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Dialoghi surreali per difenderci dalla decadenza. La recensione di Nicola Vacca su Liberi di scrivere

L’imbecillità cammina sulle gambe degli uomini. Il villaggio globale è diventato un baratro in cui la prevalenza del cretino è ormai legge. Sembra impossibile difendersi da questo esercito di idioti che ogni giorno entra a gamba tesa nelle nostre vite. Claudio Marinaccio lo fa scrivendo un libro. Non disturbare, il titolo è già tutto un programma. Lo scrittore torinese – con il suo stile esilarante in forma di diario – ci racconta frammenti della sua vita quotidiana, in cui pare davvero impossibile non avere a che fare con la stupidità invadente. Dialoghi comici e surreali per difendersi con l’ironia da tutta questa decadenza che ci sta uccidendo. E se i Testimoni di Geova bussano al citofono perché vogliono parlare della loro ricetta per la salvezza dell’anima, Claudio con il sorriso sulle labbra e con la sua ironia fuori dal comune li prende in giro fino a farli spazientire (Suona il citofono. Chi è. Ha mai pensato alla sua salvezza? Di solito punto alla Champions). Marinaccio senza peli sulla lingua ci regala frammenti di conversazioni. Oggetto di questo suo diario è il nostro quotidiano massacrato dalla presenza di un’imbecillità che si manifesta a noi nella forma invadente dell’ idiozia. L’unica arma per difendersi dall’imbecillità odierna è riderci sopra. Claudio Marinaccio lo fa scrivendo un libro ironico e tagliente che dovremmo sempre portare con noi e usarlo come manuale di autodifesa ogni volta che sulla nostra strada incontriamo un imbecille. E siccome capita spesso, tocca armarsi di tutta l’ironia possibile per sopravvivere alla dittatura del luogo comune. L’autore di questo libro lo ha fatto e non ha rinunciato a una elevata dose di cinismo annotando sul suo taccuino quello che gli accade ogni volta che ha a che fare con la banalità dell’imbecillità. Non disturbare vi divertirà per la sua ironica e sferzante cattiveria. Claudio Marinaccio si conferma uno scrittore fuorilegge e anche questa volta ha il coraggio di scrivere quello che tutti pensano e che non hanno il coraggio di dire. Non citofonategli. Lui non ama la ciarla quotidiana e con eleganza e ironia vi manderà a quel paese. Siete o non siete Testimoni di Geova. L’unico modo per difendersi dagli imbecilli è prenderli per il culo con ironia. Se siete sarcastici e intelligenti leggete Non disturbare. Ma fatelo anche se siete imbecilli, anche se alla fine non lo capirete.

Respira: la recensione sulla Gazzetta d’Alba di Edoardo Borra

«Il famoso mercante italiano d’arte contemporanea è morto». Quando questa notizia prende forma, ci troviamo a New York, anzi a Manhattan; e siamo all’11 di settembre, del 2001. E come si potrà mai morire, quel giorno? Facile che si possa sparire, letteralmente, nel crollo delle Torri gemelle, se in uno dei due grattacieli si ha un ufficio che «è diventato la tua vita, l’unica cosa che fai, l’unica cosa che pensi, l’unica cosa che ti fa alzare la mattina, tutte le mattine, tranne oggi». Quel “tranne” introduce il caso, la fortuita eccezione su cui Roberto Saporito ha costruito il suo nuovo romanzo, uscito per Miraggi Edizioni e intitolato Respira (che, il caso vuole, è un anagramma di “sparire”). Il famoso mercante si sveglia più tardi del solito, il collasso delle torri lo vede in diretta TV… e decide fulmineamente di esser morto, di fuggire con uno zaino zeppo di soldi fatti in nero e cambiare così una vita da cui non avrebbe avuto, altrimenti, la forza morale o il coraggio di uscire. In due pagine, la storia è partita, veloce, e la seguiamo dalla prospettiva del “morto”, che parla con il “tu” narrativo, e anche per questo pare morto davvero: solo, inesistente per il mondo, cercherà di “sotterrarsi” sotto un nuovo nome, facendo tabula rasa, unico souvenir del passato il mucchio di soldi che gli paga un presente agiato e senza obblighi in un buen retiro provenzale. Ma «non si è mai morti abbastanza» e «il mondo è troppo piccolo per riuscire a sparire veramente»: la vita bussa a esigere il suo credito, come prescrive il noir, e il nostro anti-eroe non può far altro che scappare ancora, di nuovo sparire, in un mondo desolato e distaccato, in cui improvvisamente appaiono figure che complicano le cose, o accendono l’illusione della riparazione. Come Francesca, con cui si apre la seconda parte del romanzo: altro avvenimento inatteso, altra decisione repentina: «Dove vai?» «Non lo so» «Posso venire con te?»[…]«Dove andiamo?» «Partiamo, qualcosa mi verrà in mente». Ma il personaggio che segna la storia, e la riassume, è senz’altro quello di Adelmo, un vecchio contadino toscano che è insieme comico e tragico: un oracolo (apparentemente?) sconnesso, un feroce angelo custode, un addolorato, saggio eremita («Il mondo è più bello visto da lontano») o un Chance Gardiner del Chianti? Certamente uno che deve misurarsi, anche violentemente, col caos, avendo in cuore un’idea precisa di bellezza e di ordine. Costruire-distruggere, sparire-respirare, sono gli opposti tra cui Saporito ha fatto oscillare il suo racconto, secondo un ritmo e una struttura calibratissimi: accelerazioni, intervalli, stacchi ed ellissi si portan dietro il lettore per poco più di 100 pagine, ma attraverso (contando i flash-back) quattro decenni della vita del narratore, segnati dalla presenza-assenza delle Twin Towers. Che non sono uno sfondo di comodo, o d’effetto: c’è un loro convincente uso “biografico”, oltre che simbolico. Le case, come sa bene il lettore affezionato di Saporito, hanno spesso un significato illusorio, di trappola o di speranza: in Respira c’è, tra le altre cose, il tentativo di “trovar casa” in un senso più ampio, la ricerca della differenza tra un edificio senz’anima («Vai alla finestra e guardi fuori e fuori c’è un palazzo uguale a questo, identico, stessa altezza, stesso colore, stessa tetraggine e senso di assoluto abbandono») e uno che diventi un monumento privato, che possa resistere alla «disgregazione del tempo perduto». È una resistenza improbabile, e il narratore lo sa bene: conscio di essere un «abitatore perplesso del presente», come arriva a definirsi, tenta in maniera sempre più disincantata di esser vivo pur senza essere qualcuno. Respira, di cui sarebbe scriteriato rivelare qui gli snodi o “bruciare” i personaggi, si può considerare un’indagine – o forse meglio, un referto ‒ sul rapporto tra esistenza e identità; e una nuova tappa dell’ormai notevole percorso letterario di Roberto Saporito, che, piaccia o meno, si conferma un autore vero.

L’assurdità del quotidiano. La recensione di Erika Pucci su versiliatoday

 

Claudio Marinaccio, autore di racconti, ci propone situazioni quotidiane narrate con ironia secondo il sistema della parodia. Testimoni di Geova, compagnie telefoniche, telefonate moleste di marketing sono gli episodi noti e familiari che l’autore condivide in una narrazione ironica, intelligente, politicamente scorretta e consapevole di ciò. Sono episodi di una quotidianità minima riconoscibile, dove dietro l’ironia e il cinismo, corrono gli affreschi contraddittori di questi tempi. Il tono della scrittura è scanzonato, leggero, arguto, capace di tessere una commedia divertente ambientata in provincia che spazia dai “bar Sport” alle fughe in metropolitana verso la città. Una carrellata di tipologie e personaggi che entrano e escono nella commedia umana di Marinaccio scandiscono il ritmo dei dialoghi: pagine e stilemi che fanno sorridere, ma anche riflettere come il capitolo dedicato al cambiamento della pornografia con l’avvento di internet che ha trasformato gli utenti da consumatori a protagonisti. Emergono in maniera sottile alcune situazioni come le cold calling, la gestione della privacy che nei rapidi mutamenti attuali sono ancora nel nostro Paese a uno stato selvaggio costituendo delle ingerenze nelle vite dei cittadini. Lo scrittore sa empatizzare con il lettore, coinvolgendolo nel proprio punto di vista su episodi comuni, un punto di vista personale che però si fa sguardo esterno per delineare i contrasti e le assurdità di questioni quotidiane in cui siamo talmente immersi da perdere la distanza di un necessario sguardo oggettivo. All’interno del viaggio di Marinaccio sono presenti anche alcuni racconti più intimi che bilanciano il tono divertente della narrazione, confermandone la capacità narrativa e la sensibilità umana in una scrittura limpida e scorrevole.

Respira: la recensione di Giulietta Iannone su Liberi di scrivere

 

Forse Don DeLillo in L’ uomo che cade aveva posto la parola fine dando compimento agli scritti ispirati, connessi, influenzati da ciò che accadde l’ 11 settembre 2001 all’ombra delle Torri Gemelle del World Trade Center. La vita a New York, la storia contemporanea tutta cambiò da quel giorno, cambiò da quel giorno anche il modo di raccontare le storie, di documentare la realtà, di provare un senso di comunione tra sconosciuti, gli stessi che da ogni angolo del pianeta videro quelle immagini polverose nello schermo fosforescente dei loro televisori. Io ero in un ufficio di collocamento, ricordo che tutti i dipendenti smisero di lavorare alle loro pratiche, si alzarono e rimasero muti, come statue di sale, davanti a teleschermi altrettanto muti, attaccati alle pareti. Anche il mio stato di laureata in cerca di lavoro perse importanza quel pomeriggio. Poi certo la vita avrebbe ripreso il suo corso, ma quel gap rimane nella memoria collettiva di molti. Essendo forse stato detto già tutto non serviva un nuovo romanzo che trattasse questo tema, che scavasse nelle macerie dei ricordi di quel dramma, tuttavia per un autore che vuole analizzare la contemporaneità è difficile oscurare, ignorare quel giorno. E’ come un idolo muto, un avvenimento che ha trasceso la storia, che si può usare come pretesto, come appiglio per parlare dello stesso sgomento, della stessa caduta che può vivere un uomo del nostro tempo, integrato, disilluso, scontento, in cerca di nuovo ossigeno per i suoi polmoni stanchi. E proprio così fa Roberto Saporito nel suo nuovo romanzo breve,Respira, edito da Miraggi edizioni, collana Golem. Quello che accadde l’ 11 settembre 2001 all’ombra delle Torri Gemelle del World Trade Center è la scintilla da cui si genera una storia contemporanea, attuale, generazionale se vogliamo. La storia di un uomo in fuga, che accoglie come un dono del destino il fatto che sia stato creduto morto quel giorno. Prende i fondi neri della sua galleria d’arte contemporanea, (non solo suoi, anche del suo socio, insomma scappa coi soldi un po’ come Marion Crane in Psyco) e inizia la sua nuova vita prima in un motel di periferia, poi cercando di vivere a New York con una nuova identità, poi vagando tra la Francia e l’Italia, ultima tappa del suo vagare Venezia, dove avrà la più ingrata delle rivelazioni, che non anticipo, perché non si svelano i finali, ma che ricollocherà tutta la sua vita sotto una nuova prospettiva, dandogli una nuova amara consapevolezza. Dunque si fugge per respirare, ma non si può fuggire da se stessi, il vecchio io torna, ci tormenta, ci ingabbia in pareti di vetro temprato. Una parabola decadente, scritta con lo stile elegante e misurato di un autore colto e raffinato che conosce i luoghi che narra. Che lui stesso ha avuto una galleria d’arte, tanto che le cadenze autobiografiche danno autenticità a uno scritto che se vogliamo può avere anche le connotazioni di un crime. Ci sono soldi rubati, una fuga, un ex socio simile a un mafioso con guardaspalle che lo insegue. Ci sono dei morti, delle disillusioni, delle discrepanze, (la storia è narrata in seconda persona, quel tu quasi disorienta). Tutto comunque resta nei canoni di una parabola esistenzialista, di un narrato teso a parlarci delle profondità insondabili di un personaggio tormentato, di un uomo qualunque, anche di successo, di quelli che dalla vita hanno avuto tutto, che all’improvviso rinnega il suo vissuto per un ideale (di libertà?) e si ricostruisce il suo mondo a misura delle sue aspirazioni, e Saporito fa tutto ciò senza volerci sorprendere e scuotere con effetti speciali, proiettili (qualche proiettile a dire il vero sarà sparato) e colpi sotto la cintura. Da leggere.

Respira: la recensione di Grazia Giordani sull’Arena

Il nuovo romanzo di Roberto Saporito «Respira» (Miraggi, pp.112, euro 12) per alcuni versi ha una allure pirandelliana, evocandoci, anche se in forma assai diversa, l’atmosfera del «Fu Mattia Pascal». Sopravvivere alla propria morte è un sogno letterario di lunga tradizione. Morire per rinascere, fuggire per vivere, per respirare. E quale occasione migliore per sparire dal mondo di una tragedia che il mondo l’ha cambiato? L’11 settembre 2001 il protagonista del romanzo avrebbe dovuto trovarsi in una delle Torri Gemelle. La fuga è una decisione repentina, l’istintivo aggrapparsi a una opportunità irripetibile. Ma fuggire è lungo, estenuante, pericoloso, sanguinoso, Chi fugge viene inseguito e per tornare a respirare deve attraversare un romanzo intero. Denso e teso come un noir all’antica. Il romanzo inizia a New York l’11 settembre2001, nel momento esatto in cui crollano le Twin Towers, ed ha come idea di fondo il grande ed intrigante tema della costruzione di una nuova identità, infatti il protagonista (la storia è raccontata alla seconda persona singolare) un mercante italiano di arte contemporanea approfitta del fatto che tutti pensino che sia morto, scomparso nel crollo delle torri gemelle per sparire davvero, e crearsi una nuova identità, appunto, da un’altra parte del mondo. Ma il fantasma del passato, la sua vecchia vita e un personaggio in particolare di allora, fatica a scrollarsi da quella nuova, trasformandosi quasi in un tormentone esistenziale, una sorta di pesantissima e ingombrante zavorra che lo tiene ancora nel passato, che fatica a passare, nonostante tutto. Quasi a dire che morire non basta per essere lasciati in pace. «Non si è mai morti abbastanza» dice a un certo punto il protagonista del romanzo. Un libro sul tempo passato (ma anche sul ripudio dello stesso) e sulla possibilità di costruzione di un futuro nato però dal non facile affrancamento quasi dalla cancellazione piena di problemi del passato stesso, e, in ultima analisi, il romanzo italiano post 11 settembre. Libro ambientato tra New York nel 2001, nei molti flashback nel 2011, la Provenza, il Piemonte, Le Langhe, Alba, Torino, la Toscana, Roma e in fine Venezia. Dello stesso autore già a suo tempo avevamo apprezzato, edito da Del Vecchio, «Come un film francese», un romanzo popolato da personaggi con loro precipue caratteristiche di cui Saporito non ci risparmia veristiche descrizioni femminili, con due figure principali: il Professore – insegnante di scrittura creativa, un tempo a sua volta scrittore, ora in astinenza d’ispirazione propria, introverso e abbastanza paranoico, molto ambito dalle allieve, non solo per la sua enciclopedica cultura letteraria – e Lea, una diciassettenne dai fulvi capelli, piena di problemi e di contorsioni psichiche. Contorsioni che ritroviamo anche in «Respira» e che ci fanno pensare a quanto di se stessi sappiano portare nella scrittura gli autori del loro carattere e delle loro propensioni, in maniera brillante, originale e molto coinvolgente, per quanto concerne appunto Saporito.

 


				
					
La scrittura può aiutare, la poesia di più. La recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

La scrittura può aiutare, la poesia di più. La recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

Elaborare un distacco, una perdita, il senso della fine di una storia, della condivisione di un sentimento, di un affetto, di un amore, di un tratto di vita, di un’abitudine consolidatasi ormai nel tempo, sedimentatasi tra gli sguardi e il cuore, con gesti e rituali, non è per niente facile. Mai. La scrittura può aiutare. La poesia ancora di più. Perché la dimensione cui allude è altra da quella della prosa, intermedia fra sogno e reale. Con un lessico piano, di immediato impatto emotivo, immagini vivide e forza espressiva esaltata da una semplicità classica che rende le parole universali e subito condivisibili, Valerio Di Benedetto, che ha già dato numerose prove di talento artistico per il tramite della recitazione regala ai lettori di questa raccolta un’umile, umana, sentitissima ed emozionante parentesi sentimentale, senza mai immergersi in un facile sentimentalismo, ma condendo i suoi versi, a volte scabri, a volte dolorosi, sempre pienamente narrativi, col tenero ritratto, osservato da una giusta e consolante distanza, di una vita che, non dimentica del passato, bensì impreziosita da esso, prosegue in cerca di una trionfante e amorosa pienezza.

Gio Evan, il poeta della fragilità. La recensione su La Ringhiera

Gio Evan, il poeta della fragilità. La recensione su La Ringhiera

 

Gio Evan sale sul palco del Villanova per il suo nuovo spettacolo “INOPIA“. E la maggior parte del pubblico è subito colpita dalla sua criniera, una massa di capelli a raggiera che occupa quasi tutto il suo esile corpo. Altri sono attratti dal  suo volto, specialmente dai suoi occhi che guardano timido verso il pubblico.

Infatti Gio Evan ci racconta della sua vita e di come ha trasformato le sue esperienze e la sua capacità di osservare, in occasione per rivelare il bello a se stesso e a gli altri.

Gio ci parla, in modo ironico e spensierato, di quanto sia stupendo essere insicuri e di come sia stupido doverlo nascondere, di come sia importante amare il proprio io e non fare le cose solo per apparire ma per essere, di come una persona dovrebbe esprimere le proprie emozioni e non reprimerle vergognandosi davanti al mondo.

Più che ad uno spettacolo teatrale sembra di assistere ad una chiacchierata filosofica che cattura profondamente l’attenzione. Tutto questo viene intervallato dalla lettura di poesie  belle, piene di contraddizioni che rendono piacevole l’ascolto e con il suo gioco di parole che lo hanno reso celebre. Evan ci parla della sua fuga da casa, specificando che non è stato un atto di vigliaccheria ma semplicemente che doveva andare altrove, viaggiando per otto anni dall’India al sud America fino al nord Europa per scoprire la bellezza interiore nella sua grandezza e nelle sue fragilità.

La parola chiave è stupore. La recensione di Alessandra Piccoli su Senzaudio.it

La parola chiave è stupore. La recensione di Alessandra Piccoli su Senzaudio.it

Petr Král è un poeta Ceco, surrealista. Questa raccolta è stata tradotta da Laura Angeloni, dal Ceco, ed è la prima edizione Italiana.

È una raccolta complessa (per stimoli e immagini contenute) scritta con parole semplici che hanno una capacità evocativa disarmante.

Alcune poesie sono quasi definizioni da vocabolario, certo, un vocabolario molto sensoriale e ricco, che partono quasi sempre da una visione soggettiva e che, strada facendo, spesso ma non sempre, si fa oggettiva. E qui, sta la magia, l’incantesimo della parola. Stravolgere tutto, dire: ah, non ci avevo pensato! Oppure: sì, è così anche per me, sono le parole che non trovavo. Altre poesie sono fotografie istantanee dai colori nitidi, altre bambole matrioska.

Definire un oggetto non è mai semplice, perché l’oggetto è più della sua forma, del suo colore, o materiale con cui è fatto. L’oggetto ha uno scopo, che a volte è lo scopo di chi lo ha pensato, tradotto, imposto a una società. L’oggetto qualche volta fa e disfa, diventa la misura del nostro giorno, lo scandisce, si fa metro.

Questo libro scritto in una prosa, deliziosa, solo apparente, è un’esperienza sinestetica; vi farà superare la cecità emotiva e sensoriale. Ho avuto l’impressione, spesso, di trovarmi tra le mani un libro interattivo, un pop-up.

La parola chiave è: stupore. Lo stupore del poeta davanti a tutto ciò che si conosce già, a memoria. Eppure è nei dettagli di ogni singolo gesto, degli oggetti, di un pensiero, che trova spazio la capacità personale di interpretare nuovi modi, nuove conoscenze, nuovi utilizzi.

Apre la raccolta un testo sul caffè. Bere il caffè al mattino che cosa può evocare? Cosa fa un sorso caldo all’interno del nostro corpo? Chi eravamo prima di quel caffè e come ci sentiamo dopo? E così, una colazione che ci ricorda le cure dell’infanzia, nostra madre.

Che cosa può diventare una camicia che ci accarezza, se riusciamo a coglierne i dettagli nel tessuto, nei bottoni, o una scala che non è soltanto fatta di gradini ma è una forma che ci permette la meditazione, il raggiungimento di una consapevolezza, il superamento di una porzione di spazio nell’atto stesso della sua misurazione.

Il treno non è solo un mezzo di trasporto ma diventa il paesaggio stesso che ci sfila davanti, diventa un inganno per i sensi quando ancora in sosta, con noi seduti, vediamo quello vicino partire, diventa un quadro in movimento con la nostra immagine che specchiandosi si fonde con l’esterno che ci corre incontro veloce, ci investe.

“I nostri treni non vanno più a vapore, ma il loro respiro è comunque più ampio dei binari che percorrono e dell’itinerario stabilito”.

Perché di stabilito sembra non esserci proprio niente; una porta, per esempio, è uno sbarramento. Uno sbarramento che non vede l’ora di essere oltrepassato, che permette il passaggio di una lettera attraverso la fessura inferiore, la porta ha una serratura, che può essere aperta in mille modi, con mille toni e determinazioni dati dai movimenti della mano, che ha un dentro e un fuori che ci attende o da cui vogliamo rimanere separati. Una porta può suscitare desideri e dubbi.

E così, se ci pensiamo, la luce, che può essere discreta o fastidiosa, inquisitrice o rassicurante, così come la fica o una cipolla possono diventare un universo completo non solo sensoriale.

Anche le azioni, quelle che ci sembrano routinarie come il passeggiare rivelano intenzioni e influiscono sulle nostre coscienze. L’affrontare una curva può dare “un senso a tutto il viaggio, trasformarlo in gioia permettendo di indugiare in un passaggio ” ricordandoci che anche i piaceri dell’amore risiedono nelle curve senza le quali, cito, si tratterebbe solo dell’ottuso movimento di inserimento ed estrazione di un pistone.

Gli oggetti ci permettono di evadere, con i loro particolari sui quali ci perdiamo a immaginare infiniti modi del sé e al tempo stesso, però, ci ancorano alla realtà. Insomma, un bel casino:

Lo spettacolo:

Ancora una volta, al mattino, assistere stupiti allo spettacolo del posacenere, dei bicchieri e della caraffa che immobili misurano la pianura del tavolo.

Nozioni di base – Petr Kral

Petr Král ( Praga 1941), poeta e membro del gruppo surrealista ceco, lasciò il suo paese per Parigi, esule, nel 1968, per ritornarvi nel 2006. Ha pubblicato, scrivendo in ceco e in francese, diverse raccolte di versi, tra cui enquête sur des lieux ( Flammarion 2005), e curato (e tradotto) le importanti antologie: Le Surréalisme en Tchécoslovaquie (Gallimard 1983) e Anthologie de la poésie tchèque contemporaine 1945-2002 (Gallimard 2002).

Rilevante la sua attività saggistica e critica, in campo letterario e soprattutto cinematografico (dipolomato alla FAMU di Praga, è stato anche sceneggiatore).

In Italiano si può trovare la raccolta poetica Tutto sul crepuscolo (Mimesis, 2014), e alcune poesie tradotte dal ceco ( Annalisa Cosentino) e dal francese ( Massimo Rizzante) in “Testo a fronte”, 36, 2007.

Nozioni di base è stato tradotto da Laura Angeloni dall’originale ceco, raffrontando puntualmente il testo con l’edizione francese ( Flammarion 2005). Questa è la prima edizione italiana.

Senti cosa ho scritto: la recensione di Fabiana Marzotto su Tre Mandorle al dì

Senti cosa ho scritto: la recensione di Fabiana Marzotto su Tre Mandorle al dì

Io amo le cose belle, le cose ricercate, le cose preziose. E oggi proprio di questo parleremo. Oggi ci facciamo trafiggere da una freccia poetica destinata a lasciare il segno.

Oggi vi presento “Senti cosa ho scritto” di Lorenzo Bartolini, pagine in versi suddivise in tre tempi. E il fatto che “Giugno in parole” dell’anno scorso fosse dedicato a un altro grande artista – che risponde al nome di Roberto Mercadini e che firma la prefazione del libro – non è un caso.

Sono emozionata, entusiasta, orgogliosa di avere letto queste righe e di avere conosciuto il loro padrone. Tutti dovremmo avere Lorenzo come amico, come conoscente, come poeta. A nessuno dovrebbe essere negato il diritto di godere delle sue parole, parole che si posano come polvere di stelle sulle nostre palpebre chiuse, parole che illuminano di meraviglia ogni sfaccettatura della realtà su cui si posano.

Lorenzo è un attento osservatore di ciò che lo circonda e ciò che i suoi occhi, la sua pelle e il suo cuore percepiscono viene riflesso in uno stile fatto per essere letto, uno stile pulito, nitido, gentile e indagatore dell’animo umano.

Non è possibile non rimanere incantati e stupiti dalla dolcezza e dalla sensibilità racchiuse in questi fogli di carta che ci conducono per mano in lande calorose e colorate.

Salpiamo sulla barca Bartolinica per un viaggio in una poesia che ha il potere di espandersi e occupare ogni spazio libero. Una poesia che ci mostrerà tutto ciò su cui lo sguardo, il tocco e la penna di Lorenzo si sono soffermati creando parole, immaginari e cornici da riempire di bellezza.

Una prima cornice, forse La cornice, è l’Amore: ogni poro di ogni foglio di carta trasuda amore; amore per la mamma, per la fidanzata, per la nipote, per l’amico, per le città (e Torino non poteva mancare). Ogni riga è un inno ad amare e a non avere paura di farlo e di scriverlo. Ogni riga è un inno a vivere ogni stato d’animo, anche quello che porta con sé il freddo vissuto da un cuore privato per un istante dal calore dell’amore a causa di una lite. Ogni riga è un inno a curarsi a suon d’affetto e a lasciarsi trasportare dallo stupore che avvolge ciò che ai più appare ovvio.

Una seconda cornice è la Vita, vita che ci appare straordinaria nella sua scansione temporale ordinaria. Vita che si compone di grandi temi affrontati con la bellezza della semplicità e della bontà di cuore. Qui la poesia riesce a smuovere le coscienze, a diventare uno spillo che ha il potere di sgonfiare quell’enorme bolla che ci costruiamo per non vedere ciò che non ci tocca da vicino. Uno spillo che fa convivere in un buco piccolissimo vino e vergogna. Ma la vita è anche gioco: un modo per rinfrancarsi dalla potenza e dall’energia delle passioni. E’ una pausa per fermarsi a riflettere e a ragionare, sospendendo quella frenesia che non è altro che una cattiva consigliera. La vita è anche non morte e quindi regno assorbente di ogni pensiero.

Una terza cornice è composta dai Ricordi poetici, lettere che sprigionano meraviglia, gioia, generosità, vicinanza, parità. Sono frammenti di attimi di riconoscimento di anime. E’ una cornice libera dove il poeta crea il suo mosaico emozionale che funge da stimolo per il lettore, il quale così potrà dare il suo valore emozionale alle parole che legge, riempiendo di luoghi, sensazioni e persone la terra, la natura e i gesti.

Questo è un lavoro che ha lo splendore e il fascino di una cometa persistente da un lato e la forza educativa ai sentimenti dall’altro. Qui le parole vibrano, si mescolano, si scuotono e danzano al ritmo di una musicalità inedita, una musicalità di cui non potremo e non vorremo più fare a meno.

 


I love the beautiful things, the valued things, the precious things. And today we will talk about these things. Today the poetical arrow will pierce us and it will leave a sign.

Today I present you “Senti cosa ho scritto” (You listen what I wrote), Lorenzo Bartolini’s verses divided in three times. It isn’t a coincidence that last year I talked about an other big artist in “The words of June” section: his name isRoberto Mercadini and he signs the book preface.

I am touched, enthusiastic, proud because I read these lines and I met its owner. Everyone would have to have Lorenzo as friend, acquaintance, poet. Everyone would have to have the right to enjoy his words, which place like stars dust on our closed eyelids, words that light every reality side with magnificence.

Lorenzo is careful observer and what his eyes, skin and heart sense has reflected in his style, a style to read, a clean style, a gentle style, a human spirit investigator style.

We are enchanted and amazed of his sweetness and sensitivity included in these sheets of paper, which join our hands to bring us toward loving and coloured lands.

With his ship, we sail off into the poem, a poem that has the power to grow and capture every free space. A poem that shows us Lorenzo’s reality: his gaze, his style and his pen create words, imaginations and frames to fill up with beauty.

A first frame, maybe the frame, is the Love: every pore of every sheet of paper trickles love; love for the mum, for the girlfriend, for the niece, for the friend, for the cities (and Turin is here). Every line is an ode to love and to not fear to love and write it. Every line is an ode to live every state of mind, even the state of mind that brings the cold lived by the heart when the warm of the love misses for a moment because of a fight. Every line is an ode to take care of us with the love; it is an ode to be surprised about what a lot of persons believe obvious.

A second frame is the Life, life that appears us extraordinary in its ordinary temporal scan. Life with its big questions faced with the beauty of ease and heart kindness. Here the poems move the awarenesses, they are a pin that deflates the big ball which we build around us to not watch what is not near us. A pin that creates a little hole where wine and embarrassment live side by side. But the life is a game too: a way to refresh us from the passions power and energy. It is a pause to stop and to think, without the frenzy that isn’t a good advisor. The life is a not death too and so it is a kingdom that absorbs every thought.

A third frame has made by poetical Memories: the letters give off marvel, delight, altruism, affinity, parity. They are fragments of instants of souls identification. It is a free frame where the poet creates his emotional mosaic that acts as an incentive for the reader, which will give his emotional value to the read words and he will fill up with places, sensations and people the land, the nature and the gestures.

This work shines as a persistent comet and it has the power to educate to the emotions. Here the words are vibrant, they shake, they dance with a fresh sound that will become indispensable for us.

Giugno in parole / The words of June: “Senti cosa ho scritto” di Lorenzo Bartolini

Tutto quel rumore di fondo. La recensione di Marco Patrone su Recensireilmondo

Tutto quel rumore di fondo. La recensione di Marco Patrone su Recensireilmondo

Ho fatto la doppietta di Claudio Marinaccio, dopo il divertente Come un pugno, ho dedicato

un´ora spensierata a questo nuovo Non disturbare, uscito per Miraggi Edizioni.

Il libro è strutturato a piccoli episodi, mutuati su quel mix di parodia di situazioni tipiche (il tormentone degli scocciatori al citofono o per telefono, testimoni di Geova, gestori telefonici, banche) e mini-cronaca di costume che caratterizza anche le attività dell´autore sul suo profilo Facebook. Ritroviamo in effetti anche la stessa voce onesta, a volte cinica, politicamente scorretta, con un certo equilibrio tra sarcastico e amaro/tenero e una modalità schietta e picaresca che potrebbe essere risultato di alcune sue letture americane.

Credo di non offendere nessuno se dico che questo libro potrebbe essere una versione appunto politicamente scorretta delle operazioni tipo “Momenti di trascurabile…” di Francesco Piccolo.
Il tema portante peraltro non è banale, si tratta del surplus di stimoli uditivi e visivi a cui siamo sottoposti: discussioni da bar preferibilmente a voce alta, cold-calling* e ancora scene di cd. ordinaria solitudine da social.
L´altro filo conduttore mi pare essere la cronaca della provincia (i bar, le puntate “in città”) e dei suoitipi, con alcuni esiti che possono ricordare alla lontana il capostipite di questo tipo di satira o ritratto, il Bar Sport di Benni (che però spingeva molto di più sui pedali di satira e parodia, mentre Marinaccio alterna in questi piccoli ritratti “invettiva” anti-luoghi comuni e una certa tenerezza specie per le figure degli immancabili anziani).

In conclusione e nonostante questo ancoraggio nella nostra attualità, penso non si faccia torto all´autore se si afferma che qui egli intendeva soprattutto intrattenere e far sorridere, non produrre particolari approfondimenti su un terreno giornalistico o saggistico.
Se si accetta questa premessa Non disturbare risulta una lettura simpatica e sorridente, conferma quella che è una buona penna e simpatizza con il lettore (o forse viceversa) con la tonalità sincera e scanzonata di chi racconta cose a un amico davanti a una birra o un vino rosso.

 

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*Cold callling è una definizione legale delle chiamate commerciali effettuate senza aver esplicita autorizzazione dal Cliente, qui nel mio paese è pratica considerata piuttosto grave e sanzionata – con gradazioni differenti rispetto a chi le fa, ad esempio per una Banca può comportare multe  salate ma anche conseguenze più gravi – dal libro mi par di capire che in Italia la situazione sia ancora a uno stato piuttosto selvaggio.

POST-SCRIPTUM ALLA MARINACCIO

Non saprete mai se il libro mi sia piaciuto davvero. Peró sai l´autore scrive e recensisce libri per Il Mucchio e Donna Moderna…non si sa mai, meglio tenerselo buono.

http://www.recensireilmondo.com/2017/06/libri-e-recensioni-claudio-marinaccio.html

Alcol, risate e lacrime nello stile di aforismi espansi. La recensione di Mario Caramitti su Alias

Alcol, risate e lacrime nello stile di aforismi espansi. La recensione di Mario Caramitti su Alias

 

Bello, sensibile come una corda di violino e straordinariamente pieno di sé, uno studente modello di una cittadina nei pressi del Mar Bianco, con alle spalle un’infanzia di guerra e di abbandono, surclassa tutti agli esami di maturità e viene mandato a frequentare l’università di Mosca. Al trionfale arrivo nel cuore dell’Unione Sovietica degli anni del disgelo segue la lenta e dolorosa presa di coscienza della meschinità delle impalcature ideologiche e dell’umanità intera, con conseguente afflusso di prosa diaristica, che nell’arco di più o meno un anno – dall’ottobre 1956 all’ottobre 1957 – registra il tracollo dei sogni, l’espulsione dall’università e dallo studentato, faticose esperienze da scaricatore e manovale e relativi licenziamenti, tre intense e rigettate storie d’amore, vita randagia e ambigua, notti al gelo alla stazione e un dilagante fiume d’alcool. Tutto interessante quanto prevedibile, non fosse che quel diciottenne attonito sognatore è Venedikt Erofeev, l’autore di Mosca-Petuški, forse il più famoso, in patria e all’estero, libro russo del secondo Novecento, alconautica epica ferroviaria che riassume l’assurdità dell’universo sovietico, lo scibile umano, il genio e la follia autodistruttiva in cento paginette, che di traduzione in traduzione –cene sono già quattro – si è via via discostato dal «referenziale» ma fuorviante titolo degli anni settanta Mosca sulla vodka. Tre amanti + una madre Arriva ora in italiano anche Memorie di uno psicopatico, il «diario» degli anni giovanili di Erofeev, appunto, tradotto da Lidia Perri per Miraggi (pp. 287, e 20,00), in realtà un grandioso brogliaccio di sperimentazione letteraria, che prefigura, spiega e motiva il futuro capolavoro di quello che resta un devastato e maudit genio unius libri. Sorprende come passioni e ribellione possano essere scientemente e – com’è ovvio per tutta la scrittura clandestina d’epoca sovietica – senza alcuna ipotesi di accesso al pubblico, trasformate in canovaccio per sketch narrativi e drammatici, visioni oniriche, riflessioni pseudofilosofiche e parodie, dove le tre giovani amanti sono ibridate, anche onomasticamente, l’una con l’altra e tutte con la madre, con la quale Erofeev prova sulla carta a regolare un gigantesco complesso d’Edipo (e l’abbandono in orfanotrofio),descrivendone, vivissima, in tre diverse occasioni, la morte. La manipolazione della realtà nel senso più ampio e integrale è già presupposto di quella poetica autofinzionale che in Mosca-Petuški trasferirà per nome e cognome l’autore e i suoi compagni di bevute sulle pagine di una narrazione apocalittica e fantasmagorica, che proprio in questo stridente impasto ontologico trova tutta la sua forza espressiva. In maniera altrettanto evidente Memorie di uno psicopatico mostra il principio organizzativo della prosa di Erofeev maturo, che è in sostanza l’aforisma espanso, lo spunto narrativo conchiuso e autosufficiente, in cui si bilancia l’incisività della micro-trama e lo scintillio della ludica metafisica dell’inezia. Tra le righe, una grande intensità tragica, che muove da autentiche crepacciature del cuore, qui evidentissime fosse solo nell’aforisma a monte di tutti gli altri, quello costantemente ripetuto dalla madre: «Tutti uguali, Venichka! Succhiamo tutti lo stesso cazzo di dio!». Tra i motivi ricorrenti, l’intenerimento, una pietà pervasiva, incontrollabile e goffa, in molte occasioni rivolta a se stesso; la risata e la lacrima, vere insorgenze teatralizzate dello spirito, di una nobile, autodistruttiva sovrabbondanza interiore; il poeta e la folla, che fissa con annichilenti occhi sbarrati ogni gesto anticonvenzionale e irrituale: saranno fondanti in Mosca-Petuški, ma già qui sono il sale del libro, e li troviamo praticamente tutti concentrati nell’episodio del 31 maggio, con il narratore steso nella bara che partecipa al proprio funerale, reticente spettatore – «E non puoi aprire gli occhi… Li apri, e tutti sono lì che ti guardano..» – intento alla percezione estatica non solo dei contorni del buio ma del buio stesso e, in un contesto altamente dialogico, dell’angoscia del silenzio. Già è norma, per l’appunto, la dilagante plurivocalità, tratto poi distintivo della prosa di Erofeev, che mescola in un flusso inscindibile le più imponderabili voci interne e altrui, fa collassare e rovesciare l’istanza narratore-narratario ed è qui esplicitata anche da estratti di testi, lettere, diari altrui. Ci sono poi i cataloghi: di giudizi sul narratore, di battute degli interlocutori, semplicemente di nomi. E cosa resta nella memoria del lettore di Mosca-Petuški più che il catalogo dei cocktail (con profumo di verbena e lacca per unghie, colluttorio e antitraspirante per piedi) o quello dell’insorgenza del singhiozzo commisurata alla legge divina e umana? Più di tutto, le Memorie di uno psicopatico ci permettono di approssimarci all’essenza dell’arte e del mondo di Erofeev, al senso profondo del non senso, spesso frainteso e ridotto a un puro esercizio stilistico postmoderno, ovvero ascritto ad autentica metafisica, trascendenza religiosa (qui è esemplare l’appunto dell’ex ateo, il ragazzino formato sui dogmi del marxismo che tanto si esalta alla lettura delle sacre scritture da annotare undici passi nei quali gli evangelisti formulano assunti diametralmente antitetici). Qui, timido bevitore L’estetica onnicomprensiva di Erofeev è invece sempre ternaria: costruisce castelli metafisici di parole, poi li sberleffa, giubila di fischi, lascia trasparire un secondo livello percettivo al quale ora l’alcool come metafora dello spirito, ora la magia della creazione sembrano assumere una rilevanza autonoma; ma poi anche questi sono smentiti e irrisi, e solo a un terzo, intimo, ineffabile livello di senso, percepibile tra le pieghe più recondite del testo, si avverte una tensione irrisolta che aspira a esprimere un qualche insostenibile altro e oltre. Memorie di uno psicopatico, quindi, è essenzialmente un grimaldello per meglio fruire, meglio dirimere il densissimo affresco poetico in prosa di dieci anni dopo, ma è anche un testo godibile in sé, ricco proprio per la sua assoluta frammentarietà, agile e insieme farraginoso, non privo di articolate architetture tematiche e narrative e da leggere, nel complesso, come progressiva «presa di coscienza» dell’alcolismo, immersione in uno stato suicidale protratto ritenuto necessario a fronte dell’inadeguatezza ontologica della società, che sarà poi inteso come martirio e imitatio Christi. Qui però il narratore è ancora un timido grande bevitore, che non soltanto gioca con una purezza e un orizzonte ideale, di pagina in pagina sbaragliati dall’alcool. Tra i rivoli dell’intreccio uno fra tutti si distingue per incisività e freschezza: la storia, in molto riassunta in flash-back al 17 dicembre, di Lidija Vorošnina, ex compagnetta di banco in prima elementare e ora oggetto di adorazione e ripulsa, campionessa in una traslucida estate del grande Nord di seduzione, depravazione, volgarità sguaiatissima e dolente castità proiettata in antifrasi. Alle sue grazie e alle sue «incantevoli malefatte» il narratore non può essere indifferente, facendone un ritratto di straripante femminilità sovradimensionata alla stolida routine provinciale che è un pregevole sunto di eroine dostoevskiane. Del resto nella precoce e consapevole autodistruzione di Vorošnina il giovane Erofeev avverte un’evidente prefigurazione del proprio destino e una proiezione al femminile del suo auto-personaggio. Imperfetto e fascinoso Il lettore italiano si aspetti, allora, non un altro capolavoro, ma un libro imperfetto quanto fascinoso, fuor di dubbio molto difficile da tradurre, soprattutto per il continuo spostamento del contesto e del quadro referenziale. Nella versione di Lidia Perri è certamente un successo, anche grazie a coraggiosi adattamenti, la resa di un continuum linguistico tronfio e tenue, limpido e involuto, al di là di alcuni inevitabili abbagli traduttivi. Male comune della nostra evoluzione linguistica, il moribondo passato remoto conferma tutta la sua inadeguatezza davanti al dinamismo di una prosa diaristica.

Se sei uno psicopatico sovietico ti fa male leggere Dostoevskij. La recensione di Francesca Sforza su Tuttolibri

Se sei uno psicopatico sovietico ti fa male leggere Dostoevskij. La recensione di Francesca Sforza su Tuttolibri



Alcol, fumo, zuppa di cipolla e detersivi universali: di tutte queste cose insieme sapeva probabilmente l’interno russo in cui Venedikt Erofeev cominciò a scrivere le sue prime pagine. Non ancora diciottenne si era trasferito dalla provincia settentrionale della regione di Murmansk, ai confini della Norvegia, nella capitale russa, dove si era iscritto alla Facoltà di Lettere dell’Università, che prima lo aveva ammesso con lode e dopo pochi mesi lo avrebbe espulso per inadempienza degli obblighi militari. Giornate di ebbrezza, stordimento e desolazione, quelle che videro la scrittura di Memorie di uno psicopatico, pubblicato in questi giorni da Miraggi Edizioni con la traduzione di Lidia Perri. Un po’ era una questione personale: Venedikt cominciava a riconoscere dentro di sé una vocazione autodistruttiva che lo portava all’inconcludenza, alla paralisi, e faticava a gestire il flusso di scrittura con l’imponente mole di letture che da anni affrontava, mescolando generi, autori, passioni. Il risultato, in queste pagine giovanili (che però già contengono il gesto artistico che si ritroverà più tardi), è una matassa di pensieri interni, talvolta ostentatamente intervallati da puntini di sospensione – à la Céline – talaltra invece asciutti e cristallini come poesie: «E la luce brillava. Non era la sua luminosità a irritarmi. Ma la debolezza del sogno sulle tenebre. E io sputai. Sputai nel buio. E mi deliziavo del sibilo corrispondente. Di più non potevo fare». Un po’ però c’entrava anche la storia. Non era un anno qualsiasi per l’Unione Sovietica. Stalin era morto da tre anni, e in quel 1956, durante il XX Congresso del Partito Comunista, l’allora segretario Nikita Kruscev scoperchiò il sarcofago degli orrori, denunciando deportazioni e esecuzioni di massa in nome del culto della personalità del capo. Fu un anno di liberazione e sconvolgimento insieme, in cui un enorme numero di cittadini sovietici fece ritorno a casa e si vide finalmente riabilitato dall’accusa infamante di «nemico del popolo» (solo a Mosca rientrarono 200 mila detenuti politici). Il resto della popolazione, d’altra parte, realizzò di aver vissuto, per decenni, in un incubo senza eguali, in cui regnavano insicurezza, delazione, sprezzo degli affetti e morte. Ecco, se Erofeev può dirsi interprete di quell’epoca fosca ed eccitata, lo fu nel senso di intercettarne l’assenza di lucidità, la difficoltà nel «farsene una ragione» – la psicopatia collettiva, viene da dire. Come un potente getto d’acqua, nelle pagine giovanili di Erofeev si era riversata anche l’intera tradizione letteraria russa dell’Ottocento, che ha sempre trovato nella scrittura coscienziale, nella forma-diario, un’irresistibile valvola di sfogo. «Ti fa solo male leggere Dostoevskij – scrive a un certo punto Erofeev in Memorie di uno psicopatico – Sarai senz’altro così cupo, se ti rinchiudi in camera… là sentirai qualsiasi orrore… e tutto ti sembrerà cupo e orribile… Ti hanno detto bene… Ecco, tu odi il riso e guardi tutti come una fiera dal tuo letto… E sentiamo, che hai da lagnarti? Tu sei incomprensibile, diavolo… Insomma, tutti vivono bene, come persone normali… Non ti dimenticare che vivi nella società sovietica… e non in una qualunque». Un’appartenenza necessaria, quella russo-sovietica – e allo stesso tempo da espiare – sembra ammettere Erofeev nelle pagine che preludono alla sua grande opera unica, il Mosca-Petusky, pubblicato poi nel 1970. Ed è così che riga dopo riga, episodio dopo episodio – alcuni irresistibilmente comici, altri volutamente sconci – i discorsi da ubriachi perdono la loro sconclusionatezza e si trasfigurano, tanto che se l’occhio torna indietro, li ritrova preghiere.