Una banale lite tra vicini, di quelle che accadono più o meno a tutti una volta nella vita. Quello che non capita, di solito, è il passo successivo, scoprire dalla polizia di essere morto. O meglio, scoprire l’esistenza di un verbale che notifica il proprio decesso. João Paulo Cuenca, 40 anni, è uno dei più talentuosi scrittori brasiliani contemporanei. Già nel 2012 la rivista inglese Granta lo ha inserito in una ristretta cerchia di autori sudamericani da tenere d’occhio. E la previsione ha trovato conferma nei lavori degli anni seguenti: romanzi, articoli, opere cinematografiche. Ho scoperto di essere morto – pubblicato in otto lingue e in Italia meritevolmente edito da Miraggi (pp. 176, euro 16) con l’avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice – è la discesa in un doppio inferno: sociale e personale, un viaggio delirante nelle mille contraddizioni di una Rio de Janeiro che si sta preparando ai Giochi Olimpici tra speculazioni edilizie, polizie più o meno segrete, feste, droghe, alcol, situazioni comiche al limite del grottesco, individui scellerati.
Lo spunto di partenza è autobiografico (nel libro c’è anche il famigerato certificato di morte), ma si trasforma rapidamente in un pamphlet urbano denso di misteri e colpi di scena. L’inventiva anarcoide di Cuenca mantiene alta fino all’ultima pagina la tensione, addirittura amplificata dalla sorprendente postfazione attribuita a una studentessa che nelle pagine precedenti compare con osservazioni critiche nei confronti dello stesso scrittore. Che con questo romanzo si è aggiudicato il premio Machado de Assis, il più importante riconoscimento letterario brasiliano.
La storia narrata dalla scrittrice ceca Bianca Bellovà è quella di un ragazzino, orfano, allevato dai nonni in un piccolo villaggio sulle rive di un grande lago nel cui si specchio si riconosce la vicenda del lago Aral, una delle più grandi catastrofi ambientali del pianeta. La morte improvvisa dei nonni spinge il piccolo protagonista, Nami, a partire dalla ricerca della mamma che è convinto sia ancora viva. Un viaggio epico in un mondo duro e surreale che forgerà il carattere del giovane. Un romanzo ricchissimo a metà tra il racconto di formazione e la fiaba gotica.
Oggi, dopo qualche settimana dall’incontro di João Paulo Cuenca alla libreria Milton, il libraio che noi della Miraggi riteniamo essere uno dei migliori librai italiani e risponde al nome di Carlo Borgogno, ci manda queste quattro righe che ha scritto perché sono ancora caldi il sentimento e l’emozione della lettura di questo libro! Qualcuno di voi potrebbe interrogarsi su quale sia il metro di giudizio per decretare un libraio un grande libraio, giusto? Credo che la risposta possa essere composta da una serie di aspetti inequivocabili, uno dei quali la passione per la lettura, lui che è prima di tutto vorace e attento lettore e quindi libraio fidato. Entrare da Milton ad Alba si rimane letteralmente affascinati dalla libreria che rispecchia bene lo spirito del libraio stesso. Chi ha letto questo piccolo capolavoro Ho scoperto di essere morto riuscirà a trovarvi qualche comune impressione con Carlo e per chi non l’avesse letto, sicuramente la curiosità di leggerlo. In fondo facciamo e vendiamo libri per cui vale la pena innamorarsi.
Ecco la recensione fantastica di Carlo Borgogno:
Ho letto e riletto il libro di Cuenca negli ultimi giorni poichè dovendolo presentare nella mia libreria ed avendone subodorato l’importanza e lo spessore letterario non volevo farmi cogliere impreparato.
È perciò un libro che consiglio di leggere e rileggere: piacevole, fluido, interessante, divertente e provocatorio ad una prima lettura, si schiude come un fiore prezioso ad un secondo ed approfondito passaggio grazie al quale si incominciano ad avvertire le solide e meditate architetture della narrazione.
Notti insonni hanno accompagnato la rilettura di alcuni passaggi attraverso i quali sono entrato in empatia con la sofferenza e lo sforzo che l’autore deve aver fatto per raccontare l’abiura da se stesso e la riconciliazione avvenuta attraverso un contrappasso di feroce autolesionismo voluttuoso.
Il libro è pieno di carne, sangue e cemento. Una Rio De Janeiro oltraggiata e deturpata fa da sottofondo alle vicende umane del protagonista che come la città stessa si ritrova a pezzi. Entrambi alla ricerca della propria identità sepolta.
Non credo di essermi spiegato. Cuenca lascia ad ognuno sensazioni troppo personali per essere condivise. È un libro da leggere. Assolutamente. È inutile star qui a far tante parole!
Un mosaico di suoni, immagini e racconti prende progressivamente forma fino a offrire al lettore il ritratto vivente di una città, della sua storia e del suo profilo psichico e criminale. E già, perché la Torino di Domenico Mungo è un’assassina “con un ghigno diabolico” stampato sul volto. È lei la protagonista delle trenta storie mutanti del Suono di Torino – una sciarada intrisa di urla poetiche, stridii di chitarre elettriche e tonfi metallici. Seguendo le tracce della killer seriale si scopre, sotto la rapsodia degli eventi narrati, una trama profonda che lega insieme luoghi, vicende e personaggi, fino a far emergere in trasparenza un romanzo noir dove odio ribelle e amore tradito sono avvinghiati in una lotta all’ultimo sangue.
Mediante il libero riadattamento di articoli, opuscoli e volantini si affrontano efferate stragi fasciste, esecuzioni capitali, gli eroici scioperi del marzo 1943, l’immigrazione meridionale verso le fabbriche del Nord, i bagliori insurrezionali dell’autunno caldo, la marcia dei 40 mila, i drammi del fordismo e la crudele persecuzione dei notav. Il suono di Torino importa in letteratura le tecniche musicali della campionatura, del remixing: “Unico fil rouge, la colonna sonora punk: le strofe rabbiose, dilaniate, furibonde dei Nerorgasmo, distorte qua e là che emergono improvvise tra i fiumi di parole urlate da una gola recisa. Ma anche Negazione, Cesare Pavese, Church of Violence, Totozingaro Contromungo, Rough!, Refused, Fred Buscaglione, Lucio Dalla, il rumore della fabbrica, il deragliare di un treno ad alta velocità.”
Nel capitolo finale l’autore si congeda:
Delle sue valigie di cartone spruzzate di smog e grasso d’officina.
Delle sue barricate operaie
E delle sue università̀ di rampolli della rivoluzione.
Dei suoi mille centri sociali
Ormai necropoli di se stessi
Murati vivi i cuori che anelano
Addio.
Non mi volterò mai, nemmeno per un istante per guardarne i grattacieli e le ciminiere fantasma che mi lascio dietro le spalle.
Torino è la personificazione geolocalizzata della nostra vita miserabile, ma allo stesso tempo la speranza resiliente dell’insubordinazione. Domenico Mungo, del quale Carmilla ha recensito anche Avevamo ragione noi, offre al lettore un modo innovativo di fare poesia e narrativa, una nuova tecnica balistica per scagliare l’arte contro l’oppressione e la violenza del Potere.
José Diaz Fernández fu uno degli intellettuali delle avanguardie spagnole dimenticati dal lungo periodo franchista. Giornalista, repubblicano, attratto dai “grandi fatti russi” e della rivendicazioni operaie in quanto portatrici di una nuova sensibilità morale e letteraria, visse in prima persona la guerra coloniale in Marocco, dove svolse il servizio di leva. Era il 1921, l’anno del disastro militare di Annual, a cui fece seguito una crisi politica che sfociò due anni più tardi nel colpo di stato di Primo de Rivera. Dal fronte scrisse sette racconti indipendenti l’uno dall’altro, aventi “come elemento di unità soltanto l’atmosfera comune”, dati alle stampe nel ’28 come El blocao, titolo tradotto in Casamatta per questa prima edizione italiana. A questi episodi si aggiungono in appendice due caustici articoli pubblicati nel periodo di stanza in Marocco.
Quest’opera, definita “un piccolo capolavoro” dallo scritto Ignacio Martinez de Pisón, autore dell’introduzione, affronta con demistificante realismo una campagna coloniale che portò allo sterminio di quella gioventù che non poteva permettersi di pagare la quota, l’esonero parziale dall’arruolamento. Il blocao è l’avamposto isolato, spesso situato in cima a un’arida altura, in cui venivano dislocate a rotazione le guarnigioni spagnole a presidio del fronte. In esso i soldati protagonisti di questi racconti si trascinano in una logorante monotonia sperimentando un’alienazione dalla vita sociale e affettiva. La sensualità come richiamo della vita, soffocata dal peso dei fucili sulle spalle, e il supplizio dell’attesa di un nemico invisibile assalgono i personaggi annidati nel desertico paesaggio che circonda una fumante cabila o frastornati dall’ingannevole seduzione della Tetuan occupata. Dietro l’aspro smarrimento dei soldati, privati di ogni eroismo, si coglie la resistenza delle tribù del Rif e l’emergere delle idee rivoluzionarie. Queste compaiono in Maddalena rossa, il testo principale del libro, in cui Angustias, un’impetuosa rivoluzionaria, impone il suo esempio a “Occhialini”, uno studente tanto idealista quanto incerto nell’azione, anche al momento di tradire la chiamata alle armi.
Diaz Fernández condusse una battaglia per la letteratura sociale, per il compito giornalistico di “dare una sensazione esatta delle cose”, contro la glorificazione della guerra che occultava la dolorosa realtà di uomini sottratti alle loro vite per servire una fallace idea di patria. Il suo impegno politico continuò con l’opposizione alla dittatura di Primo de Rivera e ai governi del bienio negro repubblicano, pubblicando ulteriori opere nel solco di quella che egli stesso chiamò letteratura “de avanzado”, tra le quali si ricordano La Venus mecánica, El nuevo romanticismo e Octubre rojo en Asturias, apparso sotto lo pseudonimo di José Canel dopo la rivoluzione asturiana del 1934. Eletto alle Cortes repubblicane, ebbe un ruolo a fianco del governo del Fronte Popolare durante la guerra civile, trovando infine la morte in esilio. El blocao è un libro che risponde al sentimento culturale più avanzato degli anni Venti spagnoli e che seppe trovare un chiaro successo editoriale, a dispetto del successivo oblio.
Nel volgere di poche ore una serie di esplosioni semina il panico in città. Nel metrò e nelle strade presidiate da esercito e polizia le vittime si contano a centinaia, compresi dipendenti comunali, sindacalisti, medici e (sostiene qualcuno) lo stesso sindaco, tutti passati per le armi: è la “notte dei botti” che dà il titolo allo sconvolgente, coraggioso romanzo di Biagio Cepollaro, scritto tra il 1993 e il 1997 ma uscito soltanto quest’anno presso l’editore Miraggi. Cosa accade, allora, durante la notte dei botti? Il dominio della merce ha già raggiunto eccessi macroscopici: nonostante siano stati privatizzati addirittura l’aria e i colori, ora i nemici dello Stato sociale, dei vincoli, delle frontiere, i fanatici del “Grande Scroscio della Liquidità”, della “Grande Fiumana delle Libere Espressioni”, pretendono la resa totale della Politica e con un colpo di mano stanno per impossessarsi definitivamente della città.
Scriba, poeta-veggente che sembra rimbalzare nell’oggi da un passato arcaico, dotato com’è della facoltà di ascoltare i sogni altrui, si muove in bicicletta sull’autostrada, pedalando per ore fra carcasse di macchine incendiate, crateri nell’asfalto e cadaveri riversi. Il suo scopo è raccontare la notte dei botti a partire “da quello che uno sente col naso”, “dal non farsi illusioni, dal mettere le mani nelle piaghe”: tutto ciò, si direbbe citando alcuni versi di Cepollaro stesso, per “provare il non-detto / e la sua deflagrazione” (dalla raccolta Scribeide, 1993) e comprendere così il senso di un mondo diventato sempre più oscuro, imperscrutabile. Ma anche Scriba sogna, e in sogno vede i Resistenti ammassarsi in cima all’autostrada, pronti all’azione contro il Nuovo Potere: “Cavalieri a piedi nudi, in piedi, sui cavalli… Centinaia di cavalieri che fanno acrobazie, che saltano da un cavallo all’altro… Cavalli e cavalieri che invadono le strade e le piazze della città disegnando festose figure… Piramidi di cavalieri alte quanto gli edifici… È la prima vera sfida alla Notte dei Botti”. La visione di Scriba si realizzerà concretamente? I Resistenti sapranno organizzare un movimento di opposizione? E saranno poi così forti e numerosi da liberare la città?
L’allegoria della Notte dei botti offre una esemplificazione da manuale del “post-modernismo critico” teorizzato da Cepollaro e dal Gruppo 93, sia sul versante dello stile, sempre teso e sorvegliato nella sua polifonia, sia, soprattutto, per la denuncia tempestiva e spietata dell’ascesa di un capitalismo estremo, eversivo, fattosi più che mai violento dopo il crollo dei freni costituzionali social-democratici impostigli nel “Trentennio glorioso”. La durezza e la potenza del giudizio sul nostro tempo espresso in questo romanzo non sono inferiori a quelle del quasi coevo Le mosche del capitale di Paolo Volponi, nonostante qui ci si focalizzi più spesso sulle classi subalterne, il cui linguaggio è restituito fedelmente nell’”oratura” di Cepollaro. Se infine si volesse assegnare la notte dei botti a un punto preciso della storia recente, a mio parere non bisognerà pensare soltanto agli esordi del ventennio berlusconiano ma a eventi come il varo del Trattato di Maastricht o il golpe extraparlamentare di Mani Pulite che segnano la fine dell’esperienza essenzialmente sovranista della Prima Repubblica e l’avvento del finanzcapitalismo trans-nazionale.
“”È la nostra cecità, cecità esistenziale, che rende il mondo che ci circonda così misterioso. Petr Král, con discrezione, ce lo svela”. Così si apre questa prima edizione italiana di Nozioni di Base, con un’introduzione di Milan Kundera che ci fa presagire un libro certamente sui generis.
Petr Král è uno scrittore e poeta ceco nato a Praga ed emigrato a Parigi nel 1968, dopo l’invasione sovietica. È stato una figura di spicco dell’editoria clandestina fiorita a Parigi nonché dell’intelligenza praghese antisovietica. Diplomato alla FAMU di Praga, ha contribuito a veicolare la cultura non ufficiale svolgendo l’attività di critico letterario e cinematografico, ma anche di interprete, traduttore e insegnante, dedicandosi alla scrittura di saggi, sceneggiature, diverse raccolte di versi in ceco e in francese tra cui Enquête sur des lieux (Flammarion, 2005). Ha contribuito anche alla traduzione e alla diffusione della letteratura ceca in Europa, curando importanti antologie come Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).
Il lettore italiano può avvicinarsi a Král poeta con la raccolta di Tutto sul crepuscolo (Mimesis Edizioni 2014) e alcune poesie tradotte dal ceco e dal francese (rispettivamente da Annalisa Cosentino e da Massimo Rizzante).
Non è, invece, facile incasellare Nozioni di Base (Základní pojmy nell’edizione originale) in un genere letterario predefinito. Edito da Miraggi Edizioni nella collana Tamizdat (pubbicato ”tam” ovvero ”là”, ”altrove”) e tradotto dal ceco da Laura Angeloni, si presenta come una raccolta in prosa di 123 brevi e incisivi pensieri che riguardano svariati oggetti e situazioni della quotidianità dell’autore, che assumono all’interno del libro quasi una connotazione universale.
Definito da Milan Kundera come ”una bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana” si tratta di un collage frammentato di immagini, sensazioni fugaci, epifanie fulminee che lacerano per un istante il tessuto grigio e uniforme della nostra vita quotidiana. Král osserva il mondo, si concentra sugli elementi che appaiono semplici e comprensibili e ne distorce il significato e la funzione. La prima nozione di base riguarda il caffè, una delle immagini più familiari e senza fronzoli per eccellenza, che rappresenta per Král quasi un’improvvisa rivelazione, la coscienza improvvisa della propria esistenza:
”Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno, significa concentrarsi di colpo e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”.
Da questo risveglio scaturiscono gli altri micromondi di Nozioni di base, a partire da un’osservazione attenta degli oggetti comuni e apparentemente futili che ci circondano: ed ecco che Král scrive di una camicia pulita ma anche della zuppa di pesce (”…e la gustiamo con cura, ognuno per sé, la coccoliamo e ci attardiamo con lei come con il nostro destino”), dell’attaccapanni e del cestino per la carta che diventa d’un tratto il custode della nostra esistenza. Ma ci narra anche dei nostri luoghi: il bagno degli uomini e il bagno altrui, l’hotel, la Spagna e l’Italia, l’impellente urgenza di rifugiarsi altrove per fuggire dal qui e ora.
All’interno di queste minuscole avventure, raccontate in tre righe o in due pagine appena, affiorano sensazioni e stati d’animo universali e ben conosciuti: il vizio, l’inerzia, la solitudine, l’incompletezza, l’assenza, ma anche la ridondanza, le aspettative deluse, il desiderio e il sollievo.
L’avvicendarsi dei pensieri di Král ricorda e immagini multiformi di un caleidoscopio: l’autore gioca con le gli oggetti in modo imprevedibile, assembla svariati frammenti di vita, osserva le cose da una prospettiva differente, vaga con la fantasia e l’immaginazione. E così l’ordinario si fa straordinario. Scorgere una sagoma dal finestrino di un treno e pensare all’improvviso a tutte le le vite che non saranno mai le nostre, attraversare una strada e rendersi conto delle possibili scelte che ci lasciamo dietro, l’incontro fugace con una donna sconosciuta con la quale avremmo potuto trascorrere tutta una vita, le inevitabili delusioni (”la cavità in cui precipitano senza scopo le nostre mentine rinsecchite non è solo una trappola misteriosa nella stretta di due fianchi, ma è lo sbadiglio dell’intero deserto cosmo”)
Tutto ciò con cui ci scontriamo ogni giorno sembra avere un’essenza nascosta che Král cerca di rivelare e di interpretare attraverso l’introspezione. Ogni cosa ha la potenzialità, quindi, di rivelarci qualcosa di profondo sulla nostra esistenza, di ”svelare il vero bagliore delle cose nella loro usura”, se solo la osserviamo attentamente. E così una giornata passata a languire nella quiete domestica può portarci a delle conclusioni inaspettate sulla nostra vita.
Ho amato molto questa raccolta, un vero e proprio compendio della vita, con la sua struttura frammentaria, il linguaggio asciutto e a tratti corrosivo, in cui ognuno può perdersi e ritrovarsi. Un approccio molto singolare a questo autore di certo da riscoprire.
“…In Italia il libro funziona molto grazie ai consigli degli stessi lettori. Il Lago è stato pubblicato da una piccola casa editrice di Torino, Miraggi Edizioni, che non ha di certo le possibilità delle grandi corporazioni editoriali, ma cura i suoi libri con un amore che non mi è mai capitato di incontrare altrove. Per esempio dopo una presentazione in collaborazione con una libreria, nella cittadina di Alba, hanno organizzato in una cantina locale una cena di varie portate, e il meraviglioso vino che la accompagnava aveva le etichette che riproducevano la copertina del libro. Qualcuno si è davvero preso la briga di organizzare una cena grandiosa per trenta lettori. È una casa editrice che vive grazie a dei lettori fedeli. E ne viene ripagata. Su Facebook è in corso un appassionato passaparola tra blogger, librerie, biblioteche. Probabilmente Il Lago non diventerà un best seller in Italia, ma di sicuro ha colpito profondamente molti lettori. È successa anche una cosa molto interessante: mentre insieme alla traduttrice Laura Angeloni sceglievamo i brani da leggere, Laura mi ha chiesto di includere il pezzo in cui il protagonista incontra per la prima volta sua madre, perché lo trovava così commovente che ogni volta le veniva da piangere. A me non era mai venuto in mente di leggerlo, non era tra quelli che preferivo e non avevo mai pensato che fosse così commovente. Beh, mentre l’attrice Elisa Galvagno lo leggeva erano tutti con le lacrime agli occhi, compresa me…”
Quasi tutti è un libro toccante e traboccante, nel quale sono compressi frammenti di senso dal concentratissimo peso specifico, aggregati apparentemente a caso intorno a un nucleo occasionale, non ricomposti. Quasi tutti riproduce la casualità caotica del nostro tempo: le frasi sembrano schegge di supernovae, riagglomerate dal caso in elenchi numerati.
L’uomo tagliato a pezzi. Delitti e processi dei “favolosi” anni Sessanta raccoglie la memoria viva e vivace di un “testimone informato sui fatti” dei più efferati crimini e misfatti della Torino dei primi anni Sessanta. Nel volume, infatti, si ripropongono i resoconti di quei processi che hanno segnato – almeno in parte – l’Italia del boom economico. Tra questi vi sono: il processo al vigile Millo Cossetta accusato di omicidio per aver ucciso il ladro della Flaminia dell’allora sindaco torinese Giancarlo Anselmetti; l’assassinio della gioielliera Maria Albera; il terribile omicidio di Chivasso da parte della famiglia – oggi insospettabile cognome – Montalbano che ha fatto a pezzi e chiuso in due valigie la sua vittima; l’estradizione del gangster mafioso italoamericano Settimo Accardo conosciuto nell’ambiente con il nome di Big Sam; la truffa dei concorsi truccati di Radiofortuna, Telefortuna, Giugno radiofonico e Serie Anie che assegnavano premi e automobili a vincitori ben precisi; la fuga dal tribunale da parte di Tarzan alias Angelo Roberto Felice Foresta; e ancora, il processo a Giulio Einaudi, Michele Straniero, Sergio Liberovici, Margot Galante Garrone per aver pubblicato il testo Canti della Resistenza spagnola contenenti due quartine incriminate di vilipendio alla religione e oltraggio al pudore.
Petr Král nasce a Praga il 4 settembre 1941, in una famiglia di medici. Dal 1960 al ’65 studia drammaturgia all’Accademia cinematografica FAMU. Nell’agosto del 1968 trova impiego come redattore presso la casa editrice Orbis. Ma, con l’invasione sovietica, è costretto ad emigrare a Parigi, la sua seconda città per più di trent’anni. Qui, Král si unisce al gruppo surrealista, che darà un indirizzo importante alla sua poesia. Svolge varie attività: lavora in una galleria, poi in un negozio fotografico. È insegnante, interprete, traduttore, sceneggiatore, nonché critico, collaborando a numerose riviste. In particolare, scrive recensioni letterarie su Le Monde e cinematografiche su L’Express. Dal 1988 insegna per tre anni presso l’Ecole de Paris Hautes Études en Sciences Sociales e dal ‘90 al ’91 è consigliere dell’Ambasciata ceca a Parigi. Risiede nuovamente a Praga dal 2006.
Petr Král ha ricevuto numerosi riconoscimenti: dal premio Claude Serneta nel 1986, per la raccolta di poesie Pour une Europe bleue (Per un’Europa blu, 1985), al più recente “Premio di Stato per la Letteratura” (Praga, 2016).
Tra le numerose raccolte poetiche, ricordiamo Dritto al grigio (Právo na šedivou, 1991), Continente rinnovato (Staronový kontinent, 1997), Per l’angelo(Pro Anděla, 2000) e Accogliere il lunedì (Přivítat pondělí, 2013). Curatore di varie antologie di poesia ceca e francese (ad esempio, l’Anthologie de la poésie tcheque contemporaine 1945-2002, per l’editore Gallimard, 2002), è anche autore di prosa: ricordiamo “Základní pojmy” (Praga, 2003), 123 brevi prose, tradotte in italiano da Laura Angeloni nel 2017, per Miraggi Edizioni. Attivo come critico letterario, cinematografico e d’arte, Petr Král ha collaborato con la famosa rivista “Positif “e pubblicato due volumi sulle comiche mute.
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Con Petr Král ci troviamo senza dubbio di fronte a uno dei maggiori poeti europei: più lo leggo e più me ne convinco. Certo, la sua poesia è lontanissima dalle corde foniche della poesia italiana di questi ultimi decenni. Questo dimostra proprio il valore della poesia di Král, non altro… Del resto, ricordo che il poeta praghese, in una sua noticina, avvertiva già il lettore italiano che si sarebbe trovato davanti una poesia dissimile, molto dissimile, da quella a cui è stato da sempre abituato…
La ricchezza fenomenica della poesia di Král è il risultato di un equilibrio instabilissimo tra la verosimiglianza e l’inverosimile; certi accorgimenti retorici come la sineciosi e la peritropè (il capovolgimento), il deragliamento (controllato) delle sue perifrasi, le deviazioni, l’entanglement sono gli elementi base sui quali si fonda la sua poesia, che ha il privilegio di godere dei vantaggi del surrealismo al quale Král aderì, sia a Praga che a Parigi: un surrealismo innervato nella sua storia e nella sua lingua. Egli proviene dall’esperienza del secondo surrealismo ceco filtrato attraverso la disillusione politica sopravvenuta dopo l’invasione della Cecoslovacchia ad opera dei carri armati sovietici, una esperienza traumatizzante e traumatica, che ha segnato in modo profondo molti altri poeti e scrittori praghesi. Nella prospettiva surrealista, il linguaggio cessa di essere funzionale al referente, si rende improprio alla parola, viene visto come uno strumento non utilizzabile secondo uno schema mentale di adeguazione della parola al referente.
Scrive Lacan:
«Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.
Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]
1 J. Lacan Ecrits, 1966, Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293
Oggi, probabilmente, non si può scrivere, in Europa, una poesia veramente moderna, senza fare riferimento, in qualche modo, al retaggio del surrealismo: il surrealismo inteso come allontanamento consapevole del referente e dal referente. In Italia, nella tradizione poetica di questi ultimi decenni (con l’ottima eccezione della poesia di Angelo Maria Ripellino e di Maria Rosaria Madonna e a parte, ovviamente, gli autori della «Nuova ontologia estetica»), non c’è davvero molto del surrealismo: siamo ancora invischiati e raffreddati dentro un concetto di verosimiglianza con il «reale» che ha finito per impoverire la gamma espressiva della poesia italiana.
Dunque, siamo grati ad Antonio Parente per aver reso in mirabile italiano la poesia di questo “ostico” poeta ceco; altrettanto lo siamo all’editore Mimesis Hebenon che, con le sue pubblicazioni, ha fornito una sponda importantissima a quanto andiamo scrivendo intorno alla nuova poesia europea.
Il segreto di questa poesia è in quel concetto di «continuamente presente» di cui parla Petr Král, è in una modalità espressiva che non contempla la «memoria» e, al pari della «musica», risulta incoglibile, se non come assolutamente presente, unicamente presente. «Presente» come manifestazione paradossale dell’Assoluto, assoluto contro – senso, assoluto paradosso, assoluta incoglibilità del paradosso. Quel «presente» che rimane sempre incoglibile. Alla luce di questa impostazione krláiana, tutti i presenti si equivalgono, tutti sono compossibili e tutti assurdi, assoluti e, quindi, inconsistenti, incoglibili se non attraverso esso «presente». È questo il fulcro della concezione della vita e dell’arte di Petr Král. Ed è questa, senza ombra di dubbio, la linea di ricerca della «Nuova ontologia estetica».
Ciò che riesce di problematica identificazione, e perfino incomprensibile, nella poesia di Petr Král dal punto di vista della poesia italiana degli ultimi decenni, diventa pienamente intellegibile dal punto di vista della «Nuova ontologia estetica». Com’è possibile? Come può accadere questo? La risposta all’interrogativo traspare dai contributi che seguono, di Carlo Livia, di Gino Rago, è negli appunti critici di Donatella Costantina Giancaspero, così come credo sia in queste mie riflessioni. Quanto noi stiamo dicendo e facendo da tempo, è riconoscere e affermare che una nuova poesia sorge sempre e soltanto quando si profila un nuovo modo di concepire il linguaggio poetico.
Ad esempio, negli autori della «Nuova ontologia estetica» si verifica un uso di alcune categorie retoriche piuttosto che di altre: innanzitutto la categoria retorica fondamentale (che poi, in realtà, non è una categoria retorica, ma un procedimento che concerne il modo stesso con il quale si concepisce l’essenza e la funzione del linguaggio poetico), ovvero il concetto di verosimiglianza tra il «linguaggio» e il «reale». Nei loro testi, non si dà alcuna corrispondenza equivalente e/o mimetica tra la «parola» e l’«oggetto» del reale, non si dà «corrispondenza» affatto, non si dà alcuna «riconoscibilità» a priori, in quanto la «riconoscibilità» deve essere scoperta volta per volta nell’ambito del dispiegamento del discorso poetico, deve essere «ricostruita» ogni volta ex novo. Così come accade nella poesia di Petr Král, il raffreddamento della composizione linguistica dà luogo ad uno zampillio di deviazioni, il linguaggio viene utilizzato per una «ricostruzione» non più «mimetica» del reale, ma ultronea, sovra reale.
Un augurio speciale a Petr Král nel giorno del suo compleanno.
Per quest’attenzione riservata alla vita dei personaggi, colti in un momento di svolta, in un cedimento esistenziale, alcuni dei racconti di Ghelli – penso in particolare a Quando arriva l’estate e a Il missile – potrebbero prestarsi a uno degli usi più nobili a cui possa aspirare un racconto: essere ripresi in un’antologia scolastica e contribuire così a formare la sensibilità e la ragione delle donne e degli uomini di domani.
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