NováVlna è il nome dato alla Nouvelle vague cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. Un nome appropriato per questa nuova bella collana di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito e Laura Angeloni, che vuole far conoscere in Italia le opere di autori cechi inediti nel nostro Paese e altri ingiustamente dimenticati dall’onda quasi mai anomala dello sconfortante mainstream editoriale.
La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di BiancaBellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard di Jan Nĕmec(traduzione di Alessandro De Vito).
Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.
Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.
Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.
Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registicinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” StatiUniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.
Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Forman e Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.
Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.
“Invece delle proiezioni ci fu un’assemblea. Potete immaginare un’idiozia più grande al festival di Cannes? Quegli idioti, allora, erano il potere.”
Prima o poi andrebbe raccontata per bene, la vivacissima vita del regista ceco Ian Němec, regista e autore dei trentuno deflagranti racconti che compongono “Volevo uccidere Jean-Luc Godard”, raccolta pubblicata da Miraggi edizioni e molto apprezzata nei giorni del Salone del Libro. Talento rovente classe 1936, enfant terrible e “saltimbanco dell’est”, vispo libertino, glorioso maleducato e intellettuale fuori rotaia, fu capace, in quel cruciale festival del maggio 1968, di corrompere Monica Vitti e Louis Malle per portare a casa, con i connazionali Miloš Forman e a Jiří Menzel in concorso insieme a lui, trofei concordati a tavolino col direttore Robert Favre Le Bret. Il quale garantì l’esercizio spietato di tutta l’influenza possibile per realizzare un piano perfetto in tre fasi: mettere strategicamente in competizione l’uno contro l’altro, far guadagnare la Palma d’oro a uno dei tre e insignire di riconoscimenti non meno autorevoli gli altri due (il che avrebbe voluto dire strada spianata per ulteriori riconoscimenti nei festival d’autore internazionali). Giubilo generale: Láďa K., direttore della Filmexport e capo della delegazione ceca, già delirava di business a destra e a manca, già s’affaccendava a vendere i diritti di distribuzione mondiali, già familiarizzava a colpi di brindisi coi tedeschi dell’ovest giunti a Cannes in yacht per comprare film porno. “Bevete e fate casino!” sbraitava alzando calici e spronando le tre future star. “Porteremo a casa la Palma, il Politburo sarà contento e la gloria della cinematografia socialista sarà grandissima! Spendete e spandete, costruite i vostri contratti nelle camere d’albergo, ho un conto illimitato per le spese”. Gran talento nell’interpretare le cose alla lettera e nel cacciarsi in guai abnormi, Ian Němec obbedì, e nel racconto “Cannes 1968 e la verità su quel che accadde” – roba così scorretta non la si leggeva da un po’ – scrive: “Nella hall del nostro albergo stava seduta, troneggiando, una bella puttanella, una scura cioccolatina. Dagli scambi di sguardi avevo visto che non solo aveva un bel viso, labbra e occhi, un bel corpo e seni abbondanti, ma anche un animo meravigliosamente capace di comprendere un artista”. E fu così che prese il volo il denaro raccolto dai tre registi per finanziare la produzione di un filmino socialista sul racconto del trionfale festival. La benevolenza della ragazza fu ottenuta nonostante la cifra corrisposta non fosse completa, dietro garanzia che, all’alba del giorno successivo, il gentiluomo si sarebbe dato alla questua per versare la parte mancante dell’emolumento. Promessa mantenuta: ebbro di fedeltà alla parola data, Ian fece ingresso al Carlton e si rivolse alla prostituta. “Darling, ecco quel che ancora ti dovevo per stanotte!”. Senonché, vuoi lo champagne, vuoi i bagordi, la fanciulla non risultò essere la meretrice, bensì una principessa, moglie di un alto funzionario della delegazione ufficiale di un Paese del terzo mondo. La fucilazione sul posto fu evitata per un soffio e lo scandalo sfolgorò in prima pagina sul Nice Matin.
Dal giorno dopo, le acque si agitarono. Němec racconta: “Nei canali di scolo più oscuri si cominciava sentire: basta con l’arte borghese! Basta col festival!”. Ma i nostri tre eroi vagheggiavano ancora il trionfo. E quando, in uno sprazzo di lucidità, si accorsero che la bandiera nazionale era stata dimenticata a casa, pensarono di disarcionarla dal colonnato del palazzo del festival: Forman si arrampicò sull’asta, la spezzò col suo peso e precipitò a terra, mentre il pennone si abbatté di traverso sulla Promenade. Ma fu l’ultimo atto. Dal giorno dopo, fine dei sogni di gloria: Godard, menando colpi in testa con l’asta del microfono a chiunque reclamasse le proiezioni, sabotò il festival, mentre altri invasati laceravano schermi a coltellate. Forman ritirò il suo film e si allineò.
La storia finì con spaventose quantità di libagioni, già acquistate per i festeggiamenti, da smaltire in un colpo. E con un brusco risveglio: la cacciata dall’hotel, una hall gremita di detestabili contestatori, e la rabbia – che durerà una vita – verso i propugnatori di una rivoluzione da cui, semmai, si voleva fuggire. Quindi la fuga verso l’Italia senza pagare il conto. “Pregustandoci”, sogghigna Němec quasi fosse Dovlatov, “la quiete di una terra senza rivoluzionari”.
Un sopralluogo nella casa abbandonata dei nonni, occasione per fare i conti con il passato rimosso di famiglia. L’immagine della gatta randagia fatta sopprimere, ancora visibile nel cortile condominiale su Google Maps, che diventa il modo per lasciar scaturire il dolore accumulato. I racconti sono fatti della stessa materia di cui sono fatti gli attimi. È il modo in cui li si guarda dopo, che rende i fatti degni di essere narrati. Quello di Simone Ghelli è la pietas: per un animale sofferente, un parente strano, una versione passata di sé di cui ci si vergogna e che scrivendo si prova a perdonare. In una delle storie più belle del libro, il protagonista gira un documentario nel rudere della casa toscana del poeta inglese Peter Russell, che non verrà mai trasmesso. Metafora, forse, della scarsa accoglienza che hanno in Italia le raccolte di racconti di scrittori italiani, mentre chissà perché a quelle di autori stranieri nessuno dubita di attribuire la dignità di un romanzo.
Claudio Marinaccio ha all’attivo diversi libri, tutti decisamente originali e brillanti, ma non di fantascienza. È quindi la prima volta che tocca questo genere, con alcuni racconti compresi nel suo nuovo libro, La folle storia del kamikaze che non voleva morire. Quando non scrive libri si occupa di libri (e altri argomenti), per Huffpost, Wired, La Stampa e altre testate.
Il libro
Undici racconti. Undici storie che raccontano il mondo d’oggi attraverso avventure terribili seppur piene di ironia. Claudio Marinaccio racconta una realtà dalla quale è difficile uscire indenni. Una donna che soffre del delirio di negazione, la fusione tra i due più grossi colossi del mondo multimediale, il tentativo di sintetizzare chimicamente l’amore, zombi, alieni, soldati, padri pronti a tutto e kamikaze che non vogliono morire. Uomini comuni che tentano disperatamente di sopravvivere, nonostante tutto. Marinaccio si dimostra una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea con una scrittura tagliente e diretta, ma soprattutto con il suo modo di raccontare quello che viviamo e che spesso facciamo finta di non vedere.
In poche parole è già deciso che tu morirai, devi solo decidere la modalità. A quel punto, immobile davanti al nulla della mia esistenza, decisi di accettare la falsa offerta, cercai di auto convincermi di essere una sorta di eletto. Un prescelto mandato dal cielo per risolvere i mali che affliggono il pianeta Terra. Il mio sacrificio avrebbe condotto il genere umano alla salvezza. In fondo è così che Gesù è diventato famoso, sacrificandosi per gli altri. Il dottor Reich mi iniettò qualcosa con una grossa siringa dall’ago lucente. Mi avvolse il buio, quello vero. Percorrevo il cammino nel bosco a ritroso. C’era un sole pallido che non scaldava nulla, però era in grado di farmi sudare. Sotto la camicia avevo circa tre chili di esplosivo cuciti sulla pelle ed in tasca tenevo il telecomando per porre fine alla mia vita terrena e per condannare quella ultraterrena. Speravo di non cadere per evitare botti inutili. Mi facevano male sia le cuciture che legavano l’esplosivo alla pelle sia le ossa per le botte ricevute. La mia lingua giocava con il labbro rotto e mi resi conto che un dente dondolava pronto a cadere. Anche se dubito che nessun topolino mi avrebbe lasciato una moneta, al massimo mi avrebbe divorato una volta morto. Con l’aiuto di una mappa disegnata a matita su un foglio, cercavo di trovare la strada che mi avrebbe portato alla città dove sarei morto massacrando dei pazzi innocenti. Come una medicina che uccide il cancro. Come un veleno che uccide i piccioni. D’un tratto vidi la mia ombra più definita, barcollava e ritornava come prima, pensavo fosse ubriaca. Una luce intensa arrivava da dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi un grosso incendio provenire dall’accampamento che avevo da poco abbandonato, non potevo tornare indietro. La mia non era pienamente codardia ma indossavo materiale esplosivo che non andava molto d’accordo con il fuoco. Incominciai a scappare come se fossi inseguito da un animale feroce. Ancora una volta correvo per cercare di sopravvivere.
La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Claudio Marinaccio, Miraggi. Claudio Marinaccio ha una gran bella prosa, che si manifesta in tutta la sua spiccata policromia quale che sia il testo cui decide di dedicare tempo, passione e attenzione, che si tratti di un articolo, di un saggio, di un racconto, un romanzo o un post su Facebook: intelligente, vivace, colorata, brillante, sapida, arguta, lieve ma mai superficiale, seria ma niente affatto seriosa, convincente, originale, ironica, sarcastica, irriverente senza la benché minima traccia di spocchia egoriferita che è invece di norma caratteristica peculiare di chi si sente Moravia ma ha problemi anche col plurale di valigia. In questa sua nuova opera, che convince, commuove, emoziona e fa riflettere sin dalla dedica, Marinaccio, in Delirio di negazione, FooG, Una giornata da dimenticare, Una barba lunga un mese, Il tragico inizio di una storia non banale, Pelle, Amore farmacologico, Un viaggio mentale in una terra desolata, La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Così diversamente uguali e La ballata del ladro di anime, un capolavoro di bravura che fa pensare che un giorno Haruf, Fante e Chandler si siano stretti la mano e abbiano deciso di collaborare, un vero romanzo a sé, ritrae con crescente – il filo rosso che unisce le parole disegna nel cielo del testo un vero e proprio climax ascendente – autorevolezza, sardonica gioia e al tempo stesso una solennità potente e aulica benché mai pedante e/o pesante, ed esaltata dalle splendide illustrazioni di Luca Garonzi, che, altamente narrative a loro volta, punteggiano e intervallano la narrazione, tutte le declinazioni dell’alterità rispetto all’anonima quotidianità della prepotenza del vivere. Imperdibile.
Unico libro del regista ceco Jan Němec (1936-2016), originariamente pubblicato in patria nel 2011, Volevo uccidere J.-L. Godard è stato tradotto per la prima volta all’estero proprio qui da noi: merito di Alessandro De Vito, sanguemisto italo-ceco, studioso di cinema, e della sua Miraggi. Il libro è il battistrada di una nuova collana consacrata alla letteratura ceca: si chiama NováVlna, come la Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta, e si propone di rappresentare il carattere di “nouvelle vague permanente” della letteratura ceca, spesso venata di grottesco e surreale, comunque profondamente esistenziale. Němec ci restituisce, in questi trentuno sketch e racconti, scritti tra 1970 e 1990, un mosaico della sua vita: a dar retta al traduttore, questo libro è la vita di un uomo “individualista, donnaiolo, combattivo, orgoglioso, visionario, in piedi nella buona e nella cattiva sorte” e al contempo è la fotografia di un’epoca: “Est e Ovest, sovietici e americani, retroscena del cinema, attori, registi, donne, scrittori e spie”. È la restituzione dei rovesci della sorte di un giovane artista, protagonista della cinematografia cecoslovacca, enfant prodige di fama internazionale, finito a vivere esule in estremo Occidente, costretto a tirare a campare tra improbabili lezioni a Yale, una buona serie di filmini ai matrimoni, parecchia nostalgia e una necessaria dose di creatività. Secondo De Vito, la lingua di Němec è “poco letteraria e colloquiale, nervosa e farcita di modi di dire e battute. Non ci si stanca di ascoltarlo, che sia il divertimento delle situazioni paradossali da ‘bon vivant’ individualista, autore di folli e pericolose goliardate per prendere per il naso i comunisti grigi e ottusi, oppure la rabbia e la pena dell’esule che si deve arrangiare mentre trova solo muri di gomma anche nei produttori americani”. Non credo si possa consigliare questo libro soltanto ai cinefili o ai cinematografari, in genere, pur dovendo ammettere che è loro che si rivolge, in primis, questa pubblicazione, per via del fascino di questo vecchio irregolare della “settima arte”. Němec, da scrittore, ha una personalità tracimante, un fertile nervosismo e una piacevole debolezza nei riguardi delle donne e della libertà, in genere; politicamente è quanto di più vicino a un anarchico si possa immaginare, perché davvero l’artista ceco appare riottoso a qualunque autorità e a qualunque potere, davvero sembra istantaneamente irriverente, in certi contesti, e caustico e facile allo sberleffo (o al teppismo, o alla bravata). Come parecchi artisti puri, non sapeva stare al mondo. O forse proprio non voleva.
“Lembi di memoria personale”? No, non è solo questo. “L’uomo tagliato a pezzi”, il libro di ricordi di Antonio De Vito, è piuttosto il realistico quadro di un tempo, di un’Italia che fu e che difficilmente chi non sia nato intorno alla metà del secolo scorso fa persino fatica a credere che sia esistita. Oggi, che durante una delle campagne elettorali più assurde alle quale io abbia mai assistito, in cui rispunta fuori inopinatamente il concetto di “razza”, rileggere le pagine di questo prezioso “documento” ci fa improvvisamente ricordare cose delle quali avevamo addirittura perso la memoria.
Il giovane Antonio De Vito è un “cafone” di Torremaggiore, provincia di Foggia, che approda a Torino negli anni della FIAT di Valletta, in cui non si “affittavano case ai meridionali”, in cui veniva costituito all’interno della maggiore fabbrica d’Italia un “sindacato” bianco, un sindacato padronale che aveva il compito di stroncare ogni tentativo di rivendicazione sociale. Testimonianze di un’epoca ormai lontana, scrive De Vito nel presentare la vicenda, il “processone” che dà il nome al suo libro. Il processo per l’“uomo tagliato a pezzi” prende le mosse da una storia delle prime immigrazioni meridionali nell’“altra” Italia, quel Nord che ancora oggi sembra volere, per certi versi, tornare indietro nella storia. “La provincia torinese, Chivasso, la città delle noccioline, e il clan di immigrati siciliani, la famiglia Montalbano, niente a che fare con il commissario Montalbano di Camilleri, divenuto famoso ai giorni nostri, mezzo secolo dopo Immigrati agrigentini, dalle belle terre di Caltabellotta, Sciacca, Ribera, il profondo Sud siciliano, esodo forzoso dalla miseria, braccia in cerca di sicurezza e lavoro, tutti sanno di cosa si è trattato in quegli anni Sessanta, che di mitico per milioni di uomini donne non avevano proprio nulla. Al massimo anni di speranza. Tanta fatica, tanta sofferenza, tanta incomprensione attorno a questi figli del sud costretti ad immigrare”.
Fa un certo effetto leggere quanto scrive De Vito proprio nei giorni in cui si ricorda la tragedia del Belice (e oggi finalmente sappiamo come si pronuncia: Belìce) e si scopre, o forse si riscopre, che uno dei provvedimenti del governo di allora, un governo Moro, politico democristiano tra i più illuminati, non trovò meglio che offrire ai siciliani senza più casa né speranza decine di migliaia di biglietti ferroviari di sola andata per il nord e visti per l’espatrio. Questa era l’Italia d’allora, davanti ad una tragedia che aveva fatto più di trecento vittime e distrutto per sempre interi paesi, intere comunità.
Ricorda forse qualcosa di più attuale? Il terremoto dell’altro ieri che ha colpito tre regioni del centro Italia non lo possiamo certo risolvere come allora, anche perché in Italia ci sarebbero cinquecento poveri disgraziati che, come dice un autorevole leader, sono costretti rubare (?) per sopravvivere e hanno un grave torto, un peccato originale, essere scappati dalla fame e dalla miseria, non dalla Sicilia, non dall’Italia meridionale, ma dall’Africa, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh, dall’altro sud che non vogliamo neppure vedere. Che tornino nei loro Paesi, che – come ha detto un autorevolissimo Capo di Stato – sono “shit-hole”, buchi di cesso.
E’ bello quanto ricorda a noi smemorati o ignari Antonio De Vito, quando nella premessa rammenta come sia cambiato il mondo da quando, cronista dell’Unità prima della Stampa poi, seguiva i processi che si svolgevano in Corte d’Assise, a Torino. “Sono cambiati, scrive, i cittadini, i giornali, le istituzioni, i codici, i processi…E non c’erano allora, le tv, folle di cineoperatori a riprendere un pubblico interessato alla vicenda “noir”, nessun Vespa rifaceva il processo in modo mediatico, spettacolarizzando con plastici e gli esperti in studio, psicologi e periti sempre pronti a mettersi in mostra”. E, aggiungerei, ahimè, anche colleghi. E’ vero, Antonio, era tutto più alla buona. E’ vero, Antonio, il mondo è cambiato. E anch’io, quasi quasi, voglio scendere.
Far finta di essere ciò che non si è: ecco il grande male di molti scrittori. Insomma, l’eccesso di serietà. In troppi si arrogano il ruolo di maître à penser. Ma se non si è seri per indole innata, meglio evitare almeno di risultare ridicoli. L’umiltà rende liberi dalla schiavitù di inscenare una parte che non compete. Del resto, non tutti devono per forza scrivere testi che condensino la profondità di un La Nausea, L’età della ragione e Le mani sporche, in un unico volume – anche perché, sai che due palle!
Essere abissali non rientra tra le prescrizioni mediche. Lanciare messaggi eterni che riecheggino lungo i secoli non è il solo motivo che possa animare nello scrivere. A volte, il narratore vuole semplicemente divertire senza secondi fini o alti intenti di critica sociale. E anche riuscire in questo proposito non è in fondo meno difficile, né meno nobile. Tutto sommato, quanto disse Rino Gaetano a chi gli chiedeva di rispondere all’accusa di essere un cantautore capace solo di far ridere, non è per niente sciocco: «Faccio ridere? Meglio che fa’ piagne».
Uno dei pochi a non prendersi troppo sul serio è, per esempio, Andrea Serra, giovane scrittore sardo naturalizzato torinese. La sua ultima fatica – anche se, presumibilmente, più che di uno sforzo si dev’essere trattato di uno spasso –, Frigorifero Mon Amour, Miraggi Editore, 2018, costituisce un paradigma del disimpegno intelligente. Se i vari Volo, Moccia, e D’Avenia fanno di tutto, pur non potendoselo permettere, per risultare seri come Philip Roth e commerciali come la carta igienica, Serra evita tali pose come la peste. A lui si attaglierebbe magnificamente il bel verso di uno dei massimi poeti italiani del ’900, Giovanni Raboni: “Solo questo domando, esserti leggero”. E leggero è leggero, giocoso, divertente – per usare un francesismo – fino a pisciarsi dalle risate. Non aspettatevi la verità rivelata, piuttosto un paio d’ore di risate.
Il romanzo è la storia dolcemente grottesca di una famigliola comune (marito, moglie e due figlie), con una vita normalissima. Le situazioni e i luoghi della quotidianità, però, si caricano di tutta una serie di aspetti surreali. Il dentista diventa, quindi, una specie di serial killer mancato che si accanisce sui denti del protagonista con trapani, cemento e bombe a mano.
Il meccanico di fiducia è un napoletano imbroglione che danneggia volutamente il mezzo e poi estorce cifre esorbitanti per le riparazioni. Le colleghe di lavoro sono psicopatiche, ossessionate dalla dieta, che evitano di mangiare per riuscire a dimagrire e, dopo alcuni giorni di digiuno, sono capaci di ingurgitare anche i computer dell’ufficio.
La moglie, smaniosa di fare bella figura per le feste ancora ben lontane dal venire, si sveglia nel cuore della notte e, con una sega elettrica, taglia una quercia secolare per piantarla nel mezzo del salotto di casa a mo’ di albero di Natale. Le due bimbe, inconsapevolmente pestifere e diaboliche, chiamano il padre ogni notte, urlando, tra le due e le quattro, ponendogli gli interrogativi più assurdi. L’uomo di casa, sempre più vicino alla crisi di nervi, si arrabatta tra le mille pretese di moglie e figlie.
Tra una peripezia e l’altra, come se non bastasse, è costretto a sottoscrivere la ventesima finanziaria per comprare l’ennesima lavatrice che, “come da contratto”, si autodistruggerà proprio il giorno dopo il termine della garanzia. In tutto ciò, il personaggio, figlio come altri Fantozzi, della grande attitudine italica all’esasperazione in chiave comica della nostra insana normalità, intrattiene un quotidiano scambio amicale con il suo frigorifero.
Ma quella di Frigorifero Mon Amour è una storia che non si può sintetizzare. Perderebbe inevitabilmente. La sua forza sta tutta nella penna di chi la racconta. Nella capacità di seminare due o tre climax di ilarità all’interno di ogni paragrafo. Perché della comicità non si possono mai tirare le somme, come per una tematica qualunque. Il riso è il risultato indotto da un processo che segue un suo percorso impossibile, o quanto meno inutile, da ricostruire. È un dono che si possiede o meno. Serra lo possiede e ha il buon gusto di non farlo mai pesare.
Cinque libri, cinque assaggi, dieci minuti di qualcosa di… personale. Chiara Trevisan, la lettrice vis-à-vis che in piazza Carignano affascina e seduce gli amanti dei libri, sarà protagonista al Salone del Libro, ospite del nostro stand (padiglione 2, J30-K29). Venerdì, sabato e domenica – dalle 15 alle 18 – Chiara saprà trovare la pagina giusta per ciascun visitatore, stuzzicando l’appetito letterario con la proposta di alcune pagine tratte da cinque libri Miraggi: “Poema bianco” di Pasquale Panella, “Nozioni di base” di Petr Kral, “Respira” di Roberto Saporito, “E anche più lontano” di Laura Salvai e “Il suono di Torino” di Domenico Mungo. Vi aspettiamo!
Il libro si dipana in un moto circolare di andata e ritorno, un viaggio fisico, spirituale e sentimentale attraverso una terra arida che ha indurito le persone.
L’ombra dell’esercito russo assediante è onnipresente, mentre la vita dei piccoli villagi e della capitale si sviluppa nella precarietà e nell’assenza di prospettive.
Gli incontri casuali che costellano l’avventura di Nami (il protagonista) fanno pensare ad un novello Barry Lindon che si deve destreggiare tra soldati violenti, uomini grezzi ed ignoranti o personaggi avidi e biechi.ma non mancano anche donne generose e materne, sempre pronte ad aiutare il ragazzo nonostante i divieti degli uomini.
La figura della donna ne esce così potente e determinata, mentre l’uomo sembra sempre perso ed offuscato in balia degli eventi ed elementi.Il lento , ma inesorabile prosciugamento del lago Aral (che è l’altro protagonista assoluto del romanzo) fa infatti da cornice ad un’umanità sconfitta e derelitta.
Nami rappresenta la speranza, ama e vuole amare con tutto se stesso, non permettendo al destino di rinchiuderlo in un silenzio di sabbia.
“Nami caro, mi hai restituito la felicità.Ora mi sento di nuovo viva!Pensavo…quando quei barbari mi hanno distrutto tutto avevo la sensazione che ognio cosa fosse coperta da una sostanza viscida.Che non avrei più potuto toccare tutto questo.Che qui non sarei più riuscita a vivere.Invece è possibile.Un pezzetto per volta ci si rimette in piedi, vero?”
Libro bellissimo, scrittura precisa ed efficace, traduzione ottima!!!
Ora dovrebbe essere proprio Lei a spiegarmelo, ecco, mi metto comodo, incrocio le braccia e le permetto di parlare. Vorrei sapere da Lei cosa ci devo fare con questa tappezzeria che ho ereditato, con questo tipo di arredamento che se ne sta qui, tronfio, e non va da nessuna parte. Ho lasciato che disseminasse i suoi ninnoli per tutta la casa e ora, per una puntuale legge del contrappasso, me li ritrovo fra i piedi, infilzati per bene dove dà più fastidio. Diamine, non era così che si doveva mettere la faccenda. Io volevo rimanere fino a vedere quel suo culo ingrossare, farsi cadente e impresentabile; volevo tenerle la testa ogni volta che ce ne sarebbe stato bisogno, quando l’avrei convinta a bere un poco con me, quando non avrebbe retto niente e vomitato tutto; volevo tenerle la testa per le influenze stagionali, quando si sarebbe riempita la pancia di brodini caldi con il dado vegetale, di tisane digestive, drenanti, depurative; volevo rimanere lì comunque andava e fare, per Lei, ogni genere di commissioni; col tempo sarei pure diventato un esperto di tinture per capelli, creme contro la cellulite, cremine contro le rughe e pastiglie per la circolazione; volevo mettermi in fila al supermercato e rimanerci ore e ore a discutere con le cassiere riguardo all’ultima offerta per i soci e per i non soci; avrei fatto la raccolta bollini, ogni raccolta bollini esistente, e sempre le avrei fatto scegliere il regalo. Volevo esserci per qualunque dei suoi denti devitalizzati e incapsulati; volevo esserci per gli ascessi e anche per tutte quelle visite di controllo, quelle tanto generiche e tanto poco necessarie; sarei stato lì a ogni rinnovo della carta d’identità fino al punto di poter ironizzare sulla voce “peso” fortunatamente non menzionata. Oh, non so cosa avrei dato per esserci al momento clou delle emorroidi, per tutte quelle malattie che almeno da fuori fanno ridere, ma anche per quelle che non fanno ridere per niente.
Quando eravamo portieri di notte, Tomas Bassini, Miraggi. Che l’amore è tutto è tutto quel che ne sappiamo. Sappiamo anche che quando nasce un amore ci sembra che finalmente il mondo abbia luce e senso. E viceversa quando finisce nulla ha più valore. Se non il ricordo. La rielaborazione. Riviverlo ancora perché non muoia del tutto, ripercorrerne il sentiero passo dopo passo per capire cosa c’è stato di giusto e soprattutto cosa di sbagliato. E tutto questo è reso ancor più facile se le notti sono lunghe. Tutte uguali. Insonni. Perché non c’è pace quando si lavora, quando si vive dall’altra parte della luna, lì dove si annida un sottobosco di umanità celata ai più. E così lei l’ha lasciato, e lui, complice il vino, si tuffa nel passato. Intenso e coinvolgente.
In una miscela narrativa giornalistica e radiofonica il cantautore, comico e scrittore rivitalizza uno dei geni più antitradizionalisti e anarcoidi della Francia del secondo dopo guerra.
Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés (Miraggi edizioni, 2018) è l’ultimo romanzo di Giangilberto Monti, cantautore italiano e poliedrico artista milanese: dalle recitazioni con Dario Fo e Franca Rame alle collaborazioni con i comici di Zelig, passando per le incisioni discografiche (Opinioni da clown – 2015 Egea/Warner) e concludendo una vasta attività con molti romanzi concentrati sulla storia della musica. D’altronde una passione centrale lui ce l’ha: la canzone francese del secondo dopo guerra, ovvero gli chansonnier parigini. Così come conserva perfettamente intatta da quel 1995 (Boris Vian-Le Canzoni – Marcos y Marcos edizioni) la sua ossessione: Boris Vian. Per l’appunto. Ma chi era Boris Vian?
Come ammette nelle ultime righe del libro lo stesso Giangilberto, Boris Vian è uno dei più grandi talenti artistici incompresi o stroncati dalla critica letteraria e musicale transalpina.
Questo libro si carica sulle spalle l’enfasi di una passione energica per far riscoprire e per riattualizzare la figura di questo scrittore e cantautore parigino (Saint-Germain-des Prés è un quartiere della capitale) che stravolse le radici culturali della Francia novecentesca.
Copertina, quarta di copertina, impaginazione e testo scritto. Formalmente siamo davanti a un libro, ma in realtà siamo di fronte a un genere ibrido, originale e multidimensionale. Ispirato un po’ alle prestigiose firme della biografia latina (il pathos di Tito Livio e la profondità psicologica di Tacito), un po’ alla tecnica cinematografica di Orson Welles (alcuni aneddoti narrati dai conoscenti di Boris Vian ricordano le interviste sul miliardario Charles Forster Kane di Quarto Potere) e in parte all’intervista giornalistica odierna (più quella da rotocalco che di stampo politico), Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-dés-Pres è in tutto e per tutto un radiodramma (Non saprei… forse un radiodramma, così lo etichetta lo stesso giornalista reporter che indaga sul passato del poeta francese). Non sembra di leggere un libro, ma la partitura scritta di un programma radiofonico e in particolare un approfondimento culturale notturno. Fra interviste spezzate, dettagliati atti cronachistici (del narratore onnisciente in terza persona) e la presenza di testi originali e tradotti della canzone francese si crea una miscela narrativa ibrida e travolgente.
Giangilberto Monti presenta in toto il suo artista: i romanzi flop e quelli più conosciuti (su tutti L’Écume des Jours,1947); i testi teatrali sarcastici meno noti e il capolavoro Les bâtisseurs d’empire; le traduzioni dei romanzi inglesi; le sue poesie musicali e quelle più liriche; i racconti e i saggi sulla musica moderna; infine più di metà libro dedicato alla canzone antimilitarista e anticonformista sviluppata dal jazz francese in fusione con lo swing e il primo rock ’n’ roll.
Non bastano queste poche righe per disegnare l’immagine di un artista eclettico, anarcoide, pazzoide e dinamico, che rappresentava la briosità creativa dei jazzisti degli anni Cinquanta (quelli il cui background culturale era di essere stati degli zazou durante la seconda guerra mondiale) con i loro ritmi swing, jazz, animati e strampalati. Il fascino narrativo di questo libro è soprattutto nella prima parte, quando Boris Vian diventa a Parigi l’icona di un musicista, letterato e poeta (apprezzato e lodato da Jacques Prevert) capace di vivere fra il suo matrimonio, le belle donne, la musica nei locali e le nottate a base di alcol fino all’alba. Il perfetto ritratto di un moderno simbolista o surrealista e se il paragone non è dileggiante un archetipo di quello che diventeranno Jim Morrison, Janis Joplin e Jimmy Hendrix due decenni dopo.
Sono i ricordi agrodolci delle battute piccanti dell’ex moglie Michelle Leglise o le risposte seccanti delle collaboratrici passate della casa musicale del produttore Jacques Canetti a creare un quadro stratificato e pulsante: le notti passate alla macchina da scrivere; i litigi con gli editori; le polemiche dissennate fra artisti e imprenditori musicali; le feste e le esibizioni canore. Non solo del protagonista, ma di tutti gli amici e i colleghi che hanno creato il mito degli chansonnier e della loro vita artisticamente spumeggiante.
Nel corso del romanzo o meglio docu-romanzo, talvolta, può capitare che il dilungarsi su esordi amatoriali o gestazioni narrative/teatrali di secondo piano avviluppi il lettore in una noiosa “storiografia”, perfino pedante, ma il tono serioso, documentaristico e imparziale del giornalista che vaga per le rue parigine spesso cela l’animo da appassionato di Giangilberto Monti. La tecnica narrativa (l’uso in particolare della terza persona) non nasconde l’attrazione artistica smisurata dello scrittore. Lo si percepisce nel recupero dei giudizi positivi riportati su Boris Vian e nella conclusione appena velata che riconosce ben più di un merito alla sua figura musicale e letteraria.
Il libro è ben suddiviso in sequenze tematiche definite, ovvero per ogni genere ci sono uno o più capitoli, accompagnati da parti di interviste, ricordi vissuti e documentazioni biografiche. È questa una struttura narrativa che fa da contraltare a un difficile controllo della materia. Infatti spesso le alternanze fra interviste, narrazione e attualità (l’iter di ricerca del giornalista protagonista) non sono ben chiare e distinte, così come può un po’ confondere il bombardamento di informazioni sulle numerosissime figure attive del periodo in cui visse Boris Vian.
Alla fine da questa combinazione di generi emerge una scrittura lucida, ma non razionale, dettagliata, quasi chirurgica a tratti, che dà parola alle emozioni attraverso gli intervistati.
Pur senza le tecniche di sovraimpressione cinematografica, Giangilberto Monti con la sua scrittura riattualizza un mito internazionale (dice bene quando in fase conclusiva si afferma che Boris Vian non è a oggi molto conosciuto in Italia), a darne un’immagine simpatica e sfaccettata e infine a evidenziare la grandezza culturale, musicale, artistica e umana di un genio assoluto della scrittura provocatoria, esorbitante, parodica, umoristica e dissacrante.
Come il jazz anche questo romanzo è in grado di restare in uno stato melodico piano, lento e cadenzato e a un tratto di modificare il ritmo con un tempo di scrittura frenetico e saltellante.
Non si può non confrontare la personalità di Boris Vian con quella del cantautore italiano e nel dinamismo culturale di cui è protagonista quest’ultimo nei nostri decenni forse si lascia intravedere il desiderio di assomigliare alla personalità creativa dello chansonnier parigino.
Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés è l’apice di una costante e lodevole indagine e documentazione da parte del cantautore italiano. Personalità come quelle di Vian stregano, affascinano e non possono passare sotto traccia nella storia della cultura novecentesca. Se le scuole con i loro programmi troppo standardizzati non sono in grado di farlo, è una gran fortuna che ci siano scrittori odierni che si dispensino in questa attività di recupero del passato meno recente.
P.S.: è consigliabile accompagnare la lettura di questo libro con un ascolto coinvolto dei testi musicali proposti e adattati da Giangilberto Monti, perché solo in questo modo si coglie la parola geniale, intellettualmente ironica e musicalmente jazz di Boris Vian.
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