“Il Richiamo del dirupo” è il romanzo d’esordio della scrittrice torinese Mìcol Mei, Genere: narrativa. Pubblicato per la casa editrice Miraggi Edizioni, “Il richiamo del Dirupo” racconta di un ambiguo propietario e della sua villa a picco sul mare, “Il Pallido Rifiugio” dove una combriccola di intrepidi ma problematici personaggi cercano salvezza dalla mestezza delle proprie vite. Per conoscere meglio la storia e i progetti dell’autrice l’abbiamo intervistata per L’Opinionista.
“Il richiamo del Dirupo” è stato il romanzo che ha segnato il Suo ingresso nella narrativa italiana. A quasi due anni di distanza dalla pubblicazione, c’è qualcosa che modificherebbe del “Richiamo del Dirupo”? Oppure che non cambierebbe per nessuna ragione al mondo? Qual è il suo rapporto con le Sue opere precedenti? Le sente sempre figlie sue o le capita di rinnegarle?
Se fosse possibile modificherei ogni singola cosa che abbia mai scritto in vita mia. Sarei come uno di quei pittori che aggiungono o tolgono qualcosa al colore all’infinito. La perfezione non è interessante, come scrivo nel libro, è terribile. L’unica cosa su cui sarò sempre d’accordo con me stessa è l’autenticità nel comunicare.
Tutto ciò che scrivo e firmo è figlio mio, certe ingenuità col tempo si perdono, si sviluppa uno stile e un percorso nella propria narrazione e certamente guardando indietro si osserva come un maestro il lavoro di un allievo. Per diventare bravi c’è solo una cosa da augurare che ci capiti: invecchiare.
Pubblicare in Italia, soprattutto con una casa editrice valida come la Miraggi Edizioni, è impresa ardua per gli autori esordienti. C’è un consiglio che si sente di dare a tutti gli aspiranti scrittori e scrittrici che ancora faticano a trovare un editore? Nella quarta di copertina del Suo primo libro, d’altro canto, svetta una frase eloquente: “la speranza è davvero il peggio che possa capitare a una persona”.
Credo che la differenza tra un autore che continua a fare questo mestiere e uno che invece lascia perdere stia proprio nella perseveranza. Il talento è fortuna come diceva Woody Allen, per cui al mondo ci saranno moltissimi autori di talento che non hanno ancora avuto la loro occasione. L’unica cosa che conta veramente è crederci, sapere incassare e fidarsi delle persone giuste.
Il mio punto di vista sulla ‘speranza’ riguarda ciò che definisco ‘alibi’, traslitterando liberamente e modestamente Pasolini. Detesto il pensiero di non agire ma attendere che Tizio o Caio intervengano per risolvere le cose per conto loro. Penso che bisognerebbe sforzarsi di avere un po’ di coraggio nella vita e senso di responsabilità personale, per quanto duro sia da mettere in pratica.
Si tratta per l’appunto di rendersi consapevoli della propria vita.
A proposito di speranza: nel “Richiamo del Dirupo” molti personaggi sono aggrappati alla speranza, eppure presto o tardi faranno i conti con la realtà dei fatti e con le conseguenze delle proprie azioni. Che cosa è per lei la speranza? È davvero un sentimento negativo? Pensa che, da sola, possa bastare a raggiungere i propri obiettivi?
No, come ho appena menzionato votarsi a qualcosa o qualcuno perché ci tolga dai pasticci lo ritengo vano. Comprendo i sentimenti che spingono le persone a cercare questo genere di conforto e giustificazione rispetto a ciò che non vogliono ammettere con se stesse, ma preferisco vivere sapendo di essere responsabile e talvolta spettatrice.
È piuttosto risaputo che nell’atto compositivo ogni autore lasci nella propria opera qualcosa di sé. C’è un personaggio dietro cui si rivede maggiormente?
Tutti. Tutti loro sono una piccola frazione di me. Ogni personaggio riecheggia le mie cicatrici e i miei sorrisi. Tutte le mie storie sono la mia storia. Il mio debole per Thymian è però evidente.
Quali sono le fonti di ispirazione di cui si serve durante la scrittura? Parte da esperienze reali – in parte autobiografiche – o dalla sua immaginazione? In altre parole: quali sono per Lei le influenze reciproche fra letteratura e vita?
Entrambe le cose. Prendo delle fette di vita e di esperienza e ci costruisco una casa sopra. Poi qualcuno ci viene a vivere e inizia l’avventura. La vita è finzione e la finzione è la vita, quello che raccontiamo sono storie e nelle storie raccontate c’è sempre del vero e del creativo.
Concentriamoci per un attimo sulla persona a cui ha dedicato “Il richiamo del Dirupo”, Chiara Fumai. Vuole raccontarci qualcosa di quest’artista eclettica? Perché ha deciso di dedicare a Fumai le Sue pagine?
Non posso essere obbiettiva quando si tratta di Chiara Fumai, perché la considero un genio ma sono troppo coinvolta emotivamente e individualmente per poter dire ciò che è più giusto su di lei. Grazie al cielo c’è chi è riuscito a farlo e sono Nero Editions con il volume a cura di Francesco Urbano Ragazzi, Milovan Farronato, Andrea Bellini, POEMS I WILL NEVER RELEASE: CHIARA FUMAI 2007-2017. consiglio vivamente a chi è interessato o anche solo vagamente incuriosito di cercarlo online o in libreria.
Il “Richiamo del Dirupo” poeticamente può essere considerato un’oasi all’interno di cui convivono varie arti: la narrativa, in primis, poi la pittura, la poesia, la musica. Tutta l’arte assurge a essere luogo privilegiato: qual è per Lei il ruolo dell’arte nella vita delle persone? E nella Sua? Qual è il suo valore? Qual è il suo rapporto con l’arte e quando ha capito che non potesse farne a meno?
Ciascuno di noi giustifica la sua esistenza con ciò che significa più profondamente del resto, per me si tratta dell’arte e della curiosità, dell’imparare e scoprire, conoscere. Non ho potuto fare a meno dell’arte nella mia esistenza da quando ho imparato a camminare e ancora oggi è il leitmotiv della mia quotidianità. L’arte conta per tutti, solo che molti non se ne rendono conto.
Se si cerca il Suo nome in rete saltano subito agli occhi le tante persone che la seguono sui social network. Senza voler andare fuori tema, come considera questi strumenti? Che cosa rappresentano per Lei e per il Suo percorso artistico?
I social sono un male necessario per arrivare alle persone e raggiungere chi può amare ciò che facciamo, io da un paio d’anni mi sono affidata a persone competenti per aiutarmi in questo e nella mia carriera più in generale. Mi auguro di poter continuare a spacciare cultura e bizzarria con le mie opere e non solo.
Ho di recente scritto del notevole “Codice Rubens” realizzato da D’Aponte su sceneggiatura dei francesi Hoellard e Neau (vedi qui). Per l’occasione, ho riletto anche “I morti non sanno nulla”, un suo bel bel fumetto in collaborazione con lo sceneggiatore Pit Formento: un volume che avevo recuperato dopo la presentazione che avevamo fatto insieme del suo adattamento de “La Luna e i Falò” di Pavese, su testi di Marino Magliani.
Per gli interessati, qui un rimando biografico a D’Aponte, che ripercorre il suo percorso fumettistico, evidenziando il suo percorso artistico a tutto tondo, dall’Accademia alla collaborazione con la storica Orient Express di Luigi Bernardi (qui il sito dell’autore). Qui invece su Pit Formento, anch’egli un eclettico, dal cinema al fumetto (spesso figure che proprio per questo portano una certa innovazione alla Nona Arte).
Proprio Magliani scrive una bella prefazione all’opera, che non ha avuto seguito in altre collaborazioni per la precoce scomparsa dello sceneggiatore. Magliani parla di un “gioiello” e in effetti l’opera mi pare decisamente riuscita, ancorché tutto sommato meno nota di quanto meriterebbe nell’affollata scena del graphic novel italiano di oggi.
Magliani correttamente parla di un mix di modelli franco-belgi e argentini, anche se l’opera ha una notevole autonomia e quindi i rimandi possono anche esser solo connessioni che vengono in mente al lettore smagato del fumetto.
Il segno in effetti riprende la lezione franco-belga della ligne-claire, con un segno chiaro, preciso, in questo caso non quello morbido più noto ma quello più netto, squadrato, acuminato, in effetti più diffuso in ambito del fumetto più maturo. Il bianco e nero si presta molto bene a questa storia, e l’acquerellato di D’Aponte (uno dei punti di forza delle altre due opere che ho letto e citato prima) funziona bene anche in questa declinazione, creando contrasti chiaroscurali più soffusi del classico bianco e nero netto italiano.
La griglia è, come di consueto, “italiana”, ovvero su tre strip prevalenti, ma gestita in modo molto libero.
In quarta di copertina si richiama Lauzier, e sebbene non ci sia a mio avviso una derivatività diretta, in effetti siamo in questi dintorni: una satira affilata della borghesia nei suoi vari livelli: dai vertici inarrivabili a chi dal ceto medio-basso sgomita per inserirsi in essa. In particolare, è la borghesia intellettuale, annoiata, stanca, “Indifferenti” che sotto la patina della rispettabilità possono compiere di tutto.
In questo, il segno sintetico, vagamente umoristico-sarcastico alla Lauzier e alla D’Aponte è ottimale, poiché permette di rappresentare il fascino indiscreto della borghesia, i suoi lati più oscuri, senza cadere in un compiacimento volgare. In questo aiuta anche lo stile dello sceneggiatore, in questo caso, che anch’egli rappresenta senza infingimenti pagine torbide ma senza indugiare più del necessario sulle parti scabrose, che sono ovviamente più inquietanti proprio perché lasciate intendere e dubitare.
Naturalmente, come si intuisce, è un fumetto comunque “for mature readers”, non per bambini e ragazzi (o, almeno in questo secondo caso, consiglierei ai genitori prima una lettura e una decisione autonoma).
Dino Fabbri è un perfetto antieroe novecentesco, un fotografo che vuole imporsi in un mondo ostile, a volte snob, a volte gretto. Fabbri è tutt’altro che perfetto, ovviamente, è a sua volta preda di insicurezze e complessi freudiani come un velleitario Italo Svevo / Zeno Cosini, in grado di raggiungere le vette della fotografia (in questo caso) come arte ma anche propenso a impaniarsi nei livelli più sordidi del fatto fotografico, tra sfortune e scelte sbagliate.
Siamo tra il 1985 e il 1993, tra Torino e la campagna svizzera, cosa che ho trovato molto godibile, perché il mondo che Formento/D’Aponte descrivono, pur immaginario come ribadisce l’ultima pagina (“riferimenti a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale”) rievoca un mondo che, senza conoscere davvero, ho percepito almeno nei miei anni universitari (e molto più di scorcio in seguito).
Il fumetto si presenta anche come noir (a partire dalla efficace cover, un caso raro, anche per il fumetto, di copertina “sequenziale” e fumettistica) e non è sbagliata tale componente, perché c’è il delitto, c’è il giallo, c’è l’investigazione.
Tuttavia, mi pare che, come nel miglior giallo d’arte italiano (Gadda, Sciascia, Benni, Camilleri, e su Torino i grandi Fruttero-Lucentini), e appunto negli argentini più raffinati del fumetto (Munoz e Sampayo di “Alack Sinner”, per citare un nome), la detection sia un pretesto per farci scavare a fondo nelle pagine segrete di quel mondo, in cui il protagonista altrimenti non si addentrerebbe (piccolo-borghese e fotografo professionista, quindi curioso e impiccione per entrambe le sfumature, ma per lo stesso motivo fino a un certo punto se non vi è motivazione).
Sul discorso del rimando “argentino” andrebbe aggiunto, a mio avviso, che se da un lato sicuramente D’Aponte conosce bene quei rimandi, si tratta di una tradizione penetrata anche nel miglior seriale italiano, a partire da Tiziano Sclavi che su “Dylan Dog” fece propria quella lezione. I migliori gialli bonelliani in fondo sono quelli dove lo sceneggiatore usa il caso del mese come pretesto per un ritratto sociale (il migliore, in modo sistematico è per me Julia di Giancarlo Bernardi). Qui ovviamente i due autori si consentono più libertà, nel contesto più libero del romanzo a fumetti.
Non ho detto quasi nulla della trama per non creare spoiler all’eventuale lettore, che nell’ambito del giallo è particolarmente negativo. Del resto, per quanto condotta con gran raffinatezza, siamo nei dintorni di una scrittura, quella di Formento, molto classica, tra romanzo psicologico/sociale e noir, e quindi non vi sono soluzioni particolari da evidenziare come in Codex Rubens.
Appare interessante come D’Aponte – con collaborazioni diverse – tracci nei suoi romanzi a fumetti una indagine (forse causale?) dell’artista novecentesco e dei suoi rovelli: il Pavese che torna alle sue terre da scrittore affermato e melanconico ne “La Luna e i Falò”, questo fotografo Fabbri nervotico e inquieto, il Rubens multiforme del Codex. Sarebbe interessante indagare se questo si collega a una sua tendenza generale, presente anche in altre opere o meno: magari avrò in futuro modo di parlarne con l’autore e aggiornare il discorso.
Per ora consiglio questa lettura, che data la stagione è almeno per me particolarmente indicata: al di là della maggiore complessità dell’opera, di cui ho detto, l’estate torrida si rinfresca sempre con un po’ di algidi ammazzamenti di un bel giallo.
Martin è uno studente, un brigádnik, ovvero un ragazzo obbligato a sperimentare il lavoro in fabbrica durante gli studi. Si muove in una città mineraria, Ostrava, dalle coordinate oscure, costruita su lande contaminate: “Nemmeno lo sa, di cosa esattamente sente la mancanza”. La sua gioventù è già consegnata alla sconfitta, piegata da un peccato originale che non sa di aver commesso. Non a caso la sua compagna, con la quale coltiva un sentimento impossibile, si chiama Eva. Quando la incontra a Londra nuovamente a distanza di tanti anni, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, è come se fossero gli unici due esseri viventi in un mondo morto. Jan Balabán è maestro nel delineare individualità smarrite, perse in atmosfere colme di abbandono. Dove è passato l’angelo, datato 2003, è il suo primo romanzo, oggi riconosciuto come un classico della letteratura ceca.
La perenne minaccia della guerra atomica, che modella il mondo sovietico, è destinata a non concretizzarsi: “non verrà alla luce nemmeno la guerra, di cui il mondo è gravido, sarà abortita dietro lo scudo atomico delle superpotenze, e tutti non faremo che invecchiare senza combattere”. L’immobilismo è la più grande tragedia. Nulla accade, mentre tutto si decompone lentamente: “La spinta delle cose morte, dei pensieri e dei sentimenti morti. Come abbiamo fatto a morire così, e allo stesso tempo a restare in movimento?” La vita trascorsa appare come una misera cosa appassita fra le mani. Le assurdità del mondo socialista, le assemblee pubbliche volontarie, in realtà obbligatorie, perché la mancata partecipazione basta a segnare il colpevole di fronte alla massa, l’individualità occupata da una società estranea, colma di menzogne, la vita trascorsa in una sorta di colonia penale dalla quale Petr, il fratello di Martin, decide di fuggire. I televisori accesi nei palazzoni tutti uguali, per non dover pensare a niente; eppure la testa di Martin seguita a pensare, anche se le parole non servono più a comunicare, ma salpano “come involucri vuoti sulla superficie di un fiume profondo”.
Strutturalmente il romanzo procede per brevi blocchi narrativi, a volte apparentemente eterogenei ma connessi da fili sottili che alla fine vanno a ricongiungersi. Dettagli sul protagonista emergono dalle parole di altri personaggi che nel passato hanno raccolto le sue confessioni. Vite si intersecano come tasselli di un puzzle, al quale mancherà sempre qualche elemento per essere completo. Balabán ha la capacità di evocare atmosfere claustrofobiche, facendo al contempo percepire la vastità dell’universo. È come se i suoi personaggi fossero giunti ai confini del tempo, senza riuscire a varcarli. Sono invecchiati inutilmente mentre i loro sogni, esalati verso il cielo, non torneranno più. Anelano l’eternità, ma è un desiderio vano. Misteriose origini dell’umanità che, secondo Martin, potrebbe benissimo discendere da una spedizione approdata sulla terra centinaia di migliaia di anni fa. Forse il mondo, dopo un’immane catastrofe, tornerà a essere popolato di belve feroci, avvinto da una giungla impenetrabile.
Il desiderio di lasciare il nostro spazio balena in una semplice corsa vista alla televisione, dove le atlete sembrano aver spiccato il volo verso un’altra dimensione. Il mondo attorno a loro scompare, e quelle figure appaiono come esseri puri, percepiti al limitare del mondo materiale prima di svanire chissà dove. Inquietante Balabán, quando pone il limite dell’esistenza fra i quaranta e i cinquant’anni, quasi profetizzando la propria morte improvvisa all’età di quarantanove anni. Le persone si crepano a poco a poco, come gli edifici fatiscenti nei quali sono costrette a vivere, come i paesaggi esausti che sono costrette ad abitare. Stordirsi con la vodka serve a poco, chi beve in solitudine, poi, beve con il diavolo che lo trascinerà nei più neri abissi. Eppure c’era stato un momento in cui la paura, l’ansia di essere ascoltati, interrogati, spiati continuamente, il terrore di sentire bussare alla porta i propri persecutori, era svanita all’improvviso. Aveva lasciato il posto a un vuoto, forse foriero di speranza, più probabilmente vacuo come un effimero sollievo.
Il clima è cupo, nella Francia appena liberata dalle forze alleate. Perché sono brucianti le scorie, non solo materiali, del conflitto ancora in corso. Il momento di fare i conti con quello che è accaduto è, infatti, arrivato. E tanti francesi non hanno la coscienza limpida. Così, in un campo di prigionia controllato dagli Alleati, esattamente nel 1944, si raduna un’umanità eterogenea di diseredati, relitti, prigionieri politici. Costretti ad una coesistenza forzata, in cui il caso può fare incrociare destini inconciliabili. Accade così che si incontrano due vecchi compagni d’infanzia, approdati per vie traverse alla medesima scelta politica. Il primo, François, ex comunista poi diventato collaborazionista dei nazisti al tempo della repubblica di Vichy; il secondo, Antoine, vecchio vicino di casa e fascista convinto. L’incontro innesca nel primo un flusso inarrestabile di ricordi, partendo proprio dall’infanzia, vissuta in un piccolo borgo francese. Qui matura le prime esperienze, passa dal cattolicesimo al comunismo, vive la lacerante condizione di orfano di guerra. E poi arriva Vichy…
Francesca Veltri dipana la trama del racconto lungo un arco spazio-temporale ampio. Lo fa concedendo lo spazio maggiore alla rievocazione memorialistica, condotta in prima persona dal protagonista-narratore. Lo sfondo è quello degli anni tumultuosi che vanno dal primo conflitto mondiale, vissuto in Francia in un’atmosfera di acceso patriottismo, fino all’occupazione nazista e all’arrivo degli alleati. Ciò che più conta è che il protagonista vive il suo processo di formazione in maniera intensa, facendo comunque delle scelte controcorrente. Così è quando abbraccia il verbo pacifista negli anni della Grande Guerra, e così è quando diventa comunista, prima, filonazista dopo. E perciò si stacca, talvolta in modo sinistro, dalla massa grigia degli ignavi, che preferiscono defilarsi. Rinunciare, cioè, a partecipare ai grandi rivolgimenti storici, restando così nell’ombra. Una scelta, questa, di viltà, che il protagonista rifiuta recisamente. La sua fisionomia caratteriale risulta quindi minutamente analizzata, ma sempre inerendola nel flusso degli eventi del suo tempo.
Hana è rientrata da poco a Praga, dopo aver vissuto alcuni anni in Germania. Alla madre e alla sorella ha detto di aver trovato un lavoro in banca e una casa che sta finendo di sistemare, per questo è ancora ospite dall’amica Jana. In realtà Hana ha mentito a tutti: non ha un posto dove andare, non ha un lavoro, è sola e non ha più nemmeno il denaro per mantenersi. La sorella, ignara di tutto, distrattamente le dice di doversi disfare di un armadio: Hana si offre di farlo portare da Jana. Trasportato l’armadio in strada insieme al cognato Standa, Hana rimane sul marciapiede con quel mobile ingombrante, non sapendo bene cosa farne. Ad un certo punto, con l’aiuto di un passante, porta l’armadio in un cortile all’interno di un condominio vicino a quello della sorella. Non avendo un alloggio e non volendo pesare ulteriormente sulla sorella e sull’amica, la ragazza prende una decisione assolutamente stravagante: decide di passare le notti dentro l’armadio, mentre trascorre il giorno girovagando. Comincia per lei una vita quasi da clochard, sfruttando l’aiuto di qualche negoziante e riducendo al minimo il rapporto con i familiari: nel suo passeggiare senza meta, Hana è immersa nei suoi pensieri, rivivendo frammenti di vita che l’hanno portata a sentirsi sempre più isolata dal mondo e incapace di chiedere aiuto a chi la ama. Tra questi ricordi piano piano si svela un trauma, l’evento misterioso che l’ha spinta dopo tanto tempo a tornare a casa…
Tereza Semotamová (1983) ha studiato a Praga e a Brno, conseguendo la laurea in sceneggiatura, drammaturgia e germanistica. È traduttrice dal tedesco, giornalista e autrice di radiogrammi e trasmissioni letterarie. Nell’armadio è il suo primo libro tradotto in italiano. Un romanzo non particolarmente ricco di eventi, perché in realtà ciò che viene raccontato è il percorso interiore vissuto dalla protagonista, alla ricerca sì di un luogo fisico, ma soprattutto di un posto psicologico-esistenziale in cui trovare rifugio. È la stessa Hana che ci svela il senso della sua vicenda quando afferma che “tutti dovremmo avere il diritto di chiuderci dentro un armadio, ogni tanto”. La strana storia della ragazza nell’armadio diventa pertanto la metafora di un profondo sentimento di inadeguatezza: Hana si sente assolutamente estranea al mondo che la circonda, anche se abitato da persone che la amano, come la madre, la sorella e l’amica che continuano a interessarsi a lei. Hana si isola sempre di più perché non trova uno “spazio” dove la sua esistenza abbia un senso e questa ricerca continua e logorante la fa chiudere sempre più in sé stessa, come un oggetto in un armadio, fino a quando il dolore profondo che la accompagna la convince ad accettare l’aiuto di cui ha bisogno. L’originalità dello spunto iniziale, il rifugio rappresentato dall’armadio, richiama da lontano la genialità di alcune situazioni dei racconti di Kafka, anch’egli ceco. Il romanzo poi è intessuto di molteplici riferimenti colti, ben resi in traduzione, anche se difficili da apprezzare nella loro valenza culturale, essendo legati alla lingua e alla letteratura ceche.
Un libro che scava, in maniera dissimulata, nella profondità della relazioni personali, della quotidianità e dell’autrice stessa. La recensione di Gennaro Ricolo
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Chi è la Lorenza che scrive un diario in cui annota le vicende martoriate e a volte, loro malgrado, irresistibili dei pazienti di un ospedale psichiatrico di cui è “consulente filosofico”? È l’autrice stessa? È un caso di omonimia? Un alter ego, un Doppelgänger, ovvero un sosia, un viandante ubiquo? Luca Raganin
Così scrive Luca Raganin nella bella quarta di copertina del Buon auspicio, un romanzo non-romanzo, molto particolare, appena uscito per Miraggi edizioni.
Lorenza è l’autrice, è la protagonista, ed è Lorenzo, amico, desiderio e doppio. E racconta, con parole sue «in presa diretta, come in una stenografia del reale», e in più di 500 pagine, pezzi della sua vita, con tanto di nomi dei protagonisti, semplici conoscenti, amici, personaggi noti (gustoso e poetico il racconto di un week end con Houellebecq), senza filtri, in un modo così diretto da risultare urtante, inappropriato, e per questo affascinante.
Si sente spesso parlare di romanzo-mondo, quando un libro vuole ricreare da zero un intero immaginario. Il buon auspicio di Lorenza Ronzano non ha questa pretesa, ma è fatto di riflessi incoerenti, un collage apparentemente casuale di eco sovrapposte, in cui ricostruire qualcosa di unitario più che impossibile risulta inutile, e infine non necessario. Se ci siamo assuefatti alle storie intime, e “ombelicale” è un giudizio negativo, qui partiamo invece da un dato viscerale, doloroso ed entusiasta, capace di toccare il nostro stesso stare al mondo nella sua essenza più profonda.
Antonio Moresco, estimatore di Lorenza Ronzano e presente più volte nel testo, ne parla così, dopo aver tentato a lungo di farlo pubblicare:
“
Si lamentano sempre che non escono libri spettinati, e poi quando ce n’è uno spettinato e pieno di spigoli non lo vogliono!
Antonio Moresco
E ancora, in quarta di copertina:
«È strano, in questi anni in cui la grande editoria sembra fare a gara nel pubblicare libri scritti da donne (purché stiano dentro una certa cornice edificante e un certo spirito culturale del tempo), quelle che faticano a trovare accoglienza sono proprio le voci femminili più originali, più forti, più scomode, più irriducibili. Quella di Lorenza Ronzano è una di queste.»
Da quello stesso racconto di pancia e cervello si originano poi delle esplosioni di umanità e riflessione più ampia, a contorno per esempio dei racconti dei pazienti psichiatrici che Lorenza raccoglie, e che incontra per lavoro. Malati lo sono poi davvero? O sono “solo” stati sfortunati? Hanno sofferto nella vita e vengono per comodità sociale chiamati malati e sedati con terapie?
«Sto qui in ospedale a chiacchierare, mi metto a disposizione dei cosiddetti pazienti psichiatrici, loro mi chiamano Dottoressa, ma io sono il loro grande orecchio, la loro cassa di risonanza. Voglio sdoganare la follia, per questo ho deciso di lavorare contro una visione del mondo proprio nel luogo in cui questa visione viene creata. Sono l’anticorpo del sistema in vigore.»
Lorenza Ronzano sembra applicare lo stesso metodo a ogni cosa: cercare di forzare la superficie del mondo visibile, del consueto, dei rapporti interpersonali, con un racconto apparentemente piano, con uno stile fatto di «gergo quotidiano. Talvolta più sorvegliato, nella maggior parte dei casi immediato, concreto, persino grezzo», e lo fa indifferentemente che si tratti di raccontare sogni (assurdi come tutti i sogni, spesso esilaranti), desideri di amplessi sessuali, visite al padre in casa di cura, serate più o meno mondane nella sua città, Alessandria.
Impigliato e in balia del flusso del racconto, il lettore deve subirne i colpi emotivi per essere ricompensato – come accade nella vita – dall’intenso premio di vedere smuovere leve dello spirito che non sapeva di avere (più). Uno spirito che ha un corpo, che è in un corpo.
E qual è allora il “buon auspicio” citato nel titolo? Lo ritroviamo in un passo, riportato sul retro del volume, esemplificatico e come un marchio a definire l’identità di questo libro così inaspettato:
«Oppure, anziché portarlo in Svizzera per praticare l’eutanasia, potrei lasciarlo in un campo. Mi balugina per un attimo davanti agli occhi, come in un delirio visivo, l’immagine di mio padre sulla sedia a rotelle abbandonato in fondo a un campo. Quest’immagine mi è sempre sembrata di buon auspicio.»
“Mio padre non c’è più e questa volta è lui ad avere bisogno di me”
I motivi per cui si legge sono tanti, ogni giorno sondaggi e interviste ne raccolgono e addirittura inventano di nuovi. Si legge per passione, per rilassarsi, per vivere un’avventura senza muoversi dal divano, per approfondire e magari capire, si legge per ridere o smettere di piangere, si legge per divertirsi e l’elenco è lunghissimo. Talvolta si legge anche per cercare risposte, specie a vicende che occupano, attraversano o travolgono le nostra vite (due delle più classiche sono la morte e la sofferenza nelle sue varie forme), e più cerchi meno ti sembra di trovare, o peggio ancora (?!), più ti nascono dentro nuove domande. Una in particolare mi è nata e poi rimasta dentro, sperando di farla quanto prima all’autore, mentre ho letto “Torno per dirvi tutto”, romanzo scritto da Lory Muratti e pubblicato da Miraggi Edizioni nella collana Golem. L’entusiasmo con cui mi è stato proposto questo libro, che è parte di un progetto più grande, e comprende anche un album musicale, mi ha trasmesso la certezza di avere tra le mani un lavoro di grande valore. E tale si è rivelato. Protagonisti principali del libro sono Lory Muratti stesso e il padre, che però conosciamo un istante dopo la sua morte. Ce lo comunica il figlio stesso, quando prende l’aereo all’ultima chiamata per volare da Parigi a Praga, dove il padre viveva e lavorava.
“Tu non hai mai saputo dire certe cose e io porto il peso di chi, non potendo fingere con se stesso, è obbligato a fingere con il mondo.”
Questa che riporto è la prima di tre frasi, che suddividono idealmente a mio parere il romanzo in altrettante parti, caratterizzate da una serie di eventi che qualificano in modo evidente l’intero romanzo: un’evoluzione continua, graduale, composta da frequenti presagi, annunci, ipotesi, interrogativi che i numerosi attori pongono soprattutto a se stessi. Lory sopravvive al padre e ora non può più fingere, deve prendere atto di una nuova realtà, di una nuova vita, di una nuova presenza del padre. E non solo di lui. Altre presenze si manifesteranno.
“…è là dove tutto si confonde che si devono costruire i nuovi significati.”
A Praga, città che affascina al solo pronunciarne il nome, città letteraria e ispiratrice di scritture e letture, e non ultime di grandi musiche, lì Lory compie i gesti e i riti previsti per salutare il padre, e aiutato da amici cerca anche di sbrigare le tanto fastidiose pratiche burocratiche, e gli incontri con persone apparentemente escluse dal funebre contesto che lo assorbe, incontri casuali e non, si innestano comunque nel suo quotidiano, e anziché aiutarlo o distrarlo, paiono confondergli le idee. Lory percorre più strade contemporaneamente, una di nome Ecli, una Mark, e una terza. I percorsi si intrecciano, si sovrappongono, come in una pista sulla sabbia le singole biglie azzardano sorpassi, si scontrano e faticano talvolta ad uscire dalla stessa buca in cui sono precipitate. Ad un certo punto però il nostro protagonista, con cui ormai condividiamo ogni attimo della giornata, ha bisogno fisicamente d’aria, di spazio, di un reset direbbero gli informatici: ctrl-alt-canc. Lory, insieme ad Ecli, si sforza di uscire dalla sabbia. Ritorna dove lo abbiamo conosciuto, torna a Parigi. E lì accade un fatto incredibile, che lo sfiora, un fatto che pare non avere nulla a che fare con la storia sua e nostra: ma quale tragedia in questo mondo super connesso, globalizzato, aperto a tutto e chiuso a tutti, può solo sfiorarci? Così infatti non sarà, e diventerà e lo storia diventerà facilitatrice dello svelamento definitivo, sigillato dalla terza frase.
“Ogni cosa va scoperta e compresa a tempo debito.”
Profondo viaggio nell’animo umano, nel mistero della psiche e delle relazioni, questo viaggio interiore insieme agli spostamenti fisici tra grandi città europee, esalta la forza dei rapporti tra le persone, l’interdipendenza, la ricerca di sé stessi e degli altri, moltiplica dubbi e domande in una apparente confusione, come avvolti da una fitta e gelida nebbia che non permette di comprendere. La scrittura di questo autore per me nuovo, tiene il lettore sempre nella giusta tensione, sempre in equilibrio sul filo, con lo sguardo fisso sull’ipotetico obiettivo. E le continue aspettative che sa creare, che annuncia anche palesemente e in diversi momenti, spronano il lettore, infondono entusiasmo e saldano il legame con i diversi personaggi. Non ci sono solo Lory e il suo defunto papà, di qualcuno ho solo accennato, ma il romanzo è ricco di donne e uomini, e anche se li intravediamo per poche pagine, lasciano tracce importanti. Di questa lettura mi è rimasto quello che ho cercato di raccontare in queste poche righe. Spero si parli molto di “Torno per dirvi tutto” e che molti tornino sul web, sui giornali e ovunque per dirci tutto, di ciò che il romanzo dirà loro.
Lettera, come tassello di un alfabeto, o lettera come un veicolo per comunicare nei tempi prima delle mail, degli sms, dei whatsapp, dei tweet, dei post. C’è una bella storia su una lettera speciale, il fondamento del movimento della scienza per la pace. Si tratta della lettera che AlbertEinstein spedì al filosofo Bertrand Russell, accettando di firmare il manifesto Einstein-Russell per la messa al bando delle armi nucleari. La storia racconta che Russell scrisse il manifesto e lo inviò ad Einstein perché lo firmasse. In attesa della risposta, in aereo da Roma a Parigi, apprese la notizia della morte del grande scienziato, un lutto mondiale, che per lui significava anche aver perso il cofirmatario di un appello di vitale importanza per il pianeta. All’arrivo in albergo lo aspettava però un plico da Londra, che conteneva la lettera firmata e inviata da Einstein prima di morire.
L’ultima lettera di Einstein per la storia è rimasta quella, ma per la letteratura è diventata un espediente, il nucleo di un romanzo sulla salvaguardia della specie umana, non solo dalla potenziale distruzione per via di un conflitto nucleare globale. Il romanzo si intitola appunto“L’ultima lettera di Einstein” e l’autrice è Daniela Cicchetta, per la casa editrice Miraggi Edizioni. L’ho conosciuta in presenza a Plpl2022, o meglio l’ho riconosciuta come una persona già incontrata chissà dove e chissà quando. L’autrice, in quell’occasione, mi ha regalato la parola sincronicità, che ha a che fare con il tema profondo del suo libro.
La parola significa letteralmente un evento fortunato, una scoperta fortuita, che nasce dalla coincidenza di fattori solo apparentemente casuali. E nel libro di Daniela Cicchetta, la sincronicità la troviamo in un mondo del futuro, nel quale, il ritrovamento di manoscritti originali di Albert Einstein, conservati segretamente e tramandati per generazioni fino all’anno 2190, potrebbe preludere alla realizzazione di una tecnologia capace di viaggiare nel passato e salvare il pianeta terra dalla sua autodistruzione.
“Una settimana prima della morte di Einstein”, scrive Daniela Cicchetta dando voce allo scienziato del futuro Marcel, “Russell gli aveva mandato la bozza di una dichiarazione a favore della collaborazione tra le nazioni per il disarmo nucleare che, senza il suo appoggio, non avrebbe di certo avuto la giusta risonanza. Mentre si recava a Parigi per incontrarlo seppe che era appena morto. Arrivato in albergo, però, trovò una lettera del fisico, con la quale aderiva all’iniziativa: ti rendi conto? L’ultimo pensiero di Einstein, l’ultimo suo atto pubblico è stato quello! Ovviamente i media gli diedero grande risonanza, la dichiarazione divenne nota come “Il manifesto di Einstein-Russell” e fu firmata anche da una decina di prima Nobel”.
Nel romanzo l’autrice riporta l’incipit del famoso manifesto: “Nella tragica situazione che l’umanità si trova ad affrontare, riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi per valutare i pericoli sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito del documento che segue. Non parliamo, in questa occasione, come appartenenti a questa o a quella nazione, continente o credo, bensì come esseri umani, membri del genere umano, la cui stessa sopravvivenza è ora in pericolo. Il mondo è pieno di conflitti, e su tutti i conflitti domina la titanica lotta tra comunismo e anticomunismo. Chiunque sia dotato di una coscienza politica avrà maturato una posizione a riguardo. Tuttavia noi vi chiediamo, se vi riesce, di mettere da parte le vostre opinioni e di ragionare semplicemente in quanto membri di una specie biologica la cui evoluzione è stata sorprendente e la cui scomparsa nessuno di noi può desiderare. Tenteremo di non utilizzare parole che facciano appello soltanto a una categoria di persone e non ad altre. Gli uomini sono tutti in pericolo, e solo se tale pericolo viene compreso vi è speranza che, tutti insieme, lo si possa scongiurare. Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. (…)” La trama potrebbe essere questa, se la storia avesse un andamento lineare. Ma l’autrice non intendeva raccontare di un mondo distopico, seppure in un certo senso lo fa, né scrivere un romanzo storico incentrato sull’impegno di Einstein per la pace e sulle sue posizioni spirituali nell’età della saggezza, per quanto anche di questo il romanzo narri, piuttosto l’autrice spiraleggia con la sua penna tra passato, presente e futuro, roteando attorno a un asse incentrato tra le rovine di Stonehenge.
Il personaggio perno della storia è una donna, Dunia, che tra quelle rovine capisce il senso delle visioni che l’hanno accompagnata fin da quando era bambina. Le visioni sono le vite di altre due donne, che lei accetta conoscendole e grazie a loro imparando a conoscere se stessa, fino alla sintesi estrema, che è poi il messaggio che io ho colto dal romanzo: sviluppare la capacità di ascolto al femminile è la via per arrivare a sentire la vita pulsare in ogni elemento del pianeta, uno stato talmente illuminato che lo si raggiunge solo attraverso molte vite votate alla ricerca di armonia con la vita stessa.
Einstein fu un fervente pacifista, a causa della comprensione profonda degli sviluppi tecnologici ai quali le sue scoperte rivoluzionarie avevano portato. E alla fine della sua vita dedicò quasi tutte le sue energie a tramandare l’idea di un pensiero scientifico capace di abbracciare anche la sfera spirituale come ambito di ricerca. Pur non sostenendo pratiche religiose, le sue idee aprivano la strada all’immaginario di una concezione del tempo che non avrà mai più una direzione prestabilita. E ancora oggi l’idea della freccia del tempo è in dubbio, così come l’idea che il tempo esista o che non sia piuttosto una nostra creazione mentale. L’espediente di un’ultima lettera, in cui Einstein abbia affrontato questioni sul tempo e sui viaggi astrali, questioni al confine tra la razionalità e l’emotività o il sentire del cuore, è secondo la mia lettura, il vero perno di questo romanzo. Attorno a questo ruotano i temi attuali della crisi della nostra specie, di un pianeta in bilico, ma capace di sopravviverci, e delle scelte che ognuno di noi può fare, per mettersi in ascolto della vita.
“«La senti l’erba crescere?» E io un giorno l’ho sentita”, racconta la protagonista del romanzo Dunia. “Ero sdraiata sul prato della casa in campagna dove giocavo da bambina, e mentre guardavo gli uccelli rincorrersi in uno spettacolo inconsapevole, la testa sprofondata nel tappeto verde, mi sono svegliata alla Natura. (…) Da quel momento nulla è stato più invisibile”. È questa la via indicata nel lontano passato dai druidi, per i quali “la Natura aveva un significato mistico”, continua, “intesa come manifestazione del mistero che ha dato vita all’uomo e all’universo. Non avevano bisogno di dei o religioni. Una ecospiritualità, ci pensi. Vivere in armonia con l’ambiente e tutte le forme della vita”.
Ma quando sarà possibile un cambiamento del genere? Viene da chiedersi leggendo parole che lo scienziato del Secolo Novecento aveva espresso già nel famoso manifesto. La sola risposta è adesso. Perché non c’è più tempo per esitare. Non c’è nella finzione letteraria, ma non c’è nel presente che ci è dato di vivere. “Non senti questo dolore del mondo?” riuona l’appello della protagonista al lettore. “Dobbiamo fare qualcosa, ma c’è sempre qualcosa che distrae, che non conviene e così si rimanda, in attesa che qualcun altro lo faccia al posto nostro. Come possiamo credere che il solo dichiararlo basti per attuare un cambiamento? (…) Il nostro futuro è oggi, il nostro passato è oggi. E oggi non c’è tempo ma è anche l’unico tempo per cambiare le cose”.
Dopo lo straordinario Edipo a Berlino, che era incentrato sulla vita del ghetto di Varsavia, nella collana “scafiblù” di Miraggi edizioni per gli scrittori cui piace stare ancora scomodi, liberi di raccontare ancora di guerre e di nequizie, Francesca Veltri con Malapace torna al periodo della Seconda guerra mondiale ancora una volta, narrando una storia privata, di un uomo che sbaglia tutto, pur di mantenere una esile pace.
La scrittrice ha fatto un lavoro faticoso sulle fonti scritte, guardando e prendendo appunti da faldoni il cui argomento era la Francia occupata dai nazisti. Se un pezzo della nazione è sotto il potere dei nazisti, perfino la città dell’Illuminismo, Parigi, una parte cospicua di Francia sigla un accordo di pace coi tedeschi, in un governo presieduto da Pétain, in realtà un “fantoccio” collaborazionista in quel di Vichy.
Il romanzo si apre proprio con il Ministro della Propaganda di Vichy, Francois, in carcere a Camp de Carrères, nell’ottobre del 1944, che sta molto male, per problemi cardiaci e polmonari, e d’improvviso si ritrova in cella Antoine, un suo vicino di casa che lui ricorda bambino. Ora Antoine è stato arrestato per delitti ignobili verso le persone. Sembra sia una spia tedesca incaricata di scovare ebrei francesi da portare ai campi di concentramento. Francois è stato talmente cieco che chiede a Antoine se, ora che la guerra sta finendo, gli ebrei potranno tornare a casa.
Antoine nicchia, ma sa qualcosa di orribile, di mai visto prima e racconta dei campi e delle stanze dove vengono gasati. Il compagno di cella sente su di sé tutti gli sbagli commessi nella sua vita e l’autrice ce lo mostra bambino e poi adolescente, che conosce Martine; mentre a vent’anni conosce Jean-Pierre, se lo ricorda bene, perché si era appena iscritto al Partito Comunista. Non stava più bene a casa, perché la madre si era messa con un industriale, ma il ragazzo non voleva nulla da un estraneo come quello, coi soldi, e si mise a studiare come un pazzo e si iscrisse in un gruppo di preghiere. Credente e comunista, le tante facce che aveva Francois anche da giovane, ma tutte a fin di bene. All’Università studiava tantissimo, appunto, ma pensava a Jean-Pierre.
In realtà Francesca Veltri questa amicizia così speciale la fa finire, con Jean-Pierre che non si presenta dagli amici, perché preferisce fidanzate occasionali che duravano lo spazio di un mattino. Questo andare e venire dai ricordi al carcere è una pietanza troppo amara per il lettore, che trova un ragazzo di grande ideali da giovane, mentre quello del carcere è un uomo svuotato, rassegnato, malato, costretto a parlare con un fascista come Antoine.
L’autrice ha il dono di parlare nella stessa pagina del presente e del passato. Infatti una sera Martine conobbe Jean-Pierre e la notte stessa erano già amanti e divennero una coppia solida e affiatata. Questo prendere atto della nuova situazione sembrò un sollievo per Francois, ma anche un distacco, dal momento che lui amava entrambi.
Ma l’autrice non cade in un facile psicologismo di maniera, o meglio lascia a noi la scelta. Perché sicuramente, dopo che i suoi amici si misero insieme, lui si sentì abbandonato e spaventosamente solo. Rivedrà la coppia solo anni dopo, quando i due avevano già una bambina, e solo dopo mille peripezie, con Jean-Pierre che morì per le botte che aveva preso dai fascisti francesi, Francois cerca di far emigrare Martine e la bimba; ma lascio al lettore la possibilità di scoprire come andò veramente.
Quello che accadde servi a Francois per aprire gli occhi sul suo “crudele” pacifismo, come aveva potuto credere che i tedeschi prendessero sul serio la non belligeranza nella Francia di Pétain, se stavano perdendo dappertutto, che anche coi nazisti la Germania cominciava le guerre per poi perderle tutte, come uno strano destino di crudele ambizione che tuttora la Germania dell’Europa unita, a volte ha nei confronti di altre nazioni europee, per poi ritirarsi in buon ordine. Ma ci sono voluti anni e guerre e distruzione e la riduzione significativa degli ebrei che vivono tuttora in Europa e non nel paese scelto, Israele.
Francesca Veltri ha fatto un lavoro certosino e faticoso per studiare carte e faldoni della Francia occupata e di quella libera “per finta” del governo Pétain, ha studiato le motivazioni del collaborazionismo di gente perbene, e tornata di nuovo, dopo il romanzo fluviale Edipo a Berlino, a guardare carte che attestavano il numero di ebrei che riuscì a emigrare in altri paesi nel periodo bellico.
Tutta questa fatica ha prodotto un libro ineccepibile, perfetto, ma con un retrogusto amarissimo di chi, studiando, ha capito che tuttora l’Europa unita non è esente da errori madornali e da Stati membri che si sentono investiti da un potere decisionale maggiore, come appunto la Germania e la Francia (l’Inghilterra con la Brexit, si è tenuta lontano da questa macro area).
Nondimeno un libro necessario, importante, candidato allo Strega 2023, ma poi rimasto indietro con altri sessantasette libri che non hanno passato il turno per l’accesso alla dozzina finalista.
“Malapace”, i tormenti della politica e della memoria
L’ultimo libro di Francesca Veltri affronta l’eredità difficile del Dopoguerra e i suoi effetti sulle storie personali dei protagonisti
«Mi sono lasciato andare sul cuscino, mentre il prete ungeva la fronte. Ho provato a sbattere le palpebre, non distinguevo più bene le voci né i volti. La sola frase che ho colto con chiarezza era anche l’unica che m’interessasse, – non passerà la notte -. È difficile spiegare la gioia che ho provato. Non ci sarebbe stata più un’altra notte». Poche righe che, però, sono sufficienti a delineare l’intensità narrativa di “Malapace”, edito da Miraggi, l’ultimo romanzo di Francesca Veltri, scrittrice e docente universitaria all’Unical. La storia inizia nell’ottobre del 1944, in un campo di prigionia alleato dove è detenuto Francoise, con un passato nelle file del Partito Socialista, poi a fianco dei pacifisti per finire al collaborazionismo con il regime filo-nazista di Vichy. A Camp de Carrères arriva Antoine, suo amico di infanzia e fascista convinto, che non rinnega i suoi trascorsi di torturatore assassino. Inizia un confronto-scontro tra i due che costringe Francoise a fare i conti con i suoi demoni ed a ripercorrere le tappe di una vita in cui riemergono le origini cattoliche e altoborghesi della famiglia, le scelte politiche e gli incontri con Martine e Jean-Pierre, figure tragiche e potenti della sua esistenza. Iniziano quindi a delinearsi i temi fondamentali del racconto a partire da quello centrale della pace: «È una delle questioni che ha caratterizzato quegli anni e che ha visto su fronti contrapposti anche persone che provenivano dalla stessa estrazione politica». Il dibattito ha prodotto grandi lacerazioni tra «chi pensava che la pace dovesse essere ottenuta ad ogni costo, anche attraverso accordi con la Germania di Hitler, e quanti vedevano in lui il male assoluto. Uno scontro che travolgerà storie personali, vite e percorsi politici». E non è il solo terreno di confronto. I protagonisti dei Malapace si troveranno anche ad affrontare il dramma del rapporto con l’idea comunista che, da un lato rappresenta una speranza di riscatto per milioni di persone rispetto alle gravi ingiustizie sociali dell’epoca, dall’altro finisce per produrre regimi dittatoriali in grado di mortificare quei principi di libertà che avrebbero dovuto incarnare. Tormenti interiori che pervadono Martine, Jean-Pierre e lo stesso Francoise alle prese con un vero e proprio supplizio interiore provocato dalle scelte che lo porteranno ad un destino politico mai pensato o immaginato. Scelte dettate dal «tentativo di ottenere una disperata approvazione degli altri e dal bisogno di sentirsi amato», con il fallimentare risultato finale di una completa «solitudine, la maledizione peggiore per lui, ancora più della prigionia stessa». Dopo “Edipo a Berlino”, Francesca Veltri si supera con un libro capace di una straordinaria narrazione lirica attraverso la quale pone temi ancora irrisolti e quanto mai attuali. La tragedia che accompagna la vita di molti protagonisti ci obbliga a fare i conti con noi stessi e con un passato che non può e non deve essere dimenticato.
Si pensa che gli editori stiano talmente tanto tempo in mezzo ai libri, alle novità, ai libri che non hanno avuto fortuna, che quando chiudono la porta di casa, l’ultima cosa che fanno sia guardare la libreria, perché sentono ancora la polvere sulle mani, anche se sono lavate con fin troppa cura. Credo sia l’abitudine. Quindi un editore divenuto scrittore per un’altra casa editrice sembrerebbe essere una “goliardata”.
Invece Patrizio Zurru, editore di Arkadia, diventa scrittore e centra l’obiettivo: è bravo non solo a scrivere, ma anche a dispensare emozioni. La sua opera Endecascivoli (Miraggi edizioni, 2021) comprende ben sessantacinque racconti. Tra un racconto e l’altro viene lasciato mezzo foglio in bianco per il lettore, per dipingere o scrivere i vocaboli che hanno emozionato lo scrittore e dunque anche noi lettori.
C’è una grande purezza in questi racconti, di un adulto che guarda al passato con emozione, certo, ma anche con il sollievo di essere grande ora e qui. A fare l’editore nella sua terra. Poteva capitare, invece, che un bambino nato in Sardegna a metà degli anni Sessanta, dopo l’adolescenza andasse in miniera come gli altri uomini e padri di famiglia, oppure trasferirsi sul “continente” o addirittura all’estero per trovare opportunità lavorative.
I passaggi per una vita in cui non hai gli occhi rossi e dove respiri aria e non terra lo capiamo abbastanza presto, con la testimonianza fin dall’inizio di una giovinezza attraversata da viaggi, avventure in spiaggia e anche prima, con Patrizio più piccolo a giocare a pallone con urla della madre e delle sorelle maggiori a fare da sfondo, fino all’arrivo del padre che poteva anche picchiare i figli maschi con la cinghia. Ma poi bastava solo la voce paterna per trovare la quiete familiare, perché la terra nei polmoni era già uno scandalo tutti i santi giorni. Picchiare i figli sarebbe stata una resa, aver avuto proprio una giornataccia.
Nella collana Golem di Miraggi c’è sia narrativa che poesia e quindi Patrizio Zurru ci si inserisce di incanto, con questi brevi racconti poetici, dei magnifici “tableaux vivants“. Ricordi o epifanie? Tutta vita vissuta? Ma come ormai chi scrive lo dice fino alla noia la Letteratura è trascrizione di un evento che ha perso per strada l’oggettività, perché il ricordo scritto è mendace, pieno di buchi neri.
La letteratura è il tempio dell’impostore, che racconta quello che ha vissuto o non ha vissuto in forma nuova. Pensate a tutti i ricevimenti, le passeggiate e le parole dette in un salotto scritte da Proust ne La Recherche mentre lui, invece, scriveva a letto, pieno di malanni, senza vedere nessuno. L’eccezione che conferma la regola? Giammai. Nelle cose scritte con l’immaginazione non ci sono regole prefissate, sennò sarebbe cronaca. Invece ci troviamo in un vero e proprio libro col titolo da “calembour“. Quindi il Patrizio letterario gira per l’Europa, torna in Sardegna, sa già quello che non vuole fare, mentre il resto rimane nelle possibilità: non vuole andare in miniera ma non lo vorrebbe neanche per i suoi parenti di sesso maschile, perché non ci si abitua mai.
Vi riporto un estratto del racconto della miniera, o meglio dei racconti della miniera che da soli valgono il prezzo del libro:
Torna anche oggi. Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e col carbone attaccato addosso, non c’è stato il tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirar fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.
L’autore sente nei ricordi la stanchezza e “il mestiere di vivere“, attraversati come sono non tutti, ma alcuni, da un sentimento doloroso e umbratile tipico dello scrittore Cesare Pavese. Ma queste ondate di emozione non sono tutto il libro; anzi, la goliardia, lo scherzo, il cameratismo maschile, gli approcci amorosi sono tutte tappe per un uomo fatto, ora, mediamente tranquillo, con due figli, una moglie, un gatto e la sua professione.
Ovviamente lo spazio dedicato ai disegni il lettore non lo deve compilare per forza; lo si può vedere anche come semplice parentesi tra un racconto e l’altro. Chiaramente in certi passaggi sono chiamati in causa più i lettori che sono stati adolescenti o giovani negli anni Ottanta, dove bisognava fare la fila ai telefoni pubblici e, se ci si trovava all’estero, i gettoni erano conservati in una capace busta di plastica. Senza Unione Europea l’estero era già Mentone dove accettavano i franchi, a Parigi, manco a ripeterlo. A Berlino si pagava in marchi.
La scrittura di Patrizio Zurru è poetica ma con moderazione, ha spunti di umorismo che si ricordano con piacere, è spaziosa e quindi si può iniziare da un racconto che sta in mezzo al libro; ma se hanno deciso di metterlo in quel modo e inserirlo proprio in quello spazio un motivo ci sarà.
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