L’appuntamento con il Mondiale di calcio rappresenta sempre qualcosa di speciale, capace di coinvolgere anche chi abitualmente non segue le partite. L’Italia, ahinoi, non è riuscita a qualificarsi. E allora ci siamo divertiti a immaginare la formazione con cui Miraggi potrebbe scendere in campo, fra talento, colpi di genio e sostanza. E un 4-3-3 decisamente offensivo!
1 Venedikt Erofeev, “Memorie di uno psicopatico”
Quali sono le qualità di un portiere? La solidità, la capacità di non farsi superare dal pallone. E quel pizzico di sregolatezza che spesso sconfina nella follia. “Memorie di uno psicopatico” è la prima opera compiuta di Erofeev, scritta nel 1956 quand’era matricola all’università. Ci sono già i temi che l’hanno reso celebre: l’alcol, le coltissime citazioni letterarie e religiose, la resistenza dell’uomo russo a diventare quell’“uomo nuovo” comandato dal Partito.
2 Giacomo Sartori, “Autismi”
Scrittore e agronomo, autore di romanzi, racconti, poesie e testi teatrali, Sartori ha la duttilità e la resistenza tipiche del terzino moderno, abile a rendersi prezioso sia nella fase di interdizione, sia in quella di impostazione. “Autismi” è una guida “inutile” alla stortura dei giorni, delle relazioni, insomma della vita.
5 Andrea Serra, “Frigorifero Mon Amour”
Uno dei due centrali è lo stopper, come si sarebbe detto un tempo, quando le marcature erano rigorosamente a uomo. Serra “morde” i vizi della società capitalistica proprio come il difensore azzanna le caviglie dell’attaccante. “Frigorifero Mon Amour” è un libro divertente e sarcasticamente ammuffito come una carota abbandonata nel frigo.
6 Luca Ragagnin, “Agenzia Pertica”
Il libero è l’uomo che comanda la difesa. Lo faceva nei tempi andati, qualche passo dietro i compagni. E lo fa adesso che il reparto gioca in linea e guai a sbagliare. Luca Ragagnin non sbaglia un colpo, per l’appunto. Domizio Pertica, protagonista del romanzo, è uno scrittore fallito che si reinventa investigatore privato. A uomo o in linea, per lui nulla cambia.
3 Domenico Mungo, “Il suono di Torino”
Si occupa di musica, letteratura e cinema contemporaneo, il nostro terzino sinistro, quello che un tempo si sarebbe definito fluidificante per la capacità di correre su e giù sulla fascia. “Il suono di Torino” fa immergere il lettore nelle realtà più oscure di una città apparentemente regolare e senza angoli nascosti. Apparentemente.
8 Andrew Faber, “Fermo al semaforo in attesa di trovare un titolo, vidi passare la donna più bella dell’umanità”
Motorino di centrocampo dotato tuttavia – com’è giusto che sia – anche di piedi buoni, la mezzala di Miraggi è Andrew Faber, il poeta più amato dalle donne e dalle ragazze. Il suo terzo libro conferma uno stile unico, esaltato nei reading ai quali assiste un pubblico sempre numeroso, partecipe e attento alle sue parole d’amore.
10 João Paulo Cuenca , “Ho scoperto di essere morto”
Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia. Il nostro numero 10 non poteva che essere brasiliano. “Ho scoperto di essere morto” è un romanzo, un thriller, un noir, un mistero da indagare, ma anche, volando dove solo il vero talento può arrivare, un discorso sulla letteratura, una rappresentazione del mondo contemporaneo e delle sue contraddizioni.
4 Cristiana Tognazzi, “Costellazioni”
La sostanza del mediano di spinta è sempre accompagnata dall’ingegno, dalla determinazione e dalla capacità di recuperare palloni e distribuirli con precisione e lucidità. Concretezza ma anche illuminazioni, come le “Costellazioni’ con cui Cristiana Tognazzi torna in libreria dopo il successo della precedente silloge.
7 Claudio Marinaccio, “La folle storia del kamikaze che non voleva morire”
Nel tridente d’attacco il ruolo di esterno destro è affidato a Claudio Marinaccio, ficcante ala che sa trasformarsi in una spina per le difese avversarie. I racconti di “La folle storia del kamikaze che non voleva morire” narrano il mondo di oggi attraverso avventure terribili e piene di ironia. Marinaccio svela una realtà dalla quale è difficile uscire indenni.
9 Bianca Bellová, “Il lago”
Il centravanti vero, il centravanti puro, è sì potenza, ma soprattutto classe sopraffina. E Bianca Bellová è il nostro attaccante moderno, tecnicamente impeccabile. “Il lago” è un romanzo perfetto, un romanzo duro e ruvido, nel quale il protagonista diventa uomo in un corpo a corpo con un ambiente apocalittico e allucinato.
11 Biagio Cepollaro, “La notte dei botti”
A dare solidità e esperienza al reparto offensivo provvede Biagio Cepollaro, rapace uomo d’area come ai vecchi tempi. Non a caso, “La notte dei botti” è stato scritto più di vent’anni fa ma resta di una attualità profetica e sconcertante nel raccontare un’umanità paradossale costretta in un autogrill che diventa un girone infernale postmoderno.
Cinquant’anni fa, nel maggio 1968, Jean-Luc Godard capeggiava l’occupazione del Festival di Cannes, per solidarietà con le manifestazioni e gli scioperi in corso nel Paese. Quell’edizione fu infine annullata dopo giorni di scontri e trattative. Una vicenda più volte rievocata, anche di recente: l’anno scorso al Festival la raccontava con ironia Hazanavicius nel film Il mio Godard, ispirato ai memoir di Anne Wiazemsky. Ed è appena uscito in italiano un libro dal titolo eloquente, Volevo uccidere Jean-Luc Godard (Miraggi edizioni). L’autore, Jan Němec, scomparso nel 2016, era uno dei maggiori registi della “nuova onda” cecoslovacca, e ce l’aveva a morte con Godard per quella contestazione: tanto i francesi quell’anno non avevano film decenti, malignava, e invece i tre registi cechi che presentavano i film migliori (lui, Forman e Jirí Menzel) rimasero fregati. Il ’68 di Godard, insomma, è ormai una leggenda, discussa o celebrata, e fa un po’ impressione ritrovare il regista ottantasettenne in concorso con un nuovo film, mentre un’immagine di Pierrot le fou è la locandina di questa edizione…
“La vera pornografia è la sofferenza degli sconosciuti.”
I racconti di Claudio Marinaccio iniziano con la metafora del sarto di Brecht. Un sarto sosteneva di poter volare con un apparecchio che si era costruito da solo e un giorno si presentò dal vescovo della sua città, dicendogli: “Ora posso volare”.
Il prelato non si emozionò. Con semplicità disse all’artigiano: “Allora provaci”. Il sarto si lanciò dall’alto e finì spiaccicato sul selciato. Un sarto creativo, curioso. Il suo fu un peccato di curiosità. Trovarlo qui come incipit della storia del folle kamikaze che non voleva morire mi sembra una vera goduria. Sorrido anche io al referto dei medici che scrivono di aver appurato che il sarto sia morto di paura prima dell’impatto col terreno. Ricordo quando morì Lucio Magri si parlò molto di quel suo libro del 2009 Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci, terribilmente profetico, ed io scribacchiavo pezzi sulla vicenda triste della fine di Magri e di un sarto che voleva volare.
Brecht scrisse “dopo alcuni secoli gli uomini riuscirono effettivamente a volare”.
Io però non credo che il volo e la morte del sarto siano stati necessari nella storia del volo La folle storia del kamikaze che non voleva morire sono racconti di un umorismo nero. Deliranti, alcuni. Ho iniziato a leggere il primo racconto, sono saltata, giuliva, e per problemi di vista, ai ringraziamenti e ho trovato Claudio ad aspettarmi e a dirmi che sapeva quello che avrei fatto. Ridendo sono andata indietro, giorno per giorno fino a che ho capito che Claudio sa ogni cosa, ci conosce tutti, come conosce l’arte del narrare. Nei racconti lo preferisco, così come mi piacciono i suoi bozzetti sul giornale, sulla Stampa, i suoi post su facebook, mi piace il suo sguardo surreale e di amicizia, attento agli affetti, ma senza quella pornografia dei sentimenti tanto in voga, senza quella terribile autofiction spiattellata da scrittori venduti al servizio di un melenso mulino bianco. In Claudio c’è il cinismo con affetto, l’amore per gli altri autori e il distacco giusto per non cadere nella pornografia dello zucchero “Se siete arrivati fin qui significa che avete letto tutto il libro oppure che avete saltato tutti i racconti e ora vi ritrovate a leggere dei ringraziamenti. Se fate parte di questa seconda categoria e leggendoli vi viene voglia di leggere tutto il libro, be’ tanto meglio Alessandro De Vito, Fabio Mendolicchio e Davide Reina sono Miraggi e li creano, ma sono anche e soprattutto persone vere (vere per davvero). Grazie a loro perché mi danno la libertà di scrivere quello che mi piace e, in più, mi pubblicano pure. Luca Garonzi disegna. E lo fa così bene che è un onore avere i suoi disegni all’interno del mio libro. Ognuna di queste tavole è una storia nella storia.”
Delirio di negazione
FooG
Una giornata da dimenticare
Una barba lunga un mese
Il tragico inizio di una storia non banale
Pelle
Amore farmacologico
Un viaggio mentale in una terra desolata
La folle storia del kamikaze che non voleva morire
Così diversamente uguali
La ballata del ladro di anime: “Il deserto è un luogo strano. Un posto dove l’uomo soffre di solitudine visiva. Il paesaggio è sempre lo stesso, immobile. C’era un’enorme distesa di pietre e sabbia, interrotta da cespugli secchi che sembravano sfoghi della terra, come nei pelosi sui volti dei vecchi, così fastidiosi da calamitare lo sguardo. A volte l’orrido attrae. Il gusto del macabro è insito dentro di noi.” Leggerete Claudio con il piacere di vedere storie che hanno un senso vero così anche noi facciamo con la vita come questo vecchio che ha perso la moglie “Al principio fui colto da tristezza poi rabbia poi delusione e poi da una strana forma di accettazione. Fino a quando non capisci che la morte non è altro che una fase della vita. Come lo è per esempio l’adolescenza, non puoi accettarla e perciò capirla.” Capendo aleggerà il sorriso sul tutto. Ippolita Luzzo
“Mia moglie va a fare la spesa: compra quello che ci serve e poi sceglie con cura le cose da lasciare nel frigo ad ammuffire.”
Felice è un uomo, un padre ed un marito che lotta con l’insonnia, con le perpetue richieste delle figlie al grido di “papoooo”, con un dente pulsante e con la fuga del frigorifero, esasperato dallo spreco costante di cibo.
Racconta le vessazioni che subisce e le sue più intime paure, giorno per giorno, in quello che diventa un vero diario.
Ad un certo punto, dopo l’ennesimo pacco di carote ammuffite, il frigorifero sparisce nel nulla. Zero. Scomparso.
Caro Andrea Serra e cari amici di Miraggi edizioni, ecco devo dirvi che, a ‘sto punto, mi son sentita come si sente un complice in un delitto, suppongo.
Se il mio frigorifero, d’un tratto, prendesse vita, temerei le reazioni più che la fuga.
Me lo immagino colpirmi alle spalle con una delle 32 soppressate sottovuoto che ivi ripongo dopo i miei soggiorni calabri. Per non parlare degli sbadigli dettati dalla mancante fantasia settimanale, dove più che l’ingegno può la fretta.
Dunque il frigo sparisce, il dentista è un matto ossessionato dagli alieni, le colleghe (uh le colleghe, per carità) tutte taglia 40, fissate con la dieta e con le tisane al pepe nero ed acido snellente-ventre piatto.
Al povero Felice non resta che dare un senso a tutto, iniziando con il Chi l’ha visto dell’elettrodomestico, che lo porterà fino agli inferi.
E in questo posto un po’ apocalittico, un po’ ibernante ed un po’ Agenzia delle Entrate, eccolo lì, l’elettrodomestico errante:
“Era il mio frigorifero che austero e divino mi disse: – Ora che anche tu sei nei ghiacci, posso rivelarti perché me ne andai. Far ammuffire carote, zucchine e uova è lo peggio peccato de lo mondo…
Che ad ammuffir prima di ogni cosa è la tua vita e la tua mente. Per questo tuo odor di muffa presi la via”.
Ora potrei star qui anche a dirvi se il viaggio è un sogno o se i sogni aiutano a viaggiare meglio, ma io non sono Marzullo e c’ho un frigo da sbrinare.
Leggete Andrea.
Che essere leggeri non è essere superficiali.
La leggerezza anzi la può usare solo chi sa andare anche fino in fondo.
Boros è un paesotto poggiato su un lago. Il lago è la ragione di vita del paese. Dalle parti del lago c’è un allevamento di storioni, e poco oltre c’è una fabbrichetta, per la lavorazione del pesce. Nel paese c’è una strada principale, la chiamano Via dei Pescatori, puntinata da casupole di uno o due piani, in muratura. Alla fine della via ci stanno un chiosco con le aringhe e un altro coi semi di girasoli. In una di quelle casette sta il piccolo Nami. Sta crescendo coi suoi nonni. Di suo padre non c’è traccia, di suo padre nessuno parla. Di sua madre nemmeno l’ombra, i nonni non vogliono dire niente – ma qualcosa della madre Nami se la ricorda. Si ricorda qualcosa di quando era piccolissimo, si ricorda che una volta aveva un costume rosso e lo consolava mentre stava male con lo stomaco. Se ne ricorda abbastanza per rifiutare l’idea che sia morta. Se n’è andata, chissà dove, tanto tanto tempo fa. Sua nonna ha fianchi ampi e ossuti e una pancia morbida morbida. Su quella pancetta Nami spesso s’addormenta, e allora la nonna gli accarezza i capelli e gli racconta le storie. Le storie dello Spirito del Lago e dei guerrieri dell’Orda d’Oro, che dormono da un pezzo sulla rupe di Kolos e aspettano che un grande guerriero torni a svegliarli. “Sono io il grande guerriero?”, si domanda Nami. “Sì, piccolo”, risponde sempre la nonna. “Sarà la provvidenza a mostrarti la strada”. A quel punto Nami s’addormenta tranquillo. Per quanto tranquillo puoi essere quando cresci senza mamma, si capisce. Ogni tanto, al mattino, si sveglia col sole che batte sul letto. Se si siede sul letto, può vedere il lago. Poi un giorno il nonno prende la barca, con altri pescatori, e si ritrova disperso, nel lago, e non torna più indietro. E la nonna fa tanta fatica in più a crescere quel bambino. E quando Nami è adolescente capisce bene che c’è qualcuno che tende a chiamarlo “figlio di puttana”, ed è tanto dolce quando un giorno una signora gli dice che sua mamma invece era meravigliosa, che sembrava di porcellana, e che non sa proprio cosa possa esserle capitato, magari se ne è andata in città, lontana dal lago, perché tutti se ne vanno in città. “Dovresti andartene da qui, finché puoi”…
Il lago, nelle parole della traduttrice, Laura Angeloni, “è un romanzo di ferite e cicatrizzazioni, perdite e riscatti, brutalità e tenerezza”. È un lavoro profondamente simbolico, probabilmente più psicanalitico che onirico; è narrativa che gioca su due piani, uno di ricerca pura della verità, un altro di scandaglio dell’inconscio. È un libro che descrive un lago che s’ammala, per via della stupidità e dello sfruttamento dell’uomo, e nel tempo si vuota, si fa come deserto di vita; e intanto è la storia d’un bambino che diventa uomo, e per diventare uomo deve superare una formazione dal retrogusto iniziatico; deve accettare che i russi si prendano il suo primo amore, sfregiandolo, e deve accettare che suo padre e sua madre siano persone con una storia e caratteristiche di un certo genere, lontanissime dai suoi sogni di bambino. Deve accettare la loro storia e rispettarne l’essenza, e l’epilogo – deve essere superiore alla sua gente, che ha profanato il lago perché ha perduto il senso della misura, e del limite. E dallo spirito del lago è stata punita; e dal lago non potrà che essere rifiutata, peggio dei soldati russi. L’opera, già tradotta in quindici lingue a soli due anni di distanza dalla prima pubblicazione, è stata salutata dal “Premio dell’Unione Europea per la Letteratura” [2017] e dal prestigioso “Premio Magnesia Litera”, in patria. L’artista, Bianca Bellová, classe 1970, era sin qua inedita in Italia; in bandella troviamo traccia della sua bibliografia: ha esordito nel 2009 con Sentimentální román (Romanzo sentimentale), seguito a ruota, due anni più tardi, nel 2011, da Mrtvý muž (L’uomo morto). Quindi, nel 2013, Celý den se nic nestane (Non succede niente tutto il giorno) e nel 2016 il nostro Jezero (Il lago). A livello editoriale, il libro è felicemente e naturalmente posizionato: si tratta della seconda uscita della fascinosa collana NováVlna, “onda nuova” consacrata alla letteratura ceca, diretta da Alessandro De Vito, anima italo-ceca della Miraggi Edizioni di Torino; la collana intende affiancare recuperi di testi ingiustamente dimenticati ad altri di recente pubblicazione, puntando, qua e là, a restituirci lavori “incredibilmente mai giunti al pubblico italiano”. Il ministero della Cultura della Repubblica Ceca ha dato opportuno sostegno alla traduzione e alla pubblicazione dell’opera.
Dobbiamo fermare l’orologio e abbracciare le lancette per vivere la dimensione allegorica di un segmento temporale scritto più di trent’anni fa: cosa è La notte dei botti di Biagio Cepollaro Miraggi edizioni?
Più volte è stato definito un romanzo profetico che interpreta l’Italia “alle soglie di un ventennio politico che per alcuni di noi si profilava oscuramente come una notte lunga, la vera notte della Repubblica, un tunnel interminabile”, i cui protagonisti sono i resistenti seminati in una zolla confusionaria e circoscritta di un autogrill, in cui non si ha percezione nitida di cosa succeda e la curiosità tende la corda capoverso dopo capoverso.
La Notte dei Botti che già alcuni sul posto avevano con sicurezza battezzato “della Libera Espressione” è un binario convulso su cui corrono vagoni carichi di personaggi e vicende che sembrano sparate al piattello senza schemi, per un lettore immobile affidato ad una convulsa frammentarietà di informazioni.
Il capitolo d’ouverture è contraddistinto da una successione anaforica e reattiva di descrizioni puntuali e infastidite che rendono l’idea dell’insofferente sfogo liberatorio sociale.
E dove non c’era il giallo in terra e non c’era il fetore acuto che veniva dalle toilettes, c’erano invece …. E dove non c’erano mucchi né televisori, c’erano dei grandi spazi vuoti, delle fosse comuni, fosse della promiscuità. Perso nella promiscuità della memoria dei vecchi, l’aborto si preparava all’eccitante novità dei mucchi. E in quella promiscuità trasmutava e si confondeva.
Il frenetico dispiegarsi della vicenda è incentivato dalla pedalata continua del ciclista notturno di nome Scriba, la cui ombra è proiettata su una scenografia talvolta ferma, inchiodata e contrapposta alla propria spigolosa vitalità, espressione di una meditata condizione di inferiorità rispetto al potere.
Pedalo e sudo. Sudando sviluppo pensiero
La messa a fuoco delle diapositive che scorrono durante la il percorso, lascia scorgere intermezzi di dimensioni oniriche sconvolte dalla realtà distorta e costipata.
Dopo le prime esplosioni in molti dissero che si trattava di tuoni perché d’estate i tuoni sono così. Poi dissero che si trattava di una caldaia, di una vecchia caldaia senza manutenzione. Poi dissero che doveva essere un terremoto, ma la terra non tremava. Tremavano i vetri, però.
Il romanzo è stato scritto a metà degli anni ’90, proprio nel momento in cui finisce la prima Repubblica. L’autore ha scelto di sforbiciare un’ambientazione surreale mediante voce singola interiore e rumore collettivo, due lame incidenti atte a conferire l’idea di una sorta di “colpo di stato”, estratto non da reali ragioni storico-politiche ma da meccanismi sociali, che separano la quotidianità di ieri dal sapore del nuovo millennio. Si catapultano via via in scena numerose comparse dai connotati sociali e morali differenti, accomunati da una sovrapposizione rispettiva di pensieri e di sogni, deliri e allucinazioni che sgomentano e pongono in uno stato di tensione l’osservatore che aspetta lo “spettacolo”.
Chissà la Notte dei Botti qui. Ogni luogo avrà avuto la sua. I Resistenti. Quanto cammino; quanta strada per le circonvoluzioni dei cervelli, per i pantani dei neuroni, le sinapsi spezzate, i riflessi condizionati, le inerzie, e la paura che cresce dentro, la paura che domani non più…
E’ un panorama di merci e consumatori vincolati nell’autogrill, di Scriba in sella a una bicicletta,tendenzialmente obliquo rispetto al corso degli eventi che fanno tremare i vetri sulla gente accatastata negli angoli dell’edificio, di resistenti, di condomini che si personificano e diventano anime sognanti, contenitori di corpi confusi e guardinghi. La distratta inquietudine si manifesta nelle “lotte sociali” che lasciano trasparire la dinamica dei rapporti condominiali, dietro cui si cela soprattutto il deterioramento di innesti collettivi.
Non può dormire perché i condomini sognano rumorosamente. Non può dormire perché i condomini sognano, sognano continuamente e, senza pudore, mostrano il marcio della loro anima.
L’emblema dello spaesamento in cui versa la popolazione è Tornabuoni, sagoma entusiasta della notte dei botti, ma soprattutto interessante spunto di analisi complessiva.
Non è un caso se i primi nomi compaiono dal secondo capitolo dopo un incipit spettrale, buio e puzzolente; dapprima l’autore scruta da un drone abitanti e luoghi del suo racconto, dopo di che preferisce rendere rarefatta l’atmosfera tra nebbia e trambusto, che insistono nell’attesa di una risposta; si effonde fluidamente il sapore di un’ incompiuta routine in procinto di espedienti evolutivi tra lotte, pareri, indifferenze e soluzioni.
La Notte dei Botti si era insinuata sotto i discorsi, era cresciuta all’ombra delle apparenze, come un mugugno routinario e quasi inoffensivo…
Il linguaggio di Cepollaro è incalzante, ascendente e traboccante di stimoli sensoriali che diventano corpo e linfa vitale per condurre un viaggio ai confini della notte.
Da un’analisi prettamente linguistica, il romanzo sembra essere costruito attorno al compito affidato allo scrittore/poeta e quindi a Scriba, che così si chiama certamente per evidenti motivi etimologici, contraddistinto da “la fissa di scrivere tutto”, impegnato in un’eccentrica cronaca che riporti metaforicamente ogni tipo di dinamica sociale.
Autismi, just published in an elegant new edition by Miraggi, is one of Giacomo Sartori’s most original and successful novelistic experiments. In sixteen distinct but interwoven episodes (or recitativi d’autore-chants d’auteur as the publisher defines them), the unnamed narrator paints a tragicomic portrait of an awkward, marginal man, a creature frequently at odds with his late capitalist world, perpetually puzzled by the rules of the game that govern family, work and society. The narrative voice is painfully candid and naively poetic. Apparently unstudied, it can bring to mind Samuel Beckett’s savage absurdity or the monstrous hilarity of a Kafka.
The volume opens with perhaps the most perfect of these episodes, the brief, haunting Il mio lavoro, (My job) about a strange profession that in fact is pretty much the author’s own: Sartori trained as an agronomist and soil specialist (a surprisingly lively scientific topic these days). “My job consists of digging holes in the ground. Large deep holes a person can easily get into. And in fact I do get in. Inter myself, you might say. But unlike a genuine interment, there is no one to shovel soil between myself and the pit. Unlike a real burial, I can move my arms, breathe at will, come out when I’m done. I can see a rectangle of sky, I can speak, I can howl out my joy, always supposing I have a surplus of joy. Mine is a temporary, reversible interment. When I’m done, I come out and go home.” And the book closes with a rant on end-of-life instructions, Il mio testamento biologico (My health proxy): “If, despite the above dispassionate suggestions of mine, you are unable to wake me, then terminate me. Joyously, as you would lift a carrot from the earth, already thinking about the taste in your mouth. Do it knowing you have my full support. Tell yourself I would do exactly the same in your place.”
Death is a guest here, invited or not, whether in the sarcastic Il mio primo infarto (My first heart attack) or in the masterful Mio suocero (My father-in-law), a stark portrait of the man, only briefly met and now already laid out in his bedroom for the wake, observed in part through the friends and acquaintances who have come to pay respects, in part through the disenchanted eyes of one of his non-conformist sisters. Épater le bourgeois is the order of things: the naughty vicissitudes of Il mio organo di riproduzione (My reproductive organ; a fiercely independent member, always getting into trouble) come right before the angry, chastening tale of Mia sorella (My sister), a woman whose conformist tendencies are enforced by her upper crust husband, dispenser of an appalling conservatism. But, says the narrator, he’s often told there’s a family resemblance. “At times even my wife accuses me of being the double of my sister, only a more easy-going version, more democratic if you will.”
In l pesci pescati (The fish fished), a boy finds a community of strangers, who like him, enjoy fishing. “I liked waiting for a fish to bite, just as even today I like waiting for something to happen. Certainly this pleasure is by no means real enjoyment, and even less celebration; rather it has to do with privation, and perhaps even with suffering.”
Among the most savage sketches are two devoted to the publishing industry, Il mio attuale editore and Il mio primo editore: mocking portraits of two figures, one from a major publishing firm, one from a small house, who are tremendously bourgeois and much wealthier than their writers will ever be, successful men who like the sound of their own voices and are evidently annoyed and embarrassed by this hapless author. Fascinated by the trophy-like “chair upholstered in famous writer skin” that decorates his publisher’s office, our hero is appalled, impatient and at the same time eager to please. Here and elsewhere, Sartori achieves a quiet, subversive pathos that always comes as a surprise.
Some of this material overlaps with that of another, earlier novel, Anatomy of the Battle, of 2005, composed of brief bursts of non-chronological narrative each one paragraph long. The account, of a boy growing up in a Trentino family led by an unrepentant fascist father, moves back and forth in time and mood with ease, culminating in a reflection on the cult of heroism and political violence in both Fascism and the extraparliamentary left of the 1970s. Although he doesn’t write conventional political novels, Sartori measures the worlds he describes politically, sometimes in historical terms (when he confesses the sins of the Fascist males in his line, or describes the extremist pied noir father-in-law of Mio suocero, mentioned above). And sometimes in class terms (Anatomy’s painful depiction of a snobby, bourgeois, would-be aristocrat mother, once much loved, of whom traces are found in Autismi too). In other novels (Tritolo (TNT), Rogo (At the stake), Cielo Nero (Blackshirt heavens) readers are led inside the uneasy consciences of a Sud Tyrol bomber, three female infanticides, and a Nazi woman spy in love with Fascist Count Galeazzo Ciano.
None of ten books of fiction and poetry that Sartori has published to date is as well-known as it ought to be. His prose is eccentric and his writing has few of those qualities traditionally considered literary; they are stories without the self-conscious intellectual thread running through them that characterizes a sizeable part of what passes as “Italian literature” today. In Autismi, instead, we find no thoughtful premises, no meta-observations and no hint of a thinking author or any figure voicing superior authorial insights. The deep autobiographical vein to Autismi and the first-person voice-intimate, colloquial but never flat, at times baroque-are at quite at odds with mainstream, realist Italian fiction today.
Sartori, a native of Trentino, has made his home in Paris for many years, and permanence in France has shaped his style in more ways than one. Autofiction had its origins there, and the novel has evolved into shapes still mostly unfamiliar in Italy. In France, it’s easier to recognize what Sartori’s up to. There’s a comic vein running through everything he writes, although he is not a comic writer, nor does he deal in autobiography per se, although he draws deeply on the political and social elements of his family and his class-mixed, both bourgeois and renegade, abrasive fascist. An epigraph from Marguerite Duras points to the method: “One writes what one doesn’t know of oneself, of one’s mind and one’s body. This is not a reflective act but a sort of faculty that exists to one side, parallel to one’s person. Another individual that appears and comes forward, invisibly.”
Alas, neither humor or autobiography is very highly considered in Italian literary criticism. One could go further and say that humor is usually suspect, considered cheap and often found disturbing.
But as the exhilarating Il mio lavoro suggests, Sartori is one of those odd birds who comes to writing novels from a foreign country: a background in science. Scientific and technical matters worm their way into his fiction, and his prose is marked by a scientific habit of preferring the concrete and the measurable. His standards of invention and knowledge are not quite those of the artist. In an interview with an American literary journal he said this:
“Even the humblest researcher knows the thrill of grappling with problems still in process, of entering untrodden territory. And such work tends to be undertaken with humility, from an awareness of one’s own limitations, and of the limits of one’s own knowledge. You always need others, since even Einstein wouldn’t have become Einstein without the help of other highly skilled mathematicians. And you never forget that your own discoveries will quickly be surpassed.”
Maggio 1968. La Francia è in fiamme e il festival di Cannes non piò certo far finta di niente. Un gruppo di cineasti (guidato dal più carismatico di tutti, Jean-Luc Godard) decide di bloccare il festival. Non ci possono essere tappeti rossi, sfilate e party esclusivi mentre per le vie di Parigi si combatte ormai da molti giorni con scontri durissimi tra studenti e polizia. Il festival deve fermarsi, il festival si ferma, i premi non verranno assegnati, l’edizione è annullata. A tutt’oggi resta il momento più intenso di relazione tra cinema e lotta politica: del resto, come è noto, Godard non ama le mezze misure.
Ma in quel maggio c’è anche qualcuno che vorrebbe uccidere Jean-Luc Godard. E non si tratta dei suoi nemici politici, in primis il generale De Gaulle che sta per domare la rivolta e riprendere il controllo del paese. E neanche di qualcuno dei registi suoi coetanei che lo apprezzano ufficialmente ma lo detestano nell’intimo, gelosi di quella sua capacità straordinaria di arrivare sulle cose prima di chiunque altro. Chi vuole uccidere Godard è Jan Němec, uno dei più importanti registi del nuovo cinema che in quegli anni era sbocciato anche nell’Europa dell’Est controllata dall’Unione Sovietica. E i motivi di questo desiderio omicida sono al tempo stesso teorici e pratici.
A inizio 1968, in Cecoslovacchia si respira un’aria di libertà mai assaggiata fino a quel momento. Il governo di Dubček ha abolito nel gennaio l’opprimente censura di stato, il nuovo cinema anticonformista e decisamente innovativo vive un momento di grazia. In concorso a Cannes ci sono ben tre film cecoslovacchi: La festa e gli invitati di Němec, Al fuoco, pompieri! di Miloš Forman e Un’estate capricciosa di Jiří Menzel. Nel frattempo, nubi minacciose si addensano su Praga perché l’Unione Sovietica non è certo felice per quello che sta succedendo. I tre registi sono certi che almeno uno di loro vincerà un premio e che questo sarà molto utile per la causa cecoslovacca: quei loro tre film, nella totale diversità di stili, sarebbero stati impossibili da realizzare se ci fosse stata la censura. Ma poi arriva Godard che, in nome di un comunismo utopico, impedisce di proiettare i film a chi combatte un socialismo autoritario e oppressivo. Per di più, inizia a piovere e gli inservienti dei grandi alberghi cessano di servire gli ospiti che si affrettano a lasciare le camere visto che il festival ha chiuso i battenti e il conto a questo punto devono pagarselo gli ospiti stessi.
«Cannes 1968: la verità su quello che accadde» è uno dei 31 episodi che compongono Volevo uccidere J.-L. Godard, prezioso libretto di ricordi che Němec (scomparso nel marzo 2016, mentre era sul set del suo ultimo film) ha raccolto negli anni e che esce per Miraggi nella pregevole traduzione di Alessandro De Vito. Racconti carichi di ironia e di toni surreali, proprio come i film che lo hanno reso noto presso i cinefili di tutto il mondo. Racconti nei quali si racconta come Němec, tre mesi dopo i fatti di quel maggio francese, sia riuscito a riprendere i carri armati sovietici che mettevano fino alla primavera di Praga (le sue immagini sono le uniche non ufficiali su quanto avvenne nell’agosto di quell’anno). Oppure ci propongono un accostamento che nessun critico musicale avrebbe mai immaginato, quello tra i californiani Beach Boys e il semisconosciuto rocker Proby. O anche l’incontro che condivise con l’amico regista Jakubisko con un Alexander Dubček che ancora di illudeva di poter contare qualcosa dopo che i sovietici avevano ricostruito l’ordine a Praga. O, infine, come si sia trovato in America nello stesso albergo frequentato poco prima da Miloš Forman che si era trasferito a Hollywood per girare film di grande successo, scoprendo però che non aveva mai pagato il conto.
Ironia, divertimento, storie surreali e uno sguardo tagliente sulla realtà e sui vari fatti storici da lui vissuti in prima persona. I racconti di Němec ci fanno capire quanto sia stato importante il cinema per chi ha partecipato a vario titolo ai movimenti che caratterizzarono il 1968, e come quella rivolta generazionale abbia contagiato tutto il mondo, da una parte e dall’altra della cortina di ferro. Negli anni Sessanta il cinema è, per l’ultima volta nella storia, lo specchio fedele di quello che stava succedendo nel mondo, e questa consapevolezza fa capolino in ogni riga dei ricordi di Němec.
A Palermo la scorsa settimana c’è stata una fiera del libro molto particolare: Una Marina di libri, nella splendida cornice dell’orto botanico. Passeggiando fra gli stand ho conosciuto Fabio di Miraggi edizioni che mi ha parlato benissimo di ” Il lago” (traduzione di Laura Angeloni) dalla copertina bianca e rossa. Bianca Bellová è considerata una delle più talentuose autrici della Repubblica Ceca.
Quando mi capita fra le mani un gran bel lavoro, in genere lo capisco fin dalle prime pagine.
Così è stato per questo libro.
“Il Lago” è un romanzo incredibile. È la storia di Nami, un ragazzino che viene cresciuto dai nonni e che si trova ad affrontare mille peripezie. Patisce fame e freddo e gliene capitano di tutti i colori.
Ma lui resiste.
E alla fine la sua tenacia viene premiata.
Nella sua ricerca mai paga dei genitori, passa attraverso un doloroso percorso di affrancamento e, suo malgrado, si scontra con un epilogo brutale. Quello del regime che in cerca di capri espiatori, insabbia le scomode verità e sacrifica i più deboli.
Sullo sfondo profumi e colori della campagna che sa di povertà, essenziale ma rassicurante.
Nami dopo la scomparsa dei nonni resta solo, viene picchiato e maltrattato da un sinistro personaggio che occupa con la sua famiglia la sua casa e che dovrebbe tutelarlo.
Il ragazzo si innamora della compagna Zaza, la quale una sera subisce violenza da due soldati russi.
Nami assiste allo stupro, salvo poi fuggire.
Il suo peregrinare è un continuo allontanarsi dai ricordi e dal dolore, unito alla spasmodica ricerca delle sue radici.
Nami lascia il villaggio natio e si avventura oltre l’amato/odiato specchio d’acqua.
Il lago, presenza che la popolazione locale personifica, diviene una sorta di totem o meglio di altare sacrificale al cui spirito le genti del posto fanno offerte e pagano tributi.
In questo lago il protagonista, a 3 anni rischia di affogare, a fine romanzo invece ci si immerge consapevolmente in una sorta di rito battesimale, chiudendo un cerchio che era rimasto aperto.
Un libro intenso, che ti afferra per il bavero e ti costringe ad aprire gli occhi sulle atrocità della politica e le nefandezze del regime sovietico.
Una penna pulita e impeccabile quella della Bellova.
Una prosa asciutta, spietata e marziale.
Da leggere assolutamente.
Per chi ama la qualità.
Lo consiglio a occhi chiusi perché merita davvero molto!
Su “La Repubblica” del settembre 1989, Alfredo Giuliani, in “Nasce il Gruppo 93?”, scriveva, “Ecco che cosa sta rinascendo…: il bisogno di una vera discussione letteraria, di poetiche operanti e di retorica da parte di trentenni-quarantenni che s’interrogano su quanto vanno facendo: poesie, scritture dove i generi si intersecano e si corrompono inseguendo una percettività precipitosa e dispersa”. Tra i fondatori del gruppo, il napoletano Biagio Cepollaro, che nel 1993 inizia la scrittura di “La notte dei botti”, completata quattro anni dopo. Il romanzo esce finalmente per Miraggi, riscuotendo un credito trentennale a torto negatogli. Quella notte, la notte dei Grandi Accertamenti, l’Organizzazione avvia il piano per impadronirsi dell’esistenza dei cittadini. Scatena l’odio nei quartieri, nei condomini, nei luoghi di aggregazione, alimentando l’ipotetico diritto alla singola, personale, utopia. Rastrella la gente per radunarla in un autogrill, come nello stadio del golpe di Pinochet. Solo Scriba, alter ego di Cepollaro?, riesce a fuggire, vagando in sella alla sua bicicletta. L’uso del presente conferisce al testo la forma di una cronaca assurda, ironica, feroce, che mai dà tregua al lettore.
Claudio qui dento c’ha passato un bel po’ di tempo. Ha accompagnato la crescita di Senzaudio in un momento delicato. Poi, giustamente, ha preso altre strade. Adesso lo potete vedere ovunque, scrive ovunque. Sulla carta stampata e online. Opinioni e articoli per lo più. Perché per quel che riguarda la narrativa invece gli ultimi suoi sforzi sono finiti su carta.
Viene da chiedersi come faccia a scrivere così tanto e l’unica risposta che mi sono dato è: non dormire. Secondo me Claudio non dorme. Sennò non si spiega.
Leggo le opere di Marinaccio già da qualche anno. Ho iniziato con Scomparire nel 2014 per arrivare al più recente Come un pugno del 2016 fino all’ultimo “La folle storia del kamikaze che non voleva morire” pubblicato da Miraggi nell’ultimo mese. Mentre le altre due prove erano romanzi quest’ultima è una raccolta di racconti.
Una delle cose che ricordo di aver detto parlando di “Come un pugno” era che sembrava che il romanzo straripasse di linee narrative. Sembrava che compresso in uno spazio esiguo ci fosse molto materiale da sviluppare. Storie che avrebbero tranquillamente potuto generare altre storie. Leggendo i racconti mi sono reso conto che la super densità del libro precedente qui trova una sistemazione diciamo più ordinata. Lo strumento del racconto permette a Claudio di affrontare e sistematizzare tutte le sue onde di ispirazione. Eppure, nonostante questo succede che i racconti abbiano due o tre momenti in cui il lettore si trova ad un bivio e non sa dove lo porterà il narratore. La carica è rimasta la stessa. Ed infatti, a leggere la raccolta ci rendiamo conto che Claudio ha osato avventurarsi in più di un panorama. Parlando del passato e parlando del futuro, parlando di Kamikaze e piedi che rotolano, parlando di modi ridicoli di morire, ma anche di modi ridicoli di vivere.
A farla da padrone è quello che io reputo un umorismo nero ben calibrato. Un umorismo nero spolverato di una certa dose di cinismo che per la maggior parte del tempo ci fa stare con un ghigno stampato in bocca. Perché a volte, essere un po’ cattivi è catartico.
Veniamo alla conclusione. Seguendo Claudio dal 2014 posso notare i suoi miglioramenti ed essere felice per lui. Il racconto che da il titolo al libro è davvero piacevole e quello che fa da apripista parte in un modo e poi ti spiazza tirando fuori vecchie maledizioni. Non so dirvi se il suo terreno di caccia debba essere quello dei racconti o quello dei romanzi, non perché uno debba per forza di cose escludere l’altro, semplicemente non so decidere se renda meglio nell’uno e nell’altro campo. Viene voglia di seguire la lunga narrazione portata avanti in un romanzo, con i repentini cambi di rotta e quegli improvvisi WTF, ma viene anche voglia della lettura fulminante.
Alla fine credo che spetta a lui decidere, ma se tanto mi da tanto, avremo ancora sia dell’uno che dell’altro.
Un ultima parola sulle illustrazioni di Luca Garonzi. Sono davvero molto belle e sono, già loro, una narrazione nella narrazione.
P.S un paio di racconti li avevo già letti per motivi diversi e mi ha fatto davvero piacere vederli rivivere.
NováVlna è il nome dato alla Nouvelle vague cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. Un nome appropriato per questa nuova bella collana di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito e Laura Angeloni, che vuole far conoscere in Italia le opere di autori cechi inediti nel nostro Paese e altri ingiustamente dimenticati dall’onda quasi mai anomala dello sconfortante mainstream editoriale.
La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di Bianca Bellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard diJan Nĕmec (traduzione di Alessandro De Vito).
Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.
Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.
Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.
Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registi cinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” Stati Uniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.
Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Formane Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.
Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.
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