Claudio qui dento c’ha passato un bel po’ di tempo. Ha accompagnato la crescita di Senzaudio in un momento delicato. Poi, giustamente, ha preso altre strade. Adesso lo potete vedere ovunque, scrive ovunque. Sulla carta stampata e online. Opinioni e articoli per lo più. Perché per quel che riguarda la narrativa invece gli ultimi suoi sforzi sono finiti su carta.
Viene da chiedersi come faccia a scrivere così tanto e l’unica risposta che mi sono dato è: non dormire. Secondo me Claudio non dorme. Sennò non si spiega.
Leggo le opere di Marinaccio già da qualche anno. Ho iniziato con Scomparire nel 2014 per arrivare al più recente Come un pugno del 2016 fino all’ultimo “La folle storia del kamikaze che non voleva morire” pubblicato da Miraggi nell’ultimo mese. Mentre le altre due prove erano romanzi quest’ultima è una raccolta di racconti.
Una delle cose che ricordo di aver detto parlando di “Come un pugno” era che sembrava che il romanzo straripasse di linee narrative. Sembrava che compresso in uno spazio esiguo ci fosse molto materiale da sviluppare. Storie che avrebbero tranquillamente potuto generare altre storie. Leggendo i racconti mi sono reso conto che la super densità del libro precedente qui trova una sistemazione diciamo più ordinata. Lo strumento del racconto permette a Claudio di affrontare e sistematizzare tutte le sue onde di ispirazione. Eppure, nonostante questo succede che i racconti abbiano due o tre momenti in cui il lettore si trova ad un bivio e non sa dove lo porterà il narratore. La carica è rimasta la stessa. Ed infatti, a leggere la raccolta ci rendiamo conto che Claudio ha osato avventurarsi in più di un panorama. Parlando del passato e parlando del futuro, parlando di Kamikaze e piedi che rotolano, parlando di modi ridicoli di morire, ma anche di modi ridicoli di vivere.
A farla da padrone è quello che io reputo un umorismo nero ben calibrato. Un umorismo nero spolverato di una certa dose di cinismo che per la maggior parte del tempo ci fa stare con un ghigno stampato in bocca. Perché a volte, essere un po’ cattivi è catartico.
Veniamo alla conclusione. Seguendo Claudio dal 2014 posso notare i suoi miglioramenti ed essere felice per lui. Il racconto che da il titolo al libro è davvero piacevole e quello che fa da apripista parte in un modo e poi ti spiazza tirando fuori vecchie maledizioni. Non so dirvi se il suo terreno di caccia debba essere quello dei racconti o quello dei romanzi, non perché uno debba per forza di cose escludere l’altro, semplicemente non so decidere se renda meglio nell’uno e nell’altro campo. Viene voglia di seguire la lunga narrazione portata avanti in un romanzo, con i repentini cambi di rotta e quegli improvvisi WTF, ma viene anche voglia della lettura fulminante.
Alla fine credo che spetta a lui decidere, ma se tanto mi da tanto, avremo ancora sia dell’uno che dell’altro.
Un ultima parola sulle illustrazioni di Luca Garonzi. Sono davvero molto belle e sono, già loro, una narrazione nella narrazione.
P.S un paio di racconti li avevo già letti per motivi diversi e mi ha fatto davvero piacere vederli rivivere.
NováVlna è il nome dato alla Nouvelle vague cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. Un nome appropriato per questa nuova bella collana di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito e Laura Angeloni, che vuole far conoscere in Italia le opere di autori cechi inediti nel nostro Paese e altri ingiustamente dimenticati dall’onda quasi mai anomala dello sconfortante mainstream editoriale.
La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di Bianca Bellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard diJan Nĕmec (traduzione di Alessandro De Vito).
Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.
Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.
Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.
Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registi cinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” Stati Uniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.
Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Formane Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.
Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.
NováVlna è il nome dato alla Nouvelle vague cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. Un nome appropriato per questa nuova bella collana di Miraggi edizioni, curata da Alessandro De Vito e Laura Angeloni, che vuole far conoscere in Italia le opere di autori cechi inediti nel nostro Paese e altri ingiustamente dimenticati dall’onda quasi mai anomala dello sconfortante mainstream editoriale.
La collana ha iniziato con il piede giusto, sono stati pubblicati due testi straordinari: Il lago di BiancaBellova (traduzione di Laura Angeloni) e Volevo uccidere J.-L. Godard di Jan Nĕmec(traduzione di Alessandro De Vito).
Il lago è, dal mio punto di vista, un autentico capolavoro. Ritmo perfetto, nodi narrativi dosati nei punti giusti, un climax che stravolge completamente la percezione che si fa chiunque sfogli il romanzo, una collocazione geografica inedita e struggente, liquida e grigia come il lago che fa da cornice e coprotagonista alle vicende di Nami, il bambino che diventa uomo e deve continuamente inventarsi la vita e trovare una propria strada.
Come i Balcani immaginari di Zagreb di Arturo Robertazzi o Sniper di Pavel Hak, come l’Ungheria stregata di Ágota Kristóf, Bianca Bellova scrive una storia che affonda gli artigli nella dura realtà di un Paese dell’ex sfera sovietica. Il lago d’Aral, che non viene mai menzionato, tanto che il lettore si chiede continuamente se la vicenda si stia svolgendo in Uzbekistan o in Kazakistan – ma forse il lago non è nemmeno quello e di esso si riprende la tragedia del prosciugamento per colpa di politiche dissennate – è il luogo dove cresce Nami, nella casa dei nonni.
Si tratta di un piccolo villaggio che sopravvive grazie alla pesca. Ma poi i pesci muoiono e i pescatori soccombono allo Spirito del Lago. Rimasto solo, il ragazzino, parte per la capitale dove farà i lavori più disparati, mentre l’acqua del bacino – che ai tempi della sua infanzia ondeggiava tra il turchese e lo smeraldo – è ormai fango putrefatto e opalescente. Rami trasporta zolfo, stende catrame, diventa maggiordomo di un nuovo arricchito modaiolo post-comunista, si fa coccolare da una vecchia nobile decadente. Sempre alla ricerca di una madre perduta, sempre più in profondità nelle bestialità umane e negli orrori che il progresso è in grado di infliggere. L’eco dello Spirito del Lago rimane il richiamo costante, la colonna sonora di questo stupefacente romanzo con un finale altrettanto stupefacente.
Volevo uccidere J.-L. Godard ha tutt’altro ritmo e struttura narrativa. Jan Nĕmec, uno dei più importanti registicinematografici cechi del Novecento, definito l’enfant terrible della NováVlna, tesse un romanzo a episodi. Racconti scritti tra i primi anni Settanta e gli anni Novanta. Il filo si dipana cronologicamente a partire dalla Praga staliniana dell’elettroshock per i deviati sociali, passa per il jazz d’Oltrecortina, analizza in modo originale e dissacrante gli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato e suonato il requiem alla Primavera di Praga, fino a giungere alla fuga nei “liberi” StatiUniti dove il narratore si troverà a vivere di stenti.
Autoironico, feroce, sarcastico, rabbioso e geniale, Jan Nĕmec riesce a parlare di un’intera epoca – e dei personaggi incredibili che l’hanno popolata – prendendo spunto dalle sue vicende personali. Critico e violentemente derisorio nei confronti del ’68 occidentale (esemplare il racconto Cannes 1968. La verità su quello che accadde, quando il regista e i colleghi cechi Milos Forman e Jiří Menzel erano in lizza per la Palma d’Oro e il festival venne interrotto da Godard e dagli altri intellettuali barricaderi) e dei suoi miti, prepotentemente coinvolto in diatribe sessuali e alcoliche, tenero e sprezzante nei confronti degli amici, l’autore scrive un libro fatto di tanti potenziali soggetti cinematografici. Un vero piacere leggerli.
Due testi riusciti, due coraggiosi manifesti di buona letteratura. Auguro un grande successo a NováVlna e ai suoi curatori. E non vedo l’ora che vengano pubblicati altri titoli.
“Invece delle proiezioni ci fu un’assemblea. Potete immaginare un’idiozia più grande al festival di Cannes? Quegli idioti, allora, erano il potere.”
Prima o poi andrebbe raccontata per bene, la vivacissima vita del regista ceco Ian Němec, regista e autore dei trentuno deflagranti racconti che compongono “Volevo uccidere Jean-Luc Godard”, raccolta pubblicata da Miraggi edizioni e molto apprezzata nei giorni del Salone del Libro. Talento rovente classe 1936, enfant terrible e “saltimbanco dell’est”, vispo libertino, glorioso maleducato e intellettuale fuori rotaia, fu capace, in quel cruciale festival del maggio 1968, di corrompere Monica Vitti e Louis Malle per portare a casa, con i connazionali Miloš Forman e a Jiří Menzel in concorso insieme a lui, trofei concordati a tavolino col direttore Robert Favre Le Bret. Il quale garantì l’esercizio spietato di tutta l’influenza possibile per realizzare un piano perfetto in tre fasi: mettere strategicamente in competizione l’uno contro l’altro, far guadagnare la Palma d’oro a uno dei tre e insignire di riconoscimenti non meno autorevoli gli altri due (il che avrebbe voluto dire strada spianata per ulteriori riconoscimenti nei festival d’autore internazionali). Giubilo generale: Láďa K., direttore della Filmexport e capo della delegazione ceca, già delirava di business a destra e a manca, già s’affaccendava a vendere i diritti di distribuzione mondiali, già familiarizzava a colpi di brindisi coi tedeschi dell’ovest giunti a Cannes in yacht per comprare film porno. “Bevete e fate casino!” sbraitava alzando calici e spronando le tre future star. “Porteremo a casa la Palma, il Politburo sarà contento e la gloria della cinematografia socialista sarà grandissima! Spendete e spandete, costruite i vostri contratti nelle camere d’albergo, ho un conto illimitato per le spese”. Gran talento nell’interpretare le cose alla lettera e nel cacciarsi in guai abnormi, Ian Němec obbedì, e nel racconto “Cannes 1968 e la verità su quel che accadde” – roba così scorretta non la si leggeva da un po’ – scrive: “Nella hall del nostro albergo stava seduta, troneggiando, una bella puttanella, una scura cioccolatina. Dagli scambi di sguardi avevo visto che non solo aveva un bel viso, labbra e occhi, un bel corpo e seni abbondanti, ma anche un animo meravigliosamente capace di comprendere un artista”. E fu così che prese il volo il denaro raccolto dai tre registi per finanziare la produzione di un filmino socialista sul racconto del trionfale festival. La benevolenza della ragazza fu ottenuta nonostante la cifra corrisposta non fosse completa, dietro garanzia che, all’alba del giorno successivo, il gentiluomo si sarebbe dato alla questua per versare la parte mancante dell’emolumento. Promessa mantenuta: ebbro di fedeltà alla parola data, Ian fece ingresso al Carlton e si rivolse alla prostituta. “Darling, ecco quel che ancora ti dovevo per stanotte!”. Senonché, vuoi lo champagne, vuoi i bagordi, la fanciulla non risultò essere la meretrice, bensì una principessa, moglie di un alto funzionario della delegazione ufficiale di un Paese del terzo mondo. La fucilazione sul posto fu evitata per un soffio e lo scandalo sfolgorò in prima pagina sul Nice Matin.
Dal giorno dopo, le acque si agitarono. Němec racconta: “Nei canali di scolo più oscuri si cominciava sentire: basta con l’arte borghese! Basta col festival!”. Ma i nostri tre eroi vagheggiavano ancora il trionfo. E quando, in uno sprazzo di lucidità, si accorsero che la bandiera nazionale era stata dimenticata a casa, pensarono di disarcionarla dal colonnato del palazzo del festival: Forman si arrampicò sull’asta, la spezzò col suo peso e precipitò a terra, mentre il pennone si abbatté di traverso sulla Promenade. Ma fu l’ultimo atto. Dal giorno dopo, fine dei sogni di gloria: Godard, menando colpi in testa con l’asta del microfono a chiunque reclamasse le proiezioni, sabotò il festival, mentre altri invasati laceravano schermi a coltellate. Forman ritirò il suo film e si allineò.
La storia finì con spaventose quantità di libagioni, già acquistate per i festeggiamenti, da smaltire in un colpo. E con un brusco risveglio: la cacciata dall’hotel, una hall gremita di detestabili contestatori, e la rabbia – che durerà una vita – verso i propugnatori di una rivoluzione da cui, semmai, si voleva fuggire. Quindi la fuga verso l’Italia senza pagare il conto. “Pregustandoci”, sogghigna Němec quasi fosse Dovlatov, “la quiete di una terra senza rivoluzionari”.
Un sopralluogo nella casa abbandonata dei nonni, occasione per fare i conti con il passato rimosso di famiglia. L’immagine della gatta randagia fatta sopprimere, ancora visibile nel cortile condominiale su Google Maps, che diventa il modo per lasciar scaturire il dolore accumulato. I racconti sono fatti della stessa materia di cui sono fatti gli attimi. È il modo in cui li si guarda dopo, che rende i fatti degni di essere narrati. Quello di Simone Ghelli è la pietas: per un animale sofferente, un parente strano, una versione passata di sé di cui ci si vergogna e che scrivendo si prova a perdonare. In una delle storie più belle del libro, il protagonista gira un documentario nel rudere della casa toscana del poeta inglese Peter Russell, che non verrà mai trasmesso. Metafora, forse, della scarsa accoglienza che hanno in Italia le raccolte di racconti di scrittori italiani, mentre chissà perché a quelle di autori stranieri nessuno dubita di attribuire la dignità di un romanzo.
Claudio Marinaccio ha all’attivo diversi libri, tutti decisamente originali e brillanti, ma non di fantascienza. È quindi la prima volta che tocca questo genere, con alcuni racconti compresi nel suo nuovo libro, La folle storia del kamikaze che non voleva morire. Quando non scrive libri si occupa di libri (e altri argomenti), per Huffpost, Wired, La Stampa e altre testate.
Il libro
Undici racconti. Undici storie che raccontano il mondo d’oggi attraverso avventure terribili seppur piene di ironia. Claudio Marinaccio racconta una realtà dalla quale è difficile uscire indenni. Una donna che soffre del delirio di negazione, la fusione tra i due più grossi colossi del mondo multimediale, il tentativo di sintetizzare chimicamente l’amore, zombi, alieni, soldati, padri pronti a tutto e kamikaze che non vogliono morire. Uomini comuni che tentano disperatamente di sopravvivere, nonostante tutto. Marinaccio si dimostra una delle voci più interessanti della narrativa italiana contemporanea con una scrittura tagliente e diretta, ma soprattutto con il suo modo di raccontare quello che viviamo e che spesso facciamo finta di non vedere.
In poche parole è già deciso che tu morirai, devi solo decidere la modalità. A quel punto, immobile davanti al nulla della mia esistenza, decisi di accettare la falsa offerta, cercai di auto convincermi di essere una sorta di eletto. Un prescelto mandato dal cielo per risolvere i mali che affliggono il pianeta Terra. Il mio sacrificio avrebbe condotto il genere umano alla salvezza. In fondo è così che Gesù è diventato famoso, sacrificandosi per gli altri. Il dottor Reich mi iniettò qualcosa con una grossa siringa dall’ago lucente. Mi avvolse il buio, quello vero. Percorrevo il cammino nel bosco a ritroso. C’era un sole pallido che non scaldava nulla, però era in grado di farmi sudare. Sotto la camicia avevo circa tre chili di esplosivo cuciti sulla pelle ed in tasca tenevo il telecomando per porre fine alla mia vita terrena e per condannare quella ultraterrena. Speravo di non cadere per evitare botti inutili. Mi facevano male sia le cuciture che legavano l’esplosivo alla pelle sia le ossa per le botte ricevute. La mia lingua giocava con il labbro rotto e mi resi conto che un dente dondolava pronto a cadere. Anche se dubito che nessun topolino mi avrebbe lasciato una moneta, al massimo mi avrebbe divorato una volta morto. Con l’aiuto di una mappa disegnata a matita su un foglio, cercavo di trovare la strada che mi avrebbe portato alla città dove sarei morto massacrando dei pazzi innocenti. Come una medicina che uccide il cancro. Come un veleno che uccide i piccioni. D’un tratto vidi la mia ombra più definita, barcollava e ritornava come prima, pensavo fosse ubriaca. Una luce intensa arrivava da dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi un grosso incendio provenire dall’accampamento che avevo da poco abbandonato, non potevo tornare indietro. La mia non era pienamente codardia ma indossavo materiale esplosivo che non andava molto d’accordo con il fuoco. Incominciai a scappare come se fossi inseguito da un animale feroce. Ancora una volta correvo per cercare di sopravvivere.
La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Claudio Marinaccio, Miraggi. Claudio Marinaccio ha una gran bella prosa, che si manifesta in tutta la sua spiccata policromia quale che sia il testo cui decide di dedicare tempo, passione e attenzione, che si tratti di un articolo, di un saggio, di un racconto, un romanzo o un post su Facebook: intelligente, vivace, colorata, brillante, sapida, arguta, lieve ma mai superficiale, seria ma niente affatto seriosa, convincente, originale, ironica, sarcastica, irriverente senza la benché minima traccia di spocchia egoriferita che è invece di norma caratteristica peculiare di chi si sente Moravia ma ha problemi anche col plurale di valigia. In questa sua nuova opera, che convince, commuove, emoziona e fa riflettere sin dalla dedica, Marinaccio, in Delirio di negazione, FooG, Una giornata da dimenticare, Una barba lunga un mese, Il tragico inizio di una storia non banale, Pelle, Amore farmacologico, Un viaggio mentale in una terra desolata, La folle storia del kamikaze che non voleva morire, Così diversamente uguali e La ballata del ladro di anime, un capolavoro di bravura che fa pensare che un giorno Haruf, Fante e Chandler si siano stretti la mano e abbiano deciso di collaborare, un vero romanzo a sé, ritrae con crescente – il filo rosso che unisce le parole disegna nel cielo del testo un vero e proprio climax ascendente – autorevolezza, sardonica gioia e al tempo stesso una solennità potente e aulica benché mai pedante e/o pesante, ed esaltata dalle splendide illustrazioni di Luca Garonzi, che, altamente narrative a loro volta, punteggiano e intervallano la narrazione, tutte le declinazioni dell’alterità rispetto all’anonima quotidianità della prepotenza del vivere. Imperdibile.
Unico libro del regista ceco Jan Němec (1936-2016), originariamente pubblicato in patria nel 2011, Volevo uccidere J.-L. Godard è stato tradotto per la prima volta all’estero proprio qui da noi: merito di Alessandro De Vito, sanguemisto italo-ceco, studioso di cinema, e della sua Miraggi. Il libro è il battistrada di una nuova collana consacrata alla letteratura ceca: si chiama NováVlna, come la Nouvelle Vague cecoslovacca degli anni Sessanta, e si propone di rappresentare il carattere di “nouvelle vague permanente” della letteratura ceca, spesso venata di grottesco e surreale, comunque profondamente esistenziale. Němec ci restituisce, in questi trentuno sketch e racconti, scritti tra 1970 e 1990, un mosaico della sua vita: a dar retta al traduttore, questo libro è la vita di un uomo “individualista, donnaiolo, combattivo, orgoglioso, visionario, in piedi nella buona e nella cattiva sorte” e al contempo è la fotografia di un’epoca: “Est e Ovest, sovietici e americani, retroscena del cinema, attori, registi, donne, scrittori e spie”. È la restituzione dei rovesci della sorte di un giovane artista, protagonista della cinematografia cecoslovacca, enfant prodige di fama internazionale, finito a vivere esule in estremo Occidente, costretto a tirare a campare tra improbabili lezioni a Yale, una buona serie di filmini ai matrimoni, parecchia nostalgia e una necessaria dose di creatività. Secondo De Vito, la lingua di Němec è “poco letteraria e colloquiale, nervosa e farcita di modi di dire e battute. Non ci si stanca di ascoltarlo, che sia il divertimento delle situazioni paradossali da ‘bon vivant’ individualista, autore di folli e pericolose goliardate per prendere per il naso i comunisti grigi e ottusi, oppure la rabbia e la pena dell’esule che si deve arrangiare mentre trova solo muri di gomma anche nei produttori americani”. Non credo si possa consigliare questo libro soltanto ai cinefili o ai cinematografari, in genere, pur dovendo ammettere che è loro che si rivolge, in primis, questa pubblicazione, per via del fascino di questo vecchio irregolare della “settima arte”. Němec, da scrittore, ha una personalità tracimante, un fertile nervosismo e una piacevole debolezza nei riguardi delle donne e della libertà, in genere; politicamente è quanto di più vicino a un anarchico si possa immaginare, perché davvero l’artista ceco appare riottoso a qualunque autorità e a qualunque potere, davvero sembra istantaneamente irriverente, in certi contesti, e caustico e facile allo sberleffo (o al teppismo, o alla bravata). Come parecchi artisti puri, non sapeva stare al mondo. O forse proprio non voleva.
“Lembi di memoria personale”? No, non è solo questo. “L’uomo tagliato a pezzi”, il libro di ricordi di Antonio De Vito, è piuttosto il realistico quadro di un tempo, di un’Italia che fu e che difficilmente chi non sia nato intorno alla metà del secolo scorso fa persino fatica a credere che sia esistita. Oggi, che durante una delle campagne elettorali più assurde alle quale io abbia mai assistito, in cui rispunta fuori inopinatamente il concetto di “razza”, rileggere le pagine di questo prezioso “documento” ci fa improvvisamente ricordare cose delle quali avevamo addirittura perso la memoria.
Il giovane Antonio De Vito è un “cafone” di Torremaggiore, provincia di Foggia, che approda a Torino negli anni della FIAT di Valletta, in cui non si “affittavano case ai meridionali”, in cui veniva costituito all’interno della maggiore fabbrica d’Italia un “sindacato” bianco, un sindacato padronale che aveva il compito di stroncare ogni tentativo di rivendicazione sociale. Testimonianze di un’epoca ormai lontana, scrive De Vito nel presentare la vicenda, il “processone” che dà il nome al suo libro. Il processo per l’“uomo tagliato a pezzi” prende le mosse da una storia delle prime immigrazioni meridionali nell’“altra” Italia, quel Nord che ancora oggi sembra volere, per certi versi, tornare indietro nella storia. “La provincia torinese, Chivasso, la città delle noccioline, e il clan di immigrati siciliani, la famiglia Montalbano, niente a che fare con il commissario Montalbano di Camilleri, divenuto famoso ai giorni nostri, mezzo secolo dopo Immigrati agrigentini, dalle belle terre di Caltabellotta, Sciacca, Ribera, il profondo Sud siciliano, esodo forzoso dalla miseria, braccia in cerca di sicurezza e lavoro, tutti sanno di cosa si è trattato in quegli anni Sessanta, che di mitico per milioni di uomini donne non avevano proprio nulla. Al massimo anni di speranza. Tanta fatica, tanta sofferenza, tanta incomprensione attorno a questi figli del sud costretti ad immigrare”.
Fa un certo effetto leggere quanto scrive De Vito proprio nei giorni in cui si ricorda la tragedia del Belice (e oggi finalmente sappiamo come si pronuncia: Belìce) e si scopre, o forse si riscopre, che uno dei provvedimenti del governo di allora, un governo Moro, politico democristiano tra i più illuminati, non trovò meglio che offrire ai siciliani senza più casa né speranza decine di migliaia di biglietti ferroviari di sola andata per il nord e visti per l’espatrio. Questa era l’Italia d’allora, davanti ad una tragedia che aveva fatto più di trecento vittime e distrutto per sempre interi paesi, intere comunità.
Ricorda forse qualcosa di più attuale? Il terremoto dell’altro ieri che ha colpito tre regioni del centro Italia non lo possiamo certo risolvere come allora, anche perché in Italia ci sarebbero cinquecento poveri disgraziati che, come dice un autorevole leader, sono costretti rubare (?) per sopravvivere e hanno un grave torto, un peccato originale, essere scappati dalla fame e dalla miseria, non dalla Sicilia, non dall’Italia meridionale, ma dall’Africa, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh, dall’altro sud che non vogliamo neppure vedere. Che tornino nei loro Paesi, che – come ha detto un autorevolissimo Capo di Stato – sono “shit-hole”, buchi di cesso.
E’ bello quanto ricorda a noi smemorati o ignari Antonio De Vito, quando nella premessa rammenta come sia cambiato il mondo da quando, cronista dell’Unità prima della Stampa poi, seguiva i processi che si svolgevano in Corte d’Assise, a Torino. “Sono cambiati, scrive, i cittadini, i giornali, le istituzioni, i codici, i processi…E non c’erano allora, le tv, folle di cineoperatori a riprendere un pubblico interessato alla vicenda “noir”, nessun Vespa rifaceva il processo in modo mediatico, spettacolarizzando con plastici e gli esperti in studio, psicologi e periti sempre pronti a mettersi in mostra”. E, aggiungerei, ahimè, anche colleghi. E’ vero, Antonio, era tutto più alla buona. E’ vero, Antonio, il mondo è cambiato. E anch’io, quasi quasi, voglio scendere.
Far finta di essere ciò che non si è: ecco il grande male di molti scrittori. Insomma, l’eccesso di serietà. In troppi si arrogano il ruolo di maître à penser. Ma se non si è seri per indole innata, meglio evitare almeno di risultare ridicoli. L’umiltà rende liberi dalla schiavitù di inscenare una parte che non compete. Del resto, non tutti devono per forza scrivere testi che condensino la profondità di un La Nausea, L’età della ragione e Le mani sporche, in un unico volume – anche perché, sai che due palle!
Essere abissali non rientra tra le prescrizioni mediche. Lanciare messaggi eterni che riecheggino lungo i secoli non è il solo motivo che possa animare nello scrivere. A volte, il narratore vuole semplicemente divertire senza secondi fini o alti intenti di critica sociale. E anche riuscire in questo proposito non è in fondo meno difficile, né meno nobile. Tutto sommato, quanto disse Rino Gaetano a chi gli chiedeva di rispondere all’accusa di essere un cantautore capace solo di far ridere, non è per niente sciocco: «Faccio ridere? Meglio che fa’ piagne».
Uno dei pochi a non prendersi troppo sul serio è, per esempio, Andrea Serra, giovane scrittore sardo naturalizzato torinese. La sua ultima fatica – anche se, presumibilmente, più che di uno sforzo si dev’essere trattato di uno spasso –, Frigorifero Mon Amour, Miraggi Editore, 2018, costituisce un paradigma del disimpegno intelligente. Se i vari Volo, Moccia, e D’Avenia fanno di tutto, pur non potendoselo permettere, per risultare seri come Philip Roth e commerciali come la carta igienica, Serra evita tali pose come la peste. A lui si attaglierebbe magnificamente il bel verso di uno dei massimi poeti italiani del ’900, Giovanni Raboni: “Solo questo domando, esserti leggero”. E leggero è leggero, giocoso, divertente – per usare un francesismo – fino a pisciarsi dalle risate. Non aspettatevi la verità rivelata, piuttosto un paio d’ore di risate.
Il romanzo è la storia dolcemente grottesca di una famigliola comune (marito, moglie e due figlie), con una vita normalissima. Le situazioni e i luoghi della quotidianità, però, si caricano di tutta una serie di aspetti surreali. Il dentista diventa, quindi, una specie di serial killer mancato che si accanisce sui denti del protagonista con trapani, cemento e bombe a mano.
Il meccanico di fiducia è un napoletano imbroglione che danneggia volutamente il mezzo e poi estorce cifre esorbitanti per le riparazioni. Le colleghe di lavoro sono psicopatiche, ossessionate dalla dieta, che evitano di mangiare per riuscire a dimagrire e, dopo alcuni giorni di digiuno, sono capaci di ingurgitare anche i computer dell’ufficio.
La moglie, smaniosa di fare bella figura per le feste ancora ben lontane dal venire, si sveglia nel cuore della notte e, con una sega elettrica, taglia una quercia secolare per piantarla nel mezzo del salotto di casa a mo’ di albero di Natale. Le due bimbe, inconsapevolmente pestifere e diaboliche, chiamano il padre ogni notte, urlando, tra le due e le quattro, ponendogli gli interrogativi più assurdi. L’uomo di casa, sempre più vicino alla crisi di nervi, si arrabatta tra le mille pretese di moglie e figlie.
Tra una peripezia e l’altra, come se non bastasse, è costretto a sottoscrivere la ventesima finanziaria per comprare l’ennesima lavatrice che, “come da contratto”, si autodistruggerà proprio il giorno dopo il termine della garanzia. In tutto ciò, il personaggio, figlio come altri Fantozzi, della grande attitudine italica all’esasperazione in chiave comica della nostra insana normalità, intrattiene un quotidiano scambio amicale con il suo frigorifero.
Ma quella di Frigorifero Mon Amour è una storia che non si può sintetizzare. Perderebbe inevitabilmente. La sua forza sta tutta nella penna di chi la racconta. Nella capacità di seminare due o tre climax di ilarità all’interno di ogni paragrafo. Perché della comicità non si possono mai tirare le somme, come per una tematica qualunque. Il riso è il risultato indotto da un processo che segue un suo percorso impossibile, o quanto meno inutile, da ricostruire. È un dono che si possiede o meno. Serra lo possiede e ha il buon gusto di non farlo mai pesare.
Cinque libri, cinque assaggi, dieci minuti di qualcosa di… personale. Chiara Trevisan, la lettrice vis-à-vis che in piazza Carignano affascina e seduce gli amanti dei libri, sarà protagonista al Salone del Libro, ospite del nostro stand (padiglione 2, J30-K29). Venerdì, sabato e domenica – dalle 15 alle 18 – Chiara saprà trovare la pagina giusta per ciascun visitatore, stuzzicando l’appetito letterario con la proposta di alcune pagine tratte da cinque libri Miraggi: “Poema bianco” di Pasquale Panella, “Nozioni di base” di Petr Kral, “Respira” di Roberto Saporito, “E anche più lontano” di Laura Salvai e “Il suono di Torino” di Domenico Mungo. Vi aspettiamo!
Il libro si dipana in un moto circolare di andata e ritorno, un viaggio fisico, spirituale e sentimentale attraverso una terra arida che ha indurito le persone.
L’ombra dell’esercito russo assediante è onnipresente, mentre la vita dei piccoli villagi e della capitale si sviluppa nella precarietà e nell’assenza di prospettive.
Gli incontri casuali che costellano l’avventura di Nami (il protagonista) fanno pensare ad un novello Barry Lindon che si deve destreggiare tra soldati violenti, uomini grezzi ed ignoranti o personaggi avidi e biechi.ma non mancano anche donne generose e materne, sempre pronte ad aiutare il ragazzo nonostante i divieti degli uomini.
La figura della donna ne esce così potente e determinata, mentre l’uomo sembra sempre perso ed offuscato in balia degli eventi ed elementi.Il lento , ma inesorabile prosciugamento del lago Aral (che è l’altro protagonista assoluto del romanzo) fa infatti da cornice ad un’umanità sconfitta e derelitta.
Nami rappresenta la speranza, ama e vuole amare con tutto se stesso, non permettendo al destino di rinchiuderlo in un silenzio di sabbia.
“Nami caro, mi hai restituito la felicità.Ora mi sento di nuovo viva!Pensavo…quando quei barbari mi hanno distrutto tutto avevo la sensazione che ognio cosa fosse coperta da una sostanza viscida.Che non avrei più potuto toccare tutto questo.Che qui non sarei più riuscita a vivere.Invece è possibile.Un pezzetto per volta ci si rimette in piedi, vero?”
Libro bellissimo, scrittura precisa ed efficace, traduzione ottima!!!
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