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“Poema bianco”: la recensione di Anna Vallerugo su scriveresenzaparole.com

“Poema bianco”: la recensione di Anna Vallerugo su scriveresenzaparole.com

Villasanta mi provoca, chiedendomi di scrivere di scrittori che scrivono “da donna”.
Questa è domanda che potrebbe suscitare levate di scudi, indignazione, Dario.

Forse non sono la persona giusta a cui chiedere due parole su “uomini che scrivono –  bene – sotto spoglie femminili” perché io per prima ho grosse resistenze nel credere in un’ipotesi di letteratura strettamente di genere. Si rischierebbe di scivolare con facilità nel cliché obsoleto – e francamente odioso – di una supposta e non provata maggiore com-prensione del sentimento di pertinenza femminile, naturale quasi, fisiologica: se posso, una scemenza di proporzioni colossali: pensa, per dire, alla meraviglia di acutezza e linguaggio dei Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, di penetrazione impareggiabile.

Sarebbe voler confinare l’alfabeto dei sentimenti, l’abilità di decodificarli e riconsegnarli al lettore in purezza e interezza solo se in stretta, sola adesione al proprio genere, negandone l’universalità.

Siamo tutti madame Bovary, ammetteva e ricordava Flaubert, sancendo in maniera ufficiale ciò che di autobiografico e di iperidentitario si insinua comunque nella stesura di un romanzo, anche solo in potenza. Come non individuare una comunione, lettrici o lettori, coi dubbi, tormenti, ombre di frustrazione che agitano la sua protagonista, soffrire per le sue aspettative disattese, riconoscere infine le sequele di scarti di moti dell’animo impercettibili eppure registrati e riportati con misura somma. Pagine che hanno una grazia miracolosa della parola, di perfezione massima e inarrivabile, e a cui solo l’autore stesso può permettersi di trovare una – a noi invisibile – limitatezza, difficoltà di resa: la parola umana è come una caldaia incrinata su cui battiamo musica per far ballare gli orsi, quando vorremmo commuovere le stelle”, scrive.

Di uomini che scrivono (bene, sempre questo è il punto) “da donne”, poi mi vengono in mente tra gli altri due libri italiani che ho letto proprio di recente, un romanzo e una silloge poetica.

Il romanzo è La ragazza che andò all’inferno di Stefano Bon, pubblicato da Castelvecchi. Nella storia di una moglie e madre che perde improvvisamente il marito e che si “mette seduta, in attesa del dolore” c’è una visione femminile di fato avverso e precipizio di particolare intensità e forza introspettiva. L’autore ravennate sceglie con efficacia di spostare il nucleo di tutte le vicende sulla sua protagonista, ed è attraverso il filtro della sua visione di donna che cogliamo tutta la portata dello sgomento di fronte all’ingovernabilità di alcune fasi della vita.

L’altro, infine, è un libro straordinario, Poema bianco di Pasquale Panella uscito ora per Miraggi.

Qui la visione al femminile è palese e dichiarata: Panella (scrittore magnifico, tra i tanti talenti paroliere di Lucio Battisti nel periodo post-Mogol) si appropria di un’identità che non è la sua già in prima pagina La voce del poeta è femminile, afferma, per consegnarci assenze, e amore, e amore in assenza, versi di delicatezza e intimità accennata, mai violata.

Si fa donna “mistica, barocca, visionaria”, Panella, per concedersi di dire tutto e fa donne anche le parole:

se al maschile
abbiamo al mondo un fine
è la fine che abbiamo al femminile. 

La superficie è quella del ribaltamento, del gioco verbale: ma divertissement, sola superficie (vedrà chi vuole accostarsi a questa lettura che raccomando anche per la ricchezza delle pagine – in prosa, stavolta – che chiudono il libro) non è.

Anna Vallerugo 

 

“Frigorifero mon amour”: la recensione-intervista di Federica Tronconi su ultimariga.it

“Frigorifero mon amour”: la recensione-intervista di Federica Tronconi su ultimariga.it

Frigorifero Mon Amour (Miraggi Edizioni) è  libro umoristico che affronta il tema dello spreco alimentare. Il protagonista del libro, Felice, è un marito e un papà che, vessato dalla moglie e dalle temibili figlie, deve fare i conti con la fuga del proprio frigorifero, esasperato dallo spreco di cibo cui assiste quotidianamente. Da quel momento Felice (ma sempre meno) proverà in tutti i modi a ricongiungersi con l’amato elettrodomestico. Alla fine di un turbine di eventi travolgenti: la morte improvvisa della caldaia, le sedute devastanti dal dentista, i weekend deliranti con le figlie e le colleghe fissate con le diete e lo shopping, sarà costretto ad affrontare una rocambolesca quanto grottesca discesa agli Inferi per ritrovare il suo amato frigorifero e il senso della propria esistenza. Il libro è anche sostenuto dal Banco Alimentare, che combatte lo spreco ridistribuendo ogni giorno alimenti a migliaia di famiglie in difficoltà sul territorio nazionale.

Lo scrittore Andrea Serra (Torino 1975), è seguito su Facebook da migliaia di persone per i suoi racconti umoristici. Nel 2016 con il racconto Il mio dentista ha vinto la XV edizione del Concorso Racconti nella rete e l’ha pubblicato in un’antologia edita da Nottetempo. Nello stesso anno ha vinto la II edizione del Concorso 88.88, premio nazionale per racconti brevi. E nel 2017 ha vinto il Premio speciale della giuria della XVI edizione di InediTO-Colline di Torino sezione Narrativa-Racconto. Pubblica quotidianamente pezzi ammuffiti dei suoi racconti e su Facebook e Instagram.  Frogorifero Mon Amour è il suo primo libro.

Serra utilizza con grande arguzia ed intelligenza l’ironia per parlare nel libro di temi importanti, come lo spreco alimentare. Un romanzo godibile e di attualità. La vita quotidiana della famiglia di Felice è talmente simpatica e accattivante da sentirne la mancanza a fine romanzo. Speriamo di ricontrarla presto in un nuovo progetto con tante altre avventure (o disavventure). Abbiamo raggiunto l’autore per parlare dei temi centrali del libro.

Come è nata l’idea di raccontare uno spaccato di vita quotidiana?
Questo libro nasce dalla mia abitudine alla scrittura e soprattutto alla lettura, che mi accompagna da quand’ero piccolo. Ho sempre letto tantissimo e tenuto un diario su cui appuntavo poesie, riflessioni e racconti. Qualche anno fa ho iniziato a raccontare le vicende della mia famiglia e del mio frigorifero con un tipo di scrittura nuovo, nato un po’ per caso in una sera di stanchezza. Mi sono scoperto a ridere da solo mentre scrivevo. Ho fatto  poi leggere qualcosa a mio fratello e ad alcuni amici che mi hanno consigliato di metterlo sui social. E così ho fatto e tante persone hanno iniziato a leggermi e seguirmi. Nel frattempo stavo lavorando ad un romanzo di altra natura, dai toni più intimisti, che immaginavo come “il mio primo libro”. Nei ritagli di tempo, quando volevo rilassarmi e divertirmi, continuavo quello sul mio frigorifero. E il risultato è che quello a cui pensavo come un passatempo è diventato il mio vero primo libro: come si dice, la vita è quella cosa che accade mentre sei intento a fare progetti.

Raccontare la famiglia e la routine è sempre un rischio invece tu con grande intelligenza se riuscito a rendere il tutto molto interessante: quali sono gli ingredienti fondamentali?
Non so, è venuto fuori tutto da solo: forse il segreto è stato quello di guardare con occhi nuovi quello che accade normalmente in una famiglia e scoprire che magari il frigorifero non è solo un elettrodomestico ma ha dei pensieri e dei sentimenti propri. Penso che in tutto questo abbiano influito le mie letture e il percorso di analisi che mi ha portato a riconsiderare complessivamente la mia esistenza. Devo ammettere che scrivere questo libro ha coinciso con un cambiamento anche nella mia vita famigliare. Ho iniziato a guardare con occhi nuovi e con stupore anche i fatti più banali. Perché in fondo ogni momento dell’esistenza è meraviglioso: da tua figlia che ti fa una domanda in piena notte o al tuo postino che ti recapita una cartella di Equitalia. Sono momenti unici e irripetibili che vale la pena di ricordare.

Il tema portante del tuo romanzo è contro gli sprechi alimentari: puoi spiegarci bene?
Dopo l’ennesimo pacco di carote ammuffite, un giorno parlai con mia moglie e decisi che avremmo cercato di sprecare meno (anche perché nel frattempo il mio frigorifero si era arrabbiato parecchio ed era scappato, come racconto nel libro) e mi informai: venni a conoscenza di tutta l’attività del Banco Alimentare e lessi con apprensione che nel mondo un terzo della produzione alimentare finisce nella spazzatura mentre 800 milioni di persone sul nostro pianeta vivono in stato di denutrizione: un fatto inaccettabile. E’ come se quando andiamo a fare la spesa riempissimo tre carrelli della spesa e ne buttassimo uno nella spazzatura. Per fortuna stiamo maturando una maggior sensibilità, e dal 2016 ad oggi nel mondo e in Italia lo spreco è diminuito concretamente. Ma si può fare ancora tanto. La cosa che mi fa piacere è che molte persone leggendo il libro  hanno iniziato a fare più attenzione, proprio come è successo in casa nostra. Credo che questo sia molto bello da tanti punti di vista. Anche perché alla fine l’attenzione è un atteggiamento e un valore fondamentale. E’ l’unica via che conduce allo stupore e ti regala occhi nuovi con cui guardare il mondo.

Quanto c’è nel romanzo della tua vita?
Il libro parte da vicende  realmente accadute, anche se poi profondamente rielaborate: come ad esempio per quanto riguarda il protagonista principale che ho chiamato Felice perché rappresenta l’uomo tipico della nostra società: indaffarato, sempre di corsa e in ansia, succube della società consumistica e dell’ultimo modello di Iphone, e fondamentalmente “infelice”, o per dirla secondo il linguaggio del libro, “ammuffito”. Sono partito dalla mia vita ma ho dato al libro una direzione ben precisa, come per fotografare una tendenza della nostra società, come si capisce bene dal finale. La mia vita, per fortuna, non è ancora così ammuffita o perlomeno, ogni giorno cerco di fare qualcosa per non farla ammuffire. E questo credo che sia già tantissimo. Sì, il mio frigorifero mi sta confermando che questo è già tantissimo.

Federica Tronconi

 

“Nozioni di base”: la recensione su Porto Franco (gianfrancofranchi.com)

“Nozioni di base”: la recensione su Porto Franco (gianfrancofranchi.com)

Sostiene il vecchio Milan Kundera che questa raccolta di scritti brevi del poeta ceko Petr Král sia una “bella e strana ‘enciclopedia esistenziale della vita quotidiana’”: e che consista, a ben guardare, in una “lezione di modestia impartita al nostro individualismo”. Secondo Yves Hersant, siamo di fronte a una raccolta che restituisce “l’antica potenza delle forme brevi”: “dinamitardo delicato, Petr Král apre brecce nel quotidiano […] da grande educatore dello sguardo”.

Dal punto di vista editoriale, “Nozioni di base” [ed. originale “Základní pojmy”, Praga, 2002] vede la luce nel Belpaese nella traduzione dal ceco di Laura Angeloni, per la torinese Miraggi Edizioni, terza uscita della collana “Tamizdat”. Vale la pena spiegare che “Tamizdat” era il termine che indicava le opere occidentali (provenienti da “tam”, cioè da “là”) fatte circolare, in ovvia clandestinità, oltre Trieste, Gorizia e Berlino, negli anni sconfortanti della Guerra Fredda. E Petr Král, cittadino praghese classe 1941, è decisamente uno che a un tratto era diventato, da un certo punto di vista, “proveniente da là”: esule per questioni politiche, come il fiore dell’intelligenza ceca, orgogliosamente antisovietica, se ne è infatti rimasto a Parigi tra 1968 e 2006, trasformandosi, da studioso di cinema che era in origine, in poeta e scrittore surrealista. Král ha pubblicato sia in ceco che in francese, finendo per ripetere il destino di circa 2 generazioni di artisti cechi di fama internazionale, come l’adelphiano Milan Kundera [n. a Brno, 1929] e come Patrik Ourednik [n. a Praga, 1957], demiurgo dell’imprescindibile e coraggioso “Europeana”. Dal 2007, PK è rientrato nell’amata e perduta Praga. Sin qua, in Italia era stato tradotto soltanto un suo libro, “Tutto sul crepuscolo” [Mimesis, 2014] oltre a qualche poesia qua e là, dal ceco e dal francese.

“Nozioni di base” è un quaderno di 123 capitoli brevi, che comincia – emblematicamente – dal caffè. Un caffè che ci unisce ai vivi, magari “un po’ di sbieco”, “osservando incuranti la strada e il suo sfuocato viavai”, per restituire con chiarezza la propria presenza. Král parla di camicie, di caraffe, di posaceneri, di schiuma da barba: di librerie e di treni, di risate e di lanci di chiavi, di pioggia, di bar, di nudità, di cosa significhino le parole “poco” e “quasi”. È un quaderno di meditazione e di concentrazione sulle cosiddette piccole cose quotidiane: sull’esperienza dell’alba, sulle fantasie, sui momenti di vuoto e di stanchezza, sulle passeggiatine per i mercati. Ogni tanto, la poesia si fa riconoscere, con una certa immediatezza: ad esempio nello schizzo dedicato al “Cappello”, quando Král scrive che cosa succede quando ce lo leviamo, per salutare: allora “uno stralunato infinito sorride di sfuggita”. L’eternità è un pensiero che non abbandona l’artista nemmeno quando sente qualcuno ridere: “La risata è un grande ‘lancio di chiavi’, ci apre all’infinito su tutti i lati e con ancora più forza poiché ciò che all’improvviso rivela è semplicemente l’impossibilità del mondo: non stiamo ridendo di uno scherzo, ma della realtà stessa, della sua segreta farsa”.

Il poeta benedice la pioggia, qualsiasi pioggia, “perché scompiglia il giorno già avviato e nasconde il mondo a se stesso”; e questo libro, in un certo senso, è della consistenza di quella pioggia, perché gioca a sparigliare e riordinare, a mettere a fuoco e a minimizzare, è un’anima che sguscia, si promette allo sguardo di Dio e poi si rintana in casa, magari a mettere in ordine i libri o a riempirsi il muso di schiuma da barba, “come un clown, prima di entrare in scena”. Forse perché mentre ci si dedica alla cura di sé, “concentrato su ogni suo minimo aneddoto, l’anima, come un’ape libera, sorvola il mondo intero, e osserva i suoi nascondigli sconosciuti” [“Radersi”]. Già: bastava poco e non saremmo mai esistiti: “poco, quasi: espressioni discrete, ma cruciali, capaci all’improvviso di riassumere ed esprimere tutto”.

Gianfranco Franchi, marzo 2018

 

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Andrea Siviero su treracconti.it

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Andrea Siviero su treracconti.it

Se penso a una caratteristica che descriva cosa ci rende umani, la prima cosa che mi viene in mente è l’empatia. Trovo una grande umanità nella capacità di porsi nello stato d’animo o nelle condizioni di un altro essere che non siamo noi. Sia che si tratti di gioia, che di dolore. Tuttavia ci sono due nodi. Per prima cosa l’empatia non è un sentimento proprio solo dell’essere umano: anche gli animali sono in grado di provare empatia. Secondo: il mio modo di pensare all’empatia tiene conto soprattutto delle qualità positive. Se penso all’empatia, penso ad esempio a una persona in difficoltà e al farsi carico di almeno un pezzetto di quello che sente; oppure penso al partecipare con gioia alla gioia altrui.

Ma, a pensarci bene, mi accorgo che non basta solo l’empatia per descrivere che cosa ci rende umani. Allora mi viene da aggiungere che siamo umani nell’essere di continuo in contraddizione con noi stessi; sono umane le menzogne che ci raccontiamo e quelle che raccontiamo agli altri; è umana la vergogna che proviamo quando un certo cinismo, o un certo sentimento che cerchiamo di nascondere anche a noi stessi, viene messo a nudo. E poi ci metto anche l’inquietudine. Soprattutto quella che proviamo quando cerchiamo di capire quale sia la ricetta giusta per la nostra vita (se esiste davvero una ricetta) e quali siano le giuste strategie per evitare passi falsi (se esistono davvero delle strategie). Infine lo smarrimento che proviamo quando capiamo che la strada che abbiamo intrapreso porta a un vicolo cieco, e la ripercorriamo all’indietro per cercare vanamente di capire il punto dove abbiamo mancato il bivio giusto. Ecco, i racconti di Non risponde mai nessuno di Simone Ghelli (Miraggi edizioni) si muovono in questi territori.

La citazione di Gilles Deleuze in esergo ci avvisa: «La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere?». E riprende questo filo anche Wu Ming 2 nella prefazione: «I racconti di questa raccolta esplorano un sentimento simile, e a più riprese lo confrontano con altri, che portano lo stesso nome ma sono al fondo molto distanti»[1]. La vergogna è ad esempio quella provata da «un ragazzo imbottito di idee romantiche sulla follia, che nel rapporto quotidiano con i matti scopre di non essere “più buono degli altri”»[2] (I tafani della Merse), oppure quella che accompagna la rassegnazione di Cesare, protagonista del racconto Non risponde mai nessuno «che vergognandosi di un padre ormai demente, subisce l’immobilismo degli assistenti sociali, fatto di “tempi tecnici” e “sorrisi d’ordinanza”»,[3] come dice ancora Wu Ming 2.

Ma i racconti di Simone Ghelli non esplorano solo il sentimento della vergogna. Qualche volta è il ricordo di un passato a fare da filo conduttore. Il passato che riemerge da una fotografia ritrovata (sempre I tafani della Merse). Altre volte sono case diroccate (Natura in versi) o disabitate da tempo (Il borro), a cui spesso si arriva seguendo percorsi che attraversano come piccole selve oscure, a mettere in contatto i personaggi con emozioni, ricordi e con antichi rimorsi.

«Per quanto Livio cercasse di completarli con la memoria, non erano che oggetti abbandonati. Pensò che il tempo fosse proprio come il borro e che dentro vi precipitassero i ricordi.

Si chiese che cosa avesse amato mai di quelle pietre, di quelle montagne. Da bambino la casa era stata per lui un luogo meraviglioso e al tempo stesso terribile, abitato da bizzarre creature come le scolopendre e gli scorpioni, che col buio uscivano dai loro nascondigli per minare le sicurezze degli umani. L’immagine di quella notte in cui suo padre ne aveva scoperto uno vicino alla sua testa, a pochi centimetri dal cuscino, non si era mai spenta. Come una spia pronta a segnalare il pericolo, gli era rimasto quella specie di sesto senso che con gli anni lo aveva reso un codardo. Gli era rimasta la paura, anche quando era ormai un adolescente, di tutto quel dolore che avrebbero trovato al loro arrivo; delle condizioni in cui vivevano i nonni e il loro ultimogenito: lo zio Pietro».[4]

Infine ci sono l’inquietudine e lo smarrimento di cui scrivevo poco fa. Quello che si prova quando ci si trova di fronte una situazione che pare senza risposte né immediate vie d’uscita. Questo è un tema che emerge dai pensieri di Milena di Che bel sole, Milù!, un spaccato vivo, attuale, della vita di una coppia alla prese con le difficoltà di un’esistenza caratterizzata dalla precarietà e da aspettative che tardano a concretizzarsi: «Quel tempo la spaventava, le ricordava troppo da vicino lo scenario dei propri incubi. La rendeva incapace di pensieri razionali e incline al fatalismo. Di fronte a quel cielo funesto la sua vita gli sembrò davvero una piccola cosa indifesa, rimboccata in un vaso sempre in procinto di cadere. In fondo, non avevano costruito ancora niente. Avevano una casetta, non era poco; ma tutto il resto? Chi si sarebbe ricordato di loro, di due giovani vite sprecate nei lavori anonimi, tra le file dei supermercati?»[5]

Ecco, nei racconti di Non risponde mai nessuno di Simone Ghelli c’è tutto questo. Ma vorrei aggiungere ancora una cosa, per chiudere. Ho apprezzato la scrittura leggera ed esatta, che non si perde mai in orpelli estetici. La prosa di Simone Ghelli è in grado di affrontare tematiche complesse senza mai perdere contatto con uno stile semplice e una pulizia formale che rende certi racconti dei meccanismi perfetti, in cui tutto è essenziale e messo nel posto giusto.

Andrea Siviero

[1] Simone Ghelli, “Prefazione a cura di Wu Ming 2”, in Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017 (Pag.7)

[2] Simone Ghelli, “Prefazione a cura di Wu Ming 2”, in Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017 (Pag.8)

[3] Simone Ghelli, “Prefazione a cura di Wu Ming 2”, in Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017 (Pag.8)

[4] Simone Ghelli, “Il borro”, in Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017 (Pag. 25)

[5] Simone Ghelli, “Che bel sole, Milù!”, in Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017 (Pag. 78)

 

Vertigine della parola: la recensione di “Poema bianco”. Isabella Cesarini su lintellettualedissidente.it

Vertigine della parola: la recensione di “Poema bianco”. Isabella Cesarini su lintellettualedissidente.it

Pubblicata per la prima volta, e in poche preziosissime copie, nel 2007 per le edizioni IRI, è uscita a dicembre 2017 per i tipi di Miraggi edizioni l’opera Poema bianco di Pasquale Panella. Invero non si tratta di una riedizione, come afferma l’autore stesso, ma di una prima edizione che vede l’estensione nei capitoli “E due”, “E tre” e termina – solo sulla pagina – con “Rumori”, quest’ultimo in prosa. Il Bianco si intrattiene nelle comuni venature. Pasquale Panella è dentro l’impossibilità di un suono che lo definisca. È voce nel verso, silenzio nel soliloquio e poema in quel bianco che cadenza la parola. Giunge prima della poesia stessa, nel tono (suo) dell’intimità: la lirica precede la pagina. Il giro è fuori dall’umano, lontano dall’elemento di genere per compiersi in un’altra dimensione: invalidarsi per pervenire alla liberazione e far cantare il rumore. L’assenza è intima corporeità di una intesa tra due forme: il doppio trascorre nell’uno assoluto e definitivo.

Il Poema non si legge, si ascolta. Nell’Ode si ode la vibrazione di lei in lui e il tono di lui il lei, insieme nella voce femminile.

Tu credi che tu, che io, credi
Che siamo noi i protagonisti
(ma di che, delle parole?)
Qui la protagonista è una,
è la mia voce a me
(insomma, un singolare femminile)

 

Il timbro nel tatto, il suono nello sfioramento. Scrivere negando la poesia per accordare corporeità, ossia corpo, al verso. La sagoma di una scultura friabile, posta sul frangente di un corpo armonioso: il lemma. L’altro è il sé, ovvero un luogo. Un altrove dove accadono le cose, i sentimenti nel prima degli oggetti e nel dopo dei corpi. Il midollo nella parola sollevata dalla forma per far fiatare solo il sangue. Rosso di cuore e rosa di carne: bianco nello stato metatemporale del compiersi. Quel che è scritto è scritto, non accaduto, ma nel futuro del possibile. Nell’aura l’afflato di una rivoluzione scandita da due offensive; l’incursione a spoetizzare la parola e l’invettiva nel poema d’amore: la guerra è amore tra i sessi. Il non esserci figura l’edificio marmoreo dell’esserci: fondamenta di vocali e consonanti a scompaginare la lirica. L’amore è ossessione fuori dal ricordo e nella memoria agita solo la costruzione della reminiscenza. L’altrove è l’oltretempo di una voce che tuona su se stessa.

È il Poema del sentire nell’assenza, di lambire nell’addio. Il congedo è testimone sensoriale del sentimento che accade. Accarezzare la possibilità, comune alla brama dell’umanità, di morire insieme nell’amore.

La nostra non che fosse incerta,
anzi, ma sarebbe molto stupido
se ci si innamorasse per vivere
la vita
Morire insieme è il primo
Progetto sovversivo di chi
Si innamora da vivo

L’universale senso del patire si impone alla pagina per venirne consumato e infine espulso. Tutto si perde nell’atto del dire, rigorosamente come il libro lasciato al lettore. Il soliloquio non accade per alcuno: è una storia immortale, e come tale, priva di trame. Vive per sempre nell’istante dello sguardo, nell’infinito di un’indagine all’interno dell’animo. La descrizione non abita, ma risiede nell’istantanea immortalata dalla parola.

L’amplesso di un vocabolo che si compie una sola volta: il momento eterno di Poema bianco. L’amore è nell’immobilità, all’interno di un comando che si strugge nel non fare: l’unico sentiero per raggiungersi. Spazio bianco a scrivere il senso della mancanza. La distanza è un cecchino caricato a passione: il solo collante ammesso. Tutto accade come non dovrebbe poiché si è dentro l’accadere. La dissolvenza è nera. Il Poema si ascolta nell’incrociata bianca. Un montaggio di negazioni autentiche sino alla purezza e feroci sino al bianco.

Scrivere, al meglio,
è finire di far testo
E il meglio di ogni testo
È immaginarlo:
sostituire la memoria
con una impalcatura ariosa in aria,
che avverrà, che avverrebbe,
ossia con l’antistoria

Il giocoliere scommette con le sfere in volata, mediante sapienza, disciplina e ilarità. Il funambolo gioca alla vita con la corda. La poesia è in ogni luogo, latita – non qui – il poeta che è giocoliere, funambolo e infine grondaia. Sì, la grondaia che raccoglie le parole piovute del cielo, le versa nell’inchiostro e in questo fluiscono per gemicare luce. Il silenzio custodisce una voce. Il direttore d’orchestra è Pasquale Panella. Il bacio della parola a farsi bacchetta di direzione dentro la fibra di vetro. Il soliloquio è voce silente che mormora dentro le creature. L’amore è riconoscibile poiché non gode di favori espressivi per palesarsi. L’amore è sentito nella parola “fine” poiché il sentimento è opera e nell’opera vive e trova la chiusura. Da tracce sparse di un ascolto. La chiusura in un imperativo: ascoltare Poema bianco.

Isabella Cesarini

 

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Gianluigi Bodi su senzaudio.it

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Gianluigi Bodi su senzaudio.it

Ho alzato gli occhi ed ero già a pagina cinquanta. Mi sembrava di aver appena iniziato, il treno era già in stazione ed ero l’unico idiota ancora seduto al suo posto. Questo per chiarire subito se il libro mi è piaciuto o no.
Il libro di João Paulo Cuenca dal titolo “Ho scoperto di essere morto” parla di un tale João Paulo Cuenca che all’improvviso riceve una telefonata dalle forze dell’ordine. Gli comunicano che a seguito di una denuncia appena depositata per questioni futili risulta che lui è morto già da qualche anno. João Paulo è uno scrittore. All’epoca di questa morte presunta lui era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni” edito da Cavallo di Ferro. Il commissario non gli sa spiegare come mai qualcuno abbia usato il suo nome per morire. Le cose non sono affatto chiare e a questo punto, a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare questo mistero. Anche perché dietro a tutto c’è la testimonianza di una donna e come ha detto il commissario, per quel che riguarda questa storia, citando il proprio scrittore preferito: non c’è nulla che una donna non riesca a peggiorare.
La ricerca lo porterà a vagare per Rio de Janeiro in un momento in cui le case vengono abbattute per far posto al nuovo, per mettera la pezza del mondiale di calcio e delle Olimpiadi ad un tessuto malandato.
Il libro è un continuo entrare ed uscire dal testo. Entrare ed uscire dalla finzione. Dobbiamo presupporre che l’episodio della presunta morte non sia mai avvenuto? Oppure è successo davvero? I verbali riportati all’interno del libro farebbero pendere per la seconda ipotesi. Cuenca in Italia, per quel libro, c’è stato davvero. Avrà anche dato all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, immagino, anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo gentrificatore, troppo votato alla politica, una lettera di uno che si vuole suicidare. E poi, il finale, perfettamente in linea con l’idea che Cuenca abbia dei manoscritti non conclusi nel cassetto. Prendiamo a piene mani dal regno dell’autofiction e del pamplet, navighiamo tra le righe di un romanzo mai banale, un caleidoscopio che restitisce molto bene l’immagine dell’autore. Una scrittura che fila via liscia e lascia sulle labbra appena un accenno di sorriso. Un sorriso dato dall’ironia che permea ogni pagina, ma soprattutto dai dialoghi fulminei, da commedia degli equivoci.

Quella di João Paulo Cuenca è di sicuro una bella scoperta. Un buon modo per iniziare le letture dell’anno. Chissà che non ritorni a fare un salto in Italia e che magari, tra qualche anno, la cosa non finisca in uno dei suoi prossimi lavori. Ne avrebbe di cose da scrivere sul nostro paese.

Ottima la traduzione di Eloisa del Giudice e molto bello vedere il suo nome in copertina.

Gianluigi Bodi

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Gianluigi Bodi su senzaudio.it

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Anna Vallerugo su gliamantideilibri.it

[…] una telefonata mi svegliò alle undici di mattina. Era l’ultimo sabato di aprile del 2011.
– Pronto.
– Chi parla?
– Con chi vuole parlare?
– Lei è il signor João Paulo?
– Sì.
– João Paulo Vieira Machado de Cue… – ha un attimo di esitazione.
– Cuenca.
– Esatto. Figlio di Maria Teresa Vieira Machado e Juan José Cuenca?
– Chi parla?
– Chiamo dal 5° Distretto di Polizia. Sono l’ispettore Go­mes, abbiamo tirato fuori la sua scheda dopo la denuncia per i disordini al ristorante.
– E?
– E c’è che qui abbiamo un altro verbale, con data 14 luglio 2008, a suo nome.
– Che verbale?
– Lei sa di cosa si tratta? Sì.
– Non ne ho la minima idea.
– Il verbale che ho qui notifica il suo decesso.
– Come?
– La sua dipartita. Qui c’è scritto che lei è morto.
– Io non sono morto.
[…]– Sarebbe bene che lei venisse in commissariato a chiarire questa faccenda.

A un uomo viene comunicata la notizia della propria scomparsa. Di più: questa sua dipartita è cosa ormai datata e possiede tutta la veridicità dell’atto certificato.

Il fatto, anomalo in sé, richiede una spiegazione che sia plausibile e convincente: anche perché chi scompare, oltre a essere il protagonista del romanzo, porta anche il nome del suo autore: José Paolo Cuenca.

Prende l’abbrivio così, da un evento surreale, uno dei più interessanti libri in circolazione degli ultimi tempi, Ho scoperto di essere morto. Già tradotto in otto lingue, portato in Italia da una delle tante scelte felici della lungimirante Miraggi edizioni, questa del giovane romanziere brasiliano è opera di difficile incasellamento: la finta morte, espediente letterario non nuovo ma piegato da Cuenca in modo spiazzante, non porta di fatto all’esito più scontato, la scelta del thriller o del noir, nonostante l’ambientazione sia compresa nel magma di atmosfere dense di una Rio de Janeiro in fermento e preparazione alle Olimpiadi del 2016 – vorace, sensuale, vivissima di voci e corpi giovani in perenne movimento – che ben si presterebbe alle vicende poliziesche e ne occupa invece giusto le prime pagine.

Cuenca decide piuttosto di inserirvi gli elementi del magico sudamericano, mescolandoli poi con la cronaca sociale di un periodo storico ancora gravato da decenni di dittature militari, ma soprattutto con la spiazzante, impietosa, lucidissima e spietata dissezione del milieu frequentato da un Giovane – ma non imberbe, un giovane prossimo ai quaranta – Scrittore, dal destino (quello del personaggio e di chi ne scrive) segnato fin dalla nascita

Era l’ennesimo fine settimana di sole e gli adattatissimi cittadini di Rio de Janeiro camminava­no, correvano, andavano in bicicletta sul lastricato, giocavano a calcio e alle sue varianti su sabbia – altinho, futevôlei, bobinho, gol a gol. Gli uomini bevevano acqua di cocco nei chioschi sulla spiaggia di Ipanema, si allenavano sulle attrezzature di metallo, abbronzavano i loro corpi prosperi sul lungomare.

Le donne li ignoravano sfoggiando la loro forma smagliante compressa in vestiti due taglie più piccoli, passi rapidi e sguar­do rivolto verso il nulla.

Era su quel palcoscenico sfavillante che quattro decenni prima si erano conosciuti i miei genitori. Un uomo da poco arrivato da Buenos Aires – era venuto all’inizio degli anni Settanta alla ricerca di un’esistenza abbronzata e sabbatica – e una ragazza di famiglia nobile ma spiantata che lavorava in un’agenzia immobiliare. Frequentavano la stessa porzione di spiaggia. Due anni dopo la loro collisione sono nato io, e purtroppo il lato luminoso della giovane coppia si è perso nei meandri della genetica. Se mio padre era speranzoso e atleti­co e mia madre generosa e amorevole, di tutto questo non è rimasto nulla: da lui ho ereditato la propensione alle attività antieconomiche e la spacconeria. Da lei il genio irritabile e angosciato.

Un debutto in vita privilegiato, da cui eredita, ammette ironicamente, una “vocazione alla tristezza” quanto mai opportuna in chi voglia perseguire la via delle Belle Lettere.

La comunicazione della sua scomparsa gli impone di intraprendere un viaggio in cerca di chiarezza: è solo attraverso la sua” morte” che potrà (ri)costruire la propria identità come uomo e come scrittore. Inizia quindi un suo pellegrinaggio che lo porterà attraverso corridoi di archivi metallici” polverosi antri di enti assortiti di ripetuto squallore, “Tutti quegli archivi, che circondavano tavoli e sedie lasciando poche pareti a vista, contenevano racconti il cui ingrediente comune erano i dissapori tra gli esseri umani della mia città”. Potrebbe essere questa una fucina di altre storie, ma il protagonista non ha tempo, ha l’obbligo di concentrarsi su quella propria, di vicenda. Tanto più cha la ricerca del sé dipartito deve tener presente la vita che va avanti, con gli impegni fittizi del “prima”, ed è qui che lo scrittore brasiliano eccelle in rappresentazione e finezza di dettaglio: agendo come protagonista e guardandosi al contempo da fuori, nel distacco da sé, stila un fitto elenco delle compagnie artistiche o pseudo tali a lui vicine, disseziona un’intera fauna da débauche, trasgressori che non trasgrediscono un bel nulla. Dedica pagine divertenti e dissacranti allo spettacolo di sedicenti scrittori e artisti nullafacenti, copia rifranta di sé stessi nel tentativo abortito di differenziarsi dalla massa – da ogni massa – per una supposta superiorità intellettuale autocertificata. Fanno comunella, riconoscendosi a fiuto tra simili e al contempo vogliono disperatamente elevarsene con convinzione:

Non insistetti riguardo al testo. Avevo l’abitudine di pro­teggermi da questo tipo di incertezza grazie alla formula ma­gica: questi poveracci non capiscono un cazzo.

[…] Erano designer, produt­trici, stiliste e galleriste e avevano un irresistibile attaccamento alle apparenze, oltreché soprannomi monosillabici come Bi e Lu. Davano inizio ai loro incontri complimentandosi caloro­samente a vicenda per poi mettere subito silenziosamente a confronto i loro accompagnatori – gli uomini saltavano i com­menti limitandosi a controllare scollature e culi altrui in modo sempre meno discreto.

Numerose delle ormai sviluppate femmine che circolavano in questi giri della Zona Sud di Rio de Janeiro avrebbero vis­suto con i genitori finché un uomo non le avesse tirate via da casa. Il proposito seminascosto che qualcuno le emancipasse dava loro tratti caratteriali delle donne del secolo scorso, cosa che cercavano di nascondere sotto un femminismo da social e dosi cavalline di moda e sculettamenti sulle note di anonima deep house.

Chiudevano il cerchio tipi come un fotografo brizzolato, un francese abbronzato, un percussionista di samba panciuto, un poeta d’appartamento, un professore universitario con la forfora sulle spalle, il nipote simpatico di un senatore mafioso, un graffitaro concettuale, un saggista di provincia, un diret­torino col berretto, un dipendente della televisione, un edi­torialista di giornale – il solito circo di cretini periferici uniti dalla stessa autostima delirante e inversamente proporzionale ai loro successi.

Formavamo un’intellighenzia barbuta e vagamente artisti­ca. Eravamo tutti molto coinvolti nella cosa artistica, benché nessuno lì fosse in grado di riconoscere cos’era l’arte. Lo scar­so talento presente in quella sala sarebbe stato da lì a poco interamente corrotto dalla città – in migliaia sbarcavano ogni anno nella capitale balneare per finire con le speranze maci­nate e l’anima smerciata a un canale tv o a una casa di produ­zione audiovisiva di quest’ascendente e provinciale Hollywo­od che si credeva il centro di qualcosa.

In questa Rio di Stocazzo, borsa di capitale sociale dove tutti erano figli, figliocci o pupilli di qualcuno, il mio sbril­luccichio da scrittore pubblicato era visto con curiosità e una certa condiscendenza.

La voce narrante passa dunque tra l’ “erano” e il “formavamo”, tra l’essere compresi in una cerchia e l’uscirsene sdegnati alla bisogna, tra l’essere autore del romanzo e protagonista stesso in un gioco raffinato, allucinato, talora allucinante.

Conscio di una sottaciuta incapacità di emergere, lo scrittore si stordisce tuffandosi in serate dal finale prevedibile fin dall’inizio, con coppie belle e prospere a immergersi in un programmato, uguale fino alla noia turbinio di eccessi, non prima di essersi passati una mano di giustificativo decoro (Era giunta l’ora di essere engagé, scrive in apertura di capitolo).

Autore e protagonista viaggiano, si cercano, ricordano i tanti scrittori sudamericani scomparsi in giovane età “Álvar­es de Azevedo, 20 anni; Castro Alves, 24; Augusto dos Anjos, 30; Manuel Antônio de Almeida, 30; Antônio de Alcântara Machado, 33; João do Rio, 39; Lima Barreto, 41; Euclides da Cunha, 43. In questo contesto, quelli che erano arrivati a 56 anni come Clarice Lispector, Lúcio Cardoso e José Lins do Rego erano davvero vecchi”, augurando a sé stesso simile precoce fama: la verità è che quella del personaggio è di fatto una vita vuota, “un’esistenza olografica”, stretta tra pochissima stesura di pagine e grandi promesse, invece, di scrittura, con una propensione al presenzialismo e alle del tutto dimenticabili conferenze che gli procurano più denaro, fama e sesso facile della pubblicazione – sempre rimandata – di un suo libro.

Cuenca irride, porta sotto la lente riti, vezzi e parti buie di un proprio supposto fallimento, pone in essere il dubbio sul mezzo e utilità della scrittura, Attraverso la morte di sé come personaggio, si ricostruisce con ironia in una trama a caselle che si appaiano, si sommano e non sciolgono enigmi, li moltiplicano, anzi, ricordando a tratti il meraviglioso Rayuela, Il gioco del mondo di Cortázar.

La sua è una scrittura funambolica, ricca ma non ridondante, in cui lo sviluppo della trama – pur atteso e costruito con ragionevole tensione in questo romanzo-gioco metaletterario con accenni di Carrère – passa in secondo piano, sorpassato agevolmente dalla godibilità della sua scrittura, pagine tradotte con grande cura per l’edizione italiana da Eloisa Del Giudice.

Anna Vallerugo

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Andrea Siviero su treracconti.it

“Non risponde mai nessuno”: la recensione di Ippolita Luzzo su Trollipp

Fra vergogna e cattiveria-Non risponde mai nessuno.
La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere?
Gilles Deleuze

Bue bue bue fa il cane randagio,
e può darsi che abbai a un altro cane,
a un’ombra, a una farfalla, o alla luna,
non è però escluso che abbai a ragion veduta, quasi che attraverso i muri, le strade, la campagna, gli sia giunta la cattiveria umana.
Dino Buzzati

 

Nella fascinazione i bellissimi racconti di Simone Ghelli mi giungono in lettura e mi riportano ai felici tempi in cui la letteratura era sinonimo di raccontare bene, con attenzione e umanità, di ciò che tormenta e affligge il vivere fatto uomo. Una letteratura realistica, neorealistica, il periodo dovrebbe essere proprio il neorealismo, al cinema e nella narrativa, un periodo d’oro italiano che molti ancora ammirano e prendono d’esempio: Cassola e poi Verga, Pavese. Leggendo Simone mi sembra di essere in compagnia di autori amati nell’adolescenza e nello stesso tempo sento lo stile originale del nuovo scrittore che contamina e si arricchisce di suggestioni fino al fantastico di Dino Buzzati.

Un bel leggere già dalla prefazione tanto accattivante da farmi scegliere i due temi individuati da Wu Ming 2 come traccia da seguire nel legare i racconti. Fra vergogna e cattiveria, storie di difficoltà, famiglie composte da persone con handicap, oppure semplicemente più fragili, famiglie che per tutte la vita saranno segnate da una specie di vergogna, di dispiacere e nello stesso tempo oggetto della cattiveria altrui. Sono racconti di cui mi piace riproporvi qualche stralcio per gustare la pulizia del linguaggio

Qui Giovanni, il protagonista lavora con i matti, e ne sente tutta la tragica inanità “Tutte le sue ore di studio e le idee romantiche sulla follia, che gli erano sembrate così forti da poter reggere l’urto contro ogni realtà, si erano sbriciolate nel giro di pochi minuti il giorno in cui un infermiere gli aveva chiesto se avesse per caso già fatto il vaccino contro l’epatite. In un attimo Giovanni aveva ripensato a tutti i malati che aveva toccato – altro che ospiti: quelli erano malati e contro la paura il linguaggio non aveva potuto niente – e improvvisamente aveva accusato un giramento e si era dovuto sedere perché gli tremavano le gambe e davanti agli occhi erano comparsi tutti quei puntini, proprio come quelli che erano rimasti impressi nella fotografia.” da racconto I tafani della Merse

Seguiamo il racconto in cui il protagonista va con lo zio per filmare la casa di un poeta e raccogliere testimonianza di quel che era stato. Qui nella fase finale del racconto “Quella sera cenammo nella villa di proprietà della presidentessa dell’associazione, dove era stato allestito un banchetto pieno di cose buone. C’erano professori, assistenti, studiosi, poeti: ognuno con qualcosa d’interessante da dire. Tutto quel parlare su qualcuno che non c’era più è diventato l’assordante fuori campo sonoro del finale che lascia spazio alla vera poesia. Il silenzio sopraggiunge per rendere un po’ di giustizia e ristabilire un ordine su cui quest’uomo aveva lavorato nei suoi ultimi trent’anni. È il mondano che infine non può più niente davanti a un guscio vuoto abbandonato sulla riva dell’oceano, che aspira ad essere un’increspatura sulla corrente.” Da Natura in versi dove si immagina di andare nella casa del poeta Peter Russel, alla Turbina, nell’estate del 2005 e con le sue poesie raccontare quell’abbandono, abbandono che il poeta aveva sentito anche in vita. La casa è quieta,tutto è immobile… Nel leggere rimane il desiderio di andare a leggere tutto su questo poeta nel continuo movimento, nell’andare da una lettura ad un’altra.”Il 22 gennaio del 2003 a Pian di Sciò morì il poeta inglese Peter Russell, considerato dalla critica uno dei più grandi poeti inglesi del secolo scorso. Dal 1983 viveva nel paese valdarnese, Castelfranco Pian di Sciò, al quale nel momento della sua morte donò l’intero patrimonio librario, di lettere e documenti.” da ValdarnoPost.

Dai versi a Non risponde mai nessuno, il racconto di Cesare e Luciano, figlio e padre, nel momento in cui è il figlio a dover decidere per il padre, dai versi alla realtà. Con dialoghi plausibili, dialoghi che ci appartengono, Simone riesce a portare noi lettori nelle case, nelle situazioni, come se ci fossimo anche noi seduti a quelle sedie accanto a Luciano, alle bollette che non apre, ai contratti che fa e disfà, al declino di una lucidità che lo priva dell’autonomia. Nella solitudine del vivere la figura del sociale diventa solo un modulo da riempire, una fila d’attesa da rispettare.

Tutti i racconti sono utili, utili alla lettura e al dialogo interiore, dialogo che non dovrebbe cessare mai nel continuo interrogarsi sulle azione di cui ci si vergogna o di cui si è consapevoli della cattiveria insita eppure si compiono lo stesso.

Nelle prove che ciascuno affronterà ci sarà sempre quella vergogna e cattiveria insita nella miseria delle azioni umane.

Non risponde mai nessuno nell’olimpo della Litweb

Ippolita Luzzo

“Senti cosa ho scritto” di Lorenzo Bartolini: lo consiglia Andrea Bressa su panorama.it

“Senti cosa ho scritto” di Lorenzo Bartolini: lo consiglia Andrea Bressa su panorama.it

I consigli di lettura di Panorama.it per febbraio, a cura di Andrea Bressa: c’è anche Lorenzo Bartolini

In questa lista vogliamo segnalare anche un bel libro di poesie firmato dal romagnolo Lorenzo Bartolini. Il titolo, Senti cosa ho scritto, è anche una sorta di suggerimento: il miglior modo per godere di questi versi è andare a sentire dal vivo l’autore nelle sue numerose performance. Ma le parole di Bartolini sanno arrivare anche con una lettura silenziosa. Si può sperimentare una grande vicinanza ed empatia con l’autore, che ci parla di sé, guardandosi da dentro mentre raccoglie la realtà attorno. Il libro è organizzato con una disposizione decrescente delle poesie: dalle più lunghe fino agli haiku delle ultime pagine, un ritmo molto efficace che trasmette un senso di sempre più totale essenzialità.

https://www.panorama.it/cultura/libri/5-libri-da-leggere-febbraio-2018/

“Ho scoperto di essere morto”: la recensione di Gianluigi Bodi su senzaudio.it

“Ho scoperto di essere morto”, sesso, politica e rabbia nel libro di J.P. Cuenca: la recensione di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

Non potevo iniziare il mese con una lettura migliore: Ho scoperto di essere morto, del brasiliano J.P. Cuenca (traduzione di Eloisa Del Giudice; Miraggi Edizioni) è un testo splendido. Se dovessi riassumerlo scriverei: rabbia, allucinazioni, invettive politiche, bisogno triviale di sesso, abbrutimento intellettuale, topografia calviniana di Rio de Janeiro, echi di polizie segrete d’altri tempi, alcolizzati carioca col morbo di Kafka, radical chic abbronzati e ridicolizzati.

Questo tra le righe. La trama ufficiale narra di J.P. Cuenca, autore e omonimo dell’autore, che dopo una lite con i vicini viene a scoprire dalla polizia che esiste un verbale che notifica il suo decesso. Per risolvere questo mistero il protagonista si muove attraverso Rio de Janeiro, tra macerie di quella che la città fu, nuove costruzioni in vista delle Olimpiadi, salotti e feste di giornalisti, teatranti, attrici di soap opera, favelas guardiane di ogni orizzonte, arroccate sulle colline. Procedendo nella narrazione ci si accorge che il mistero diventa sempre più fitto, ci si perde di frequente, insieme all’io narrante, in quella che potrebbe essere definita l’angoscia di ogni scrittore: il mostro della pagina bianca.

Personaggio fittizio e reale, il J.P. Cuenca che accompagna il lettore attraverso i cantieri aperti della metropoli carioca, è un essere vivo, diretto e feroce. Anche verso la storia del proprio Paese: “’Questo posto è un cazzo di Poltergeist. Ogni volta che c’è un cantiere qui nel Centro, e ne avete aperti un sacco a causa delle Olimpiadi, si trovano spessissimo cadaveri e ossa spezzate, come nel Cimitero dei Nuovi Neri nella zona del porto. Schiavi. Ma voi nascondete tutto di nuovo. Come se nessuno avesse visto niente’. A dire il vero, nessuno stava a guardare”.

Memorabili le pagine dedicate ai party degli intellettuali, omaggio velato al Gatsby fitzgeraldiano, con starlette che scaldano sushi nella propria vagina prima di offrirli agli ospiti, pavidi redattori che distribuiscono anfetaminico Mdma, orge, ballerini di samba, letterati disperati. Un mondo artistico allo sfascio: “Il progresso dell’umanità deve poco ai romanzi (…) Hitler, fanatico tra le altre cose di Don Chisciotte e Robinson Crusoe, leggeva un libro a sera e aveva una biblioteca personale di decine di migliaia di volumi, superato tuttavia da quella di un altro lettore compulsivo, Josip Stalin (…) la letteratura muore un poco ogni volta che qualcuno alza la voce per difenderla su uno di quei palchi costruiti perché si creda ancora nella sua esistenza. Lasciarla morire mi sembrava un’ottima idea per salvarla da se stessa”.

Pamphlet urbano, autofiction, noir, confessione allucinata e allucinogena, Ho scoperto di essere morto, mi ha ricordato, per certi aspetti, le opere di un altro sudamericano allergico al realismo magico: Efraim Medina Reyes, penso soprattutto a C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo e Tecniche di masturbazione tra Batman e Robin.

E anche il libro, bellissimo, di un altro autore straordinario: Baku, ultimi giorni, di Olivier Rolin, dove il protagonista, dopo anni dalla sua folle e macabra sentenza, torna nella camera 1123 dell’hotel Absheron di Baku per scoprire se morirà come aveva previsto.

Lorenzo Mazzoni

La poesia e le ferite del quotidiano. “E dentro luccica” di Giulia Fuso: la recensione di Francesco Borrasso su sulromanzo.it

La poesia e le ferite del quotidiano. “E dentro luccica” di Giulia Fuso: la recensione di Francesco Borrasso su sulromanzo.it

«C’è nebbia fuori/la scambio per miopia/ma non è un difetto congenito/ho solo guardato troppo/e straccato le pupille/sono sana e senza scuse/Non stravolgo nulla/non ho fondi di bottiglia/ti giudico bene anche da qui/senza alcuna vicinanza/senza polpastrelli tattili/il muro è opaco e sono onesta/non imbroglio più, ho solo pietà/e le bugie bianche per te/le lascio ai bambini.»
(Martedì)

Quello che vive tra la pentola sul fuoco e lo spazzolino da denti, il tubetto di dentifricio lasciato a metà, spremuto male; l’interstizio, lo sporco sotto un vaso mai spolverato. Simmetrie e realtà tridimensionale, quello che ci circonda in fondo ci racconta, quello che possediamo assorbe la nostra storia e ogni oggetto diventa un pezzo di noi che racconta noi. E allora sarà facile riconoscere quello che siamo stati in una cornice senza foto, guardare una bottiglia vuota, un vaso di marmellata quasi finito, per far tornare una storia che ci parla di ricordi e di tutto quello che siamo stati mentre quella marmellata la mangiavamo a cucchiaiate.

Il gioco che fa la nostra mente è semplice anche se a noi, delle volte, appare straordinario; apri un cassetto, una matita spezzata giusto al centro della sua traiettoria, un po’ di polvere, un aereo di plastica che un giorno qualcuno ha fatto finta di far volare; e quindi se gli oggetti vivono della nostra vita, e se quello che ci circonda quotidianamente si impregna del nostro passato, è fondamentale riconoscere alle cose il potere di poterci raccontare, e altresì è importante, talvolta, togliere il potere a quella tazza rimasta nella credenza, che magari ti riporta ogni tanto l’immagine di lei, di lui, che da lì beveva il suo cappuccino e poi magari ti sorrideva con le labbra sporche di bianco.

Giulia Fuso è nata a Perugia nel 1988, questa sua raccolta di poesie porta il nome di E dentro luccica pubblicata da Miraggi edizioni, il disegno di copertina è a cura di Emanuele Copernico.

Le storie che ci raccontano queste pagine sono ore strappate al quotidiano, e ogni poesia porta in calce un titolo evocativo che ci fa subito capire dove la nostra poetessa vuole portarci, almeno per quelle righe. Giulia Fuso è dotata di uno stile poetico che rasenta la prosa, e più si va avanti nella lettura e più ci si convince che se la struttura dei versi fosse stata orizzontale e non verticale, avremmo potuto leggere della narrazione stilisticamente accattivante. C’è la magia e il male del quotidiano, di un pettine che passa tra i capelli e si impiglia, delle ore fermi a una stazione ad aspettare un treno (o forse noi stessi), ci sono le ore passate in una stanza o seduti a un tavolino di un bar, dove il mondo fuori accade ma quello che fa rumore è poi il mondo dentro.

«Mi dici che sono/ come i nodi dell’ulivo/io cerco similitudini/ e trovo malattia/ Metti cerotti waterproof/ sui miei buchi da guerra mondiale/ che, da lontano/ sembrano soluzioni/ ma sono appena/ tamponi misericordiosi/ Non li lascio, trappo/ zoppico docile/ e la carne fresca/ è la mia Caporetto.»
(G.)

Ci si arrampica, su queste poesie, e a volte, durante la salita, si cade, e ci si sbuccia le ginocchia, e saremmo costretti a cercare cerotti, acqua ossigenata: le parole di Giulia. Ogni frase sembra viva, sotto i nostri occhi; evocazioni di un attimo, di una giornata, forse di un’ora, in cui tutto è cambiato o forse, in cui tutto è rimasto maledettamente uguale mentre noi, invece, eravamo in cerca di mutazioni.

«Accadi sempre per riflesso/ io non ci penso e mi capiti/ tra i piatti della cena/ e le calamite del frigo/ in un coltello unto/ che spalma solo ansia/ Mi ricordi quando fuori/ inciampo nelle scarpe/ e non mi fermo, continuo/ adolescenziale e pigra/ con i lacci che si ciancicano/ e urlano, ma non ascolto/ Mi appanno e non rifletto/ sono uno specchio/poco esemplare.»
(Bloody Mary)

E Giulia Fuso ci prende la mano, e ci fa tornare bambini, ci costringe a riporre la nostra fiducia nelle sue vocali sporche di confettura, nelle sue consonanti rimaste incastrate nella raccolta differenziata, in frasi brevi che come pesci rossi girano in tondo dentro un’ampolla piena a metà di acqua.

E se ogni oggetto è capace di possedere una propria personale narrazione del nostro passato, è anche vero che delle volte, per liberarci di qualche fetta di ieri, siamo costretti a cestinarlo, quell’oggetto ingombrate.
«Ho comprato le matite/ per correggerti gli apostrofi/ sono dodici, appuntite/ le ho in tasca da quattro giorni/ si muovono e graffiano/ mi grattano le cosce/ e diventa tutto rosso/ il tuo errore, il mio appunto/ tanto che poi mi confondo/ e divido malamente/ non trovando più l’originale/ in questa pozza fonda.»
(Not found)

Una raccolta di poesie scritte con il corpo, dove ogni sensazione, che sia di pelle o di muscoli o di ossa, viene sviscerata e messa in bella mostra, davanti ai nostri occhi. E voi non lo sapete, forse non potete immaginare, la stanchezza antica di un corpo dopo la battaglia con le sue parole; non potete immaginare, non potete sentire la mano che trema ancora, la mente che corre, ancora, la schiena fatta a pezzi, e la bocca asciutta come un acquario dal vetro rotto, dove i pesci cadono in terra, come le parole che cadono sul foglio.

FRANCESCO BORRASSO

L’uomo tagliato a pezzi: la recensione di Neri Paoloni su ungp.it

L’uomo tagliato a pezzi: la recensione di Neri Paoloni su ungp.it

“Lembi di memoria personale”? No, non è solo questo. “L’uomo tagliato a pezzi”, il libro di ricordi di Antonio De Vito, è piuttosto il realistico quadro di un tempo, di un’Italia che fu e che difficilmente chi non sia nato intorno alla metà del secolo scorso fa persino fatica a credere che sia esistita. Oggi, che durante una delle campagne elettorali più assurde alle quale io abbia mai assistito, in cui rispunta fuori inopinatamente il concetto di “razza”, rileggere le pagine di questo prezioso “documento” ci fa improvvisamente ricordare cose delle quali avevamo addirittura perso la memoria.

Il giovane Antonio De Vito è un “cafone” di Torremaggiore, provincia di Foggia, che approda a Torino negli anni della FIAT di Valletta, in cui non si “affittavano case ai meridionali”, in cui veniva costituito all’interno della maggiore fabbrica d’Italia un “sindacato” bianco, un sindacato padronale che aveva il compito di stroncare ogni tentativo di rivendicazione sociale. Testimonianze di un’epoca ormai lontana, scrive De Vito nel presentare la vicenda, il “processone” che dà il nome al suo libro. Il processo per l’“uomo tagliato a pezzi” prende le mosse da una storia delle prime immigrazioni meridionali nell’“altra” Italia, quel Nord che ancora oggi sembra volere, per certi versi, tornare indietro nella storia. “La provincia torinese, Chivasso, la città delle noccioline, e il clan di immigrati siciliani, la famiglia Montalbano, niente a che fare con il commissario Montalbano di Camilleri, divenuto famoso ai giorni nostri, mezzo secolo dopo Immigrati agrigentini, dalle belle terre di Caltabellotta, Sciacca, Ribera, il profondo Sud siciliano, esodo forzoso dalla miseria, braccia in cerca di sicurezza e lavoro, tutti sanno di cosa si è trattato in quegli anni Sessanta, che di mitico per milioni di uomini donne non avevano proprio nulla. Al massimo anni di speranza. Tanta fatica, tanta sofferenza, tanta incomprensione attorno a questi figli del sud costretti ad immigrare”.

Fa un certo effetto leggere quanto scrive De Vito proprio nei giorni in cui si ricorda la tragedia del Belice (e oggi finalmente sappiamo come si pronuncia: Belìce) e si scopre, o forse si riscopre, che uno dei provvedimenti del governo di allora, un governo Moro, politico democristiano tra i più illuminati, non trovò meglio che offrire ai siciliani senza più casa né speranza decine di migliaia di biglietti ferroviari di sola andata per il nord e visti per l’espatrio. Questa era l’Italia d’allora, davanti ad una tragedia che aveva fatto più di trecento vittime e distrutto per sempre interi paesi, intere comunità.

Ricorda forse qualcosa di più attuale? Il terremoto dell’altro ieri che ha colpito tre regioni del centro Italia non lo possiamo certo risolvere come allora, anche perché in Italia ci sarebbero cinquecento poveri disgraziati che, come dice un autorevole leader, sono costretti rubare (?) per sopravvivere e hanno un grave torto, un peccato originale, essere scappati dalla fame e  dalla miseria, non dalla Sicilia, non dall’Italia meridionale, ma dall’Africa, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh, dall’altro sud che non vogliamo neppure vedere. Che tornino nei loro Paesi, che – come ha detto un autorevolissimo Capo di Stato – sono “shit-hole”, buchi di cesso.

E’ bello quanto ricorda a noi smemorati o ignari Antonio De Vito, quando nella premessa rammenta come sia cambiato il mondo da quando, cronista dell’Unità prima della Stampa poi, seguiva i processi che si svolgevano in Corte d’Assise, a Torino. “Sono cambiati, scrive, i cittadini, i giornali, le istituzioni, i codici, i processi…E non c’erano allora, le tv, folle di cineoperatori a riprendere un pubblico interessato alla vicenda “noir”, nessun Vespa rifaceva il processo in modo mediatico, spettacolarizzando con plastici e gli esperti in studio, psicologi e periti sempre pronti a mettersi in mostra”. E, aggiungerei, ahimè, anche colleghi. E’ vero, Antonio, era tutto più alla buona. E’ vero, Antonio, il mondo è cambiato. E anch’io, quasi quasi, voglio scendere.

Neri Paoloni

http://www.ungp.it/ungp17/Pagine/RUBRICHE.asp?BB=libri