Pasquale Panella non si definisce uno scrittore, ma neanche poeta e paroliere. Rinuncia a qualsiasi etichetta, però non declina mai l’invito che le parole gli rivolgono e le sfida a viso aperto.
È appena uscito per Miraggi edizioni Poema bianco. Un testo di controversi, ma anche di antipoesia pura in cui Panella si cimenta con la demolizione di tutti i luoghi comuni della scrittura.
In un soliloquio antilirico («perché nel soliloquio c’è il silenzio, che nella realtà ossia nell’atmosfera del pianeta Terra non esiste») qui si legge ma soprattutto si sente la forza della negazione, che dovrebbe essere della scrittura la sua forza dirompente.
Poema bianco è una collezione di negazioni. In ogni parola «la doppia negazione è prepotente».
Negazioni in buona compagnia di paradossi di cui il bianco è la metafora che richiama alla mente il senso di un’ossessione, quello della pagina non scritta.
« … un libro bianco sulla mia / fame del mondo» potrebbe essere questa la definizione dell’indefinibile Poema bianco.
Ma la nostra è solo un’ipotesi. Panella scrive con un ritmo incalzante le parole di questo poema, si lascia travolgere dall’ascolto delle sue stesse parole e ne propone uno a chi legge perché « Alle volte si scrive /sapendo solo cosa /non si scrive / esattamente /o cosa esattamente / non si scrive / (pare la stessa cosa / ma non è la stessa)».
Davanti alle parole la scrittura diventa spesso un vizio e quasi sempre chi scrive non si mette in ascolto che del proprio ego.
Panella si affida a tutte le negazioni anticonvenzionali dello scrivere: «Il bello delle parole scritte / è che, intanto, io posso tacere/ mente esse fanno il loro dovere / (e intanto io posso piangere ridendo / come quando piove con il sole)».
Nelle soluzioni impensate delle parole si muove la riflessione dell’autore. Il suo Poema bianco, come giustamente scrive Lucio Saviani nella prefazione, è un rivolgersi la parola come rivolgendola a un altro.
Tra una negazione e una mancanza nella scrittura bisogna dissolvere l’ego e lasciare spazio all’altro. «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».
Poema bianco è un soliloquio antiretorico sull’ inutilità utile delle parole. Un testo antipoetico e impoetico in cui prevalgono le esagerazioni della scrittura. Pasquale Panella ci regala un testo illuminante che decostruisce tutte le ipotetiche certezze dello scrivere.
“La curva. Piacevole diversivo nel monotono percorso di una strada, la curva dà il senso al viaggio e lo trasforma in gioia.”
Cela pensieri come questo, che si fermano all’istante, oppure proseguono su un sentiero che porta in un dove che non ti aspetti. Inserito nella Collana Tamizdat -parola con la quale venivano indicati i testi che circolavano clandestinamente nell’ex URSS-, “Nozioni di base” è alla prima edizione italiana, ottimamente tradotta dal ceco da Laura Angeloni. Introdotto, anticipato e impreziosito da tre brevissimi contributi di Milan Kundera, Yves Hersant e Massimo Rizzante, il libro si può leggere anche senza un ordine logico, aprendolo a caso; i capitoli sono minuscoli mondi a sé, minuscoli eppure potenzialmente senza confini, capaci di creare suggestioni e sapori come solo la poesia può fare. Capitoli della lunghezza di poche righe o racchiusi in meno di tre pagine, i cui titoli, nella loro essenzialità, dicono molto: Il brindisi, Radersi, Il commiato, Altrove, Sfiorare, Coppie, L’ultima goccia, I dettagli…
E’ sufficiente lasciarsi trasportare nelle atmosfere di questi momenti fissati sulla pagina, dove si scoprono attimi senza tempo e universali, o anche situazioni di tutti i giorni nelle quali però Kral, con straordinaria sensibilità, riesce a cogliere l’inaspettato, l’elemento a cui non pensiamo e che non vediamo, ma che pure è sempre stato lì, immobile davanti a noi. E’ il passare oltre alla “cecità esistenziale”, come la chiama Kundera.
E’ un libro fatto di stimoli, sensazioni, icone, significati e profondità da cercare, di vocaboli semplici da capire e frasi perfette. Un piccolo tesoro ancora poco conosciuto nel nostro Paese, una lettura di grande fascino offerta da un grande intellettuale.
Petr Král è nato a Praga nel 1941. Esponente del Surrealismo è poeta, traduttore, saggista, sceneggiatore e critico.
Il romanzo d’esordio di Marcello Oliviero parte con un diario in prima persona. Jeff è un ragazzo di New York che lascia la Grande Mela per San Francisco. Insegue il sogno di fare musica. Poi, nel momento in cui la prima band prende corpo, il testimone passa a un narratore onnisciente. Jeff si moltiplica ed ecco che i ragazzi diventano quattro: Jeff, Ben, James, Phil. Dopo una recensione, non proprio in linea con le loro attese, del primo disco, i nostri annunciano di aver scoperto un inedito vinile degli anni Settanta. Autori sono, sarebbero, gli Sweet Nothing, una rock and roll band scomparsa nel nulla dopo la fine degli anni d’oro della beat generation. Aiutati da un mago del web, creano un fenomeno mediatico su cui l’industria musicale si getta a capofitto.
La storia ha dell’incredibile, con tutto quello che di positivo e di negativo questa parola può significare. Che poi, quando si scrive un romanzo il tutto si gioca attorno a un pendolo che oscilla tra verosimile e inverosimile. A un esordiente si può perdonare anche qualche ardita fluttuazione e si può giustificare un salto nel buio in nome dell’energia del rock e dei 20 anni.
Oliviero ama un certo tipo di musica, si coglie benissimo, e prende il toro per le corna: puoi costruirti una playlist leggendo il romanzo, puoi perfino ascoltarla e dopo darò la dritta in merito, puoi capire che se Springsteen è diventato The Boss un motivo ci deve essere. Che il circo mediatico è sempre in moto e che l’America è uno strano coacervo di ex: musicisti, agenti, produttori. D’altronde gli spazi sono sconfinati. Mettici dentro una casetta riadattata in riva all’oceano, un portoricano che gestisce un ostello e due ragazze brillanti e il gioco sembra riuscire. L’impalcatura c’è. E pure qualche dialogoefficace.
Ma al di là del fatto che gli Sweet Nothing non sono esistiti e invece tutti (o quasi) credono alla storia del loro passaggio sul pianeta, il romanzo ha una parte centrale, a mio modo di vedere, priva della passionalità che si riscontra altrove mentre cerca di recuperare energia nel finale grazie a nuovi personaggi. Da qualche parte era lecito attendersi un’analisi più approfondita del mondo degli anni Settanta, che è il mondo dei sogni infranti, non bastano un ex cantante ubriacone e un discografico carogna.
La cosa più interessante è l’interattività di questo libro. Su http://www.sanfranciscorock.it/ e dal diario iniziale di Jeff si scopre che parti del racconto rimangono su internet. Con, direi inevitabilmente e meritoriamente, tanta musica e la possibilità di dialogare con l’autore stesso. Peraltro compositore. Due parole su Miraggi Edizioni, casa editrice di varia che nasce a Torino nel 2010. A sfogliare il suo catalogo si nota una pregevole cura grafica e tanti autori giovani. In bocca al lupo davvero.
Tre macchine da scrivere ricoperte d’edera, appartenute a un poeta dimenticato; e poi matti raggiunti dalla sassate di ragazzini feroci, parenti elettivi di vecchi professori di matematica con un figlio malato. Evocando un mondo dove esistono ancora la natura, il mestiere e il dolore irredimibile. Ghelli ridà energia alla tradizione del racconto italiano più realistico, l’unico forse in grado di raggiungere l’essenza di quel fallimento che preferiamo negare, ma che riguarda più persone di quanto non sospetti il nostro senso di colpa.
Dopo una serie infinita di fallimenti letterari (il più mirabolante è probabilmente quello legato alla messa in stampa di un libro di pagine bianche, nella speranza di fare successo grazie a un’opera che non stanchi i lettori), Domizio Pertica decide di aprire un’agenzia investigativa insieme alla praghese Venus Diomede, giunta in Italia in compagnia della sua merla parlante. Da qui prende, anzi prosegue, una narrazione surreale che deve molto alla letteratura noir, ma anche al realismo magico di stampo sudamericano, ai delirion the road alla vodka di Venedikt Erofeev e a una lunga tradizione di testi rappresentativi del caos e della delirante società postmoderna globale. Si tratta di Agenzia Pertica, di Luca Ragagnin (Miraggi Edizioni), opera originale, colta e divertentissima difficilmente collocabile nell’ormai trito e commerciale panorama letterario nazionale.
Livio finalmente abbandona l’autostrada per inerpicarsi tra i tornanti dissestati che lo portano nel paese dove ha trascorso la sua infanzia. Entra nella sua vecchia abitazione. Tutto sembra intatto. Come se il tempo non fosse mai passato. Eppure Livio può ancora distintamente percepire la presenza dei suoi nonni nella vecchia casa. Sua madre si è raccomandata di non “perdere” troppo tempo: una rapida occhiata e via. Eppure ci sono cose che, anche con uno sguardo apparentemente superficiale, tornano alla memoria e fanno male… Il signor Tamberi e la sua famiglia passano l’estate sempre nella stessa cittadina di mare. Ogni anno arrivano a giugno e vanno via a settembre. La moglie è schiva. Lui più solare, aperto. In spiaggia ha paura che suo figlio, che mostra i segni evidenti della malattia, si faccia male o disturbi qualcuno. Gli sta sempre vicino, gioca con lui, coinvolge gli altri ragazzi per non farlo restare solo. Ma gli anni passano, il signor Tamberi non è più quello di prima. È un uomo ormai anziano che porta a spasso accanto a se un ragazzo che resterà sempre un bimbo tra lo scherno degli abitanti della cittadina… Cesare accudisce suo padre, ormai afflitto da demenza senile, aspettando l’aiuto degli assistenti sociali. È stanco. Suo padre è tornato bambino. Lui non può permettersi una badante né suo padre può essere lasciato solo. Gli assistenti sociali regolarmente gli fanno visita, promettono che arriveranno aiuti concreti, ma – si sa – la burocrazia è lenta…
Non risponde mai nessuno è l’ultimo lavoro di Simone Ghelli, classe 1975, autore de L’ora migliore e altri racconti e di un romanzo, Voi, onesti farabutti. Dopo qualche anno di silenzio Ghelli torna con una nuova raccolta di racconti – dieci – che mette a nudo la parte più vulnerabile del nostro essere umani. I suoi protagonisti sono uomini e donne sofferenti, che arrancano, portano dentro di loro ferite indelebili, segni della loro vita, senza cedere mai alla facile debolezza. Il dolore lo si sopporta con un sorriso amaro sulle labbra, con la schiena dritta e lo sguardo rivolto verso la bellezza delle piccole cose. Dieci storie che commuovono, che coinvolgono il lettore, che parlano alla nostra anima. Ghelli utilizza uno stile immediato, paratattico, diretto. Possiamo sentire parte della nostra vita ogni suo personaggio. Il suo occhio si sofferma su un sentimento in particolare che accomuna tutti i protagonisti dei suoi racconti: la vergogna. La vergogna di aver abbandonato un parente che la gente considerava “non normale”, la vergogna per avere un figlio che “cresce solo in altezza” restando un bambino per tutta la vita, la vergogna per avere un padre afflitto da demenza senile e non sentirsi in grado di proteggerlo, di fargli condurre una vita dignitosa. In esergo Ghelli cita Deleuze “La vergogna di essere uomo: c’è una ragione migliore per scrivere?” ed in nuce è tutto qui: è in fondo questa vergogna, questa nostra debolezza, che ci rende umani, bellissimi e sofferenti.
Il ritratto di una generazione, una nuova rock’n’roll swindle ideata da quattro ragazzi che vogliono realizzare il loro sogno di sfondare nel mondo della musica e per farlo annunciano di aver trovato un vinile inedito di una band degli anni Settanta, gli Sweet Nothing. Con questa idea i protagonisti Jeff, Ben, James e Phil cambiano completamente le loro vite ed esortano il lettore a credere nelle sfide impossibili e surreali con cui ci confrontiamo ogni giorno. San Francisco Rock è l’opera prima di Marcello Oliviero, non soltanto un romanzo di formazione, ma anche una lettura analitica che riflette sulle trame intricate che si creano oggi tra i mass media e la musica.
Il pretesto è la ripubblicazione, anche come rimembranza di un periodo di storia sociale, politica e del costume ormai tramontato, di alcuni casi giudiziari maturati nella Torino dei “favolosi” anni ’60, di cui l’autore del libro che li raccoglie fu testimone e resocontista attento nella sua qualità di cronista di Corte d’Assise. Sebbene il titolo del libro – L’uomo tagliato a pezzi – intenda chiaramente sollecitare l’attenzione del lettore su uno qualunque di quei “casi”, probabilmente il più efferato, Antonio De Vito (foto a destra), essendo uomo esuberante e appassionato, si propone in realtà qualcosa di più ambizioso, precisamente una rilettura, con lo sguardo di oggi, di eventi che hanno le loro radici addirittura negli anni Quaranta e Cinquanta, quando egli era un bambino e poi un fanciullo a Torremaggiore nella Puglia ove nacque e dove vide spuntare i primi soldati “mericani” sbarcati da poco che risalivano lo Stivale diretti verso il Nord, un itinerario che una ventina di anni dopo avrebbe intrapreso anche lui sul treno “Lecce-Torino carico di migranti pugliesi poveri e disperati con destinazione Malàno o Turìno…”.
A differenza però di quei suoi conterranei “poveri e disperati”, De Vito aveva frequentato le scuole, aveva studiato legge ed era diventato avvocato e poi, per una coincidenza fortuita, giornalista, professione che avrebbe esercitato fino alla pensione non limitandosi a scrivere articoli ma anche assumendo incarichi dirigenziali negli organismi di categoria. Che la scrittura fosse la sua vera vocazione non possono esserci dubbi di sorta. Basta scorrere questo e gli altri libri che ha scritto per convincersene. La sua prosa è come un torrente in piena: quando esonda, l’acqua produce una serie di ruscelli che si diramano in varie direzioni, a volte convergenti, altre volte no. In questo suo ultimo libro i casi giudiziari si mescolano con alcune esperienze di inviato all’estero per i due giornali in cui ha lavorato: la redazione torinese dell’Unità e La Stampa e con tutta una serie di notazioni e riflessioni pertinenti e stimolanti su aspetti, vicende e protagonisti della vita nazionale, fino a formare un amalgama variamente sfaccettato ma al tempo stesso miracolosamente compatto e unitario.
Fake fruit. Un romanzo intorno e dentro la musica che si muove in 3D come un iper fumetto prestato al cinema e rompe le regole spazio temporali del racconto. Marcello Oliviero, torinese, musicista, batterista, operatore culturale e comunicatore, si rivela rivoluzionario scrittore con “San Francisco Rock” (Miraggi Edizioni), romanzo figlio della beat generation e della scuola minimalista newyorchese, sceneggiatura credibile di una serie tv. Jeff, Ben, James e Phil si scelgono nella band degli Sweet Nothing a San Francisco, anche se tutto è cominciato e poi ripassa per New York fino al cinematografico finale. Incidono un album che viene stroncato, allora s’inventano un vinile inedito degli anni ’70 ritrovato e una mitica band scomparsa che ritorna.
E che tutti sono costretti dal flipper scatenato dei media a ricordare. James è il ponte con Kerouac e il jazz di Charlie Parker, Oliviero ricostruisce al computer l’atterraggio a San Francisco e le strade di una città che non ha mai visto. Cinque anni di lavoro, come per la produzione di una serie o di un film. Parti del racconto rimangono sul web, è un romanzo interattivo, accompagnato da una stimolante playlist pop. «Un romanzo di formazione, una nuova “rock’n’roll swindle” per il fake discografico perfetto». Esordio strepitoso, riflessione intonata sulla comunicazione contemporanea, plot magistrale raccontato da un musicista vero. Ve lo consiglio.
Incombono le celebrazioni del ’68, è bene non farsi trovare impreparati”, esorta Enrico Deaglio, presentando il suo “Patria”. Ci aiuta nell’impresa Antonio De Vito che ci racconta cosa furono a Torino i “favolosi” anni ’60 da un singolare punto di vista, la Corte d’Assise, che allora era nella Curia Maxima in via Corte d’Appello. Il nuovo Palazzo di Giustizia, intitolato a Bruno Caccia, sarebbe entrato in funzione solo nell’aprile del 2001. Antonio De Vito è stato fino al 1969 cronista giudiziario per la redazione torinese de “L’Unità”, passando poi a “La Stampa” dove ha lavorato fino al 1994. Il suo libro, pubblicato da Miraggi Edizioni, nel titolo ricorda il caso più clamoroso di quegli anni, “L’uomo tagliato a pezzi”. A Chivasso nella sera del 19 settembre 1962, Ignazio Sedita, 28 anni, appena uscito di prigione, si presenta nella misera casa della famiglia Montalbano dove si trova sua moglie con i parenti e lì viene ucciso. Sono in tanti in quella casa, il cugino Giuseppe La Bella dirà: “Ignazio è stato colpito mentre lottava avvinghiato a me. Io l’ho soltanto fatto a pezzi”. Che saranno ficcati in due valigie di cartone; caricate su un taxi diretto a Savona, saranno poi gettate in una roggia a Ceva.
De Vito riproduce nel libro le sue cronache avvolgendole in “lembi di memoria personale dispersa nel tempo” e restituisce con un suono di autenticità il clima di quegli anni. Non si parlava di cellulari, indagini sul Dna, telecamere di sorveglianza, e la teleselezione sarebbe entrata in uso nel 1970. Era ancora in vigore il fermo di polizia: i tre sospettati dell’omicidio di una gioielliera si presentano rei confessi dopo tre giorni di pestaggi e maltrattamenti nelle celle di sicurezza e per loro fortuna finiranno assolti. I mali della giustizia, lamentati durante le cerimonie di inaugurazione dell’Anno Giudiziario, sono rimasti gli stessi 50 anni dopo. In compenso certi procedimenti ci sembrano lontani anni luce. Il 26 giugno 1963 l’editore Giulio Einaudi, insieme ai tre autori dei “Canti della Nuova Resistenza Spagnola”, è imputato di offese al pudore e vilipendio della religione per due quartine. Quella del vilipendio è assolta per amnistia, per l’altra Sergio Liberovici e Michele Straniero sono condannati a 2 mesi e il libro confiscato. Sfilano nel libro i principi del foro e troviamo storie esilaranti, come quella dell’imputato che riesce a fuggire dall’aula mentre i giudici sono in camera di consiglio.
Agenzia Pertica, edito da Miraggi, è il nuovo libro di Luca Ragagnin, autore prolifico e colto, che ci ha abituati a storie diverse, a cambi improvvisi di direzione, ricerche alcoliche, tabagismo e musica jazz. In questo romanzo racconta, strizzando l’occhio a se stesso, le avventure di uno strano quintetto:
Domizio Pertica, scrittore fallito, ma bevitore più che consapevole;
Venus Diomede, apparizione mozzafiato, piuttosto reale;
Zappa, un merlo indiano che straparla e beve vodka;
Pepe, una gazza ladra in cerca di redenzione;
Trambusto, un gatto filosofo piuttosto furbo.
Insieme, questi cinque guasconi fondano un’agenzia di investigazioni il cui scopo principale è trovare un alibi per i delinquenti.
Con scrittura surreale e nervosa dalla quale traspaiono un certo rancore e un’allegra malinconia, Luca Ragagnin ci racconta, tramite i pensieri dei suoi personaggi, una fiaba contemporanea che pare prendere in giro la realtà. Un po’ Bolaño, un po’ Perec, il racconto si snoda in un intreccio di situazioni spesso divertenti. La scrittura, che in certi capitoli sembra accelerare in una sorta di gramelot comprensibile, in altri si placa portando il lettore alla ricerca di un senso compiuto che i protagonisti, al contrario, si direbbe non vogliono trovare.
Le ultime pagine elencano, appendice o catalogo, i ventisette romanzi scritti da Domizio. Esilaranti le critiche e i nomi delle testate dalle quali sono tratte. Una per tutte:
“È un caso interessante, degno della nostra rivista. L’autore, non il suo libro.” Il Giornale dei Casi Clinici.
“Agenzia Pertica” dello scrittore torinese è un libro irriverente nei confronti del lettore, un falso thriller che – digressione dopo digressione – si rivela un esercizio di consapevolezze metaletterarie, un viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione
Agenzia Pertica (176 pagine, 16 euro) è il nuovo lavoro di Luca Ragagnin edito dalla torinese Miraggi. Non a caso, questo romanzo-non-romanzo inaugura una nuova collana che la casa editrice ha deciso di chiamare Scafiblù: così infatti a Napoli erano chiamate le imbarcazioni utilizzate per il contrabbando di sigarette. A ispirare Scafiblù è dunque un’idea di clandestinità applicata a quegli autori italiani che hanno il coraggio di portare sulla pagina messaggi scomodi, disobbedienti, perché no anarchici, in un anticonformismo che può esser di stile, oppure di contenuti. Un contrabbando che diventa un obiettivo nei confronti del confine implicito che distingue ciò che si è soliti trovare in libreria dai libri che invece, probabilmente, non ci finiranno mai.
E a ben vedere – anzi, a ben leggere – il libro di Ragagnin approda in libreria carico del suo contenuto di contrabbando, fuori da ogni schema, insofferente alle regole della narrazione e irriverente nei confronti del lettore, fedele alleato al quale dovrebbe, con buona probabilità, affiancarsi agevolando quell’esercizio così naturale e spontaneo da apparire forse scontato: la lettura.
Scrittore o investigatore privato?
Ma di scontato in questo romanzo non c’è niente: nemmeno il fatto che si possa parlare di un romanzo. Domizio Pertica è il protagonista di questa strampalata storia, è un autore fallito, al cui attivo ci sono ventisei romanzi diversissimi per temi, struttura e genere, per soluzioni editoriali e per editori, via via cambiati fino all’auto-pubblicazione. Una sola cosa accomuna tutte le sue opere: l’insuccesso di pubblico. Ragione per cui, dopo tanto lavoro inutile, Domizio ha pensato di lasciar perdere la scrittura e di dedicarsi a un’altra attività, un’agenzia investigativa privata, che si chiamerà Domizio Pertica Divinazioni & Sbugiardamenti & Alibi. Collaboratori dell’impresa, Venus Diomede, praghese bionda e in abiti succinti conosciuta in un bar di dubbia fama e diventata la compagna con cui condividere la triste mansarda torinese e una merla indiana alcolista di nome Zappa. Niente è scontato, nemmeno il fatto che, in quanto animale, Zappa non parli. Infatti la merla è più che loquace, e sul cedro del Libano davanti casa, dove ama svolazzare, fa amicizia con altri esseri tra cui Pepe la gazza e Trambusto il gatto poeta che si esprime in rima.
Obiettivo tutto particolare dell’agenzia, sarebbe quello di fornire alibi ai delinquenti, casi risolti a cui il romanzo dovrebbe dare spazio, raccontandoli. “Sei qui per leggere un thriller”, scrive Pertica, attivando un’attesa incessante e la suspense tipica del genere. Ma poi apre, divaga, non torna, non spiega, non chiude, nella disattesa totale è lui stesso a fornire gli alibi, sbugiardandosi e smontando la sua stessa scrittura, in una rivelazione un po’ alcolica, un po’ onirica e forse un po’ disperata a cui la lettura, interruzione dopo digressione, finisce per assomigliare.
Un non-romanzo tortuoso e irriverente C’è un inizio della storia, anzi no, è un falso inizio, come rassicura la voce narrante. Da quel momento, cioè da subito, appare chiaro come la storia non inizi, ma si avvii invece un tortuoso percorso tra le voci di Domizio, del narratore, di qualcun altro che fa le sue veci e irrompe nel testo. Il lettore cerca, attende, immagina e passeggia nei boschi narrativi colto di sorpresa a ogni capitolo. Perché naturalmente, in questo romanzo tutto speciale, anche gli elementi paratestuali contravvengono alle regole, e dunque i titoli dei capitoli parlano, scherzano e giocano. Il disinvolto appello al Prezioso Lettore diventa una delle cifre distintive del testo di Ragagnin, disinibito e al contempo sagace, inaugura un capitolo zero che scivola dalla libreria sotto casa a Céline e a Mallarmè, con strizzate d’occhio ironiche di tanto in tanto, spruzzi di realtà che inserita sulla pagina bianca diventa elastica, si adatta. E poi sberleffi al mondo dell’editoria, che Domizio ben conosce. “Scemo mi ci sento”, ammette, salvo poi correggere il tiro e interrogarsi sul fatto che forse scemi erano tutti gli altri, i lettori che non lo capivano e ancora di più gli editori. Un modello da cui allontanarsi, magari sperimentandone altri, e ancora altri, in un pastiche-metaromanzo come questo, che mescola tutto, e in continuazione mette in dubbio, disattende le aspettative del lettore portandolo fuori dai cliché interpretativi, e chiedendogli complicità.
Prezioso lettore dice la voce narrante di volta in volta diversa, mutante e velata di quella finzione che, altrove, in un romanzo classico, sparirebbe dopo la prima riga. È uno spericolato gioco a zig zag, su e giù per le scale dei congegni narrativi, in barba al pubblico, e soprattutto a quelle regole editoriali (ma, ancora prima, narrative) che ben poco tra le righe sono criticate per la propria rigidità, il proprio essere inespugnabili e inattaccabili. Del resto, Pertica le ha provate proprio tutte, anche pubblicare un libro bianco, ma non c’è stato niente da fare, il successo di scrittore non lo ha incoronato mai. Epilogo inevitabile, l’appendice, che raduna stralci dei ventisei romanzi di Pertica che hanno segnato il fallimento della sua carriera, ognuno con relativo esergo e commento di improbabili e divertenti recensori
Un funambolico esercizio narrativo È un florilegio di generi, stili, forme e soluzioni narrative che, tutte insieme, scompaginano la narrazione, destrutturando l’attesa del lettore e costruendo invece un mirabolante esempio di romanzo il cui cuore è proprio il suo stesso essere un non-romanzo. Magie della scrittura, punti di forza di una metanarrazione che, seppure anch’essa parte di quel mondo da bistrattare, è la chiave di apertura del congegno di Ragagnin per il lettore. Tra dialoghi assurdi, voci e narratori, il lettore è lanciato in mezzo al campo pluristratificato di una metanarrazione che racconta di sé, del suo farsi ma anche del non riuscire a farsi, delle abilità da scrittore affatto improvvisato, dei giochi tra enunciatori ed enunciatari di quella riprovevole letteratura da scribacchini furbi, che agganciano il lettore e lo portano con sé fino in fondo, decretando il successo. Invece qui non c’è aggancio ma costante sgancio, inciampo, non-narrazione costruita con arguzia dentro una cornice narrativa, dove anche gli elementi paratestuali concorrono al tempo stesso ad abbozzare una cornice di insieme e a smontarla, rivelandone con ironia e un po’ di amarezza la consistenza nulla.
Ma chi è poi, davvero, Pertica? Basta una manciata di pagine e già ci è chiaro che la voce che ci si rivolge in presa diretta è un prodigio della scrittura, mutevole, scrittore fallito, coscienza alta, trasformista, dialoghista, filosofo e persino fine poeta e rimatore. Domizio Pertica, un po’ autore, un po’ maschera, un po’ narratore, un po’ essenza pura della fantasia di uno scrittore a cui crediamo di avvicinarci sempre più, scoperchiando matrioske, smontando falsi inizi, incipit e attese fomentate e mai raggiunte.
“Avete mai visto un romanzo thriller incominciare con una digressione una divagazione di carattere squisitamente letterario” si domanda il nostro Domizio Pertica, o chi ne fa le veci. La vicenda thriller, misteri e colpi di pistola, tarda ad arrivare. Il dubbio, alla fine, è che davvero si possa parlare di vicenda e non, invece, di viaggio un po’ onirico, un po’ alcolico e un po’ spericolato nel mondo della narrazione. E se è vero che talvolta, per essere capiti, i romanzi giunti alla fine devono essere ripresi dall’incipit, tornando all’inizio palesemente finto e ingannevole, sembra chiaro come questo primo esperimento inaugurale di Scafiblù sia un funambolico esercizio di consapevolezze metaletterarie, registri, voci e apparati narrativi piegati all’ironia un po’ pessimista e un po’ divertita di un autore, che dipinge in modo cubista il ritratto di sé scrittore come cliché: uno, nessuno e forse centomila Domizio Pertica.
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