«C’è nebbia fuori/la scambio per miopia/ma non è un difetto congenito/ho solo guardato troppo/e straccato le pupille/sono sana e senza scuse/Non stravolgo nulla/non ho fondi di bottiglia/ti giudico bene anche da qui/senza alcuna vicinanza/senza polpastrelli tattili/il muro è opaco e sono onesta/non imbroglio più, ho solo pietà/e le bugie bianche per te/le lascio ai bambini.»
(Martedì)
Quello che vive tra la pentola sul fuoco e lo spazzolino da denti, il tubetto di dentifricio lasciato a metà, spremuto male; l’interstizio, lo sporco sotto un vaso mai spolverato. Simmetrie e realtà tridimensionale, quello che ci circonda in fondo ci racconta, quello che possediamo assorbe la nostra storia e ogni oggetto diventa un pezzo di noi che racconta noi. E allora sarà facile riconoscere quello che siamo stati in una cornice senza foto, guardare una bottiglia vuota, un vaso di marmellata quasi finito, per far tornare una storia che ci parla di ricordi e di tutto quello che siamo stati mentre quella marmellata la mangiavamo a cucchiaiate.
Il gioco che fa la nostra mente è semplice anche se a noi, delle volte, appare straordinario; apri un cassetto, una matita spezzata giusto al centro della sua traiettoria, un po’ di polvere, un aereo di plastica che un giorno qualcuno ha fatto finta di far volare; e quindi se gli oggetti vivono della nostra vita, e se quello che ci circonda quotidianamente si impregna del nostro passato, è fondamentale riconoscere alle cose il potere di poterci raccontare, e altresì è importante, talvolta, togliere il potere a quella tazza rimasta nella credenza, che magari ti riporta ogni tanto l’immagine di lei, di lui, che da lì beveva il suo cappuccino e poi magari ti sorrideva con le labbra sporche di bianco.
Giulia Fuso è nata a Perugia nel 1988, questa sua raccolta di poesie porta il nome di E dentro luccica pubblicata da Miraggi edizioni, il disegno di copertina è a cura di Emanuele Copernico.
Le storie che ci raccontano queste pagine sono ore strappate al quotidiano, e ogni poesia porta in calce un titolo evocativo che ci fa subito capire dove la nostra poetessa vuole portarci, almeno per quelle righe. Giulia Fuso è dotata di uno stile poetico che rasenta la prosa, e più si va avanti nella lettura e più ci si convince che se la struttura dei versi fosse stata orizzontale e non verticale, avremmo potuto leggere della narrazione stilisticamente accattivante. C’è la magia e il male del quotidiano, di un pettine che passa tra i capelli e si impiglia, delle ore fermi a una stazione ad aspettare un treno (o forse noi stessi), ci sono le ore passate in una stanza o seduti a un tavolino di un bar, dove il mondo fuori accade ma quello che fa rumore è poi il mondo dentro.
«Mi dici che sono/ come i nodi dell’ulivo/io cerco similitudini/ e trovo malattia/ Metti cerotti waterproof/ sui miei buchi da guerra mondiale/ che, da lontano/ sembrano soluzioni/ ma sono appena/ tamponi misericordiosi/ Non li lascio, trappo/ zoppico docile/ e la carne fresca/ è la mia Caporetto.»
(G.)
Ci si arrampica, su queste poesie, e a volte, durante la salita, si cade, e ci si sbuccia le ginocchia, e saremmo costretti a cercare cerotti, acqua ossigenata: le parole di Giulia. Ogni frase sembra viva, sotto i nostri occhi; evocazioni di un attimo, di una giornata, forse di un’ora, in cui tutto è cambiato o forse, in cui tutto è rimasto maledettamente uguale mentre noi, invece, eravamo in cerca di mutazioni.
«Accadi sempre per riflesso/ io non ci penso e mi capiti/ tra i piatti della cena/ e le calamite del frigo/ in un coltello unto/ che spalma solo ansia/ Mi ricordi quando fuori/ inciampo nelle scarpe/ e non mi fermo, continuo/ adolescenziale e pigra/ con i lacci che si ciancicano/ e urlano, ma non ascolto/ Mi appanno e non rifletto/ sono uno specchio/poco esemplare.»
(Bloody Mary)
E Giulia Fuso ci prende la mano, e ci fa tornare bambini, ci costringe a riporre la nostra fiducia nelle sue vocali sporche di confettura, nelle sue consonanti rimaste incastrate nella raccolta differenziata, in frasi brevi che come pesci rossi girano in tondo dentro un’ampolla piena a metà di acqua.
E se ogni oggetto è capace di possedere una propria personale narrazione del nostro passato, è anche vero che delle volte, per liberarci di qualche fetta di ieri, siamo costretti a cestinarlo, quell’oggetto ingombrate.
«Ho comprato le matite/ per correggerti gli apostrofi/ sono dodici, appuntite/ le ho in tasca da quattro giorni/ si muovono e graffiano/ mi grattano le cosce/ e diventa tutto rosso/ il tuo errore, il mio appunto/ tanto che poi mi confondo/ e divido malamente/ non trovando più l’originale/ in questa pozza fonda.»
(Not found)
Una raccolta di poesie scritte con il corpo, dove ogni sensazione, che sia di pelle o di muscoli o di ossa, viene sviscerata e messa in bella mostra, davanti ai nostri occhi. E voi non lo sapete, forse non potete immaginare, la stanchezza antica di un corpo dopo la battaglia con le sue parole; non potete immaginare, non potete sentire la mano che trema ancora, la mente che corre, ancora, la schiena fatta a pezzi, e la bocca asciutta come un acquario dal vetro rotto, dove i pesci cadono in terra, come le parole che cadono sul foglio.
“Lembi di memoria personale”? No, non è solo questo. “L’uomo tagliato a pezzi”, il libro di ricordi di Antonio De Vito, è piuttosto il realistico quadro di un tempo, di un’Italia che fu e che difficilmente chi non sia nato intorno alla metà del secolo scorso fa persino fatica a credere che sia esistita. Oggi, che durante una delle campagne elettorali più assurde alle quale io abbia mai assistito, in cui rispunta fuori inopinatamente il concetto di “razza”, rileggere le pagine di questo prezioso “documento” ci fa improvvisamente ricordare cose delle quali avevamo addirittura perso la memoria.
Il giovane Antonio De Vito è un “cafone” di Torremaggiore, provincia di Foggia, che approda a Torino negli anni della FIAT di Valletta, in cui non si “affittavano case ai meridionali”, in cui veniva costituito all’interno della maggiore fabbrica d’Italia un “sindacato” bianco, un sindacato padronale che aveva il compito di stroncare ogni tentativo di rivendicazione sociale. Testimonianze di un’epoca ormai lontana, scrive De Vito nel presentare la vicenda, il “processone” che dà il nome al suo libro. Il processo per l’“uomo tagliato a pezzi” prende le mosse da una storia delle prime immigrazioni meridionali nell’“altra” Italia, quel Nord che ancora oggi sembra volere, per certi versi, tornare indietro nella storia. “La provincia torinese, Chivasso, la città delle noccioline, e il clan di immigrati siciliani, la famiglia Montalbano, niente a che fare con il commissario Montalbano di Camilleri, divenuto famoso ai giorni nostri, mezzo secolo dopo Immigrati agrigentini, dalle belle terre di Caltabellotta, Sciacca, Ribera, il profondo Sud siciliano, esodo forzoso dalla miseria, braccia in cerca di sicurezza e lavoro, tutti sanno di cosa si è trattato in quegli anni Sessanta, che di mitico per milioni di uomini donne non avevano proprio nulla. Al massimo anni di speranza. Tanta fatica, tanta sofferenza, tanta incomprensione attorno a questi figli del sud costretti ad immigrare”.
Fa un certo effetto leggere quanto scrive De Vito proprio nei giorni in cui si ricorda la tragedia del Belice (e oggi finalmente sappiamo come si pronuncia: Belìce) e si scopre, o forse si riscopre, che uno dei provvedimenti del governo di allora, un governo Moro, politico democristiano tra i più illuminati, non trovò meglio che offrire ai siciliani senza più casa né speranza decine di migliaia di biglietti ferroviari di sola andata per il nord e visti per l’espatrio. Questa era l’Italia d’allora, davanti ad una tragedia che aveva fatto più di trecento vittime e distrutto per sempre interi paesi, intere comunità.
Ricorda forse qualcosa di più attuale? Il terremoto dell’altro ieri che ha colpito tre regioni del centro Italia non lo possiamo certo risolvere come allora, anche perché in Italia ci sarebbero cinquecento poveri disgraziati che, come dice un autorevole leader, sono costretti rubare (?) per sopravvivere e hanno un grave torto, un peccato originale, essere scappati dalla fame e dalla miseria, non dalla Sicilia, non dall’Italia meridionale, ma dall’Africa, dalla Siria, dall’Afghanistan, dal Bangladesh, dall’altro sud che non vogliamo neppure vedere. Che tornino nei loro Paesi, che – come ha detto un autorevolissimo Capo di Stato – sono “shit-hole”, buchi di cesso.
E’ bello quanto ricorda a noi smemorati o ignari Antonio De Vito, quando nella premessa rammenta come sia cambiato il mondo da quando, cronista dell’Unità prima della Stampa poi, seguiva i processi che si svolgevano in Corte d’Assise, a Torino. “Sono cambiati, scrive, i cittadini, i giornali, le istituzioni, i codici, i processi…E non c’erano allora, le tv, folle di cineoperatori a riprendere un pubblico interessato alla vicenda “noir”, nessun Vespa rifaceva il processo in modo mediatico, spettacolarizzando con plastici e gli esperti in studio, psicologi e periti sempre pronti a mettersi in mostra”. E, aggiungerei, ahimè, anche colleghi. E’ vero, Antonio, era tutto più alla buona. E’ vero, Antonio, il mondo è cambiato. E anch’io, quasi quasi, voglio scendere.
Pasquale Panella non si definisce uno scrittore, ma neanche poeta e paroliere. Rinuncia a qualsiasi etichetta, però non declina mai l’invito che le parole gli rivolgono e le sfida a viso aperto.
È appena uscito per Miraggi edizioni Poema bianco. Un testo di controversi, ma anche di antipoesia pura in cui Panella si cimenta con la demolizione di tutti i luoghi comuni della scrittura.
In un soliloquio antilirico («perché nel soliloquio c’è il silenzio, che nella realtà ossia nell’atmosfera del pianeta Terra non esiste») qui si legge ma soprattutto si sente la forza della negazione, che dovrebbe essere della scrittura la sua forza dirompente.
Poema bianco è una collezione di negazioni. In ogni parola «la doppia negazione è prepotente».
Negazioni in buona compagnia di paradossi di cui il bianco è la metafora che richiama alla mente il senso di un’ossessione, quello della pagina non scritta.
« … un libro bianco sulla mia / fame del mondo» potrebbe essere questa la definizione dell’indefinibile Poema bianco.
Ma la nostra è solo un’ipotesi. Panella scrive con un ritmo incalzante le parole di questo poema, si lascia travolgere dall’ascolto delle sue stesse parole e ne propone uno a chi legge perché « Alle volte si scrive /sapendo solo cosa /non si scrive / esattamente /o cosa esattamente / non si scrive / (pare la stessa cosa / ma non è la stessa)».
Davanti alle parole la scrittura diventa spesso un vizio e quasi sempre chi scrive non si mette in ascolto che del proprio ego.
Panella si affida a tutte le negazioni anticonvenzionali dello scrivere: «Il bello delle parole scritte / è che, intanto, io posso tacere/ mente esse fanno il loro dovere / (e intanto io posso piangere ridendo / come quando piove con il sole)».
Nelle soluzioni impensate delle parole si muove la riflessione dell’autore. Il suo Poema bianco, come giustamente scrive Lucio Saviani nella prefazione, è un rivolgersi la parola come rivolgendola a un altro.
Tra una negazione e una mancanza nella scrittura bisogna dissolvere l’ego e lasciare spazio all’altro. «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».
Poema bianco è un soliloquio antiretorico sull’ inutilità utile delle parole. Un testo antipoetico e impoetico in cui prevalgono le esagerazioni della scrittura. Pasquale Panella ci regala un testo illuminante che decostruisce tutte le ipotetiche certezze dello scrivere.
“La curva. Piacevole diversivo nel monotono percorso di una strada, la curva dà il senso al viaggio e lo trasforma in gioia.”
Cela pensieri come questo, che si fermano all’istante, oppure proseguono su un sentiero che porta in un dove che non ti aspetti. Inserito nella Collana Tamizdat -parola con la quale venivano indicati i testi che circolavano clandestinamente nell’ex URSS-, “Nozioni di base” è alla prima edizione italiana, ottimamente tradotta dal ceco da Laura Angeloni. Introdotto, anticipato e impreziosito da tre brevissimi contributi di Milan Kundera, Yves Hersant e Massimo Rizzante, il libro si può leggere anche senza un ordine logico, aprendolo a caso; i capitoli sono minuscoli mondi a sé, minuscoli eppure potenzialmente senza confini, capaci di creare suggestioni e sapori come solo la poesia può fare. Capitoli della lunghezza di poche righe o racchiusi in meno di tre pagine, i cui titoli, nella loro essenzialità, dicono molto: Il brindisi, Radersi, Il commiato, Altrove, Sfiorare, Coppie, L’ultima goccia, I dettagli…
E’ sufficiente lasciarsi trasportare nelle atmosfere di questi momenti fissati sulla pagina, dove si scoprono attimi senza tempo e universali, o anche situazioni di tutti i giorni nelle quali però Kral, con straordinaria sensibilità, riesce a cogliere l’inaspettato, l’elemento a cui non pensiamo e che non vediamo, ma che pure è sempre stato lì, immobile davanti a noi. E’ il passare oltre alla “cecità esistenziale”, come la chiama Kundera.
E’ un libro fatto di stimoli, sensazioni, icone, significati e profondità da cercare, di vocaboli semplici da capire e frasi perfette. Un piccolo tesoro ancora poco conosciuto nel nostro Paese, una lettura di grande fascino offerta da un grande intellettuale.
Petr Král è nato a Praga nel 1941. Esponente del Surrealismo è poeta, traduttore, saggista, sceneggiatore e critico.
Il romanzo d’esordio di Marcello Oliviero parte con un diario in prima persona. Jeff è un ragazzo di New York che lascia la Grande Mela per San Francisco. Insegue il sogno di fare musica. Poi, nel momento in cui la prima band prende corpo, il testimone passa a un narratore onnisciente. Jeff si moltiplica ed ecco che i ragazzi diventano quattro: Jeff, Ben, James, Phil. Dopo una recensione, non proprio in linea con le loro attese, del primo disco, i nostri annunciano di aver scoperto un inedito vinile degli anni Settanta. Autori sono, sarebbero, gli Sweet Nothing, una rock and roll band scomparsa nel nulla dopo la fine degli anni d’oro della beat generation. Aiutati da un mago del web, creano un fenomeno mediatico su cui l’industria musicale si getta a capofitto.
La storia ha dell’incredibile, con tutto quello che di positivo e di negativo questa parola può significare. Che poi, quando si scrive un romanzo il tutto si gioca attorno a un pendolo che oscilla tra verosimile e inverosimile. A un esordiente si può perdonare anche qualche ardita fluttuazione e si può giustificare un salto nel buio in nome dell’energia del rock e dei 20 anni.
Oliviero ama un certo tipo di musica, si coglie benissimo, e prende il toro per le corna: puoi costruirti una playlist leggendo il romanzo, puoi perfino ascoltarla e dopo darò la dritta in merito, puoi capire che se Springsteen è diventato The Boss un motivo ci deve essere. Che il circo mediatico è sempre in moto e che l’America è uno strano coacervo di ex: musicisti, agenti, produttori. D’altronde gli spazi sono sconfinati. Mettici dentro una casetta riadattata in riva all’oceano, un portoricano che gestisce un ostello e due ragazze brillanti e il gioco sembra riuscire. L’impalcatura c’è. E pure qualche dialogoefficace.
Ma al di là del fatto che gli Sweet Nothing non sono esistiti e invece tutti (o quasi) credono alla storia del loro passaggio sul pianeta, il romanzo ha una parte centrale, a mio modo di vedere, priva della passionalità che si riscontra altrove mentre cerca di recuperare energia nel finale grazie a nuovi personaggi. Da qualche parte era lecito attendersi un’analisi più approfondita del mondo degli anni Settanta, che è il mondo dei sogni infranti, non bastano un ex cantante ubriacone e un discografico carogna.
La cosa più interessante è l’interattività di questo libro. Su http://www.sanfranciscorock.it/ e dal diario iniziale di Jeff si scopre che parti del racconto rimangono su internet. Con, direi inevitabilmente e meritoriamente, tanta musica e la possibilità di dialogare con l’autore stesso. Peraltro compositore. Due parole su Miraggi Edizioni, casa editrice di varia che nasce a Torino nel 2010. A sfogliare il suo catalogo si nota una pregevole cura grafica e tanti autori giovani. In bocca al lupo davvero.
Tre macchine da scrivere ricoperte d’edera, appartenute a un poeta dimenticato; e poi matti raggiunti dalla sassate di ragazzini feroci, parenti elettivi di vecchi professori di matematica con un figlio malato. Evocando un mondo dove esistono ancora la natura, il mestiere e il dolore irredimibile. Ghelli ridà energia alla tradizione del racconto italiano più realistico, l’unico forse in grado di raggiungere l’essenza di quel fallimento che preferiamo negare, ma che riguarda più persone di quanto non sospetti il nostro senso di colpa.
Dopo una serie infinita di fallimenti letterari (il più mirabolante è probabilmente quello legato alla messa in stampa di un libro di pagine bianche, nella speranza di fare successo grazie a un’opera che non stanchi i lettori), Domizio Pertica decide di aprire un’agenzia investigativa insieme alla praghese Venus Diomede, giunta in Italia in compagnia della sua merla parlante. Da qui prende, anzi prosegue, una narrazione surreale che deve molto alla letteratura noir, ma anche al realismo magico di stampo sudamericano, ai delirion the road alla vodka di Venedikt Erofeev e a una lunga tradizione di testi rappresentativi del caos e della delirante società postmoderna globale. Si tratta di Agenzia Pertica, di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni), opera originale, colta e divertentissima difficilmente collocabile nell’ormai trito e commerciale panorama letterario nazionale.
Livio finalmente abbandona l’autostrada per inerpicarsi tra i tornanti dissestati che lo portano nel paese dove ha trascorso la sua infanzia. Entra nella sua vecchia abitazione. Tutto sembra intatto. Come se il tempo non fosse mai passato. Eppure Livio può ancora distintamente percepire la presenza dei suoi nonni nella vecchia casa. Sua madre si è raccomandata di non “perdere” troppo tempo: una rapida occhiata e via. Eppure ci sono cose che, anche con uno sguardo apparentemente superficiale, tornano alla memoria e fanno male… Il signor Tamberi e la sua famiglia passano l’estate sempre nella stessa cittadina di mare. Ogni anno arrivano a giugno e vanno via a settembre. La moglie è schiva. Lui più solare, aperto. In spiaggia ha paura che suo figlio, che mostra i segni evidenti della malattia, si faccia male o disturbi qualcuno. Gli sta sempre vicino, gioca con lui, coinvolge gli altri ragazzi per non farlo restare solo. Ma gli anni passano, il signor Tamberi non è più quello di prima. È un uomo ormai anziano che porta a spasso accanto a se un ragazzo che resterà sempre un bimbo tra lo scherno degli abitanti della cittadina… Cesare accudisce suo padre, ormai afflitto da demenza senile, aspettando l’aiuto degli assistenti sociali. È stanco. Suo padre è tornato bambino. Lui non può permettersi una badante né suo padre può essere lasciato solo. Gli assistenti sociali regolarmente gli fanno visita, promettono che arriveranno aiuti concreti, ma – si sa – la burocrazia è lenta…
Non risponde mai nessuno è l’ultimo lavoro di Simone Ghelli, classe 1975, autore de L’ora migliore e altri racconti e di un romanzo, Voi, onesti farabutti. Dopo qualche anno di silenzio Ghelli torna con una nuova raccolta di racconti – dieci – che mette a nudo la parte più vulnerabile del nostro essere umani. I suoi protagonisti sono uomini e donne sofferenti, che arrancano, portano dentro di loro ferite indelebili, segni della loro vita, senza cedere mai alla facile debolezza. Il dolore lo si sopporta con un sorriso amaro sulle labbra, con la schiena dritta e lo sguardo rivolto verso la bellezza delle piccole cose. Dieci storie che commuovono, che coinvolgono il lettore, che parlano alla nostra anima. Ghelli utilizza uno stile immediato, paratattico, diretto. Possiamo sentire parte della nostra vita ogni suo personaggio. Il suo occhio si sofferma su un sentimento in particolare che accomuna tutti i protagonisti dei suoi racconti: la vergogna. La vergogna di aver abbandonato un parente che la gente considerava “non normale”, la vergogna per avere un figlio che “cresce solo in altezza” restando un bambino per tutta la vita, la vergogna per avere un padre afflitto da demenza senile e non sentirsi in grado di proteggerlo, di fargli condurre una vita dignitosa. In esergo Ghelli cita Deleuze “La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere?” ed in nuce è tutto qui: è in fondo questa vergogna, questa nostra debolezza, che ci rende umani, bellissimi e sofferenti.
Il ritratto di una generazione, una nuova rock’n’roll swindle ideata da quattro ragazzi che vogliono realizzare il loro sogno di sfondare nel mondo della musica e per farlo annunciano di aver trovato un vinile inedito di una band degli anni Settanta, gli Sweet Nothing. Con questa idea i protagonisti Jeff, Ben, James e Phil cambiano completamente le loro vite ed esortano il lettore a credere nelle sfide impossibili e surreali con cui ci confrontiamo ogni giorno. San Francisco Rock è l’opera prima di Marcello Oliviero, non soltanto un romanzo di formazione, ma anche una lettura analitica che riflette sulle trame intricate che si creano oggi tra i mass media e la musica.
Il pretesto è la ripubblicazione, anche come rimembranza di un periodo di storia sociale, politica e del costume ormai tramontato, di alcuni casi giudiziari maturati nella Torino dei “favolosi” anni ’60, di cui l’autore del libro che li raccoglie fu testimone e resocontista attento nella sua qualità di cronista di Corte d’Assise. Sebbene il titolo del libro – L’uomo tagliato a pezzi – intenda chiaramente sollecitare l’attenzione del lettore su uno qualunque di quei “casi”, probabilmente il più efferato, Antonio De Vito (foto a destra), essendo uomo esuberante e appassionato, si propone in realtà qualcosa di più ambizioso, precisamente una rilettura, con lo sguardo di oggi, di eventi che hanno le loro radici addirittura negli anni Quaranta e Cinquanta, quando egli era un bambino e poi un fanciullo a Torremaggiore nella Puglia ove nacque e dove vide spuntare i primi soldati “mericani” sbarcati da poco che risalivano lo Stivale diretti verso il Nord, un itinerario che una ventina di anni dopo avrebbe intrapreso anche lui sul treno “Lecce-Torino carico di migranti pugliesi poveri e disperati con destinazione Malàno o Turìno…”.
A differenza però di quei suoi conterranei “poveri e disperati”, De Vito aveva frequentato le scuole, aveva studiato legge ed era diventato avvocato e poi, per una coincidenza fortuita, giornalista, professione che avrebbe esercitato fino alla pensione non limitandosi a scrivere articoli ma anche assumendo incarichi dirigenziali negli organismi di categoria. Che la scrittura fosse la sua vera vocazione non possono esserci dubbi di sorta. Basta scorrere questo e gli altri libri che ha scritto per convincersene. La sua prosa è come un torrente in piena: quando esonda, l’acqua produce una serie di ruscelli che si diramano in varie direzioni, a volte convergenti, altre volte no. In questo suo ultimo libro i casi giudiziari si mescolano con alcune esperienze di inviato all’estero per i due giornali in cui ha lavorato: la redazione torinese dell’Unità e La Stampa e con tutta una serie di notazioni e riflessioni pertinenti e stimolanti su aspetti, vicende e protagonisti della vita nazionale, fino a formare un amalgama variamente sfaccettato ma al tempo stesso miracolosamente compatto e unitario.
Fake fruit. Un romanzo intorno e dentro la musica che si muove in 3D come un iper fumetto prestato al cinema e rompe le regole spazio temporali del racconto. Marcello Oliviero, torinese, musicista, batterista, operatore culturale e comunicatore, si rivela rivoluzionario scrittore con “San Francisco Rock” (Miraggi Edizioni), romanzo figlio della beat generation e della scuola minimalista newyorchese, sceneggiatura credibile di una serie tv. Jeff, Ben, James e Phil si scelgono nella band degli Sweet Nothing a San Francisco, anche se tutto è cominciato e poi ripassa per New York fino al cinematografico finale. Incidono un album che viene stroncato, allora s’inventano un vinile inedito degli anni ’70 ritrovato e una mitica band scomparsa che ritorna.
E che tutti sono costretti dal flipper scatenato dei media a ricordare. James è il ponte con Kerouac e il jazz di Charlie Parker, Oliviero ricostruisce al computer l’atterraggio a San Francisco e le strade di una città che non ha mai visto. Cinque anni di lavoro, come per la produzione di una serie o di un film. Parti del racconto rimangono sul web, è un romanzo interattivo, accompagnato da una stimolante playlist pop. «Un romanzo di formazione, una nuova “rock’n’roll swindle” per il fake discografico perfetto». Esordio strepitoso, riflessione intonata sulla comunicazione contemporanea, plot magistrale raccontato da un musicista vero. Ve lo consiglio.
Incombono le celebrazioni del ’68, è bene non farsi trovare impreparati”, esorta Enrico Deaglio, presentando il suo “Patria”. Ci aiuta nell’impresa Antonio De Vito che ci racconta cosa furono a Torino i “favolosi” anni ’60 da un singolare punto di vista, la Corte d’Assise, che allora era nella Curia Maxima in via Corte d’Appello. Il nuovo Palazzo di Giustizia, intitolato a Bruno Caccia, sarebbe entrato in funzione solo nell’aprile del 2001. Antonio De Vito è stato fino al 1969 cronista giudiziario per la redazione torinese de “L’Unità”, passando poi a “La Stampa” dove ha lavorato fino al 1994. Il suo libro, pubblicato da Miraggi Edizioni, nel titolo ricorda il caso più clamoroso di quegli anni, “L’uomo tagliato a pezzi”. A Chivasso nella sera del 19 settembre 1962, Ignazio Sedita, 28 anni, appena uscito di prigione, si presenta nella misera casa della famiglia Montalbano dove si trova sua moglie con i parenti e lì viene ucciso. Sono in tanti in quella casa, il cugino Giuseppe La Bella dirà: “Ignazio è stato colpito mentre lottava avvinghiato a me. Io l’ho soltanto fatto a pezzi”. Che saranno ficcati in due valigie di cartone; caricate su un taxi diretto a Savona, saranno poi gettate in una roggia a Ceva.
De Vito riproduce nel libro le sue cronache avvolgendole in “lembi di memoria personale dispersa nel tempo” e restituisce con un suono di autenticità il clima di quegli anni. Non si parlava di cellulari, indagini sul Dna, telecamere di sorveglianza, e la teleselezione sarebbe entrata in uso nel 1970. Era ancora in vigore il fermo di polizia: i tre sospettati dell’omicidio di una gioielliera si presentano rei confessi dopo tre giorni di pestaggi e maltrattamenti nelle celle di sicurezza e per loro fortuna finiranno assolti. I mali della giustizia, lamentati durante le cerimonie di inaugurazione dell’Anno Giudiziario, sono rimasti gli stessi 50 anni dopo. In compenso certi procedimenti ci sembrano lontani anni luce. Il 26 giugno 1963 l’editore Giulio Einaudi, insieme ai tre autori dei “Canti della Nuova Resistenza Spagnola”, è imputato di offese al pudore e vilipendio della religione per due quartine. Quella del vilipendio è assolta per amnistia, per l’altra Sergio Liberovici e Michele Straniero sono condannati a 2 mesi e il libro confiscato. Sfilano nel libro i principi del foro e troviamo storie esilaranti, come quella dell’imputato che riesce a fuggire dall’aula mentre i giudici sono in camera di consiglio.
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