma a quel punto intuiva che stavo imboccando il ponte, che tante volte avevo attraversato con lui, e mi dirigevo alla villa. Credevo che mi avrebbe chiamato, ma mi sbagliai. Giunsi alla villa con l’entrata come il quadro di Magritte. Dissi al Custode: “Senta, vorrei parlare con Blandine, so che è ricoverata qui”. Mi aspettavo mi dicesse si sbaglia, in questo luogo non ci sono ricoverati. Invece si fece una risatina. “Impossibile, lei pensa di venir qui con un cazzo di trolly e di poter far visita ai pazienti?”.
“Per chi lavora?”.
Si alzò, zoppicava. Andò a chiudere il cancello che dava sul cortile interno, lasciandomi al bancone. Da lì non sarei potuto andare da nessuna parte se non uscire. Alla piccola televisione della videocamera che stava sul tavolino oltre il bancone vidi il movimento del Custode… E tre numeri di telefono sul foglio accanto al cordless. Veloce, estrassi il mio, allungai la mano, feci una foto… Se ne accorse, lasciò perdere il cancello e si avventò su di me, all’apparenza senza alcun problema di locomozione.
“Ma tu non zoppichi”.
“Cancella quella foto ed esci immeditamente”. Ripresi il mio trolly e uscii. Non mi seguì, ma dal ponte vidi che di là, il pedinatore stava parlando al telefono e immaginai lo stesse chiamando il Custode. Guardai su, le finestre. Riccardo non c’era. Passò un taxi, lo fermai, saltai su. Dissi che andavamo a Termini. Il tassista mi chiese se volevo mettere il trolly nel bagagliaio, dissi di no.
Dopo un po’, nel mezzo di Trastevere, in mezzo a una serie di gracchianti chiamate della centrale, immagino, alle quali il tassista non rispose, giunse un messaggio diverso, e allora il tassista afferrò il ricevitore. Mentre guidava e ascoltava mi guardava nello specchietto. Quanto a me, facevo caso solo a lui, provando a capire anche solo una parola di cosa gli stessero dicendo, e non mi accorsi che anziché proseguire verso Termini, stavamo tornando al ponte.
Autostop per la notte è il titolo più appropriato per il thriller mozzafiato scritto da Massimo Anania e pubblicato dalla casa editrice torinese “Miraggi”.
La notte è sicuramente il momento temporale in cui iniziano le disavventure, via via culminanti in una spirale di violenza tanto cruenta quanto efferata, del non più tanto giovane ma squattrinatostudente universitario Maurizio, protagonista principale dello story-telling.
Ma la notte è anche la metafora di un vortice apparentemente infinito di guai e sciagure, conditi di fughe disperate e riacciuffamenti insperati indi farciti di alcol e cocaina.
Tutto comincia col passaggio di uno sconosciuto, Rodolfo Roppo, subito calatosi nelle mentite spoglie dell’amico fidato, o, addirittura, del saggio e protettivo fratello maggiore (che alla fine si scoprirà essere stato non tanto casuale), all’altezza del grande spartitraffico di corso Orbassano a Torino.
Proprio la splendida città della Mole e il suo hinterland, magistralmente descritti da Anania (che quasi ci proietta nei luoghi di ambientazione della trama, alla stregua di un vero e proprio proiettore di immagini tridimensionali), fagocitano – mai ombreggiando o nullificando – tutti gli altri personaggi; che sono pochi e possono, come però si scoprirà arrivando con spasmodico e anelante piacere all’ultimo rigo della pagina conclusiva, ben dividersi in buoni e cattivi (rispetto alle sorti del protagonista) senza strane interferenze di improbabili commistioni tipologiche: la bella ma cinica Giovanna Liseo, la seducente seppur ingenua Camilla Roppo (cugina di Rodolfo, ma di tutt’altra pasta), l’anfitrione e faccendiere Antonello Zanza, il rassicurante risolutore di problemi Sandro Corda, l’innominato becero travestito.
Il libro è breve ma angosciantemente bello.
Apprezzabili, sul piano stilistico, l’utilizzo costante della seconda persona singolare (che – a prescindere da qualsivoglia tendenza empatica – induce il lettore a immedesimarsi nel protagonista) e l’esplicitazione, in corsivo, dei flussi mentali del buon Maurizio stesso.
Musica consigliata: Luciano Ligabue (Hai un momento, Dio). Bevanda suggerita: Erbaluce di Caluso passito (ottimo vino del Canavese)
Frammenti. Credeva De Roux che il deserto fosse il nulla: un nulla puntinato di miraggi, intervallato da inganni. E sentiva che la scrittura fosse parte del niente, quella parte del niente che addenta l’essere. Il letterato francese considerava la modernità come una concessione alle circostanze: tutte le filosofie condannate a essere soltanto un avvicinamento alla verità; il tradimento complementare al segreto; la disperazione, spesso, una linea retta. Perché “qualsiasi speranza è assolutamente inutile, qualsiasi cosa accada”. Giurava De Roux che non poteva esistere grande cultura se l’uomo non si dava un nuovo senso del mondo: è la condizione della specie, ripeteva, “soltanto all’essere è dato di dire tutto dell’essere”. L’uomo metafisico non poteva che essere, fisiologicamente, reazionario. La parola “nazionalismo” doveva significare: “nascita, natura”. Questo suo quaderno di massime, aforismi, meditazioni e provocazioni nasceva prendendo congedo: “immediatamente. Itinerario nel doppio miracolo dell’apparizione delle cose, da una parte, e della loro sparizione, dall’altra”. Prendendo congedo, de Roux restituiva la sua letteratura: i suoi scrittori. Dante, Ezra Pound, Heidegger, Hölderlin “abitano insieme sotto il cielo, ai piedi della Misura; abitano la misura”. Salutare Ezra Pound significava “inchinarsi davanti alla mirabile essenza della poesia universale”: perché la sua attività di poeta, la sua concentrazione spirituale in quel momento rappresentava “l’autentico tentativo di reintegrazione spirituale di fronte alla disintegrazione della materia”. De Roux non considerava possibile la chiacchiera sui silenzi del poeta dei Cantos. Gombrowicz: tutto era sogno in lui: la sua era “una pratica essenzialmente orfica”. Nei suoi scritti, “la nostalgia di una felicità pagana affrancata dalla coscienza faceva da contrappeso all’utopia”. Foucault, invece, nelle sue acrobazie politiche: “una farfalla che batte il tempo coi piedi”. Malraux? “Un afasico. Ogni tre parole, mentre parla, emette una virgola. È lui il lancio di dadi che abolisce il caso”. Henry James, un maestro: “Rammentare ai giovani scrittori, e a ogni lettore, le parole di Faulkner: ‘Credo che Shakespeare non abbia letto Freud’. E consigliargli Henry James”. James, uno che aveva smesso di scrivere storie di fantasmi perché, diceva, “sono un binario morto”. Credeva de Roux che la letteratura fosse – anche – la distanza tra la realtà che si allontana e il sogno, il sogno che si inventa da sé…
Credeva De Roux che il deserto fosse il nulla: un nulla puntinato di miraggi…
Siamo di fronte alla prima edizione italiana di Immédiatement, originariamente apparso in patria, per la Bourgois, nel 1971, quindi ripubblicato dalla Table ronde, nel 1995 e nel 2009: merito della collana Tamizdat della Miraggi, una collana diretta da Francesco Forlani. Nelle parole di Forlani: “de Roux non solo fa parte della tradizione degli infrequentabili del Novecento, ma potremmo dire che sia stato il primo a intuire, di quelle nature scomode e insieme necessarie alla cultura occidentale (Céline, Artaud, Pound, Gombrowicz, Bernanos, tra gli altri), il ruolo di visionari, una grandezza da proteggere a tutti i costi […]. La vocazione di de Roux è in questa funzione vitale di conservazione, diffusione, traduzione e allo stesso tempo crescita parallela della parola che da materiale diventa quasi subito spiriturale, corpo a corpo, senza risparmiarsi”. Chi era Domininique de Roux? Un romanziere, un reporter, un editore: un letterato estremamente competente e un uomo fragile, morto appena quarantaduenne, nel 1977. Aveva fondato, nemmeno trentenne, la rivista «Cahiers de l’Herne», giocata per monografie dedicate a figure laterali, maledette e rimosse della cultura europea: fatalmente, come ben sappiamo, ciò avveniva (e continua ad avvenire) per lo più per basse ragioni ideologiche e spesso per bieche rappresaglie politiche. Stando a quanto ci riferisce la bandella dell’edizione Miraggi, la pubblicazione di questo suo personalissimo diario frammentario, Immediatamente, irritò il mondo intellettuale ed editoriale francese, in primis sua maestà Roland Barthes, “costringendo de Roux ad abbandonare la Francia per diventare corrispondente giornalistico e autore televisivo”. Che malinconia. Pubblicò l’ultimo romanzo, Le Cinquième Empire, pochi giorni prima di morire; altro apparve postumo. Qui in Italia, pochi anni fa abbiamo potuto apprezzare il suo saggio La morte di Céline, per merito della piccola Lantana di Alessandra Gambetti. Immediatamente è stato pubblicato col sostegno del Centre National du Livre; ritroverà, faticosamente, un suo pubblico, frammentato e irregolare come la sua scrittura. Peccato che i tanti riferimenti a de Gaulle, al Vietnam e alla Cina siano oggi sostanzialmente materiale da storici o giù di lì: difficile che certe battute vengano accolte con la stessa immediatezza. Diverso il discorso per le intelligenti, profonde e amene reminiscenze letterarie (l’arte non invecchia, s’impolvera soltanto).
Autismi di Giacomo Sartori potrebbe essere preso come esempio della non del tutto serena relazione tra pubblicazione via web e pubblicazione cartacea, oggetto di tante dissertazioni in materia che ormai da una ventina d’anni occupano i siti letterari. Sarebbe facile pensare che una raccolta di racconti in volume pubblicati in prima versione su una delle riviste on line più autorevoli tra quelle in circolazione possa incontrare un largo favore ed una altrettanto ampia diffusione. Diversa la storia di questi racconti. Usciti dal 2008 al 2010 su Nazione indiana, di cui l’autore è tra gli esponenti più autorevoli (e più appartati), sono stati antologizzati a fine 2010, quando, come si legge nella Nota dell’autore, “un microeditore ha stampato centotredici eleganti copie della versione rivista della raccolta, che non sono mai arrivate in libreria, forse perché si sentivano incomprese e sole.”
Per contro, il volume è stato finalista al premio Settembrini, e alcuni dei testi hanno trovato la fortuna che meritano in forma di monologo teatrale o grazie a traduzioni su riviste americane e francesi. Finalmente, qualche mese fa Autismi compare in libreria, per merito di Miraggi editore.
Ma che cos’è Autismi? Una raccolta, pregevole per intensità espressiva e densità concettuale, composta da sedici episodi correlati per formare altrettante tappe di un percorso di esplorazione e di descrizione del mondo di un unico personaggio, che si intuisce avere parecchio in comune con l’autore: una prova di autofiction (la lunga permanenza dell’autore in Francia può avere a che fare con questa scelta narrativa) per frammenti, che danno conto di un io coerente, per quanto strambo possa apparire.
Significativa del genere di autofiction che l’autore ha in mente è del resto la citazione da Marguerite Duras posta ad esergo del libro, in cui la scrittura è avvicinata a “un altro individuo che fa apparizione e avanza, invisibile, dotato di pensiero, di collere, e che qualche volta con i suoi maneggi si mette in pericolo, anche di morte”. Sartori oggettivizza l’altro se stesso che opera nel libro, lo rende autonomo, facendone un altro da sé, di cui però conosce i pensieri, le impressioni e le ossessioni più riposte.
L’autismo del protagonista si esprime con un desidero di inapparenza periodicamente ritornante, una tendenza al confinamento di sé, al nascondimento, come si desume dai testi iniziale e finale della raccolta. ”Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Poi appunto ci entro dentro. Mi ci seppellisco, si potrebbe dire”: questo l’incipit del primo racconto (Il mio lavoro), mentre si direbbe non casuale che l’ultimo testo sia Il mio testamento biologico. Il senso di chiusura che percorre almeno parte, se non tutti, i racconti genera a tratti effetti claustrofobici, già esplorati dall’autore in alcuni suoi romanzi, come Sacrificio (Italic e Pequod, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011) e Rogo (Cartacanta2015). Il campo di analisi è però qui diverso da tutti gli altri precedenti: la patologia è più esistenziale che fisica, l’inquietudine si manifesta nel martellante arrovellarsi del protagonista su questioni apparentemente minime, ma capaci di dilatarsi progressivamente sino a saturarne la coscienza.
A volte la materia dell’ossessione tende a superare i confini della ordinaria narrabilità, almeno quella misurabile in un contesto di decoro borghese (che l’autore, nonostante l’eleganza della scrittura, o forse, in deliberato contrasto con questa, non pare voler rispettare). E’ il caso delle vicende raccontate in Il mio organo di riproduzione, in cui il membro dell’io narrante pare vivere di vita propria, acquisendo lo statuto di protagonista di un particolare tipo di scissura della personalità (echi del moraviano Io e lui?). La mia cacca è altrettanto intenzionalmente anticonvenzionale. Il protagonista constata con stralunato stupore che l’umanità nel corso di millenni di evoluzione, non ha affrontato né tanto meno risolto il problema della pessima qualità dei propri escrementi, non essendo riuscita “a creare una cacca di qualità omogenea, puntuale e affidabile, e di odore sopportabile, se non proprio profumata”. Inizia uno studio meticolosamente condotto, al termine del quale ha modo di capire che l’uomo “è un lunghissimo tubo digerente, al quale l’evoluzione ha attaccato le gambe, indispensabili per la locomozione, le braccia, utilissime per procacciare il cibo e avvicinarlo alla bocca, e gli altri organi che servono a far funzionare il lungo budello digerente, assicurandogli tra le altre cose la riproducibilità nel tempo.”
L’egocentrismo che pare filtrare la percezione del mondo dell’io narrante non si limita ovviamente agli aspetti più materici dell’esistenza, ma abbraccia con eguale acribia anche le relazioni umane e si sentimenti che suscitano le diverse condizioni esistenziali. Investe così i rapporti familiari, dei quali il protagonista insiste a ricercare le crepe, anche quando si abbandona a riflessioni esistenziali depurate da quella sovrabbondanza di cinismo, che altrove si dimostra straordinariamente efficace per reggere la narrazione sul filo sottile del paradosso. E’ il caso di Mio figlio, in cui la descrizione di un figlio amato, ma in certo senso costantemente distante, sfocia in una rivelazione finale da non anticiparsi al lettore, in cui si leggono riflessioni come questa: “I figli servono ai genitori per capire se stessi. Guardandosi riflessi nelle loro pupille dove sfavillano scintille di amore ma anche di odio capiscono che non sono come hanno sempre creduto di essere, o che comunque possono essere visti in maniera radicalmente diversa. Il che apre pur sempre un deleterio varco. Si rendono soprattutto conto che il mondo è già intrinsecamente diverso da come sono abituati a pensarlo, e che in altre parole sono già vecchi. Non occorrono le frasi, bastano gli occhi. Tramite mio figlio ho avuto per la prima volta la certezza che ho fallito: una cognizione cristallina, un cancro inoperabile.”
Altrove, come in Mia sorella, il racconto della relazione familiare si fa più duro, svela quasi subito una ferocia che solo il più vieto senso del rispetto borghese delle forme riesce a contenere, salvo deflagrare all’improvviso, senza una causa proporzionata alla violenza dell’esplosione. Un alternarsi sapiente di registri tonali caratterizza un altro ritratto familiare, Mio suocero, arguta descrizione della veglia funebre del padre della moglie, in cui in poche pagine si concentrano compiute descrizioni di diverse figure, colte nei loro tratti caratteriali più significativi, dal cognato, sospettoso e preoccupato per dover dividere l’eredità con un estraneo, al miglior amico del morto, “persona con importanti responsabilità a livello nazionale”, ad un altro amico, ex terrorista, alle due sorelle del morto, che portano un contributo di autenticità alla situazione proprio perché dolenti (“non avevano bisogno di mostrarsi tristi, visto che erano tristi davvero. Dicevano quello che avevano voglia di dire, trasformando la veglia funebre in un allegro e toccante chiacchiericcio”) ed anche per via di una certa vena di anticonformismo latente sotto le apparenze perbeniste. Il finale si modula su una tonalità ancora diversa, laddove il protagonista scopre di conoscere il defunto “tramite la figlia, tramite gli atomi della figlia che ritrovavo nella sorella omosessuale, tramite i geni indomiti che vorticavano in quel ramo della famiglia, e che erano sciamati anche in mia moglie. Quei barlumi di follia che amavo. Il fatto che lui fosse morto e io fossi ancora vivo non mi appariva più la differenza così fondamentale che mi era sembrata quel mattino.” Diversa modulazione rivela, invece, Il mio migliore amico, ritratto appassionato e tragico di un’amicizia duratura, nata sui banchi del liceo e alle svolte della vita riaffiorante in forme diverse ma con un’intensità che, per una volta tra tutti gli altri autismi, mette la sordina all’ironia e consente lo sfogo al racconto di emozioni.
Alla moglie (presente in più racconti), l’autore dedica il ritratto più definito in Terapia di copulazione, raffinata satira delle terapie (e dei terapeuti) per coppie in crisi, in cui la soluzione per la riconquista di una moglie diffidente e prevenuta (a dire del marito) si trova in una sana raffica di risate, di cui il racconto comprova effetti miracolosi nella ricostituzione di una complicità perduta. Anche del rapporto con la madre il protagonista evidenzia le zone d’ombra, con debiti per i quali non è facile ottenere risarcimenti: “Come ogni angioletto che si rispetti amavo di amore corrisposto mia madre. Insomma, abbastanza corrisposto. Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo. Ma insomma vivevo pur sempre un grande amore abbastanza corrisposto.”
Ben più di un’ ironia irriverente Sartori spende nella descrizione feroce della sua città d’origine (La mia città), dove “ogni misfatto locale – a patto beninteso che venga perpetrato da criminali autoctoni – viene travestito con un eufemismo appropriato, e archiviato” e “l’adesione incondizionata al fascismo … viene definita fredda accoglienza, la zelante collaborazione con i nazisti viene chiamata Resistenza, il giogo della religione viene chiamato tradizione cattolica, gli affaristi e i governanti colpevoli di ogni sorta di corruzioni e furti vengono chiamati Egregio Direttore ed Egregio Presidente, i luna park sciistici vengono definiti parchi naturali, i preti pedofili colti in flagrante Padre Tale o Padre Tal Altro, il genocidio delle specie animali e vegetali sviluppo della viabilità e delle infrastrutture, i vigneti e i frutteti avvelenati per l’eternità dai pesticidi zone rurali di pregio, e via dicendo.”
L’oltranza della satira deborda a volte in episodi di autentica crudeltà, espressa sempre con forme di rara eleganza. Il nitore della scrittura lascia trasparire sia le meschinità dei singoli sia il degrado dei rapporti umani generato dalla somma di queste meschinità nelle comunità (famiglia, amicizie, cittadina) che il protagonista frequenta. E da un punto di vista in apparenza orientato su vicende personali, lo sguardo dell’autore si allarga verso prospettive più ampie, fino a scrutare con inesorabile lucidità la progressiva disgregazione di un impianto di valori sempre meno socialmente condivisi. Ma la pars destruens della critica sociale che l’autore riesce sorprendentemente ad accennare in via implicita, raccontando casi così squisitamente privati, non trova compensazione nell’invenzione di alternative. Gli Autisminon inclinano affatto a particolari compiacimenti verso costumi e assetti sociali che il conformismo dell’anticonformismo propone come nuovo. Piuttosto, l’auscultazione di sé in essi ampiamente praticata ci immette nel cuore della contemporaneità, e tutto ciò che di essa appare consunto dall’uso, banale, ordinario, nella vita e nei rapporti umani per Sartori non solo nasconde una vena di bizzarria, ma segnala, nel suo piccolo, il senso del limite che affligge il nostro tempo.
La labile linea che separa realtà e finzione, e la possibilità che i due piani s’intreccino e si scambino di posto, sono i temi chiave dell’ultimo romanzo di Nicola Manuppelli, milanese trapiantato a Piacenza, traduttore dall’inglese coon già due libri di narrativa alle spalle. “Roma”, pubblicato da Miraggi edizioni, è ambientato nel mondo di Cinecittà all’inizio degli anni Settanta e racconta di una sgangherata banda di giornalisti sui generis che scrivono, ma molto più spesso creano, notizie di gossip su attori famosi. Come quando Satchmo – capo e anfitrione della compagnia, un moderno Trimalcione, come lo stesso autore lo definisce, alto poco più di un metro e somigliante a Louis Armstrong -, per poter scattare una foto che documenti di una fantomatica riconciliazione tra Richard Burton e Liz Taylor, non esita a far travestire il suo eclettico collaboratore Calabria, facendogli vestire i panni dell’attrice hollywoodiana, con esiti grotteschi ed epilogo rovinoso. Protagonista del libro è Tommaso che, partito da una Milano descritta come stoica e polverosa, si ritrova travolto da una città epicurea, gaudente, dissacrante, una città stracciona e felice. Il libro attinge all’immaginario felliniano, s’inspira al regista riminese fin dal titolo, e vedrà, al suo culmine, la sguaiata cricca guidata da Satchmo sul set di “Roma”, in una scena acquatica e quasi orgiastica la cui pellicola, naturalmente, andrà persa. Se felliniano è il libro, ancor più felliniana è stata la presentazione piacentina a palazzo Ghizzoni Nasalli, organizzata dalle librerie Fahrenheit e BookBank. Infatti, insieme a Manuppelli e al giornalista di Libertà Paolo Marino, c’era l’attore americano Peter Gonzales Falcon, che nel film “Roma” impersonò un giovane Fellini che lascia la Romagna e, guarda caso, approda in una Roma fantasmagorica. Gonzales ha raccontato in maniera suggestiva la forza dello spirito felliniano e la città che visse in quegli anni magici tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. «Tanti pensano che la Roma rappresentata da Fellni fosse tutta un’invenzione, invece era proprio come lui la racconta, un’immensa festa dove si viveva assieme e ci si divertiva. Gli americani fanno fatica a capirlo».
Il romanzo di Manuppelli è soprattutto un libro di storie che si affastellano una sull’altra, di invenzioni e di avventure bizzarre. Ed è attraverso il gioco del racconto che Tommaso trova infine se stesso. A Roma Tommaso riesce a liberarsi dalla corazza «di uno nato in un posto freddo», una corazza, dice, che «invece di difendermi, mi isolava». A Roma Tommaso scopre la vita. «Lì dentro, a Cinecittà, era come tornare bambini. Era esaltante, era gratificante. Inventare. Costruire mari di plastica, teatri di marionette, ombre cinesi. Partecipare gioiosamente a quell’attività semidivina che è la creazione. Giocare. Giocavano tutti. Io mi sentivo fortunato, mi sentivo eletto e mi sentivo Tommaso del presente che aveva fatto pace con tutti i Tommaso precedenti. E in quel giardino dell’Eden non c’era più nulla da riconciliare, non c’era più nemmeno il tempo. C’erano le infinite possibilità delle storie».
Due amici, Ettore e Paolo, e un viaggio attraverso l’Europa. Si comincia in Islanda, si arriva a Torino, al Filadelfia. Apparentemente sembra un tour senza una filo conduttore, alla ricerca di incontri improbabili con personaggi famosi oppure di una scazzottata con un gruppo di danesi sovrappeso. Eppure c’è una logica di fondo in “Torneremo ad Amsterdam” (Miraggi edizioni, 107 pagine 12 euro), il romanzo scritto da Fabio Selini. Ed è una logica granata, nel senso di Torino. Di quei tifosi che hanno sognato di conquistare l’Europa con la Coppa Uefa nel 1992 e vennero fermati nella doppia finale da traverse e decisioni arbitrali controverse. Ettore e Paolo hanno in mente di prendersi una rivincita, nel nome di chi lottò contro tutto e tutti, come Emiliano Mondonico e la sua famosa sedia sollevata al cielo. E questa rivincita riparatrice arriva. Come? Lo scoprirete nelle ultime pagine.
Vorrei iniziare un percorso nuovo, raccontandovi le mie emozioni nel leggere autori emergenti, e oggi inizio con Marco suo NON TI SPEGNERE la sua terza silloge poetica.
Di Fioralba Focardi (https://screpmagazine.com/author/fioralba-focardi/) – 18 Dicembre 2018
Ecco in questa silloge ci si ritrova!
Non ti spegnere chissà perché a volte le parole non salgono alle labbra, ma restano dentro al cuore. Marco ha un incredibile
capacità: i suoi pensieri poetici, questi dialoghi fra Lui e chi decide di leggerlo hanno una semplicità interiore che scalda
veramente l’anima.
Non è retorica la mia.
Non è solo amicizia.
Marco lo sa che se non mi piacessero le sue poesie glielo direi tranquillamente. Dicevo chi decide di leggerlo sa che troverà quotidianità che ognuno di noi vive, parole negate, sogni frantumati, poesie appese al cuore.
Ma non si ha il coraggio di scriverle.
Ecco, Marco scrive per tutti, non solo per le Donne, scrive davvero per tutti. Mi piace questo suo modo d’interpretare la
quotidianità. Ma ora dopo aver fatto l’elogio iniziale voglio parlarvi di ciò che ho provato leggendo le sue poesie.
Marco, sembra che qui tu sappia bene ciò che molte donne nascondono e credo anche gli uomini, le delusioni sanno essere
prigioni, la violenza psicologica ci deturpa l’anima e la mente. Le ho lette tutte d’un fiato, le tue poesie, poi le ho riprese
leggendole poco alla volta, sorseggiandole come un buon vino per comprenderle bene, ma sono così vere che non c’è bisogno andare nei meandri della mente.
All’inizio credevo parlassi davvero a me, a un’altra donna, a tutte le donne, ma poi piano piano ti sei aperto in questo tuo
dialogare e hai buttato te stesso dentro i tuoi scritti, forse mi sbaglio, perciò aspetto una tua smentita, ma sai la poesia la legge. E questa silloge, credo che farà parte di molti cuori in cerca di Poesia.
Una sedia alzata diventata simbolo di appartenenza. E ora anche un libro che ricorda la notte più coinvolgente della storia recente granata. Il Toro non poteva che fare da sottofondo alla nuova fatica di Fabio Selini, bresciano che si è innamorato del Torino grazie a Pulici e Graziani. “Torneremo ad Amsterdam”, edito da Miraggi e nelle librerie dal prossimo 15 dicembre al prezzo di 12 euro, è stato presentato ieri al Circolo della Stampa-Sporting.
Non è un’opera storiografica però, ma un romanzo che racconta la storia di due amici quarantenni, Ettore e Paolo, che nel loro viaggiare senza una destinazione precisa per l’Europa – apparentemente, perché tutte le tappe coincidono con la cavalcata granata: dall’Islanda fino all’Olanda – si ritrovano come ultima metà nella città dei tulipani, dove 26 anni fa il Torino guidato da Emiliano Mondonico si giocò la finale di ritorno di Coppa Uefa contro l’Ajax mancando il successo a causa di tre pali (dopo il 2-2 dell’andata). «A quella partita, l’unica finale del Toro, penso dalla notte del 13 maggio 1992», le parole di Roberto Cravero, storico capitano granata, al quale è stata affidata la prefazione.
In quella squadra giocava anche Silvano Benedetti, oggi responsabile della Scuola Calcio del club di Cairo. «Fu un’esperienza bellissima, nonostante la delusione – le parole dell’ex difensore, allora però non ci rendemmo pienamente conto dell’occasione di entrare ancora di più nella storia. L’abbiamo capito dopo».
Considerata una delle voci più significative della letteratura ceca contemporanea, Bianca Bellová ha scritto una storia che è, al tempo stesso, un romanzo di formazione e una discesa negli inferi delle bestialità umani e degli orrori che il progresso può infliggere. “Il lago” – tradotto in quindici lingue, pubblicato in Italia dalla torinese Miraggi all’interno della collana NováVlna e vincitore di diversi premi – racconta la storia di Nami, il bambino cresciuto con i nonni che diventa uomo nella ricerca della madre, una ricerca che rappresenta lo spunto di partenza ma che via via si trasforma in qualcosa di più grande e definitivo: la necessità di trovare un proprio luogo all’interno di una realtà dura come quella di un paese dell’ex sfera sovietica.
La vicenda si dipana in una terra che sta al confine tra Uzbekistan e Kazakistan, attorno al lago di Aral, prosciugato a causa di politiche dissennate. A fare da cornice è un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca e che si ritrova sconvolto dall’improvvisa moria della principale fonte di sostentamento, provocata, nella credenza comune, dallo Spirito del lago, figura maledetta facilmente identificabile. Nami parte così per la capitale, dove si dedicherà ai lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino diventa fango putrefatto e su tutto continua ad aleggiare lo Spirito del lago, che ha punito la gente incapace di rimanere al di qua del limite con una violenza sconosciuta perfino agli invasori russi. «Un romanzo di ferite e cicatrizzazioni, perdite e riscatti, brutalità e tenerezza», l’ha definito con felice sintesi Laura Angeloni, autrice di una traduzione efficace e convincente.
A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È questo il motivo che spinge il ragazzo a scegliere la carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma alla ricerca di un cambiamento. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore un’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong, che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, che sogna di fare l’attrice e vende gelati. L’amarissimo finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.
Leggi la recensione si volevoesserejomarch.blogspot.com anche qui
https://volevoesserejomarch.blogspot.com/2018/11/roma.html?fbclid=IwAR1jcHZaOObcg8hMjzG-v-cAa-9ZI44nR6jH6gqRFa2wMa-5mGSZUsZzMtM
“Le ragazze stan sedute/ I ragazzi le osservano in piedi/ Attaccano bottone” oppure “Una volta lo facevamo/ Allora lo tengo io?/ Sì sì tienilo tu/ Pronto?/ Una cosa storica sull’Italia/ Della lavanda/ Mi manda l’email dopo, ha detto” oppure ancora “Bruciata a bruciapelo/ Ce l’aveva adesso in mano/ Ognuno ha le proprie/ Quanto?”. E infine: “È molto facile contrarre la malattia e l’opposizione deve essere pronta fin delle prime ore del mattino. Non è semplice opporsi ma è il livello minimo e anche massimo di soluzione nota. Anche se in realtà, almeno fino a oggi, non ha quasi mai veramente rappresentato una soluzione”. La tensostruttura di quest’opera vive nella temporaneità della posizione nella quale i materiali sono mantenuti. Guardandola dal basso uno si può chiedere come diamine si regga in piedi. Ma ecco ci viene in auto la citazione iniziale: “non sentirti in imbarazzo, puoi leggere in tutti gli ordini / come? / indicazioni preziose / come?” La risposta era già nella prima frase. Porsi ulteriori domande o meravigliarsi non ci porterà beneficio. Prestando l’orecchio alla rete-realtà, o alla reale realtà, come una grattugia con il formaggio, ecco che cosa cade dentro al piatto. Frammenti di un tutto e non briciole, che sono gli avanzi. Hanno forse una propria vita e una propria dignità, questi frammenti? Sono tessere di un puzzle in grado di sopravvivere se staccate dal resto del gregge? Ed è come se prendessi tutte le tessere di questo puzzle e le disponessi a casaccio sopra un grande tavolo. La figura intera c’è, è tutta lì, solo che ancora non si comprende e non si vede e, forse, non si vedrà mai del tutto, eclissata dall’incapacità della mano o dalla volontà di completarla o meno, semmai un puzzle disposto in tale modo completo non lo sia già…
Di cosa stiamo parlando? Di un tipo di ricerca poetica sviluppatasi dopo gli anni Novanta in un contesto che succede alla tradizione delle avanguardie storiche e nel quale i nuovi autori, in pratica, si trovano in un ambiente editoriale vuoto che essi stessi intendono riempire. Flarf poetry, googlism, minimalist concrete poetry, cut up e cose così. Metto subito le mani avanti: non conoscevo l’argomento, la tecnica, il dietro le quinte, ho cercato di saperne di più. Sono cioè un lettore popolare al quale questo volumetto è capitato tra le mani. Perché è questo quello che accade ai libri. Vengono presi in mano. Da chi? Da lettori senza pregiudizi e così devono fare anche i libri nei confronti di chi li legge: essere senza pregiudizi. Farsi cioè leggere da chiunque. Logico, direte voi. Non è così semplice. Tornando a noi, Marco Giovenale in questo mondo di ricerca poetica è uno degli esponenti più noti, facente parte del gruppo GAMM, attivo dal 2006 assieme ad Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano. Ma tornando alla domanda iniziale: di cosa stiamo parlando? Di una ricerca poetica che rinuncia al lirismo, smembra i testi (nella postfazione di Paolo Zublena la si paragona a una ventata fredda come l’asetticità di un’operazione chirurgica) trasformandoli in frasi volanti che prendono quasi la forma di spezzoni di conversazioni captate in mezzo alla gente. L’autore rifiuta uno stile qualsiasi, una struttura qualsiasi, allo scopo di ottenere un componimento non assertivo e una poesia no-logo, mi verrebbe da dire, a cominciare dalle maiuscole che non esistono più. Un approccio “caviardage” del poeta nel cosmo delle parole possibili, non ancora scritte e fluttuanti. Almeno questa è la sensazione del vostro lettore popolare.
Leggi la recensione di Marco Brollo anche qui
http://www.mangialibri.com/poesia/quasi-tutti?fbclid=IwAR3kfkT4MO6VGu6fidH1X7kkK1LdM3IIw7uE4nuK68dH27NS1YdjzJlt9Sc
Amo di un amore smisurato questi versi di Pasquale Panella, li porto con me e quando mi accingo a scriverne non riesco più.
Non è un monologo, è un soliloquio, nessun suono.
Come si possa costruire una meraviglia di versi sul continuo dirsi, nel silenzio e nella chiacchiera, mi sembra un vero incantesimo.
Incantata sto “Così che leggere è aggiungere i rumori, fingendo la leggibilità del soliloquio, che è illeggibile.”
Mi prende voglia che non sia vero, che non esista chi sappia così bene di cosa sono fatti i pensieri della solitaria, della solitudine, dell’essere soli, mi prende e mi accompagna verso il personaggio principale, “l’ascoltatrice”, colei che trascrive il soliloquio.
Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio.
Il soliloquio come il mare, come le onde, come le maree, come il moto di rotazione della terra intorno a se stessa, come il respiro nei polmoni arriva, invade, ossigena e va via in anidride, il soliloquio occupa e si disperde nella testa, nel pensiero, va e ritorna.
Puro e bianco movimento che viene fatto e cancellato dal suo farsi.
Nel parlarsi addosso “torniamo alla mia voce che io sola sento” la raccontiamo a tutti, scrivendola su un foglio bianco, raccontiamo che vorremmo raccontare.
La volontà, la nostra ” è vero che ci capiamo, umanità?”
Fra disperazione e divertimento, fra ironia e dramma, facciamo di un foglio bianco il tramite di pensieri e azioni, il tramite di un messaggio scritto, perché se lei, la voce, scrive, scritto è.
In un mio antico farneticare scrissi “Dirlo a tutti per non dirlo a nessuno” ed in Poema Bianco (Miraggi edizioni), in questa delizia in versi, noi ci lasciamo andare dove il poeta ci vuole portare: essere cullati dalle parole, dalla ripetitività della certezza che ce le potremo dire ancora e ancora e ancora.
Non è con il pensiero
che ti ricordo
Non è con il ricordo
che ti penso
È un’altra cosa:
è il senso
Prima non era
necessario”
Salutando con un inchino un autore inarrivabile, un gigante, un grande, e sentendomi rispondere
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