Appassionati di romanzi dove la storia si snoda a più voci? In questo romanzo corale, in cui sono fondamentali l’immagine e l’immaginazione, Batsceba Hardy (fotografa che vive a Milano, dopo molto tempo trascorso a Berlino) ci parla dell’arte dell’imperfezione e descrive bene e in modo avvincente con la forza di un diario polifonico la storia di due gemelli, Annalia e Andrea, prima fratello e sorella, ora entrambi di sesso femminile, in cerca di sé e di un nuovo reciproco rapporto.
Le loro vite pian piano tornano ad amalgamarsi, circondate da animali parlanti, un cane e un gatto vecchio e molto saggio, una senzatetto filosofa e un musicista. I rapporti che si instaurano tra i protagonisti sono ‘deboli’, ma delicati. Tutti tendono alla ricerca della verità, tutti tendono all’amore, tutti tendono alla ricerca del proprio ‘essere’
Un romanzo diario, scritto con una scrittura magnetica che saprà tenervi incollati alle pagine durante la lettura sotto l’ombrellone, soprattutto grazie all’abilità della scrittrice di zummare sempre molto delicatamente sulla vita dei protagonisti e i dettagli che li circondano, ma soprattutto in grado di farci riflettere su di noi su quello che siamo e quello che vogliamo.
G.G.: Perché Marguerite Duras, un cui passo riporti in esergo, dovrebbe essere, se lo è, il punto di riferimento per comprendere la scrittura degli Autismi?
G.S.: Mi toccano assai queste frasi sull’essenza non razionale della scrittura, come del resto tutto il magnifico testo dal quale le ho tratte e tradotte, Ecrire. E poi amo moltissimo questa autrice, e mi sembra che non si colga appieno la sua importanza fondamentale su tantissime scritture dell’intimità, per chiamarle così, che sono venute dopo di lei.
G.G.:Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra. Buche grandi e profonde, in cui ci entra comodamente una persona. Straniante è la tua scrittura perché, appunto, crea i buchi nel quotidiano e crea degli impossibili. Tragitti che ruotano attorno al dato autobiografico che non diventa mai autoreferenza, a dispetto del titolo del lavoro: Autismi. Autoironia, autoconsapevolezza. Le auto. Le macchine che prendono vita e, quasi, da oggetti inanimati s’innalzano a soggetti di memorie… scrivi: Nel mio sguardo sfilano le automobili parcheggiate. Le vie addormentate del mio quartiere sono stipate di macchine, perché poverine non sanno dove altro andare a dormire, mentre i proprietari ronfano placidamente nei loro letti, o anche si dedicano a indiavolati atti sessuali.
Gli oggetti pungono lo sguardo, anche del lettore. Non mi era mai capitato di provare questa forma di animismo nei confronti delle cose. E le cose, qui, gli oggetti sistemati spesso in elenchi, sono strappi all’anonimato quotidiano e diventano cause degne di attenzione. Penso alle bottiglie di Morandi, a Duchamp, al ready-made, all’operazione di rendere strano un oggetto comune, sottrarlo all’inorganico robotico, non è tanto la poetica dell’oggetto umile, ma l’etica di uno sguardo che tutto abbraccia. Alcuni elenchi: Arrivano gravati di sci, tavole da surf, biciclette, pattini, racchette, mazze da golf, creme solari, macchine fotografiche, paracaduti, corde, ramponi, pinne, aquiloni, canne da pesca, salvagenti, archi, balestre, attrezzature di ogni genere. Un elenco che, nel quarto elenco… volevo scrivere ‘episodio’ (il lapsus che ha trasformato episodio in elenco, non è fuorviante: ogni episodio può essere visto come individuo a sé stante e come elemento di una classe più vasta e l’errore in sé, in questo libro, quella mancanza che trascina tutto il racconto, è proprio spinta del soggetto a, da un lato, identificarsi con il mondo, dall’altro a ritrovare in sé la propria radicale diversità dal mondo, e la scrittura di Sartori, nello humour e nella non casuale semplicità, lo è); nell’episodio La mia città, l’elenco, mi pare, serve meno a ossessionare una pratica nevrotica di accumulazione di oggetti, sempre feticci e ombre del grande oggetto materno, che a delineare i caratteri dei loro possibili possessori maschi o femmine, di ogni genere. Oppure, parlando della madre, in Il mio organo della riproduzione, viene stilato un elenco degli ‘ostacoli’ che si pongono tra lui-bambino e la mamma. Quel desiderio di essere desiderato dalla madre, classico groviglio di narcisismo e disperazione: non c’è scrittura sincera che non sia generata dal Desiderio, dal vuoto incolmabile. Ma l’elenco: Prima di me venivano pur sempre gli amici ricchi, la pelliccia, le sue sorelle, la sua asma, l’anello con il diamante, l’anello con lo smeraldo, la batteria di scarpe con i tacchi, le vacanze, l’organizzazione delle vacanze, il suo amico omosessuale, l’estetista, i costosissimi lavori nella casa di famiglia, la pedicure, la pettinatrice, i problemi con le donne di servizio, l’antiquario, le fatture del telefono, le altre fatture, il preside della scuola dove insegnava, la sanguinosa guerra con mio padre, gli esami per diventare di ruolo, i nervosismi ingiustificati, la guerra di posizione con mia sorella, le visite mediche per capire se mio fratello era o non era pazzo, l’elenco è pur sempre un girare attorno, un torno e ritorno, un investigare, e la madre diventa tutte quelle cose che impediscono a lui-bambino di essere il privilegiato, l’unico e insostituibile… direbbe lo psicoanalista, o la terapeuta di Terapia di copulazione. In realtà Sartori non si sta lamentando, non sta scrivendo il suo male oscuro… anzi! Lui se la ride, ironizza sul luogo comune che vuole tutti i problemi generati dall’irrisolto Edipo. Ma traduce in chiave quasi umoristica il proprio disagio, supposto che davvero Sartori stia facendo, magari inconsciamente, di questa scrittura una terapia. Insomma, se il racconto di Autismi sia autobiografico o meno, non saprei dirlo, ma di certo non è questo, credo, che vuol evidenziare l’autore, quanto l’architettura di ogni episodio, legato al successivo proprio da un principio di elencazione: intorno alla propria esistenza ruotano i quadri che raffigurano momenti quotidiani: il lavoro, la malattia, la città, la famiglia, i ricordi, gli amici, la morte, la cacca. La mia cacca è un episodio assurdo: Cominciavo a percepire me stesso in una maniera completamente diversa: mi guardavo nello specchio, e vedevo il tubo digerente che ero. È un momento centrale, l’epifania di tutta la scrittura di Sartori: il vuoto che ci abita e che genera non solo la possibilità di ospitare l’altro ma soprattutto di mettere da parte quel narcisismo che apparentemente tradisce il titolo del libro. Siamo costruiti intorno a un vuoto, sembra dirci la prosa di Sartori: c’è sempre per tutto il libro un sottile senso di disagio come impossibilità intrinseca di poter andare oltre, e sempre, la situazione più comune e quotidiana, diventa di più profondo significato sociale e politico.
G.G.: Che rapporto hai, se ce l’hai, con la letteratura psicoanalitica e quali sono stati i tuoi riferimenti letterari nella stesura dei tuoi Autismi?E che rapporto hai con la politica e con l’ideologia politica?
G.S.: Io non sono un teorico, insisto sempre su questo punto, per il semplice fatto che guardandomi attorno vedo che moltissime persone, professionisti del pensiero ma anche semplicemente individui molto intelligenti, sono molto più dotati di me per il pensiero astratto e filosofico. Ciò detto che dietro a tutti i miei testi ci sono tantissime letture teoriche, anche appunto di psicoanalisi, perché non vedo come uno scrittore contemporaneo, qualsiasi cosa scriva, possa ignorare il suo apporto. Checché si possa dire di questa, e sui suoi limiti, mi sembra che solo lei riesca a scavare nei comportamenti e nei funzionamenti intimi delle persone. A me in ogni caso ha apportato moltissimo. Ma ripeto, il mio interesse non è cerebrale, a me preme capire le persone, e riportare questo mio sapere nei testi che scrivo, che è quello che so fare bene. E lo stesso si può dire della politica, nei miei testi c’è tantissima politica, e mi fa piacere che la persona che mi traduce in inglese, Frederika Randall, lo abbia sottolineato nelle sue considerazioni su questa raccolta di racconti, che potrebbe essere considerata agli antipodi della politica. Perché anche l’intimità delle persone, l’intimità più abissale e nascosta, che è quello che più mi interessa, è – lo dici molto bene tu stesso – rapporto con gli altri, con la società in cui si vive, con le forze economiche e politiche che la reggono, con i fondamenti ideologici espliciti e impliciti. Però anche qui le piste nei miei testi sono nascoste e mescolate, non ci sono mai dei messaggi univoci e facilmente riassumibili.
Perché il tema politico torna sempre nella rievocazione del padre fascista e del paese bigotto e cattolico e si riflette in queste alte montagne, ostacolo della percezione e della riflessione: L’unica soluzione sarebbe spianare le montagne, in modo da permettere finalmente allo sguardo di spaziare, all’aria di circolare, al sole di tramontare sulla linea dell’orizzonte, alle idee di maturare serenamente: la soluzione sarebbe di spianare gli ostacoli, e di colmare il vuoto del desiderio. Intendimento irrealizzabile che bloccherebbe non solo la scrittura di Sartori ma la scrittura tout court: La mia volontà di attraversare mi appare ormai come un invincibile despota, un tiranno al quale non mi resta che arrendermi. Adesso vado!, mi dico, irrigidendo le spalle.
Poi però rimango sul solito marciapiede, quello di sinistra: scrive nel penultimo episodi Le mie passeggiate, un episodio che non può rievocare, credo, una psicogeografia fatta di ossessioni e ricordi simil-nevrotici, ma anche da un’ansia del territorio per cui il soggetto non si decide a passare dall’altra parte o a lasciare la sua terra (tentennamento che dissolve in malinconia quel disprezzo che dichiarato per la sua città e le montagne al momento del dipartire:,Mi dico che le vedo per l’ultima volta e ne provo quasi un malinconico struggimento; oppure in maniera più incisiva in La mia patria fuggitiva: Allora ho capito che ero un italiano, lo sarei sempre stato).
E che rapporto hai con il tuo territorio nella vita di tutti i giorni quando non fai lo scrittore?
G.S.: Io sono cresciuto in Trentino, e anche se poi a diciotto anni lo ho lasciato, ci sono sempre ritornato, e tra le altre cose lo ho battuto palmo a palmo per il mio lavoro. Quindi lo considero la mia terra, e se penso all’Italia mi viene naturale di pensare in primo luogo alla mia regione, e anche molti miei scritti hanno a che fare con essa. E è un territorio con il quale ho un rapporto complesso, appunto. Ci sono molte cose che detesto, ma la psicanalisi – visto che abbiamo parlato di psicanalisi – e anche la spiritualità, ci insegnano che non c’è avversione e rancore senza vicinanza, senza incarnare noi stessi quegli attributi che ci danno noia.
G.G.: Gli episodi sono stratificati, è vero, ma è come se, scivolando verso la fine, si risalisse in superficie, o viceversa, e l’andamento, spesso, è una scalata: si arriva in vetta e si ridiscende e il dato di fatto iniziale muta sguardo, un’anamorfosi, trasformazione, come se il tragitto, per avercelo fatto attraversare, modificasse il territorio, e l’ipotesi iniziale contraddice la spinta propulsiva del racconto e si converte nel suo contrario o complementare: quel che credevamo un esistente si fa allucinazione, quel che viene a galla come un distacco è una liberazione e la liberazione a sua volta sprofonda lentamente nel rimpianto, nell’inquietudine kafkiana dell’assurdo esistere, sembrava prossimo alla morte e invece è solo un disagio del corpo, sembrava merda e invece è oro. La scrittura di Sartori scava, scala, scavalca, si muove in direzioni opposte, è profonda e superficiale, anima gli oggetti e individua l’automatismo dei soggetti, concede un’anima alle macchine ma denuncia la morte-in-vita dei suoi paesani umani, accusa gli altri di essere fatti male per poi giungere alla conclusione amara e ironica di essere lui stesso fatto male, proprio come succede con la sorella che descrive nell’episodio Mia sorella. Punti di vista differenti, una prospettiva che non si accontenta del proprio sguardo e chiama a testimone lo sguardo altrui.
Perché è un istigatore Andrea Raos?
G.S.: Il poeta Andrea Raos, che avevo conosciuto a Parigi, all’epoca anche lui viveva lì, nel 2005 mi aveva chiesto ripetutamente se volevo collaborare con Nazione Indiana, e se volevo entrare nel blog come redattore. Io per un po’ ho nicchiato, perché all’epoca ero molto lontano dalle cose del web, poi invece ho cominciato a scrivere questi racconti, che lui postava mano a mano, e per me è stata una esperienza bella e ricca. A differenza dei romanzi i racconti hanno bisogno di essere desiderati, o insomma di avere una loro possibile destinazione, e per molti versi si portano dietro l’energia della contingenza dalla quale nascono. A me almeno succede così. In ogni caso senza Nazione Indiana questi testi non avrebbero mai visto la luce. E poi ho finito per entrarci a tutti gli effetti, nel blog, e anche questa per me è stata un’esperienza importante.
G.G.: Ingannevole quel ripetitivo mio mia nel titolo della maggior parte dei capitoli-episodi: proprio perché non v’è nulla di ‘mio’ ci si può permettere di dichiararlo tale, è proprio perché non v’è niente di autoreferenziale che l’autore può chiamare Autismi questa raccolta di episodi apparentemente a sé stanti. Ma raccontaci qualcos’altro degli Autismi pubblicati sul blog collettivo Nazione Indiana.
G.S.: La cosa bella è che i lettori commentavano i racconti, anche in modo molto critico, o al contrario esprimendo la propria ammirazione. Dieci anni fa si era in un’epoca differente, i blog letterari erano ancora pochi, e i lettori erano forse più attenti, o insomma avevano più tempo a disposizione. La mia impressione è che oggi l’offerta sia così grande, tra blog, social eccetera eccetera, che le persone facciano fatica a stargli dietro, e lo facciano in modo compulsivo, e senza quella reale attenzione e quel coinvolgimento che mi sembrano essere la specificità e la bellezza della fruizione dei testi letterati. In queste condizioni non si potrebbe ripetere l’esperienza degli Autismi, non avrebbe senso, mi pare.
G.G.: L’ultimo episodio si intitola Il mio testamento biologico e mi sembra che concluda egregiamente il circolo intorno al vuoto del desiderio con un commiato esistenziale, sociale e politico sui diritti umani, che è pure un ritorno alla terra-madre, terra nel suo significato ancestrale e ontologico opposto o complementare a quello assunto dallo stesso termine nel primo episodio Il mio lavoro in cui la voce narrante racconta il mestiere dell’agronomo: la voce narrante di Autismi possiede un corpo ben piantato nella terra e la sua scrittura, come suo doppio sulla carta, s’innalza quasi-albero. Non passa inosservato il contrappunto tra le parole del primo episodio: O forse giacerò anch’io già nella terra, e le parole dell’ultimo: Per parte mia avrei continuato a vegetare, perché proprio questo è sempre stato il mio traguardo.
E per parte mia vi auguro una buona esplorazione dell’animale terrestre che dunque siamo e che Sartori rappresenta con una tecnica estremamente originale.
La ragazza non sa come vestirsi. Ha un appuntamento. Continua a guardare i suoi vestiti e a scartarli mentalmente. È sempre più agitata. Sempre più angosciata. Chi ti credi di essere? Si chiede nella sua mente. Cerca di tenere a bada l’ansia muovendosi, il movimento allevia la tensione. Aspetta. L’uomo arriva. È in ritardo. Lei sa che le deve delle scuse e delle spiegazioni. È il suo allenatore e non ha permesso che giocasse da tempo. Lui le spiega il perché: è invidioso della sua bravura. Lei è incredula. Lui le dice che è il modo più facile di fermarla quella di ripeterle che non è capace di fare bene nulla, che nella vita saranno in tanti a cercare di fermarla utilizzando questo modo. Lei non deve arrendersi. Mai. E lui non sarà mai più il suo allenatore. La ragazza si ferma. Immobile. Piange… È la sera di Capodanno. C’è frenesia, al centro di Roma. Tutti in metro si spostano per festeggiare l’inizio dell’anno nuovo. Lei è seduta al suo posto vestita da geisha. Una donna che non conosce le si avvicina. Si siede al suo fianco. Cominciano a parlare. Il tempo diventa liquido. Scorre come acqua. Le due donne arrivano al capolinea ed è ormai già mezzanotte… Quando lei ha conosciuto lui ha imparato una lezione di vita fondamentale: bisogna fidarsi del proprio corpo. Sempre. Ascoltarne i segnali. Non bisogna far sì che sia la paura a vincere. Bisogna combatterla la paura. Lui è stato in coma per sei mesi. Al risveglio metà del suo corpo è paralizzata. Lui sfida la paura ogni giorno…
Alessandra Perna, musicista, ha suonato per quattro anni nel gruppo punk italiano Luminal, si dedica alla musica e alla scrittura, è eclettica e dichiara di “fare quello che vuole, sempre”. Ha già pubblicato un romanzo (Non farti fregare di nuovo) e ora rilancia la sua scommessa con la letteratura pubblicando questa intensa raccolta di racconti. Trentatré storie estremamente brevi: esattamente come le canzoni punk che scorrono nelle vene dell’autrice. Le storie mettono a fuoco dei brevi momenti nella vita dei protagonisti: sono epifanie, momenti di estrema lucidità in cui i protagonisti analizzano la loro vita, cercano di capire quale direzione imboccare, quale strada percorrere e come affrontare le difficoltà che faticano a superare. I racconti sono scritti in maniera paratattica, con frasi brevi e taglienti, sembra di leggere tanti frammenti, schegge di realtà che colpiscono al cuore il lettore. Ed è proprio questo modo di scrivere in maniera frammentata che è assieme il punto di forza e di debolezza del lavoro di Alessandra Perna. Non riusciamo a provate empatia con i suoi personaggi, tutto ci travolge con grande forza e tutto scorre troppo rapidamente. Sarebbe stato bello approfondire, limare, fornire un quadro più ampio delle situazioni e invece ci pare di leggere degli haiku.Tutto dovrebbe essere migliore si legge a ritmi serrati, il tempo di un pogo ed è tutto finito.
Il suo terzo libro – ‘La folle storia del kamikaze che non voleva morire’ (Miraggi Edizioni) – promette di essere uno dei casi più interessanti di questa estate letteraria. Di lui Darwin Pastorin ha detto: “è uno scrittore maradoniano”. Claudio Marinaccio, classe 1982, un autore che esplora volentieri anche le rotte del giornalismo, dopo aver scritto per GQ, Donna Moderna e Il Mucchio Selvaggio collabora con Wired, Io Donna del Corriere della Sera e La Stampa. Da qualche tempo è tra le firme scelte dal quotidiano di Maurizio Molinari, insieme a Mattia Feltri e Giuseppe Culicchia, per raccogliere l’eredità del ‘Buongiorno’ di Massimo Gramellini. Il suo personale ‘Buongiorno Torino’ è dedicato alla provincia che sui affaccia sulla grande città, tra realtà ironica e un pizzico di surreale. Se i due libri precedenti – ‘Come un pugno’ (Aliberti) e ‘Non disturbare’ (Miraggi Edizioni) – hanno raccolto un buon successo è col terzo che le ottime recensioni confermano l’originalità di un percorso personale, originalissimo, fatto di storie taglienti, spiazzanti, dove il lettore affronta vicende terribili ma sempre piene di ironia. «Il libro è composto da undici racconti – ci spiega – dove i protagonisti vanno incontro ad un destino che non lascia scampo, ma loro si ribellano, vanno avanti nonostante tutto anche quando sono beffati, Nei miei personaggi c’è quella voglia di sopravvivere che ogni essere umano scopre di fronte all’inaccettabile. Ma non sempre basta, e io lo racconto».
Storie torinesi? «No, universali. Gotiche e amare. Molti luoghi sono legati ai miei viaggi, da Parigi all’Abruzzo, dal sud della Francia al Cile, per arrivare agli Stati Uniti dei miei panorami letterari o cinematografici».
Che rapporto hai con Torino?
«Amo Torino, ma la vedo in prospettiva, perché vivo in provincia, a Villarbasse. Vado in città ogni giorno, con la mia moto ci metto pochissimo, ma alla sera mi piace tornare in un posto dove ci sono gli alberi e le case sparse, dove si sentono le voci distinte e i cani abbaiare. A Torino, come in ogni città, c’è sempre un rumore di fondo, ed è una sensazione profondamente diversa. Vivendo questi due ambienti nella medesima giornata si colgono meglio le differenze, e ci si sente a proprio agio in entrambi. Sono un provinciale metropolitano e questo penso sia un privilegio. Per uno scrittore è un doppio punto di vista, fonte di spunti e di ispirazione».
Cosa ti piace della provincia? «La provincia è un territorio intimo e concreto, fatto di cose tangibili e visibili. E’ un luogo che profuma di antico, dove si gode di una realtà minimalista estremamente interessante. In provincia contano gli individui, li vedi uno per uno mentre fanno le loro cose, li incontri al bar dove ogni giorno si commentano i fatti, anche quelli grandi, ma sempre con le medesime persone. E poi quella di Torino è una provincia grande, la più grande d’Italia, circondata da montagne che vedi sempre, che identificano il paesaggio e forse anche il carattere della gente».
E invece Torino? «Torino ha una identità molto forte e una doppia anima: elegante e underground, ci sono i palazzi della storia, ma anche le tante vivacità di una cultura urbana che ha offerto e offre molto nella musica, nel cibo e nell’arte. Torino non è come le altre città italiane, è molto più europea, anche geograficamente».
Hai vissuto un anno in America Latina, cosa ricordi di quell’esperienza? «Quando ho conosciuto mia moglie, Javiera, nel 2006, ci siamo trasferiti un anno in Cile. E’ stata una bella esperienza, ma poi abbiamo deciso di tornare. Ho scoperto di amare l’Italia ancora più di prima proprio restando lontano da casa. Sono convinto che in nessun paese del mondo si ami la vita come da noi. Al rientro ho deciso che avrei fatto lo scrittore a tempo pieno. Una decisione che ho preso anche per mio figlio Carlos, io scrivo per lasciare qualcosa a lui».
Cos’è per te la scrittura? «Mi piace la lucida follia che trovo in certi scrittori. Come per molti autori latinoamericani e statunitensi amo partire dalla quotidianità per arrivare al misterioso e al surreale. E poi c’è un altro aspetto fondamentale: la scrittura è allegria, piacere, diffido degli autori tristi. Quando vado nelle scuole insegno ai ragazzi che questo è il lavoro più bello del mondo e gli dico che per scrivere serve leggere, leggere tanto. Il mio primo libro vero è stato ‘Il bar sotto il mare’ di Stefano Benni. L’ho preso tra le mani a 13 anni e ho scoperto che ci si può divertire molto leggendo».
Granata o bianconero? «Juventino, ma la responsabilità è stata di mio padre. Nel 1992, dopo aver visto Mondonico sollevare la sedia ad Amsterdam, gli dissi detto che volevo tifare Toro. Lui mi ha risposto che non dovevo più chiamarlo papà e che avrei potuto rimanere in casa, ma senza mangiare a tavola con loro. Così ho cambiato idea».
Ti piacciono altri sport? «Ho praticato il pugilato e alla boxe ho dedicato il mio primo libro. In quello sport si legge tutto il dramma della vita e si conduco allenamenti devastanti, una vera lezione. Tanti ti chiedono: ma come fai a prendere a pugni gli avversari? E tu gli spieghi che, salendo sul ring, il primo problema è un altro: quei pugni, innanzitutto, non devi subirli. Poi amo molto il basket e sono una grande tifoso dell’Auxilium. Nell’ultimo anno ho stretto amicizia con Sasha Vujacic, un personaggio straordinario. Lui, che ha vissuto a Los Angeles e Istanbul, trova Torino molto bella, una città a misura d’uomo».
Essere scrittore o fare il giornalista, cosa preferisci? «Non ho dubbi: io sono uno scrittore. Se vuoi, prestato al giornalismo. In assoluto mi piace raccontare storie, anche nei miei articoli, o sui social, faccio questo e in questo mi riconosco».
Oltre alla lettura come vivi il tuo privato? «Il mio tempo migliore lo dedico alla scrittura, alla lettura e alla televisione, dove seguo con passione le serie stand up americane, politicamente scorrette e, proprio per questo, irresistibili. I momenti più preziosi però sono quelli dedicati alla famiglia, la mia band. L’educazione di Carlos è un costante punto di domanda. Mi chiedo spesso se, almeno qualche volta, occorre renderlo infelice per farlo crescere».
Il prossimo progetto? «Sta prendendo corpo e si intitola ‘Non disturbare’. E’ una lettura ironica del nostro quotidiano, fatto di disturbatori incalliti, che bussano alla nostra porta dai call center, dai social, dalle chat di whatsapp, sotto forma di Testimoni di Geova. Per sopravvivere occorre arginarli e l’ironia può essere l’antidoto più efficace».
intervista di Guido Barosio pubblicata su Torino Magazine
Le lunghe giornate di luce e di svago consentono di abbracciare tutte quelle attività che ci fanno stare bene e se adesso siete qui con me è perché una di queste attività per voi benefiche è la lettura.
La seconda mandorla estiva che vi suggerisco èNon disturbare di Claudio Marinaccio, un libro ideale da leggere sia quando siamo rilassati (e quindi bendisposti verso il prossimo) sia quando siamo coinvolti in una delle situazioni descritte (e pertanto in balìa di moti emozionali poco concilianti).
Queste righe divertenti, canzonatorie, talora affilate come coltelli, talaltra delicate come petali di rosa, aprono uno squarcio su una realtà che ci riguarda tutti: il desiderio di stare tranquilli quando ci gustiamo un “caffè”, quando leggiamo un giornale o un “libro”, quando vogliamo recuperare le energie a letto la domenica mattina.
I brani accontentano tutti i palati: dal vegetariano – che non può non riconoscersi nella fanciulla che varca la soglia di un bar – al finto esperto pasoliniano, un essere terrestre che segue l’onda modaiola cullato da una non conoscenza imbarazzante.
Questo libro è suddiviso in porzioni che nella loro brevità ci forniscono un grimaldello interpretativo delle ragioni per cui si legge poco e dei fattori che concorrono a formare il prezzo del “pane”. E se tutto può essere rateizzato e una comunicazione con chi non “sente benissimo” può apparire bonariamente difficoltosa, l’elemento disturbante a volte diviene l’alleato in grado di fornirci l’alibi per non portare a termine un compito che incombe su di noi.
Varcando il confine fra il detto “arrivederci” e lo sperato “addio”, notiamo come nulla (dalla religione alla politica, dalla vita quotidiana agli affetti) venga risparmiato dalla battuta, battuta che strappa un sorriso e che riesce anche a stimolare ragionamenti intimistici che segnano un cambio di prospettiva inaspettato.
Con un ritmo fresco e incalzante e pronunciando quelle parole che noi ci limitiamo solo a ripetere nella nostra testa, l’autore trova espedienti sempre nuovi per uscire con ironica intelligenza da situazioni che ci cadono addosso, se non quotidianamente, con una frequenza di cui faremmo volentieri a meno. Allora proviamo, magari una volta, ad affrontare la realtà in maniera diversa e a inchiodare spalle al muro il ‘disturbatore’ di turno con la potenza della parola, nel limite della rispettosa educazione ça va sans dire.
Alla maniera dei grandi moralisti francesi, Giacomo Sartori anziché fare i pistolotti dimostra di avere una coscienza. Questa esibizione, non disgiunta da un certo narcisismo indispensabile all’atto letterario, è ora un libro intitolato Autismi, già celebre perché pubblicato a puntate nel corso di svariati anni sul lit-blog Nazione indiana. Anche se la sua collocazione naturale sarebbe la Piccola Biblioteca Adelphi, ad occuparsene stavolta sono i tipi di Miraggi Edizioni. Come in Montaigne o in La Rochefoucauld, Sartori compone uno zibaldone di pensieri e piccole storielle, procedendo per balzi e strappi, ribadendo nei titoli dei pezzetti l’uso del pronome possessivo mio: Il mio lavoro, Il mio primo infarto, Il mio attuale editore… L’io di Sartori, micragnoso nell’arte dello storytelling (per fortuna), non lesina spietatezze e illuminazioni. Si occupa di quello di cui si può occupare una coscienza, cioè di tutto, dalla patria alla cacca.
Non è un libro “facile” quest’ultima opera letteraria di Giacomo Sartori, Autismi (Miraggi, pp. 224, euro 16), ma di certo sa affascinare e coinvolgere gli affezionati lettori dello scrittore trentino/parigino. Sedici episodi, distinti, ma comunque interconnessi, che trovano riferimenti con l’autore in una sorta di autobiografia. “La mia città è il posto dove è impossibile essere felici … Per non parlare delle idee, che appena nate sbattono contro le pareti di roccia”. Lo stile è ironico, definisce sua madre “fanatica delle apparenze altoborghesi e criminalmente anticonformista”, attraversato da una sottile vena comica, contraltare a una scrittura con riflessi scientifici, quasi volesse ancorarla alla terra alludendo alla sua professione di agronomo: “Il mio lavoro consiste nel fare buche nella terra … Mi ci seppellisco, si potrebbe dire. Però a differenza di un altro seppellimento, nessuno poi aggiunge altra terra tra me e lo scavo … Posso guardare un rettangolo di cielo”. Silvia Vernaccini
Sono passati sei mesi dall’ultima operazione, dal letto di metallo, dall’anestesia, dal candore tutt’intorno, dall’ospedale, dalla voce dell’infermiera, dalla totale asepsi. Andrea guarda il tutor a forma di sesso. Sorride. Apre l’armadietto sotto il lavandino e lo getta nella pattumiera. Ringrazia, ma non ne ha più bisogno. I giorni sono scivolati, uno dopo l’altro, come i grani del rosario di quella nonna il cui unico ricordo è proprio raccolta in preghiera col velo in testa in chiesa. Il caffè borbotta sul fuoco. Allunga una mano, spegne il gas e si ritrova a riflettere sul fatto che compie sempre gli stessi gesti. Tutto è uguale a prima. Eppure ora tutto è completamente diverso. Prende le chiavi di casa. Prima di uscire si guarda nello specchio. Le gambe sono lunghe. La muscolatura è morbida. Sono io, si dice. A volte alta. Di fronte alla sua immagine riflessa. Non appena sul marciapiede inizia a correre. E pensa che se ne vorrebbe andare. Del resto perché si trattiene in quella città che non ama? Non ha nulla lì, ha un padre che si imbarazza della sua presenza, e la madre…
L’arte è un settore in continua evoluzione e ormai, anche se in realtà l’idea del fare della propria esistenza un capolavoro non è certo nuova, si è imposto all’attenzione dei più il concetto di performance: ogni aspetto della vita viene considerato un tassello nella costruzione di una persona/personaggio. Batsceba Hardy è una fotografa, vive a Milano, a lungo è stata a Berlino, parla dell’arte dell’imperfezione, della sottrazione e della definizione e sostiene testualmente nel suo manifesto ‒ che non ama le maiuscole ed è poliglotta come tutto il suo sito Internet, spazio che più d’ogni altro la rappresenta e in cui, solo, sembra vivere davvero ‒ che “l’arte è morta. concettualmente deprivata della sua necessità di esistere. argomentazioni vuote. inutili dissertazioni. bla bla disperante. ma l’artista non morirà mai. l’artista è colui che non sa fare altro che quello che fa: pensare per astrazione ed esprimere astrazione con ogni cosa lo circonda. il diverso non per scelta ma per essenza. colui che sta al di fuori. il raccontatore di storie. l’inefficace”. In questo suo romanzo corale, caleidoscopico e psichedelico, in cui sono fondamentali l’immagine e l’immaginazione, descrive bene e in modo avvincente con la forza di un diario polifonico la storia di due gemelli, Annalia e Andrea, prima fratello e sorella, ora entrambi di sesso femminile, in cerca di sé e di un nuovo reciproco rapporto.
Il suono di Torino. Racconti urbani con colonna sonora punk(Miraggi Edizioni), di DomenicoMungo, è una bellissima e originale raccolta che narra il capoluogo piemontese attraverso un’operazione totale. Lo stile a puzzle di JohnDosPassos e quello ermetico senza fiato di NanniBalestrini si incontrano davanti a Mirafiori e si mischiano, con il gergo volgo-forbito di Vittorio Giacopini. Stragi fasciste, scioperi di guerra, orgoglio operaio, esecuzioni capitali nell’Italia della Repubblica dal gusto umano, meridionali che giungono in massa sui barconi-treno dal Sud dimenticato dagli antenati degli attuali sovrani padani, .38 e rivendicazioni urbane, ideologie morte, locali morti, centri commerciali, NoTav sulla gogna e nessuno, tranne l’autore, a ricordarci di un grande uomo e di un grande sognatore come EmilioSalgari. Torino, da queste 30 storie, ne esce gustosamente umana e farcita di sottotracce. Un libro a 360 gradi. Passione, rabbia e un addio che ha il sapore di un arrivederci (almeno sul piano letterario).
Chissà com’era vivere come Boris Vian. Essere Boris Vian, scrivere romanzi, racconti, poesie, testi teatrali, tradurre autori come Chandler e Strindberg, e soprattutto suonare la tromba, nonostante il fiato e il cuore non andassero troppo d’accordo. Era tutta una musica, la sua vita, sicuramente jazz, quello che suonavano nei locali di Saint-Germain-des-Prés negli anni Cinquanta. Una musica che è durata poco, però, trentanove anni, il tempo di laurearsi in ingegneria, diventare amico di Queneau e nemico di Sartre (Jean Sol Partre ne La schiuma dei giorni), sposarsi due volte, frequentare Duke Ellington, Miles Davis, Orson Welles, pubblicare romanzi con uno pseudonimo, inventare cose come la ruota elastica e immaginarne altre come il piano cocktail, un pianoforte in grado di fare cocktail a seconda dei tasti suonati.
Dopo una vita passata a rincorrere il suo destino, a cercarsi sempre in nuove vite, post mortem, finalmente, è arrivata la fortuna che avrebbe sempre meritato, i suoi libri sono stati tradotti, le sue canzoni hanno cominciato a girare, a essere raccolte nei vinili e nei cd, alcuni cantanti, da Gainsbourg a Tenco, si sono ispirati a lui, e registi come Michel Gondry hanno pensato che le sue storie fossero perfette per diventare film. Recentemente, marcos y marcos, che ha avuto il merito di riportare Vian in Italia, ha ripubblicato il suo romanzo E tutti i mostri saranno uccisi (traduzione di Giulia Colace, pp. 224, 17 euro), uno di quei romanzi definiti “thriller hardboiled”, mentre per Miraggi Edizioni è uscita una bellissima biografia scritta da Giangilberto Monti, intitolata Boris Vian. Il principe di Saint-Germain-des-Prés (pp. 192, 16 euro).
Nel romanzo, pubblicato nel 1948 con lo pseudonimo di Vernon Sullivan (Vernon per Paul Vernon, Sullivan per il fumettista australiano PatSullivan e il compositore americano Joe Sullivan), il protagonista si chiama Rock, un nome che ci offre già un’idea di quello che ci aspetta, un romanzo musicale, come tutti i romanzi di Vian, che si potrebbe raccontare con una battuta di uno dei personaggi grotteschi che ci capitano sotto gli occhi: “Le parole sono completamente inutili in circostanze così strane”.
Rock è alto, bello, pieno di ragazze che vorrebbero fare l’amore con lui, ma ha promesso a se stesso che rimarrà vergine fino al giorno in cui compirà vent’anni. Viene drogato, rapito e portato nella clinica di un certo dottor Schutz per farlo accoppiare con una ragazza “di una bellezza sorprendente, un po’ troppo perfetta”, e intanto allo ZootySlammer, nel locale di Lem Hamilton che Rock frequenta spesso, viene trovato un cadavere.
Leggere contemporaneamente un romanzo e la biografia di chi l’ha scritto potrebbe confondere un po’ le idee, ma poi no, piano piano le schiarisce, e conferma il fatto che tutto quello che uno scrive, in fondo, è sempre autobiografico. Monti si fa contagiare da Vian e procede per lampi, immagini, pellegrinaggi, dialoghi surreali con ex mogli intenerite dai ricordi e dal tempo che passa. Ogni capitolo della sua biografia, che è una biografia musicale, si chiude con una canzone scritta da Boris Vian. Da Che snob (“che snob, son snob, è l’unico difetto che ho”) al Valzer del sole (“Che sole in strada che c’è, io amo quel sole ma la gente no”), da Berrò (“Berrò, sistematicamente, mi scorderò gli amanti di mia moglie”) alla famosissima Il disertore (“La legge violerò, lo dica ai suoi gendarmi, così potran spararmi, di armi non ne ho”).
Scopriamo che nel 1937, nonostante i suoi problemi cardiaci, Vian scelse di suonare la tromba; che nel salotto di casa sua ci fu una lite tra Camus e Merleau-Ponty e che la sua prima moglie Michelle una notte aveva preparato le patatine fritte per Duke Ellington; che era stato Queneau a convincere Gallimard a pubblicare il primo romanzo di Boris; che sempre Queneau l’aveva fatto entrare nel giro dei patafisici, dove Vian una volta aveva anche scritto un’opera musicale sul codice della strada; che ci metteva pochissimo a scrivere, ma prima doveva immaginare tutto dall’inizio alla fine; che Vian era appassionato di auto d’epoca e la prima macchina con cui scorrazzava per tutta la città era una Bmw sei cilindri; che Sartre aveva una storia con la sua prima moglie e lui lo vedeva come un padre che l’aveva tradito.
Nella lettura di entrambi, del romanzo e della biografia, si ritrovano la dolcezza di Vian, il suo sguardo folle, a tratti infantile, mille personaggi che somigliano ad altri già incontrati prima, mille strade, possibilità, e il lettore, come Rock, come Vian, in fondo non ha paura di percorrerle tutte. E alla fine ci sembra quasi di aver bevuto il cocktail di cui avevamo bisogno.
Chi voleva uccidere Godard nel maggio francese di 50 anni fa? Il generale de Gaulle? No, un suo collega altrettanto rivoluzionario: il maestro della nouvelle vague cecoslovacca Jan Nemec. Avrebbe vinto il Festival di Cannes con La festa e gli invitati se Godard non lo avesse fatto “saltare” per solidarietà con gli insorti del ’68. La confessione nel romanzo Volevo uccidere J.-L. Godard (traduzione di Alessandro De Vito, Miraggi Edizioni, pp. 228, 20 euro)
Un po’ per i loro meriti (sono la nouvelle vague del cinema praghese, dopotutto, e tra loro c’è una futura leggenda del cinema) ma soprattutto per solidarietà col socialismo dal volto umano, che quell’anno sfida i carri armati sovietici, il premio è insomma garantito a uno dei tre (gli altri due vinceranno, è matematico, i festival cinematografici minori). Sono tutti gasatissimi. Cannes è piena di belle ragazze e loro sono i benianimi della stampa e dei colleghi. Menzel concorre con Un’estate capricciosa, Forman con Al fuoco, pompieri e Nemec con La festa e gl’invitati. Non ho visto nessuno di questi film, né allora né dopo, ma su internet e in alcuni libri che pesco (la fortuna mi assiste) negli scaffali dedicati al cinema della mia libreria, tutti ne parlano bene.
Film ironici, sgraditi agli ideologi ufficiali del partito; film della primavera cecoslovacca. Non c’è gara con gli altri film in concorso. Devono vedersela con alcuni dei peggiori film degli anni sessanta. Con l’inqualificabile Grazie zia di Salvatore Samperi: la prima commedia erotica all’italiana con suicidio a piè di lista; con Je t’aime, je t’aime d’Alain Resnais: una scombiccherata storia di viaggi nel tempo, se ricordo bene, anche qui con un suicidio a piè di lista; con Banditi a Milano di Carlo Lizzani: un film sull’ultima rapina della Banda Cavallero (nessun suicidio ma peggio: Don Backy). Forman, Nemec e Menzel sono in concorso col vento della Storia e della Geografia in poppa.
Ed ecco che, mentre tutto sembra procedere per il meglio, a Cannes piomba il re dei guastafeste (e anche un po’, secondo Nemec, dei poveri di spirito): Jean-Luc Godard, che a nome della gauche cinematografica, dei gruppuscoli maoisti e degli studenti parigini che «in questo momento stanno versando il loro sangue per la rivoluzione» stabilisce che il festival dev’essere sospeso.
Ci si mette anche François Truffaut, di solito più moderato. Siamo in pieno Maggio 68, del resto. Persino Claude Lelouch e Louis Malle inneggiano alla rivoluzione e lanciano maledizioni contro André Maulraux (il ministro della cultura gollista che quarant’anni prima, in Cina e in Spagna, ai tempi della Condition humaine e dell’Espoire, aveva cantato ben altre rivoluzioni e guerre civili che quella des étudiants et des travailleurs).
Viene occupato il Palais des festivals et des congrès. Qualcuno lacera a colpi di coltello il telone bianco sul quale Nemec, Forman e Menzel s’accingevano a proiettare i loro film (dopodiché uno di loro avrebbe agguantato la Palma d’Oro e via, tutt’e tre avrebbero goduto d’una fama planetaria). Soldi, ragazze, automobili di lusso. E invece niente: niente festival, nessun premio. In guerra col comunismo sovietico, che s’accingeva a ristabilire l’ordine a Praga, Nemec e i suoi amici finiscono sotto i carri armati del goscismo francese, che tuona contro gl’imperialisti americani, contro il cinema commerciale, contro il perfido De Gaulle e contro il «revisionismo moderno» («à la Dubcek», di cui i tre registi sono les ambassadeurs che portano pena). Nemec lascia la Costa azzurra senza pagare il conto dell’albergo.
Non è la sola storia che il regista ceco racconta nel suo libro. Nemec ne racconta molte altre. Ogni storia un episodio della sua vita, a cominciare da quello più celebre: i venticinque preziosi minuti di riprese che poco tempo dopo Cannes filma nelle strade di Praga invase dall’Armata rossa (il film viene portato fuori dalla Cecoslovacchia da un diplomatico italiano che non osa negare il favore a una bellissima ragazza praghese).
Grazie a quel filmato, che a Nemec costò l’esilio fino al 1989, la propaganda sovietica deve rinunciare a diffondere filmati tarocchi di folle plaudenti che lanciano fiori e baci ai Visitors sovietici. Libro di sostanza, c’è dentro molta tragedia, molta commedia. Divertentissima la storia delle tre prostitute nere del Chelsea Hotel di New York. Bellissima la storia della praghese Ivana Marie Zelnícková, poi Ivana Trump, prima moglie di «The Donald». Straordinaria la storia del ritorno di Dubcek dal «sequestro» russo che si presenta a sorpresa a una festa «di cantanti, musicisti e cineasti» e ancora non ha capito che la battaglia è persa ma tutti lo amano lo stesso.
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