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Non disturbare: due risate d’autore. La recensione di Simona Scravaglieri su Letture Sconclusionate

In queste ultime settimane vi ho parlato un po’ di tutto: gialli, romanzi, thriller, saggi sulla vita di grandi personaggi e via dicendo. Ieri mi domandavo cosa mancasse e poi mi è venuto in mente che io, ultimamente, ho letto anche alcuni libri divertenti. L’aspetto bello di leggere un libro divertente è non solo che ridi dall’inizio alla fine ma che anche, se ben scritto, rimani con quella bella sensazione di aver avuto e di essertela pure goduta. Questa è la storia di un autore capellone e figo, che gira in moto e che si inginocchia solo davanti ad un re, suo figlio. E’ la storia di casa Marinaccio dove arrivano telefonate dei call center che ti vogliono vendere la qualunque e di un citofono gettonatissimo da venditori di robe varie e compratori di anime per la propria congrega. E’ la storia di come affrontare diversamente la pesantezza della vita moderna anche se guardandola questa vita, a volte, pare di scorgere anche il passato da cui viene. Questa è la storia che raccoglie post pubblicati per divertimento che poi sono diventati un libro spassosissimo che fa piacere anche rileggere. Cosa c’è in questo libro insomma? Non una storia unica ma una serie di dialoghi surreali intervallati da dei piccoli racconti che sono dei castoni estremamente affascinati. Immaginate che in una casa vi siano due coniugi, nell’altra stanza sentite il loro figlio mentre mugugna concentrato sul gioco che sta facendo. Squilla il telefono di casa e lei sospira quando vede il marito partire di gran carriera per andare a rispondere. Lui alza la cornetta e si pregusta tutti i possibili modi per poter ingarbugliare la precisa scaletta che ogni operatore deve per forza seguire per poter costringere il malcapitato ad acquistare quello che sta vendendo. Ecco, questo è quello che immagino avvenga giornalmente in casa Marinaccio. Il resto come i dialoghi, la perplessità del povero operatore incappato in questa situazione surreale o il testimone di Geova che ha citofonato al campanello -che si sa essere l’antro della prova più ardua della sua vita-, è tutto scritto da Claudio e, sebbene sia fatto di botta e risposta velocissimi e che non danno scampo, il tutto è davvero divertente.

Ecco se non siete pronti ad accettare che si possa comprare un buon libro possa anche suscitare ilarità avete un concetto ben strano della letteratura. Se c’è una cosa che ricordo come la prima volta che l’ho letto, è le risate che mi sono fatta quando leggevo dell’annosa lotta per smettere di fumare ne “La coscienza di Zeno” e come mi sono stupita che un “classico” potesse esser così divertente, non tutto d’accordo, ma quel pezzo era davvero spettacolare. E Claudio ce lo dimostra con quelle piccole ma sentite piccole foto di situazioni, che ci racconta a puntino, in piccoli capitoli che intervallano i dialoghi. Non è solo un interrompere il ritmo dell’ironia, ma è un vero e proprio momento di relax fra lettore e scrittore  a dimostrazione che la realtà ci riserva più di quel che ti aspetti e che suscita emozioni solo se la si sa raccontare senza orpelli di sorta. Così la coppia anziana che mangia al ristornate, il saccente del bar e via dicendo, tradiscono il senso del mondo che passa e ci permettono di guardare in faccia un’altra epoca e un altro modo di pensare. Non è che non si evolva, ma solo che, ad una certa età, non si è più flessibili come una volta – sia fisicamente che intellettualmente – e certe volte l’adattamento richiede più volontà e tempo del previsto.

A questo fa da contraltare la considerazione che il marketing stia impoverendo il mondo della vendita e l’uomo in generale. La normalizzazione dell’uomo e l’incasellamento in tipologie di utenza fanno sì che l’operatore non possa inizialmente e non voglia successivamente andare oltre la strada che gli viene imposta. Diventa difficile capire che chi stai chiamando è una persona e che devi interagire con lei per arrivare al nocciolo duro e poter vendere. Così quando l’operatore che immagina e rappresenta nitidamente Marinaccio arriva a chiamare proprio lui la contrapposizione fra marketing e uomo diventa come quella fra ordine limitante e caos creativo. Inutile che vi dica chi vince. Dei dialoghi qui riportati solo alcuni sono usciti su FaceBook e hanno avuto un gran successo e io non nascondo che, contrariamente alla mie abitudini, ogni tanto vado sulla bacheca di Claudio a vedere se ne ha pubblicato un altro. La scrittura è fresca, ritmata e divertente. Non è eccessiva, l’alternanza fra dialoghi ironici e i piccoli castoni è ben dosata. Ben scritto, nessuna parola più del necessario serve né per la battuta e tanto meno per i momenti un po’ più seri. Nella speranza di non ritrovarmelo davanti a qualche cantiere, ne sarebbe capace, a commentare con i nonnetti lo stato dei lavori, io vi consiglio di darci uno sguardo a questo libro, di certo non lo rimetterete giù. Ricordate che una risata non ha mai fatto male a nessuno.

https://letturesconclusionate.blogspot.it/2017/10/non-disturbare-claudio-marinaccio-due.html?m=1Simona

Non disturbare: la recensione di Simona Scravaglieri su Letture Sconclusionate

E ripartiamo questa settimana dall’ultima recensione della scorsa, sbirciando nel libro di Claudio Marinaccio “Non disturbare”. Il bello di questo libro è che, non essendo un romanzo, ma una raccolta di dialoghi e racconti si può leggere anche un po’ per volta mentre il problema è che, come inizi a leggerlo, è talmente divertente che non lo metti più giù fino all’ultima pagina. Come detto è un modo diverso con il quale guardare a tutto ciò che ci da fastidio abitualmente: i call center, i venditori porta a porta, i testimoni di Geova, i tuttologi e chi più ne metta. Possiamo scegliere di subirli o seguire l’esempio di Claudio che, a quanto pare, coglie l’opportunità per ridicolizzare, con lo stile e il semplice buon uso dell’italiano, tecniche di marketing che sono diventate obsolete e controproducenti e che però in Italia vengono ancora utilizzate largamente nella speranza che il malcapitato abbocchi.
Si legge bene questo libro, in parte perché, Marinaccio, ha dalla sua l’esercizio continuo nello scrivere pezzi per riviste online e cartacee -e quindi ha quella naturale propensione dei giornalisti a individuare e perseguire il punto di quello che si racconta in poco spazio- e per il resto perché riesce a tenere un ritmo incalzante, a sottolineare lo scambio di battute, e a rallentarlo ove occorre, per evidenziare immagini particolari.
Come titolava il libro di Sini premiato allo strega qualche anno fa “Resistere non serve a nulla”, a buon intenditore poche parole!
https://letturesconclusionate.blogspot.it/2017/10/dal-libro-che-sto-leggendo-non.html

Memorie di uno psicopatico: la recensione di Paolo Risi su Zest Letteratura Sostenibile

Venedikt Vasil´evič Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore russo. Alcolista, accattone, randagio e, forse proprio grazie a queste peculiarità, garante di un alterità disinteressata e sotterranea, antitetica rispetto al sistema politico e filosofico del regime sovietico. Memorie di uno psicopatico, diari e appunti giovanili, seguono Venedikt nel periodo racchiuso tra l’ottobre 1956 e il novembre 1957. Si sarebbe potuto rivelare un tempo di passaggio, la transizione che prelude all’età adulta e alla collocazione tra le fila dei buoni cittadini, ma per Erofeev quell’anno e poco più delineò la virata scomposta verso la terra dei reietti. Furono 13 mesi cruciali per la sua vita, scanditi dall’ammissione con lode all’Università Statale di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Venedikt sceglie quindi di esplorare e respirare, in piena coscienza, i margini della società sovietica. Pare di sentire i rimbrotti, le accuse contro un giovane che, nonostante le eccellenti qualità, si sta allontanando dalla via maestra, dal binario ideologico, estetico e letterario. Assistiamo al tirocinio di uno scioperato, di un amatore occasionale, di un senzatetto che spreca il suo tempo sui libri, a rincorrere una personale riconsiderazione del dissentire e del rivelarsi al mondo. Come davanti a uno specchio deformante Erofeev vede apparati e membri di partito contorcersi, contempla il riflesso seducente del libero arbitrio e lo pone a fondamento della propria poetica. A 17 anni e poco più decide di assumere su di sé il peso della contraddizione, il compito di instillare il dubbio su morale, società, letteratura, mezzi di produzione, senso religioso e quant’altro. È la formazione spirituale (anche in senso alcolico) di chi realizzerà, circa dieci anni più tardi, il capolavoro Mosca-Petuški, viaggio e cammino di espiazione dello scrittore attraverso i sobborghi di Mosca verso Petuški, un piccolo centro non lontano dalla metropoli. La libertà che gli è data dalla strada, dal non possedere nulla e dalla possibilità di poter usufruire di briciole e parole in prestito, rappresentano il motore dell’opera erofeeviana. È uno stile di vita che contempla il pericolo, l’eventualità di rotolare esanime nei fossi e nelle gazzarre da bar, ma che allo stesso tempo è propedeutico all’accumulo, seppur caotico, di dati e formule esperienziali, di precursori dell’invenzione letteraria.

Il venerdì è blu, incredibilmente blu, talvolta si carica di viola, talvolta ha riflessi azzurri, ma in ogni caso è immancabilmente blu. Il sabato ricorda il colore del tuorlo d’uovo, liscio, giallo e brillante; verso sera diventa roseo. La domenica è rosso sangue, d’inverno è scarlatta. Se la si guarda dalla parte del venerdì blu sembra vermiglia, ma è di per sé associata a bandiere e a un muro di mattoni. Il lunedì è così rosso che sembra nero. Il martedì è marrone chiaro. Il mercoledì appare bianco a un occhio distratto, ma in effetti è di un biancastro torbido, nel quale è difficile distinguere un colore definito. Il giovedì è verde, senza alcuna impurità.

Sventolando il vessillo della provvisorietà, Venedikt Erofeev rinuncia a combattere contro le istituzioni e il mondo esterno. La sua follia, il suo autoproclamarsi alieno, abbraccia una sorta di comunione con il divino, che si configura nell’immaginario ortodosso con il termine Jurodstvo, la follia in Cristo. “La scelta del giovane Venedikt” scrive Lidia Perri, che ha tradotto l’opera per Miraggi Editore e ne ha curato l’introduzione “è quella di essere reietto, di restare ai margini della società, di vivere di stenti, di privarsi di una vita materiale per avvicinarsi al divino. La figura del folle in Cristo ha un ruolo importante nella religione ortodossa, in quanto prescelto che si trova in uno stato di costante alterazione della percezione, cosa che lo eleva agli occhi del popolo”. Questa specie di lasciapassare sciamanico, di sigillo culturale e religioso, permette allo scrittore, in modo particolare nei dialoghi, di esibire la propria e l’altrui carnalità. Personaggi e caricature avvampano dalla pagina con una potenza misteriosa, colpi di rasoio e sberleffi rivolti al senso comune si alternano pagina dopo pagina e deflagra il sarcasmo contro il regime oppressivo, che impedisce libertà di espressione e di pensiero. Ma Venedikt è pur sempre un uomo mescolato alla polvere della strada, possiede una formazione che non gli permette di annunciare e promuovere verità. Dai bassifondi non c’è modo di sobillare, di attardarsi in analisi o storicizzare ciò è semplicemente e tragicamente vita. Con Memorie di uno psicopatico Erofeev mostra  di essere poeta e prosatore, intellettuale e polemista. Nelle pagine del suo diario trova spazio l’erudizione (quella che freme, quella dei 18 anni), si dilata un lucido e personalissimo filosofare, intriso di paradossi e goliardia. A tratti la comprensibilità delle considerazioni si sfrangia, assume connotati aneddotici, il rimuginamento alcolico libera il campo alla poesia, all’impollinazione dei sensi.

Lidia Perri, sempre nell’introduzione, evidenzia come i diari giovanili di Erofeev si accostino a una tradizione letteraria senza eguali e propongano al contempo tendenze e nuove fibrillazioni ideative: “Memorie di uno psicopatico è un’opera ambivalente, che si pone nella scia della tradizione, configurandosi come l’ultima delle Memorie, così caratterizzanti la letteratura russa da Gogol’ a Dostoevskij (si pensi a Memorie di un pazzo del primo e Memorie dal sottosuolo del secondo), e raccontando l’ultimo jurodivyj, il folle in Cristo: figura della tradizione ortodossa ma anche letteraria, presente in Leskov e in molti altri; al tempo stesso però, Venedikt Erofeev inaugura un nuovo approccio alla scrittura, che da lì a breve sarà chiamato Postmodernismo, nel quale si inserisce grazie ad artifici, quali, per esempio, il citazionismo e la fusione di generi”

Letteratura russa, il miraggio di Venedikt Erofeev. E poi Roberto Saporito, Claudio Marinaccio e Nicola Manuppelli. La recensione di Lorenzo Mazzoni su Il Fatto Quotidiano

 

Rappresentante del caos e del postmodernismo d’Oltrecortina, Venedikt Erofeev è una delle più rappresentative incarnazioni della letteratura russa del secondo Novecento. Condusse una vita dissestata, dedita all’alcolismo e all’accattonaggio, segnata da un continuo vagabondaggio di città in città. Scrisse la sua opera più importante, Mosca-Petuškì, nel 1970 (pubblicata inizialmente solo in Israele), in cui l’alter ego di Erofeev vaga per la città come un ubriacone, scoprendo infine la propria dimensione esistenziale.

Da poco è uscita, per la prima volta in Italia, Memorie di uno psicopatico (traduzione di Lidia Perri) per i tipi di Miraggi edizioni, nella collana Tamizdat (mai termine è stato più appropriato, in quanto nel blocco sovietico si indicavano con questo termine le opere, per lo più straniere, fatte circolare clandestinamente, destino che tutti i lavori di Erofeev hanno subito fino alla caduta del Muro).

Memorie di uno psicopatico è una raccolta di diari giovanili che mette in luce i temi dellautodistruzione e dei mali della società contemporanea. Mischiando esperienze autobiografiche con riflessioni filosofiche e grottesche, talvolta assurde e comiche, l’autore riesce a dare un ritratto onesto e impietoso della Russia destalinizzata. Tutto passa attraverso l’alcol. Bere e scrivere sono collegati: una via di fuga dalla pochezza quotidiana ed estasi della libertà emotiva, il lirismo e il cinismo. Una testimonianza indimenticabile di un grande scrittore che già da giovane non faceva sconti a nessuno, a partire da se stesso.

Sempre per Miraggi edizioni sono usciti altri testi interessanti, molto diversi tra loro. Si tratta del nuovo, brevissimo romanzo di Roberto Saporito, Respira, viaggio letterario sulla morte, legato idealmente al crollo delle Torri gemelle, da cui prende spunto il plot, e che investiga, supportato da una miriade di consigli letterari e di citazioni, sull’evasione e sulla libertà spirituale e intellettuale. Non disturbare, di Claudio Marinaccio, dialoghi e riflessioni (più taglienti le seconde) di vita quotidiana. Intoppi di comunicazione che assillano tutti: telefonate con offerte commerciali, i testimoni di Geova, incontri in metropolitana, spalle su cui piangere dopo una delusione d’amore. Quello che dice una cameriera, di Nicola Manuppelli, raccolta poetica incisiva e ritmata che deve molto a scrittori americani contemporanei, di cui l’autore è un importante traduttore e biografo.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/10/03/letteratura-russa-il-miraggio-di-venedikt-erofeev/3891776/

Valerio Di Benedetto con la sua poesia evoca la sofferenza di Antigone. La recensione di Anya Baglioni su magazine.gold

“Ho scritto un libro di poesie”, esordisce un giorno Valerio. Scrivere poesie nel 2017? Nel periodo in cui l’indice di lettura è drammaticamente precipitato? Ma Valerio lo conosce fin troppo bene il dramma: ne è espressione ed insieme lo sfrutta come materia, trasformandolo, facendo di esso un’ispirazione, interpretandolo in una strada per far piangere i passanti. Attore, illuminato dal genio dell’arte che permea di luce ogni sua esegesi, non ha iniziato a “scrivere poesie pensando che avrei pubblicato un libro. E’ una domanda che non mi è mai balenata per il cervello”. Quando le composizioni hanno cominciato ad essere più che qualcuna, ha determinato che sarebbero state parte di una raccolta “in controtendenza all’abbassamento culturale che c’è in questo momento”.

Gli sono bastati 10 secondi per decidere: “ho pensato alla sfida” dichiara, e “ce l’avrei potuta sicuramente fare”. Ha scritto di getto, nella notte, nel silenzio che batte quando ogni voce si è quietata, palcoscenico per il demone della sofferenza che affonda le proprie unghie nelle ore più piccole, quando ogni barriera si abbassa, seguendo la scia del sole. Un demone che ricorda un cuore che prima batteva e che l’unico modo per guarirlo, Valerio, l’ha trovato in una penna. 

Amore A Tiratura Limitata nasce dal coito di “una separazione e da una sofferenza. Il bisogno di colmare o di capire quel vuoto che hai dentro, rendendosi conto delle proprie zone d’ombra”. Tutto parte da un sentimento: uno spezzato, uno che eccede, uno che travolge, uno che cerca di curare eValerio ha cercato di “esorcizzare una sofferenza tramite la poesia”, ma puntualizza “non ho seguito nessun tipo di struttura classica”, perché non gli interessa. Adesso sta cominciando a scrivere haiku, “ma giusto per esercizio stilistico”. La considerazione del concetto di poesia stravolta da un abbandono volontario di ogni schema canonico, che riesce comunque ad essere considerata tale e Valerio si chiede se “Pablo Neruda rispettava dei canoni? È più un lavoro ad immagini. Hanno un potere fondamentale, perché si basa tutto sulla descrizione e la sensazione che lascia ad ognuno”. Evocativo, “io lavoro ad immagini” puntualizza “per il fatto che sono un attore e metto il focus su una parte che m’interessa, vado a campo largo – campo stretto, faccio un primissimo piano e da lì trovo un finale ad effetto”. Ma non è una costruzione, mi spiega. Mi fa un esempio, in cui il suo discorso si trasforma in versi senza metrica e sento lo stridere delle cicale.“M’interessa il diverso punto d’osservazione”: un rumore oggettivamente fastidioso, che al pensiero della vista dell’amore, diventa “armonia celestiale”. Piccoli quadretti, che potrebbero essere opera di Vermeer, per quanto si riesce a cogliere il dettaglio e la limpidezza di ogni particolare – quello ogni giorno visibile e quello sempre invisibile. Ad oggi, non esiste più una vera e propria corrente – come poteva essere qualche decennio fa – in tutte le varie forme d’espressione. Ci sono delle variazioni che si separano totalmente dal concetto stesso di corrente artistica. Non solo è cambiato il criterio, ma anche i canoni attuali non sono stati evoluzione dei precedenti, ma rinnovati. Il nuovo canone è assenza del canone, ma questo perché “si è ripreso tutto” m’interrompe Valerio “e non c’è più una corrente come ideologia”. E quindi solo frivolezza. Prendere la superficialità d’impatto dell’epoca contemporanea e riuscire ad essere evocativi: questo è il nuovo canone odierno. Ma a Valerio interessa solo “tirare fuori l’immagine che ho dentro di un bisogno insoddisfatto” trasformando esso stesso in canone “ma all’interno del quale mi permetto la libertà di averne uno”, perché il punto è che “non scrivo per compiacere, ma per raccontare un qualcosa”. 

La spontaneità dell’emozione: liberare l’inconscio stretto in catene, nascosto nei meandri della propria oscurità. Nel momento in cui Valerio ha provato a scrivere composizioni alle quali aveva imposto una struttura“non sono mai uscite: non funzionavano, erano artificiose”. La poesia di Valerio è “Forrest Gump visto da Notting Hill”. Un’urgenza che viene trasmessa, perché ha la natura originaria e la purezza di essere tale. Amore A Tiratura Limitata è l’excursus di una separazione, che viene descritta passo passo, post-rottura ed è uno stillicidio. Giorno dopo giorno, la sofferenza corrode il poeta e l’unico modo per esorcizzarla è scrivere: il lettore vive lo stesso dolore dell’autore, “perché l’abbiamo vissuto tutti” precisa, “non per forza è una separazione sentimentale: può essere un lutto, una perdita d’amicizia… E’ un punto di vista universale. Un archetipo e come tale appartiene a tutti”. La sofferenza di Antigone: l’umanità, “questo è il canone delle mie poesie”. Comporre una raccolta in cui si esprime un sentimento così profondo che è frutto di un altro ancora più viscerale, è una dichiarazione nero su bianco di un’immensità presumibilmente non paragonabile, né replicabile, dalla quale è difficile riemergere ed invece è successo “nel momento in cui ho pubblicato il libro come volevo io, dopo due anni e mezzo”. Un vissuto così intimo che viene reso pubblico e fatto proprio da estranei. Una concretizzazione che spaventa, ma se così non fosse “non permetteresti alle persone di essere incoraggiate dalla tua storia”. 

L’esortazione di Amore A Tiratura Limitata è quella di decidere di “andare fino in fondo all’inferno che vi siete scelti di attraversare consciamente. Se andrete fino in fondo, quando ne uscirete fuori, avrete vinto”. A un certo punto, contemporaneamente a questo progetto interiore, Valerio capisce che l’incoraggiamento può prendere anche altre strade, o più precisamente “le strade”. E’ così che realizza Umanamente In Bilico: i suoi versi su serrande. Dipinte, all’improvviso, versi che si manifestano con i colori del loro significato. E Umanamente In Bilico è figlio di Flavio Solo e Er Pinto, “miei inconsapevoli genitori”, non tanto perché gli abbiano praticamente insegnato la realizzazione effettiva del pensiero sotto una forma diversa, ma “di capire, di vedere, di provare a sperimentare e di farmi scoprire da una cosa che mi piaceva tantissimo”. Una gratitudine immensa e l’entusiasmo di investire tempo ed energia in una fusione di mani e pensieri che insieme diventano un’unica cosa: uno spray, un verso, un muro; un bandone, un’ode, un pennello… Scambiandosi menti e dita, rimane la completezza dell’opera, che vuole proseguire nel tempo ed evolversi, perché“senza condivisione è tutto arido”. Le non-rime di Amore A Tiratura Limitata sono state il risultato di un soffio che ha sospinto la mano di Valerio a strapparsi quel cuore, che stava diventando atrofico. Brevi poesie in cui in ognuna si annusa l’odore delle lacrime. Una poesia specchio per ogni emozione sopita, che il lettore non ricordava di aver provato. Un’empatia che confonde: sono io che leggo o la poesia sta leggendo me? Un’anima abbandonata su un palcoscenico che decide di mostrarsi nuda sotto i riflettori freddi, in una sala, che al momento dell’apertura del sipario era vuota.

Valerio Di Benedetto Con La Sua Poesia Evoca La Sofferenza di Antigone

Cari jihadisti… La recensione di Alessandro Gnocchi su il Giornale

Cari jihadisti… La recensione di Alessandro Gnocchi su il Giornale

Lo scrittore francese Phillippe Muray (1945-2006) è l’ennesimo segreto della cultura europea che nessun editore voleva rivelare al lettore italiano. Non solo «fa discutere» ma è davvero «controverso» (…) Sono stati quindi coraggiosi i due editori che gli hanno dato la parola: Mimesis, che oggi propone “L’Impero del Bene”, e Miraggi, che ha stampato l’anno scorso il non meno interessante “Cari jihadisti…”

Il saggio “Cari jihadisi…” uscì in Francia nel 2002. L’anno scorso è stato pubblicato da Miraggi Edizioni (traduzione di Francesca Lorandini e Oliier Maillart; postfazione di Lakis Proguidis). E’ una lettera aperta ai terroristi islamici che hanno progettato e realizzato l’attentato delle Twin Towers, a New York, l’11 settembre 2001. Sul filo del paradosso, Muray sostiene che il loro gesto è stato inutile: l’Occidente, in preda alla smania di rinunciare a individualismo e libertà, è morto ormai da tempo. Scrive Muray ai terroristi: «Credete di mettere in scacco un’intera civiltà… Mirate al mulino sbagliato. Qui non c’è nessuna civiltà».

Respira: la recensione di Francesco Clemente su Mangialibri

Respira: la recensione di Francesco Clemente su Mangialibri

Settembre 2001, New York. Un uomo si sveglia, si volta, non trova il conforto di un orologio che segni un orario. Ha la testa appesantita, dovuto ad un sonno breve e difficile. Afferra, dunque il cellulare posto sul comodino, ancora sotto i fumi dell’alcol, lo guarda un istante: è davvero tardi. Accende la macchinetta del caffè, accende la televisione, si reca in bagno. Mentre si specchia, ancora stordito e mentre la macchinetta sbuffa, dallo schermo del televisore vede che una delle Twin Towers è ammantata dal fumo, proprio lì dove ci sono gli uffici che quotidianamente ricordano il lavoro da svolgere. Non è finita, perché il giornalista non ha il tempo di gridare all’incendio e ai dispersi che un aereo colpisce la torre nord. In quegli istanti, l’uomo realizza un pensiero: “sparire”. La mente corre verso e su una Vespa degli anni Settanta, un pezzo da museo della meccanica dei trasporti, in direzione apposta a quel fumo famelico che tutto inghiotte, in un trambusto incredibile di una New York post-atomica. Il pensiero di sparire è dolce, consolatorio, un’occasione per azzerare il passato. Rinascere. Un’arte non da poco. Ma chi è morto? Un mercante d’arte…
Roberto Saporito con Respira verga un romanzo di pregiata fattura, un’opera che spicca fra tanto ciarpame narrativo, spesso propinato come “caso letterario”. Qui siamo su altre vette, le grigiastre suggestioni dell’apocalittico paesaggio della tragedia del crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 si combinano con atmosfere psicologiche sospese fra Sartre e Pirandello, sciorinando uno stile davvero personale, fatto di espressioni icastiche molto elaborate, frutto di un lavoro di sintesi estetica raffinatissimo. Dal genio siciliano de Il fu Mattia Pascal Saporito riprende la suggestione della nuova identità del protagonista spacciatosi per morto, con tutto il fardello che comporta, riproponendolo con una linfa nuova, in linea con la contemporaneità, senza debordare in una sorta di insopportabile sperimentazione letteraria velleitaria pseudo-joyceana, ma cercando appunto lo spunto narrativo originale; dal genio francese de L’essere e il nulla sembra incamerare la suggestione della difficoltà per il protagonista di esercitare appieno la libertà, rimanendo paradossalmente schiavo. Respira: è l’invito amoroso che Yoko Ono fece a Lennon al momento del loro primo incontro nel 1966 ad una nota mostra d’arte. Ed è anche l’ambizione del protagonista di questa perla letteraria.

http://www.mangialibri.com/libri/respira

Respira: la recensione di Francesco Clemente su Mangialibri

Respira: la recensione di Vincenzo Soddu su libriedintorniblog

Roberto Saporito è un vero scrittore, di quelli che conoscono a tal punto la letteratura da costruire congegni perfetti e piacevoli.
Il suo nuovo lavoro s’intitola Respira, ed è uscito per Miraggi di Torino, Casa giovane e attenta alle novità, anche stridenti.
La trama, dunque.
11 Settembre 2001. Crolla la torre sud delle Twin Towers, e il protagonista, che sarebbe dovuto essere già lì al lavoro, come ogni giorno, e invece è ancora a letto reduce da una sbronza, decide di sparire.
Mercante d’arte stronzo e spietato. Meglio sparire, tagliarsi barba e lunghi capelli, salvare la vita a un energumeno e riordinarsi le idee: un nuovo passaporto falso fornito dal nuovo amico e intanto già compare nell’elenco ufficiale degli scomparsi.
Tre anni dopo lo ritroviamo in un bistrot di Saint-Rémy-de-Provence dove si gode finalmente la vita, grazie anche ai soldi fatti quando era uno stronzo manager della Grande Mela, finchè… finchè la vita chiede il conto, anche se la vita, quella vita, non è più la sua…
Rocco Balestrini, ex socio del capitale sottratto dal protagonista in quella mattina maledetta, ma per molti altri versi benedetta, l’osserva a due passi dal tavolino del suo rassicurante bistrot…
E l’intreccio s’accende, d’improvviso, come nel miglior Saporito, lungo il solco leggero e raffinato della letteratura d’autore…
La fuga, stavolta obbligata, porta l’autore a nascondersi prima in una casa nelle Langhe, quindi in un altrettanto suggestivo rifugio nel Chianti assieme a un’affascinante puttana che tutto sembra fuorchè una puttana, e poi ancora a Roma e poi a Venezia…
Mentre l’ex mercante d’arte scappa da un luogo all’altro viene spontaneo chiedersi se sia possibile sfuggire improvvisamente a un’esistenza prestigiosa ma frenetica che ti ha tolto quasi il gusto di vivere…
La risposta va cercata nelle pieghe di questo libro esile ma ricco di profonde suggestioni, e così la stessa chiave del libro, sempre vivo e piacevole, sta proprio nel titolo, nel tentativo continuo del protagonista di imparare a respirare davvero, nel tentativo di sottrarsi a uno stanco riflesso di sopravvivenza che è oggi comune un pò a tutti noi…
Ci riuscirà? Questo, forse, non è giusto svelarlo, ma, forse l’autore ce ne dà una parziale idea in questa folgorante citazione: “Quando incontri solo persone nuove e mai persone
che hanno fatto parte della tua vita mentre questa cresceva di
giorno in giorno e di anno in anno, lo scorrere del tempo diventa un bugiardo difficile da sbugiardare, o più semplicemente un bugiardo che vuoi sbugiardare. Quando muori e rinasci
lo scorrere del tempo acquista un altro significato o forse perde
del tutto il suo vero significato, qualunque esso sia.
Quando muori e rinasci sei già più fortunato degli altri,
che quando muoiono, di solito, non rinascono…”
Un libro da leggere e meditare, di un autore in costante crescita…

Libri. Respira, di Roberto Saporito.

Una disperata ribellione verso il mondo. La recensione di Antonio Cerasa su almanacco.cnr.it

Una disperata ribellione verso il mondo. La recensione di Antonio Cerasa su almanacco.cnr.it

Venedikt Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore-simbolo per intere generazioni, oltre che un autore tra i più controversi del post-modernismo russo. La sua vita al limite tra dipendenza da alcool e vagabondaggio ha fortemente contribuito sia alla sua immagine di reietto, sia alla crudezza della sua scrittura, che trova la massima espressione nel suo bestseller clandestino ‘Mosca-Petuska’. Un’opera grottesca, visionaria, tragicomica, che parte da Mosca per un viaggio forse mai compiuto.

‘Memorie di uno psicopatico’, scritta nel 1956 e ora riproposta da Miraggi, è una rarità. Si tratta infatti del primo libro di Erofeev, caratterizzato da un insieme di memorie scritte su pagine di un diario di cui non si conosceva l’esistenza. Pubblicato in Russia solo nel 2000, il libro è una costellazione di riferimenti e contestazioni furiose sui totem e i tabù della società sovietica. Protagonista di questi racconti è Venedikt, alter-ego dell’autore che, ancora giovanissimo, esprime la sua disperata ribellione verso il mondo.

Il libro mostra la psichedelica visione del mondo dell’autore: questi diari giovanili seguono il giovane Venedikt nel periodo che va dall’ottobre 1956 al novembre 1957. Tredici mesi cruciali, dall’ammissione con lode all’Università di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Il racconto delle esperienze autobiografiche si accavalla e si interseca con riflessioni di carattere filosofico, pseudoscientifico, spesso assurdo. Ciò che colpisce immediatamente è l’andamento bipolare della scrittura tra rabbia incontrollabile a paura, tra odio e bisogno di affetto; lo spazio e il tempo non hanno confini e la metrica del linguaggio di Venedikt richiama le figure cinematografiche dello sterminatore di scarafaggi William Lee nel film ‘Pasto nudo’ (David Cronenberg, 1991) o di Michael Anderson, il nano immaginario del telefilm ‘I segreti di Twin Peaks’ (David Lynch, 1991).

La violenza narrativa con cui Venedikt fa sentire la sua psicopatologia ci ricorda che ancora oggi, a oltre 60 anni dall’uscita di questo libro, esistono milioni di persone che come lui vagano perse per il mondo alle quali nessuno sa indicare loro la via del ritorno a casa. Anche se negli ultimi 40 anni, la scienza della malattia mentale è diventata capace di fornire diagnosi sempre più accurate.

Antonio Cerasa

La bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana. La recensione de Il Foglio

La bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana. La recensione de Il Foglio

Petr Král non ha bisogno di tante presentazioni, essendo uno dei maggiori poeti cechi contemporanei che lasciò l’amata Praga nel 1968, all’arrivo dei carri armati sovietici dopo la fin troppo breve “Primavera”, per poi tornarci solo nel 2006, poco più di dieci anni fa. Nozioni di base è la raccolta di tanti sguardi, personalissimi e originalissimi, su oggetti della vita quotidiana e momenti che scandiscono il passare ineluttabile delle ore. Appunto, si tratta di “nozioni di base” che – come ha scritto la traduttrice Laura Angeloni – ci guidano attraverso un viaggio di scoperta e riscoperta della realtà, “insegnandoci che ogni istante della vita, anche il più fugace e apparentemente futile, può riempirsi di significato se solo abbiamo la pazienza e l’abilità di osservarlo più a lungo, lasciandoci trasportare dalle nostre suggestioni”.

“E’ sorprendente come tutte queste situazioni quotidiane, tanto insignificanti quanto elementari, si lascino così poco influenzare dall’originalità di una psicologia. Esse ci attendono, ci sottomettono. E’ una lezione di modestia che la bella e strana enciclopedia esistenziale della vita quotidiana di Král impartisce al nostro individualismo”, scrive Milan Kundera nelle prime pagine del volume. Ma quali sono queste “nozioni di base” su cui si sofferma il poeta? Una, tra le prime che compaiono nella rassegna (ragionata) è il caffè, e dalla sua lettura si comprende bene lo stile che pervade l’intera opera: “Lasciarsi portare verso se stessi da un sorso bollente, inaspettatamente preciso, della bevanda che ci scorre in corpo insieme ai residui del buio notturno e affermare chiaramente la propria presenza, nonostante la momentanea indefinitezza dei nostri gesti e la sonnolenza del momento”. Lo starnuto, invece, fa a dire a Král che grazie a esso “di colpo fendiamo l’aria e penetriamo più nel profondo con una determinazione proporzionale alla sua forza; nell’impatto ritroveremo noi stessi, ma meno insoddisfatti”.

I treni, che “da quando esistono sappiamo che quelli su cui viaggiamo non sono mai quelli in cui siamo seduti”. Lo spettacolo, che è quello “del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo”. Insomma, sono alcune delle centoventitré “nozioni” che compongono il volume. Scrive Massimo Rizzante che “la regola d’oro di Král è che basta guardare a lungo una camicia per distorcerla di un nonnulla e gettarla nella pianura sconosciuta dove vi abbraccia come un’amante dimenticata”. E’ grazie al suo stupore, che poi è ciò che dà linfa e vita alla composizione, “davanti agli oggetti e alle situazioni della vita quotidiana, concepiti come apparenze, che il poeta scopre una dimensione nascosta della prosa del mondo”. Terminata la lettura, soprattutto se veloce e non a sufficienza “concentrata”, si potrebbe rimanere perplessi, non capendo cioè cosa in realtà si abbia letto. Una raccolta? Qualche aforisma? Ben di più, sostiene Yves Hersant, che evidentemente ha condiviso tale suggestione. “Petr Král non è affatto incompatibile con la saggezza del romanzo. Di questo romanzo che scrive in pieno cammino, come una storia multipla e frammentaria, senza smettere di scrivere nemmeno in curva. Non è stato forse proprio lui a dirlo chiaro e forte: la missione del poeta non è affatto quella di fine dicitore, quanto più semplicemente d’un topografo (agrimensore, per dirla con Franz Kafka) dell’esistenza?”.