La labile linea che separa realtà e finzione, e la possibilità che i due piani s’intreccino e si scambino di posto, sono i temi chiave dell’ultimo romanzo di Nicola Manuppelli, milanese trapiantato a Piacenza, traduttore dall’inglese coon già due libri di narrativa alle spalle. “Roma”, pubblicato da Miraggi edizioni, è ambientato nel mondo di Cinecittà all’inizio degli anni Settanta e racconta di una sgangherata banda di giornalisti sui generis che scrivono, ma molto più spesso creano, notizie di gossip su attori famosi. Come quando Satchmo – capo e anfitrione della compagnia, un moderno Trimalcione, come lo stesso autore lo definisce, alto poco più di un metro e somigliante a Louis Armstrong -, per poter scattare una foto che documenti di una fantomatica riconciliazione tra Richard Burton e Liz Taylor, non esita a far travestire il suo eclettico collaboratore Calabria, facendogli vestire i panni dell’attrice hollywoodiana, con esiti grotteschi ed epilogo rovinoso. Protagonista del libro è Tommaso che, partito da una Milano descritta come stoica e polverosa, si ritrova travolto da una città epicurea, gaudente, dissacrante, una città stracciona e felice. Il libro attinge all’immaginario felliniano, s’inspira al regista riminese fin dal titolo, e vedrà, al suo culmine, la sguaiata cricca guidata da Satchmo sul set di “Roma”, in una scena acquatica e quasi orgiastica la cui pellicola, naturalmente, andrà persa. Se felliniano è il libro, ancor più felliniana è stata la presentazione piacentina a palazzo Ghizzoni Nasalli, organizzata dalle librerie Fahrenheit e BookBank. Infatti, insieme a Manuppelli e al giornalista di Libertà Paolo Marino, c’era l’attore americano Peter Gonzales Falcon, che nel film “Roma” impersonò un giovane Fellini che lascia la Romagna e, guarda caso, approda in una Roma fantasmagorica. Gonzales ha raccontato in maniera suggestiva la forza dello spirito felliniano e la città che visse in quegli anni magici tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo. «Tanti pensano che la Roma rappresentata da Fellni fosse tutta un’invenzione, invece era proprio come lui la racconta, un’immensa festa dove si viveva assieme e ci si divertiva. Gli americani fanno fatica a capirlo».
Il romanzo di Manuppelli è soprattutto un libro di storie che si affastellano una sull’altra, di invenzioni e di avventure bizzarre. Ed è attraverso il gioco del racconto che Tommaso trova infine se stesso. A Roma Tommaso riesce a liberarsi dalla corazza «di uno nato in un posto freddo», una corazza, dice, che «invece di difendermi, mi isolava». A Roma Tommaso scopre la vita. «Lì dentro, a Cinecittà, era come tornare bambini. Era esaltante, era gratificante. Inventare. Costruire mari di plastica, teatri di marionette, ombre cinesi. Partecipare gioiosamente a quell’attività semidivina che è la creazione. Giocare. Giocavano tutti. Io mi sentivo fortunato, mi sentivo eletto e mi sentivo Tommaso del presente che aveva fatto pace con tutti i Tommaso precedenti. E in quel giardino dell’Eden non c’era più nulla da riconciliare, non c’era più nemmeno il tempo. C’erano le infinite possibilità delle storie».
Due amici, Ettore e Paolo, e un viaggio attraverso l’Europa. Si comincia in Islanda, si arriva a Torino, al Filadelfia. Apparentemente sembra un tour senza una filo conduttore, alla ricerca di incontri improbabili con personaggi famosi oppure di una scazzottata con un gruppo di danesi sovrappeso. Eppure c’è una logica di fondo in “Torneremo ad Amsterdam” (Miraggi edizioni, 107 pagine 12 euro), il romanzo scritto da Fabio Selini. Ed è una logica granata, nel senso di Torino. Di quei tifosi che hanno sognato di conquistare l’Europa con la Coppa Uefa nel 1992 e vennero fermati nella doppia finale da traverse e decisioni arbitrali controverse. Ettore e Paolo hanno in mente di prendersi una rivincita, nel nome di chi lottò contro tutto e tutti, come Emiliano Mondonico e la sua famosa sedia sollevata al cielo. E questa rivincita riparatrice arriva. Come? Lo scoprirete nelle ultime pagine.
Vorrei iniziare un percorso nuovo, raccontandovi le mie emozioni nel leggere autori emergenti, e oggi inizio con Marco suo NON TI SPEGNERE la sua terza silloge poetica.
Di Fioralba Focardi (https://screpmagazine.com/author/fioralba-focardi/) – 18 Dicembre 2018
Ecco in questa silloge ci si ritrova!
Non ti spegnere chissà perché a volte le parole non salgono alle labbra, ma restano dentro al cuore. Marco ha un incredibile
capacità: i suoi pensieri poetici, questi dialoghi fra Lui e chi decide di leggerlo hanno una semplicità interiore che scalda
veramente l’anima.
Non è retorica la mia.
Non è solo amicizia.
Marco lo sa che se non mi piacessero le sue poesie glielo direi tranquillamente. Dicevo chi decide di leggerlo sa che troverà quotidianità che ognuno di noi vive, parole negate, sogni frantumati, poesie appese al cuore.
Ma non si ha il coraggio di scriverle.
Ecco, Marco scrive per tutti, non solo per le Donne, scrive davvero per tutti. Mi piace questo suo modo d’interpretare la
quotidianità. Ma ora dopo aver fatto l’elogio iniziale voglio parlarvi di ciò che ho provato leggendo le sue poesie.
Marco, sembra che qui tu sappia bene ciò che molte donne nascondono e credo anche gli uomini, le delusioni sanno essere
prigioni, la violenza psicologica ci deturpa l’anima e la mente. Le ho lette tutte d’un fiato, le tue poesie, poi le ho riprese
leggendole poco alla volta, sorseggiandole come un buon vino per comprenderle bene, ma sono così vere che non c’è bisogno andare nei meandri della mente.
All’inizio credevo parlassi davvero a me, a un’altra donna, a tutte le donne, ma poi piano piano ti sei aperto in questo tuo
dialogare e hai buttato te stesso dentro i tuoi scritti, forse mi sbaglio, perciò aspetto una tua smentita, ma sai la poesia la legge. E questa silloge, credo che farà parte di molti cuori in cerca di Poesia.
Una sedia alzata diventata simbolo di appartenenza. E ora anche un libro che ricorda la notte più coinvolgente della storia recente granata. Il Toro non poteva che fare da sottofondo alla nuova fatica di Fabio Selini, bresciano che si è innamorato del Torino grazie a Pulici e Graziani. “Torneremo ad Amsterdam”, edito da Miraggi e nelle librerie dal prossimo 15 dicembre al prezzo di 12 euro, è stato presentato ieri al Circolo della Stampa-Sporting.
Non è un’opera storiografica però, ma un romanzo che racconta la storia di due amici quarantenni, Ettore e Paolo, che nel loro viaggiare senza una destinazione precisa per l’Europa – apparentemente, perché tutte le tappe coincidono con la cavalcata granata: dall’Islanda fino all’Olanda – si ritrovano come ultima metà nella città dei tulipani, dove 26 anni fa il Torino guidato da Emiliano Mondonico si giocò la finale di ritorno di Coppa Uefa contro l’Ajax mancando il successo a causa di tre pali (dopo il 2-2 dell’andata). «A quella partita, l’unica finale del Toro, penso dalla notte del 13 maggio 1992», le parole di Roberto Cravero, storico capitano granata, al quale è stata affidata la prefazione.
In quella squadra giocava anche Silvano Benedetti, oggi responsabile della Scuola Calcio del club di Cairo. «Fu un’esperienza bellissima, nonostante la delusione – le parole dell’ex difensore, allora però non ci rendemmo pienamente conto dell’occasione di entrare ancora di più nella storia. L’abbiamo capito dopo».
Considerata una delle voci più significative della letteratura ceca contemporanea, Bianca Bellová ha scritto una storia che è, al tempo stesso, un romanzo di formazione e una discesa negli inferi delle bestialità umani e degli orrori che il progresso può infliggere. “Il lago” – tradotto in quindici lingue, pubblicato in Italia dalla torinese Miraggi all’interno della collana NováVlna e vincitore di diversi premi – racconta la storia di Nami, il bambino cresciuto con i nonni che diventa uomo nella ricerca della madre, una ricerca che rappresenta lo spunto di partenza ma che via via si trasforma in qualcosa di più grande e definitivo: la necessità di trovare un proprio luogo all’interno di una realtà dura come quella di un paese dell’ex sfera sovietica.
La vicenda si dipana in una terra che sta al confine tra Uzbekistan e Kazakistan, attorno al lago di Aral, prosciugato a causa di politiche dissennate. A fare da cornice è un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca e che si ritrova sconvolto dall’improvvisa moria della principale fonte di sostentamento, provocata, nella credenza comune, dallo Spirito del lago, figura maledetta facilmente identificabile. Nami parte così per la capitale, dove si dedicherà ai lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino diventa fango putrefatto e su tutto continua ad aleggiare lo Spirito del lago, che ha punito la gente incapace di rimanere al di qua del limite con una violenza sconosciuta perfino agli invasori russi. «Un romanzo di ferite e cicatrizzazioni, perdite e riscatti, brutalità e tenerezza», l’ha definito con felice sintesi Laura Angeloni, autrice di una traduzione efficace e convincente.
A sette anni Tommaso batte a macchina con disinvoltura; il padre, che fa il segretario in uno studio legale, gliel’ha insegnato quando era piccolo e il suo primo regalo importante è una Olivetti portatile. È questo il motivo che spinge il ragazzo a scegliere la carriera di giornalista a Milano, mentre è l’esplosione della bomba di piazza Fontana e il ferimento subito in quell’occasione a fargli decidere di partire per Roma alla ricerca di un cambiamento. In Roma, pubblicato da Miraggi edizioni, Nicola Manuppelli affronta una sfida coraggiosa: raccontare la Cinecittà di Fellini, ma anche il Pigneto, Trastevere, piazza del Popolo degli anni 1970-71 attingendo ad aneddoti su aneddoti (su Richard Burton, su Walter Chiari, su Gore Vidal per citare solo alcuni dei personaggi che compaiono nel libro) senza cadere nel bozzettistico. Ci riesce e il suo romanzo fa scoprire al lettore un’epoca d’oro del cinema italiano attraverso gli occhi di un giovane ingenuo ed entusiasta. A Roma, Tommaso conosce Satchmo, un sosia di Louis Armstrong, che vive costruendo notizie false sui divi grazie a una rete di collaboratori, tra cui presto annovera anche il nuovo arrivato. Tra cene che si protraggono tutta la notte, bevute interminabili, corse di maiali al Circo Massimo, Tommaso fa gli incontri fondamentali della sua vita. A stregarlo è Judy, un’inglesina di Bath, che sogna di fare l’attrice e vende gelati. L’amarissimo finale oltre a segnare la fine della giovinezza, marca quel confine tra vero e falso che tutta l’atmosfera intorno a Tommaso sembrava voler negare. Manuppelli alterna il lavoro di scrittore a quello di traduttore di classici americani: la sua prosa vivace e appassionata ne trae gran giovamento.
Leggi la recensione si volevoesserejomarch.blogspot.com anche qui
https://volevoesserejomarch.blogspot.com/2018/11/roma.html?fbclid=IwAR1jcHZaOObcg8hMjzG-v-cAa-9ZI44nR6jH6gqRFa2wMa-5mGSZUsZzMtM
“Le ragazze stan sedute/ I ragazzi le osservano in piedi/ Attaccano bottone” oppure “Una volta lo facevamo/ Allora lo tengo io?/ Sì sì tienilo tu/ Pronto?/ Una cosa storica sull’Italia/ Della lavanda/ Mi manda l’email dopo, ha detto” oppure ancora “Bruciata a bruciapelo/ Ce l’aveva adesso in mano/ Ognuno ha le proprie/ Quanto?”. E infine: “È molto facile contrarre la malattia e l’opposizione deve essere pronta fin delle prime ore del mattino. Non è semplice opporsi ma è il livello minimo e anche massimo di soluzione nota. Anche se in realtà, almeno fino a oggi, non ha quasi mai veramente rappresentato una soluzione”. La tensostruttura di quest’opera vive nella temporaneità della posizione nella quale i materiali sono mantenuti. Guardandola dal basso uno si può chiedere come diamine si regga in piedi. Ma ecco ci viene in auto la citazione iniziale: “non sentirti in imbarazzo, puoi leggere in tutti gli ordini / come? / indicazioni preziose / come?” La risposta era già nella prima frase. Porsi ulteriori domande o meravigliarsi non ci porterà beneficio. Prestando l’orecchio alla rete-realtà, o alla reale realtà, come una grattugia con il formaggio, ecco che cosa cade dentro al piatto. Frammenti di un tutto e non briciole, che sono gli avanzi. Hanno forse una propria vita e una propria dignità, questi frammenti? Sono tessere di un puzzle in grado di sopravvivere se staccate dal resto del gregge? Ed è come se prendessi tutte le tessere di questo puzzle e le disponessi a casaccio sopra un grande tavolo. La figura intera c’è, è tutta lì, solo che ancora non si comprende e non si vede e, forse, non si vedrà mai del tutto, eclissata dall’incapacità della mano o dalla volontà di completarla o meno, semmai un puzzle disposto in tale modo completo non lo sia già…
Di cosa stiamo parlando? Di un tipo di ricerca poetica sviluppatasi dopo gli anni Novanta in un contesto che succede alla tradizione delle avanguardie storiche e nel quale i nuovi autori, in pratica, si trovano in un ambiente editoriale vuoto che essi stessi intendono riempire. Flarf poetry, googlism, minimalist concrete poetry, cut up e cose così. Metto subito le mani avanti: non conoscevo l’argomento, la tecnica, il dietro le quinte, ho cercato di saperne di più. Sono cioè un lettore popolare al quale questo volumetto è capitato tra le mani. Perché è questo quello che accade ai libri. Vengono presi in mano. Da chi? Da lettori senza pregiudizi e così devono fare anche i libri nei confronti di chi li legge: essere senza pregiudizi. Farsi cioè leggere da chiunque. Logico, direte voi. Non è così semplice. Tornando a noi, Marco Giovenale in questo mondo di ricerca poetica è uno degli esponenti più noti, facente parte del gruppo GAMM, attivo dal 2006 assieme ad Alessandro Broggi, Gherardo Bortolotti, Massimo Sannelli e Michele Zaffarano. Ma tornando alla domanda iniziale: di cosa stiamo parlando? Di una ricerca poetica che rinuncia al lirismo, smembra i testi (nella postfazione di Paolo Zublena la si paragona a una ventata fredda come l’asetticità di un’operazione chirurgica) trasformandoli in frasi volanti che prendono quasi la forma di spezzoni di conversazioni captate in mezzo alla gente. L’autore rifiuta uno stile qualsiasi, una struttura qualsiasi, allo scopo di ottenere un componimento non assertivo e una poesia no-logo, mi verrebbe da dire, a cominciare dalle maiuscole che non esistono più. Un approccio “caviardage” del poeta nel cosmo delle parole possibili, non ancora scritte e fluttuanti. Almeno questa è la sensazione del vostro lettore popolare.
Leggi la recensione di Marco Brollo anche qui
http://www.mangialibri.com/poesia/quasi-tutti?fbclid=IwAR3kfkT4MO6VGu6fidH1X7kkK1LdM3IIw7uE4nuK68dH27NS1YdjzJlt9Sc
Amo di un amore smisurato questi versi di Pasquale Panella, li porto con me e quando mi accingo a scriverne non riesco più.
Non è un monologo, è un soliloquio, nessun suono.
Come si possa costruire una meraviglia di versi sul continuo dirsi, nel silenzio e nella chiacchiera, mi sembra un vero incantesimo.
Incantata sto “Così che leggere è aggiungere i rumori, fingendo la leggibilità del soliloquio, che è illeggibile.”
Mi prende voglia che non sia vero, che non esista chi sappia così bene di cosa sono fatti i pensieri della solitaria, della solitudine, dell’essere soli, mi prende e mi accompagna verso il personaggio principale, “l’ascoltatrice”, colei che trascrive il soliloquio.
Il soliloquio, questa intima piazzata, questo comizio, questo convenire, qui, di un’oratrice che ha solo se stessa a ascoltarla, a ascoltarsi, a sentirsi regnante sul silenzio.
Il soliloquio come il mare, come le onde, come le maree, come il moto di rotazione della terra intorno a se stessa, come il respiro nei polmoni arriva, invade, ossigena e va via in anidride, il soliloquio occupa e si disperde nella testa, nel pensiero, va e ritorna.
Puro e bianco movimento che viene fatto e cancellato dal suo farsi.
Nel parlarsi addosso “torniamo alla mia voce che io sola sento” la raccontiamo a tutti, scrivendola su un foglio bianco, raccontiamo che vorremmo raccontare.
La volontà, la nostra ” è vero che ci capiamo, umanità?”
Fra disperazione e divertimento, fra ironia e dramma, facciamo di un foglio bianco il tramite di pensieri e azioni, il tramite di un messaggio scritto, perché se lei, la voce, scrive, scritto è.
In un mio antico farneticare scrissi “Dirlo a tutti per non dirlo a nessuno” ed in Poema Bianco (Miraggi edizioni), in questa delizia in versi, noi ci lasciamo andare dove il poeta ci vuole portare: essere cullati dalle parole, dalla ripetitività della certezza che ce le potremo dire ancora e ancora e ancora.
Non è con il pensiero
che ti ricordo
Non è con il ricordo
che ti penso
È un’altra cosa:
è il senso
Prima non era
necessario”
Salutando con un inchino un autore inarrivabile, un gigante, un grande, e sentendomi rispondere
Lo chiamano Scriba, perché “ha la fissa di scrivere tutto, con ossessione, ovunque si trovi”. Ormai da anni dorme tre ore per notte, il resto lo passa a vedere i sogni degli altri. Non sa perché gli succede, ma i sogni delle persone che dormono nelle sue vicinanze gli invadono la testa, mostrando i loro desideri marci, le paure, le ossessioni. Scrivere lo aiuta a capire. Conoscere i sogni degli altri lo aiuta a capire. Eppure “ora che la Notte dei Botti è scoppiata il casino è davvero grande”, è difficile orientarsi. C’è un senso in quello che sta accadendo, oltre al “gusto della sopraffazione e all’euforia del pestaggio?”. Esplosioni, scontri, panico, morti e feriti, cariche della polizia, “fumo da non vederci più nulla”. Non è ben chiaro cosa sia successo davvero e perché, forse molte cose insieme: “per strada, oltre alle ambulanze e alle sirene, oltre ai pompieri per i primi incendi, festosi si erano riversati in molti. Grandi e piccini, intere famiglie, in molti gridavano (…) evidenze protese, più o meno alte, più o meno mature, (…) protese comunque, squadernate, rivendicate, falliche evidenze acuminate, acuminate e urgenti, inderogabili, sfinenti”. In cielo è tutto un volare di elicotteri, le strade sono invase da ingorghi colossali, le autostrade sono chiuse da posti di blocco. Molti vengono ammassati in un autogrill – è da lì che Scriba è fuggito quando la puzza di piscio, sudore e merda si è fatta intollerabile – si parla di Resistenti che si oppongono alle forze che guidano la Notte dei Botti (che ufficialmente si chiama la Notte della Libera Espressione), ma esistono davvero? Scriba non lo sa, nessuno lo sa…
Arriva finalmente in libreria questo fascinoso romanzo breve scritto tra 1993 e 1997 da Biagio Cepollaro – poeta e pittore, teorico del “postmoderno critico” e tra i promotori del Gruppo 93 – su indicazione di Nanni Balestrini, che stimolava continuamente l’autore a cimentarsi con la prosa. Dopo qualche abboccamento non andato a buon fine, il romanzo è rimasto però inedito, pubblicato solo online sul sito di Cepollaro, fino a quando Francesco Forlani (che nella bandella definisce felicemente La notte dei botti “un viaggio davvero al termine della notte”) lo ha proposto a Miraggi. Ed ora eccolo qui: un piccolo gioiello a metà tra avanguardia letteraria e pamphlet politico, ambiti apparentemente inconciliabili ma la cui ibridazione Cepollaro governa con maestria e passione, evitando sia la cerebralità sia l’ingenuità. Nato in un periodo di ricerca linguistica molto intensa dell’autore, La notte dei botti è espressione di un laboratorio linguistico: il testo oscilla continuamente tra realismo scarno e visionarietà poetica, ogni parola è scelta con cura, ogni immagine o metafora è rigorosamente non casuale, il linguaggio racconta – o per meglio dire incarna – il passaggio traumatico tra moderno e postmoderno. Si era negli anni ’90, per definizione il decennio della fine delle ideologie, della agonia del Novecento, della ricerca di nuove identità sociali e politiche, della fusione e della confusione. L’alba di una presunta nuova era, i primi vagiti della Seconda Repubblica. La notte dei botti coglie alla perfezione il nucleo di angoscia di quei momenti, sfrondato di tutte le sovrastrutture, le (false) speranze, le farse mediatiche. Con sensibilità da poeta Cepollaro qui scarnifica il reale, ne mostra l’anima nera. La notte che ci descrive è un violento tutti contro tutti, è un sinistro redde rationem. Lo ha spiegato lui stesso alla trasmissione radiofonica “Fahrenheit” qualche tempo fa: “C’è un equivoco fondamentale, anche nel linguaggio comune, che negli anni si è andato aggravando: e cioè che parole che una volta significavano qualcosa – tipo libertà e riforma – hanno cominciato a significare un’altra cosa, anzi a significare l’opposto di prima. Questa notte della Libera Espressione sembra essere finalmente la realizzazione di un sogno, e in realtà è l’inizio della fine, l’inizio di una dittatura di tipo cileno”. Libro apparentemente di non facile lettura, ma se ci si approccia a livello puramente emozionale, regala un’esperienza potente ed epifanica.
Leggi la recensione di David Frati anche qui
http://www.mangialibri.com/libri/la-notte-dei-botti?fbclid=IwAR0dKzE6BibGInFEsYIAoX3Jf6R1iKy8gD0arQm3uURSJHWOQ05PX37GZxo
Jacinta Kerketta, una poeta dall’India che parte da sé e dal legame con la madre per agire con forza nel mondo
L’incontro con Jacinta Kerketta amplia il nostro sguardo non solo sulla complessa realtà dei popoli tribali dell’India dal punto di vista di una giovane donna, con una soggettività forte ma riesce a farci riflettere anche sulla nostra.
Conoscendo il suo lavoro e lei, come è avvenuto alla Libreria delle donne di Milano il 5 maggio 2018 durante il tour italiano che l’ha portata in varie università e librerie italiane (Venezia, Torino, Milano, Roma) ho capito da dove le proveniva questa forza e la capacità di muoversi in ambienti sempre più ampi. È una testimone in grado di mostrare non solo ciò che vede ma anche quello che non si vuol vedere e che lei sente, un sentire femminile fonte di conoscenza per tutte e tutti, alla maniera indicata dalla filosofa Maria Zambrano
Ho scoperto attraverso la lettura delle sue poesie, pubblicate in Italia nel volume Brace, che Kerketta riconosce l’importanza del legame con la madre per una soggettività capace di trovare le parole che non nascondano ma illuminino la realtà e che aiutino a trasformarla, insomma per quello che il femminismo della libertà chiama politica del simbolico. Infatti fin dalla dedica. “A mia madre, Pushpa Anima Kerketta, fonte della mia ispirazione poetica”, esprime riconoscenza pubblica verso sua madre, una donna che ha sostenuto il desiderio della figlia di diventare giornalista, con l’iscrizione alla facoltà di Mass Comunication di Ranchi, fatto che Jacinta ricorda nelle sue interviste.
La figura di una madre che, pur avendo sperimentato la violenza maschile e capitalistica, continua a lottare appare nella poesia Le armi nelle mie mani. Una madre che, anche se soccomberà, insegna alla figlia a portare avanti una lotta, in cui si tratta di salvare i sogni della madre, una lotta che va ben oltre la sola militanza.
La potenza immaginifica delle poesie di Kerketta è radicata nel suo essere donna e subito mi è venuto in mente il libro di Luisa Muraro, Non è da tutti, L’indicibile fortuna di nascere donna(Carocci, Roma 2011, p. 92 e seg) dove si sottolinea l’eccellenza femminile non come “superiorità relativa che richieda continui confronti […] ma che va riconosciuta per se stessa come un saper tenersi in presenza del mondo”.
Ad esempio, nella poesia La lingua umana l’io poetante guarda “come il ramo di un albero/ fa cadere pian piano le foglie/ dal suo petto/ come una madre/ che toglie il proprio latte/ al bimbo che cresce” e questo permette alla sua anima di ascoltare “una conversazione che non si è mai potuta registrare/ in un documento storico.// e quelli che sono intenti a riempire documenti/ con mucchi di parole/ quelle parole non le possono capire./ perché l’umanità non riesce a capire/ proprio la lingua umana…?”
Mi viene in mente, come dice Zambrano, che la storia vera dovrebbe mostrare lo spessore invisibile dei fatti, trovando il linguaggio più adatto. Non a caso la filosofa spagnola, come Kerketta, rivaluta la poesia come fonte sia di una conoscenza più autentica sia della possibilità della sua comunicazione. Infatti nell’intervista di Daniela Bezzi (“Dalla terra delle foreste. Incontro. Della scrittrice indiana Jacinta Kerketta esce in Italia «Brace», poesie dedicate al riscatto” in Alias, supplemento de il manifesto, 5 maggio 2018, p.8-9 leggibile anche in http://www.libreriadelledonne.it/dalla-terra-delle-foreste-incontro-con-jacinta-kerketta/) racconta che “dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia” aveva deciso di diventare giornalista per “raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là”. Avendo vinto premi importanti lasciò il quotidiano Prabhat Khabar, testata in lingua Hindi con grande seguito per continuare come free lance. Ed “è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.”
Kerketta conosce il valore della lingua materna, di cui ci segnala l’amorosa cura perché essa sia linfa vitale che scorre tra le generazioni e ci segnala il rischio che le parole diventino solo belle parole. Le sue parole sono l’espressione del radicamento nella propria esperienza soggettiva che solo così si apre all’universale.
Ad esempio nella poesia esseri umani e parole “all’alba la mamma con delicatezza/solleva il cestino colmo di parole/toglie la pula, le mette sul focolare/ fa marinare le parole/le avvolge in foglie di saraī/
e poi le dà da mangiare ai suoi bambini”.
Jacinta Kerketta ci mostra anche come in questo mondo globalizzato occorra essere capaci di destreggiarsi tra lingua madre e altre lingue, come e perché salvaguardare quelle delle minoranze. Lei scrive Hindi: questa è stata la sua prima lingua, benchè appartenga all’etnia Oraon che parla il kuruk. I suoi genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla cittadina, Manoharpur, dove il padre trovò lavoro nella polizia e la sua educazione fu in Hindi e poi in Inglese. Il kuruk l’ha imparato, quando ha cominciato a tenere corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Lei nell’intervista la definisce: “Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…”
Dunque si passa da una lingua all’altra per amore delle relazioni, per radicarsi e poi comunicare le proprie scoperte.
Della sofferenza per la perdita della lingua materna “[…]imprigionata/ proprio dentro la bocca della mamma/”scrive in La morte della madrelingua, tradotta in inglese in Land of the Roots, Terra di Radici per l’editore tedesco Johannes Laping. La mamma“di fronte alle prospettive che mostravano/ sogni di pane per i propri figli/ lei ha serrato i denti/ e sotto i sogni di quei bocconi/ la madrelingua è rimasta stritolata.” Non è stata morte naturale anche se alla mamma sembra solo un incidente.
Ricordo quando insegnavo italiano, e non solo, a una scuola per mamme straniere come loro cercassero di parlarlo con le loro creature passando così una lingua sgrammaticata e incompleta e come invece, quando dicevo loro di parlare a casa la loro lingua, capivano subito che era la scelta giusta.
Kerketta è capace di osservare empaticamente ciò che la circonda e di sentire la natura in stretta relazione con gli esseri viventi, mostrando i legami tra microcosmo e macrocosmo.
Ad esempio nella poesia Una sera al villaggio scrive:la sera accende il fuoco/ nella stufa a legna del giardino/ dalla stufa esce fumo/ e la luna, sbirciando fra gli alberi, /si mette a tossire,/ la ragazza accorre a dare un colpetto/ sulla schiena della luna.
Nelle poesie la personificazione non è una figura retorica, ma risponde a una concezione della natura e di quale rapporto gli esseri umani possono intrecciare.
Nell’incontro alla Libreria delle donne ha sottolineato il valore dell’essere donna nella cultura ancestrale adivasi e come cerchi di trasmetterla con le sue poesie. Si tratta di una cultura che rispetta gli alberi secolari, i campi ricavati disboscando solo alcune zone, perché gli esseri umani sanno viverci armonicamente, non considerandosi separati dalla natura. Nell’intervista ci propone una riflessione: “partecipe di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi,e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia.”
Con una potenza espressionista che ci scuote in Fiumi rossi denuncia sia la distruzione delle foreste con i disboscamenti e con le piogge acide, sia la distruzione dei saperi ancestrali attraverso i modi moderni di intervenire nelle calamità naturali come in Tempeste e soccorsi, dove i soccorritori fanno “a brandelli la storia dei villaggi”.
Vi è uno stretto rapporto tra le sue emozioni, ciò che testimonia e la sua scrittura come in Occhi inondati di lacrime dove racconta: “succede spesso che/ mentre scrivo una poesia/ chissà perché/ mi si riempiono gli occhi di lacrime.” Forse dovrebbe costruire una diga, ma le dighe sono anche quelle che provocano inondazioni e lacrime nelle popolazioni che lei conosce.
Non è una poesia intimistica: denuncia senza perdere la speranza perché conosce la forza della natura ma anche quella del linguaggio che rende coscienti e spinge alla lotta.
Ad esempio Quando la fame diventa fuoco, se all’inizio “il corpo dell’inchiostro sembra sciogliersi/ perdendosi in una profonda apprensione.” alla fine “una poesia canticchia/ mentre arrostisce al fuoco della fame/ e con lei si sollevano insieme/ i fuochi di molte case/ contro tutte le cause della fame.”
È molto attenta a ciò che accade alle donne e voglio terminare con qualche verso di Quando il tempo alzerà la voce? dove“una madre/ che conosce ogni cellula /dei suoi bambini,/ questa volta/ non riesce a capire/ come mai il bastone della sua vecchiaia/ non è altro che pelle e ossa.// da molto tempo ormai/ il suo petto soffre di una spaventosa/ siccità di latte/ come un ciocco bagnato fumante/ lei si consuma all’interno/ bruciando di disperazione/ e continua a percepire/ fisso sulla sua porta/ lo sguardo di un avvoltoio.//”
Questo testo mi ricorda le battaglie di Lina Merlin per la situazione di miseria del nostro Polesine: in un suo intervento parlamentare del 1951 contro gli stanziamenti per armi raccontava di aver visto “una piccola creatura con gli occhi spenti, simile a tante altre che malamente vegetano nel Delta padano, e ciò perché i seni materni sono inariditi dalla fame” (Lina Merlin, La mia vita, a cura di Elena Marinucci, Giunti, Firenze 1989, p.174)
Come Lina ci incitava a lottare così Kerketta denuncia gli accaparratori di terre e si domanda quando inizierà il tempo della rivolta “le giovani ossa finora dormienti/ quando si leveranno in un boato/ e si metteranno a battere/ i nagāṛā come tamburi di guerra?// quando verrà il tempo/ di reclamare a gran voce/ i diritti che spettano come propri/ e di scacciare gli avvoltoi/ che si accalcano sulla soglia?”
Kerketta crea poesia per avere uno sguardo più profondo che diventa capace di trasformare anche il nostro.
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Una banale lite tra vicini, di quelle che accadono più o meno a tutti una volta nella vita. Quello che non capita, di solito, è il passo successivo, scoprire dalla polizia di essere morto. O meglio, scoprire l’esistenza di un verbale che notifica il proprio decesso. João Paulo Cuenca, 40 anni, è uno dei più talentuosi scrittori brasiliani contemporanei. Già nel 2012 la rivista inglese Granta lo ha inserito in una ristretta cerchia di autori sudamericani da tenere d’occhio. E la previsione ha trovato conferma nei lavori degli anni seguenti: romanzi, articoli, opere cinematografiche. Ho scoperto di essere morto – pubblicato in otto lingue e in Italia meritevolmente edito da Miraggi (pp. 176, euro 16) con l’avvincente traduzione di Eloisa Del Giudice – è la discesa in un doppio inferno: sociale e personale, un viaggio delirante nelle mille contraddizioni di una Rio de Janeiro che si sta preparando ai Giochi Olimpici tra speculazioni edilizie, polizie più o meno segrete, feste, droghe, alcol, situazioni comiche al limite del grottesco, individui scellerati.
Lo spunto di partenza è autobiografico (nel libro c’è anche il famigerato certificato di morte), ma si trasforma rapidamente in un pamphlet urbano denso di misteri e colpi di scena. L’inventiva anarcoide di Cuenca mantiene alta fino all’ultima pagina la tensione, addirittura amplificata dalla sorprendente postfazione attribuita a una studentessa che nelle pagine precedenti compare con osservazioni critiche nei confronti dello stesso scrittore. Che con questo romanzo si è aggiudicato il premio Machado de Assis, il più importante riconoscimento letterario brasiliano.
La storia narrata dalla scrittrice ceca Bianca Bellovà è quella di un ragazzino, orfano, allevato dai nonni in un piccolo villaggio sulle rive di un grande lago nel cui si specchio si riconosce la vicenda del lago Aral, una delle più grandi catastrofi ambientali del pianeta. La morte improvvisa dei nonni spinge il piccolo protagonista, Nami, a partire dalla ricerca della mamma che è convinto sia ancora viva. Un viaggio epico in un mondo duro e surreale che forgerà il carattere del giovane. Un romanzo ricchissimo a metà tra il racconto di formazione e la fiaba gotica.
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