RUR: KATEŘINA ČUPOVÁ E L’INCREDIBILE ATTUALITÀ DI ČAPEK
RUR (Rossum’s Universal Robots) di Karel Čapek, dramma teatrale del 1920, è un testo fondante della cultura europea, in quanto genera, come arcinoto, il termine “robot”, di enorme rilievo negli anni successivi, e non solo in campo fantascientifico stretto (quimi era capitato di parlarne, poco dopo il centenario dell’opera). L’opera però è rimasta limitata, nella percezione collettiva, a questo singolo elemento: ed è un peccato, perché la riflessione sul concetto di robot che conduce è profondamente significativa, sia che la si voglia leggere su un piano letterale, sia che la si voglia interpretare come grande metafora dei conflitti sociali allora in corso, all’indomani della rivoluzione russa del 1917.
L’adattamento a fumetti di Kateřina Čupová, tradotto da Alessandro Catalano (che ne firma anche una bella e ricca postfazione) edito da Miraggi nella collana MiraggInk in questo inizio di 2022 è quindi una ottima notizia per chi come me si interessa al rapporto tra letteratura e fumetto.
Kateřina Čupová (1992, Ostrava) è una giovane ma notevole animatrice, fumettista e artista concettuale ceca, laureata presso il Dipartimento di Animazione all’Università Tomáš Baťa di Zlín: molti suoi lavori sono stati pubblicati su riviste e antologie.
L’opera ci si presenta fin da subito con una interessante veste cartotecnica: una copertina nera rivela, da un ritaglio al suo interno, un cuore robotico palpitante su fondo bianco.
Sfogliando il volume, troviamo poi ancora una breve prefazione è inscritta in un calligramma a forma di cuore, a ribadire l’importanza di questo elemento simbolico, il “cuore dei robot” e i suoi imperscrutabili sentimenti celati dietro l’apparente freddezza asettica di esseri artificiali.
Una nota in esergo ricorda poi ancora la particolarità della parola “robot”, il lascito di quest’opera: il fratello pittore suggerisce al Capek scrittore il nome da assegnare ai suoi schiavi artificiali. La parola nasce quindi simbolicamente, fin dall’inizio, si sembra suggerire, dall’incontro tra immagine e letteratura, che qui ritorna in questo adattamento fumettistico.
È bene non dimenticarsi inoltre che si tratta di un adattamento a fumetti di un testo teatrale: pensato, quindi, fin dall’inizio per essere interpretato e visto, più che letto. Se quindi la visione a teatro è chiaramente quella letteralmente fedele al testo originale, l’adattamento a fumetti è comunque una interpretazione possibile, forse più, per paradosso, della pura lettura del testo scritto. E, non certo a caso, spesso l’autrice dell’adattamento gioca su questa dimensione, presentando talvolta i personaggi come se agissero su una scena teatrale.
I disegni di Kateřina Čupová ci accolgono quindi con un segno morbido, elegantissimo, di grande ricchezza e bellezza cromatica (indubbiamente influenzato dalla formazione ed esperienza dell’autrice come animatrice nella raffinata essenzialità e fluidità del segno) e creano un piacevole effetto di contrasto con la cupezza della storia. In tutto il primo atto questa minaccia aleggia sullo sfondo, per poi dispiegarsi appieno nella seconda parte dell’opera, dove l’attesa rivolta dei robot ha pienamente atto.
Il segno, come detto, presenta una sintesi di grande gradevolezza visiva, in tavole fondate su un modulo-base a tre vignette interpretato però in modo molto libero, vario ed arioso, con un segno espressivo e cartoonistico nella resa dei personaggi. La vicenda di RUR, sostanzialmente dimenticata, può essere qui riscoperta nella sua grande attualità, in un adattamento che, ovviamente, necessariamente sintetizza e modifica, ma resta piuttosto fedele all’originale.
Un aspetto centrale da notare, tra molti che si potranno scoprire dalla lettura (ad esempio, la finezza psicologica e filosofica con cui il tema robotico è trattato in quest’opera fondante del genere) e che passa molto bene nell’opera, è il fatto che questi robot di Capek non sono esseri puramente metallici, ma biodroidi, wetware. Chiaramente qui serve a rinforzare la metafora del robot come proletariato, ma ciò risulta eccezionalmente moderno anche se vogliamo leggerlo, oggi, come pura fantascienza di evoluzioni futuribili ormai imminenti.
Per un pieno apprezzamento della valenza del lavoro di Kateřina Čupová e di quello originario di Capek risulta poi particolarmente prezioso il saggio in appendice di Alessandro Catalano, che ha indagato a fondo, in altre opere saggistiche, il lavoro di Capek e la sua rilevanza. “Le trasformazioni del robot: cento anni in cinquanta immagini” ci presenta una ricognizione più sintetica ma accuratissima della fortuna e ricezione dell’opera.
Rilevante appare intanto l’annotazione sul titolo, dove “Rossum” richiama “Rozum”, ragione/intelletto in ceco (avevo sempre immaginato una possibile evocazione del rosso, la rubedo alchemica).
Significativa poi la traccia precisa degli influssi, dalla Aelita (1923) di Alexander Tolstoj trasposta al cinema da Protanazov l’anno seguente, coi costumi di Aleksandra Ekster, influenzata dal futurismo italiano, mentre in Italia stimola opere come “Minnie la candida” di Bontempelli e molti esiti dell’arte futurista.
Del resto, il tema dell’uomo meccanico, ancora senza il nome che gli darà appunto Capek, è frequente dall’inizio del ‘900, come in “A round trip to the Year 2000” (1903) di Cook, in cui troviamo già onnipresenti servitori meccanici. Molto più diffuse narrazioni su un singolo uomo artificiale, già anche cinemiche (da Georges Méliès in poi), ma non così frequenti, eccetto Cook, nella presenza di una massa robotica. In pratica, prevale una fantascienza “classica” (immaginare una nuova invenzione) su quella di stampo sociologico (immaginarne le conseguenze quando la scoperta è applicata a livello di massa).
Già a partire dal 1927 (anno di apparizione di Metropolis) il rimando al termine “robot” si slega dall’evocazione dell’opera di Capek, segnando la fortuna del termine e la sfortuna dell’opera originaria. Il robot inizia a connotarsi con forza come essere meccanico-metallico, quale appare anche nel film di Fritz Lang e nel testo originario di Thea Von Harbou.
Curiosamente, nel film di Lang il rimando all’opera di Capek, debito evidente annotato all’epoca da H.G. Wells, si scinde nelle sue due componenti: il robot torna un essere isolato eccezionale, mentre le masse spersonalizzate sono di umani sottomessi al potere tecnocratico del fordistico capitalista Frieder.
Il tema ritorna nei modi propri di Capek soprattutto in Asimov, che vorrà contrastare nel suo lavoro il “Mito di Frankenstein” fondato da Mary Shelley nel suo capolavoro del 1818, ma di fatto si opporrà soprattutto alla sua declinazione operata da Capek (da egli apertamente citato, in chiave critica). I robot asimoviani, che diverranno dal ’39 in poi l’archetipo stesso del robot moderno, sono robot capekiani, ovvero prodotti industriali in serie, non singoli eccezionali prodigi della tecnica.
E anche in Philip K. Dick e nei suoi androidi (eternati poi al cinema da Blade Runner) vi è un chiaro rimando all’opera di Capek, con cui gli androidi ritornano a tempo, indistinguibili dall’uomo, costruiti per lavori di fatica e sottilmente ribelli.
Per tale ragione, Catalano esprime un parere decisamente favorevole all’adattamento operato di Kateřina Čupová. Egli rende conto in modo puntuale delle sintesi operate dall’autrice, che toglie soprattutto le riflessioni sociologiche e filosofiche più verbose, anche interessanti, come quella “luddista” sui robot che tolgono lavoro agli operai umani, qui ridotta a una immagine mentre nell’originale è un tema ampio. Ma apprezza molto la scelta di una complessiva fedeltà, specie nell’elemento storicamente più frainteso, quello dei robot, che non vengono in alcun modo “meccanizzati” dall’autrice ma mantenuti nella loro organicità inquietante.
Un’operazione di riscoperta riuscita, dunque, che potrebbe essere il punto di partenza di una rivalutazione dell’opera nel suo centenario, magari – a partire o meno da questo lavoro – in un film o, perché no? Un lungometraggio di animazione (si veda il recente successo del brillante “BigBug” francese, su questi temi, ancora una volta con profondi debiti non dichiarati da Capek e dal suo immaginario).
Concludendo, come nostro solito, con una possibile riflessione didattica, questo fumetto appare eccellente come proposta in scuole dove la riflessione tecnologica può essere centrale: un liceo scientifico o tecnologico, o un ITIS, magari informatico, come quello dove mi trovo ad operare, e dove in effetti si ragiona spesso di questi temi anche in ambito letterario, tra letteratura italiana e inglese. Il fumetto diviene così, come in altri casi, una buona mediazione con gli interessi degli allievi, con cui proporre stimoli di riflessione e di ricerca, magari da affiancare a letture anche non integrali dall’opera, confrontata poi magari – specie per le quinte – con un Bontempelli di “Giovane Anima Candida”, ulteriormente avvicinabile al discorso delle “maschere” di Pirandello (che ritorna in Dick, per certi versi).
Un contesto ideale potrebbe essere la proposta nel biennio, dove si affrontano i generi letterari, ed è immancabile la fantascienza, con rimandi quasi obbligatori (anche solo evocativi, ma sperabilmente con qualche lettura) al Frankenstein di Mary Shelley e ad Asimov e ai suoi robot, per poi tornare magari sul discorso in quinta (anche solo come approfondimento di alcuni allievi).
Una lettura oggi sempre più attuale, dunque, anche in connessione a numerose tracce del tema di maturità che, in forma diretta o più di scorcio, si aprivano negli ultimi anni alla riflessione sull’Intelligenza Artigianale (nonostante l’abolizione di un tema dichiaratamente scientifico-tecnologico). Oggi che, dopo i due anni pandemici della didattica a distanza, finalmente si torna allo scritto d’italiano, chissà che non ci sia qualche spunto al riguardo nelle nuove tracce di porre omaggio al secolo di Capek. Per il monito che pone contro le degenerazioni della tecnoscienza, ma anche, sul piano allegorico, ai rischi dei totalitarismi: avvertimento di cui abbiamo sempre bisogno.
R.U.R. (Rossum’s Universal Robots) è un graphic novel tratto dal dramma teatrale tragicomico di Karel Čapek che, per primo, introdusse nella cultura mondiale il termine «robot» più di cento anni fa. Il merito dell’iniziativa è di Miraggi Edizioni, che propone un fumetto ispirato al dramma teatrale utopico e fantascientifico dello scrittore ceco messo in scena per la prima volta al Teatro Nazionale di Praga nel 1921 e subito affermatosi sui palcoscenici di tutto il mondo.
L’autrice
Il graphic novel è firmato dalla giovane illustratrice ceca Kateřina Čupová, la quale dà forma e colore, con tratti gentili ed eleganti, all’intramontabile dramma umanista. La traduzione e la postfazione sono a cura di Alessandro Catalano, professore associato di Letteratura Ceca presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova, che ha inoltre curato un approfondimento sulle trasformazioni dei robot, 100 anni in cinquanta immagini, inserito all’interno del volume.
La storia
R.U.R. uscirà il 21 Febbraio 2022 e racconta, da una prospettiva del tutto originale, una delle prime distopie del XX secolo. La storia, in particolare, narra le tragiche conseguenze innescate dalla creazione di un uomo artificiale, organico ma apparentemente privo di quelle caratteristiche che rendono l’uomo debole e fallibile, come i sentimenti, i bisogni e il libero arbitrio. In una parola: l’anima. Tuttavia, nessuna creatura può essere radicalmente diversa dal suo creatore e i robot di Karel Čapek, prodotti come beni di consumo per sollevare gli esseri umani dalle fatiche del lavoro fisico, sanno essere solidali tra loro, ribelli e violenti come gli uomini che li hanno costruiti.
Nella storia di R.U.R. si riflettono le grandi paure del Novecento di fronte all’avanzata del totalitarismo bolscevico, della vertiginosa corsa del progresso tecnico-scientifico, della disumanizzazione delle masse e delle ingiustizie sociali del capitalismo industriale. Un tema che resta, a un secolo di distanza, incredibilmente attuale seppur con i dovuti aggiornamenti. I robot di Čapek non sono quelli del nostro tempo, ma piuttosto creature biologiche, umanoidi che ricordano un po’ il mostro di Frankenstein o i replicanti di Blade Runner.
Anche se solo inconsciamente, ho sempre saputo che sarebbe finita così. Dopo tutti gli anni di “non toccare quella tazza!”, “meglio lasciarla sullo scaffale”, “è l’ultimo ricordo di Eliška”, “questa non la diamo nemmeno agli ospiti”, era chiaro che prima o poi si sarebbe rotta. Ora giace qui davanti a me, raro design degli anni Settanta con un astratto disegno a fiori arancione, spaccata in mille pezzi, alcuni ancora oscillano sul pavimento con aria di sfida, sembrano ammiccarmi in modo ambiguo: “Tanto lo sapevamo che sarebbe finita così”.
Che rumore fa una tazza che, cadendo, si infrange in mille pezzi? La traccia fragile di un passato che non può tornare ma che non possiamo nemmeno cancellare. Si moltiplica, divenendo altro da sé, ma conserva la complessità della sua natura. Si sgretola, fino ad assumere una forma multisfaccettata della sua primordiale realtà, si riduce in una miriade di frammenti, che confondono la vista e trasfigurano l’idea dell’oggetto. Sono così, a volte, i rapporti umani e quelli che dovrebbero circonfondere l’individuo, per garantirgli la sicurezza affettiva utile ad affrontare il mondo di fuori, che inizia al di là del rifugio che ci accoglie quando giungiamo al mondo. La penna di Bianca Bellová, autrice ceca di origini bulgare apprezzata sia nel suo Paese che all’estero, si è mostrata da sempre assai abile nei rapporti già guasti all’origine, nella funesta interferenza della famiglia nelle dinamiche relazionali, nella sua intrusione rovinosa nell’età dell’innocenza, nella sua azione distruttiva di qualsiasi confortante idea di “passato”. L’autrice ha guadagnato importanti riconoscimenti (Premio Unione Europea per la Letteratura e Magnesia Litera) e ha raggiunto un pubblico più ampio nel 2016, con la pubblicazione del romanzo Jezero, che la casa editrice Miraggi ha pubblicato con la traduzione di Laura Angeloni (Il lago 2018), consentendo ai lettori italiani di conoscere una delle voci più affermate della letteratura ceca contemporanea. Ad approfondire questa preziosa conoscenza, si sono aggiunte le pubblicazioni del romanzo Mona (2020) e, in ultimo, di Romanzo senti/mentale che, anche se apparso a ottobre 2021 nella sua prima traduzione all’estero, rappresenta l’esordio della Bellová. Questi titoli, insieme a quelli di altri scrittori (drammaturghi, sceneggiatori, contemporanei e non) vanno a nutrire una collana interessante e necessaria che gli editori di Miraggi hanno intitolato “Nova Vlna”, a ricordare il movimento cinematografico cecoslovacco degli anni ’60 del Novecento.
Romanzo senti/mentale (Senti/mentální román 2009) contiene già quegli argomenti che l’autrice approfondirà nei lavori successivi in maniera più matura, ma anche più misurata. Perciò, la lettura del romanzo d’esordio, oltre che per la storia in sé e per la particolare struttura che lo sostiene, risulta interessante per scorgervi tutto il coraggio e la spregiudicatezza che vengono espressi mediante un realismo che non cede a esitazioni neanche di fronte a scene particolarmente violente e scabrose, e che potranno risultare inattese se confrontate alla delicatezza espressa altrove.
Al centro del romanzo e della ricerca portata avanti dalla scrittrice vi sono i rapporti difficili o irrisolti, in particolare quelli familiari, che inducono i protagonisti a intraprendere un viaggio – talvolta anche propriamente fisico – sui luoghi d’infanzia, attraverso i ricordi di un’epoca non sempre idealizzata, nel tentativo di afferrare il senso di una perdita o di colmare un vuoto, o di giungere a una qualche possibilità di comunicazione che però difficilmente avviene.
Eda è investito suo malgrado del ruolo di angelo della morte: durante una festa aziendale un uomo ubriaco precipita da una grande scalinata e rimane a terra senza vita: l’espressione sorpresa, gli occhi sbarrati, la camicia dello smoking immacolata e una macchia di sangue che si allarga sul parquet. Tra i cinquecento presenti, lui viene incaricato di raggiungere la vedova dello sconosciuto e di darle la tragica notizia. Lo attende un lungo viaggio, attraverso una notte fredda e piovosa, in compagnia di sonno e stanchezza e di una serie di ricordi che emergono da un passato tormentoso.
Nina torna nella casa di famiglia che non abita più da quindici anni. La casa è piena dell’assenza della madre – della cui morte dovrà farsi messaggera fino al padre ormai ricoverato e assente a se stesso – e soprattutto è piena dell’assenza della sorella Eliška, presenza ingombrante nella sua infanzia, nella sua adolescenza e nella sua memoria. Nel tentativo di liberare la casa dai ricordi, tra oggetti guasti, oggetti intoccabili e altri dimenticati, si solleva un’intera vita come un’ombra, a proseguire la sua opera di tormento. Le vite di Eda e Nina si intrecciano nel nome di Eliška.
Gli occhi del lettore scorrono, riga dopo riga, pagina dopo pagina, sulle esistenze di Eda e Nina e sulle loro voci, che si alternano regolarmente, includendo altri personaggi e ampliando lo spettro dell’incomunicabilità. Dalle pagine si scende nelle profondità dei loro segreti e dei sensi di colpa inconfessabili, nei dubbi perpetui. Man mano che riaffiorano i ricordi, per il tonfo di un oggetto che cade, per l’improvviso addensarsi del cielo, per una voce che spezza, riemergono anche paure, incertezze, gelosie laceranti, scene traumatiche e indelebili, vuoti che riempiono gli animi a distanza di tempo, che i chilometri e gli anni non hanno saputo annientare del tutto. Il peso del lutto, che mentre schiaccia i protagonisti sembra conferire loro allo stesso tempo l’impulso ad alzarsi e a scrollarsi di dosso il passato, è raccontato da Bianca Bellová attraverso un ritmo estremamente calibrato, che ci conduce alla conclusione del racconto senza balzi improvvisi, nonostante la crescente drammaticità del filo narrativo. La dimensione familiare è una trappola da cui Eda e Nina non riescono a liberarsi.
La parola di Bianca Bellová si attacca alle cose come la polvere sugli oggetti vecchi tanto che riusciamo quasi a sentirne l’odore. E sui personaggi agisce come lo scandaglio negli abissi, cosicché questi sono d’un tratto davanti a noi, con tutte le debolezze degli esseri umani e con la loro precisa storia e la difficoltà che hanno a raccontarla. Loro sono davanti a noi e noi siamo dentro di loro. Forse il romanzo di Bianca Bellová non è “sentimentale” come suggerisce il titolo – che però già lancia un indizio con quel segno che divide: senti/mentale – ma la sua scrittura suscita forti emozioni e per questo non si lascia dimenticare.
Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’Europa. Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Sì, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno. Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. Il bruciacadaveri procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività. Postfazione di Alessandro Catalano.
Attuale
Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks (Miraggi edizioni) è una lettura difficile da raccontare. Un racconto disturbante, dai contorni sfumati come in un sogno, o meglio, in incubo.
Ho comprato questo libro nel 2019 e ha atteso fino a poche settimane fa in libreria (fa parte della sfida dello scaffale strabordante) e sono contenta di averlo letto ma sono sincera: senza la postfazione a cura di Alessandro Catalano, non avrei mai colto la bellezza e la profondità del testo, che non è sempre di facile comprensione.
Il protagonista è Karel Kopfrkingl: odioso, repellente e contraddittorio. Non sopporterete quest’uomo e tutto quello che rappresenta. Innamorato della moglie in maniera ossessiva, lavora in un crematorio. Ovviamente il suo non è un lavoro come gli altri ma una vera e propria missione.
Ossessionato dalla morte non fa altro che ricercarla tra gli articoli di giornale, tra gli sguardi nel mondo, tra le bare pronte ad essere bruciate. La polvere deve tornare polvere, questa è verità assoluta.
Grottesco a ambiguo, si muove in un mondo in cui i personaggi sono trascurabili, quasi finti. Il bruciacadaveri viene scritto (e letto) con gli occhi del protagonista: le ripetizioni, i rituali, la maniacalità, tutto contribuisce a costruire un quadro inquietante e grottesco.
Siamo a Praga a cavallo tra 1938 e il 39, noi leggiamo questo libro con il senno di poi. E la contraddizione di Karel è quella che ci stranisce. Marito premuroso ma ipocrita, continuerà a farsi visitare da un dottore per paura delle malattie veneree, è un fanatico travestito da mediocre. Un simbolo dell’orrore più buio della storia del Novecento.
La follia collettiva, l’indifferenza, la banalità del male… Il bruciacadaveri racchiude i grandi temi con cui molti scrittori si sono misurati, ma Fuks lo fa in maniera inedita, creativa, inquietante sì, ma a tratti anche divertente.
Dopo cena il signor Kopfrkingl baciò la sua celeste e disse:
«Vieni, ineffabile, prima di spogliarci, prepariamo la stanza da bagno.»
E prese una sedia e andarono, la gatta li guardava.
«Fa caldo qui, » disse il signor Kopfrkingl nel bagno, e mise la sedia sotto il ventilatore, «forse ho esagerato con il riscaldamento. Accendi il ventilatore, cara.»
Quando Lakmé salì sulla sedia, il signor Kopfrkingl le accarezzò il polpaccio, le gettò il cappio al collo e con un tenero sorriso le disse:
«E se ti impiccassi, cara?»
Lei gli sorrise dall’alto, forse non aveva capito bene le sue parole, anche lui sorrise, calciò via la sedia ed ecco fatto.
Le cose si complicheranno quando l’antisemitismo entrerà nelle vite dei protagonisti del romanzo, tra promesse di promozione, scelte, dolori… e adesso sarei crudele io a raccontarvi di più.
Il bruciacadaveri è…
Attuale, in maniera sconcertante. C’è una frase che i personaggi ripetono spesso durante la lettura ed è questa:
La violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo.
Forse è anche quello che ci ripetiamo noi quando leggiamo alcune notizie sul giornale come i protagonisti de Il bruciacadaveri, forse è quello che speriamo quando il clima di odio intorno a noi si fa insopportabile, forse è la scusa per non intervenire quando vediamo la violenza.
Il bruciacadaveri è sicuramente un libro di grande spessore e sono contenta che Miraggi sia riuscita a ripubblicarlo. Un romanzo che dovrebbero leggere tutti, perché è facile dimenticare, difficile prendere una posizione diversa.
Sono sincera però, pensavo che avrei fatto meno fatica ad entrare nella storia e invece non riuscivo ad orientarmi, spesso perdevo il filo. Benedette siano le analisi degli esperti quando ci si trova di fronti a testi importanti.
Consigliato per chi vuole leggere qualcosa di diverso su un tema letto e riletto. Per chi è in cerca di una storia particolare, angosciante e stridente. Il ricordo del protagonista sorridente e malvagio non vi lascerà in pace molto presto.
Porta la firma di Marino Magliani, insieme a quella di Riccardo Ferrazzi, la traduzione dallo spagnolo del libro di Sylvia Saitta appena pubblicato da Miraggi Edizioni.
Il libro intitolato “Arlt. Lo scrittore nel bosco di mattoni. Una biografia” racconta la storia dello scrittore e giornalista di Buenos Aires, in principio incompreso, ma oggi considerato uno dei padri della letteratura argentina. Magliani, apprezzato narratore, è da sempre attivo anche come traduttore, sia dallo spagnolo che dall’olandese. Noè Jitrik, Haroldo Conti, José Luis Cancho e lo stesso Arlt sono alcuni degli scrittori tradotti dall’autore di Prelà.
Alle origini della «città-fabbrica» dove nascevano i Robot
L’anno scorso i robot hanno compiuto un secolo. Il 2 gennaio 2021 è scoccato il centenario dal debutto a Praga di R.U.R. –Rossum’s Universal Robots di Karel Capek, il dramma teatrale in cui compare per la prima volta il termine. Lunedì prossimo l’editore torinese Miraggi risalirà all’origine, pubblicando la graphic novel dell’opera realizzata dall’illustratrice ceca Katerina Cupova. E basterà sfogliare le prime pagine per scoprire parecchie sorprese.
La più grande è che i robot, a cui siamo abituati a pensare come figure meccaniche/metalliche in storie di fantascienza, nascono come creature in carne e ossa. Più in zona Frankenstein, che Asimov o Guerre stellari. Nell’immaginazione di Capek, all’epoca poco più che trentenne, erano dei cloni degli esseri umani che uno scienziato («il vecchio» Rossum) aveva inventato su un’isola sperduta. Uomini senza anima, sentimenti o emozioni, ubbidienti al loro inventore. Il figlio, l’industriale «giovane» Rossum, ne comprende subito le potenzialità come forza-lavoro e costruisce sull’isola una fabbrica dove produce milioni di esemplari da vendere in tutto il mondo. Il robot è dunque il frutto di una riflessione artistica – tra il sociale e il filosofico – sull’accelerazione della rivoluzione industriale e sulle sorti dell’uomo, negli anni in cui masse di operai popolavano le grandi fabbriche e prendevano piede teorie come il taylorismo. Quindi scatta il momento Terminator: i robot comprendono di essere «molto» più efficienti degli esseri umani e si ribellano, in modo assai più violento di un semplice sciopero. Solo alla fine Capek si concederà un raggio di luminoso post-umanesimo.
Di luce e colori abbondano le tavole di Katerina Cupova, che con l’autore dell’opera condivide la nazionalità, le iniziali e l’età in fase di creazione (è nata a Ostrava trent’anni fa). Il suo tratto elegante, gentile, quasi giocoso, discendente dalla tradizione dei cartoni animati dell’Est Europa, aiuta ad alleggerire una trama che spesso lambisce scenari cupi alla Metropolis di Pritz Lang (film che risentì parecchio dell’influenza di R.U.R.). La traduzione di Alessandro Catalano, professore di letteratura ceca all’Università, di Padova, a cui si deve anche il bel saggio finale Le trasformazioni dei robot: 100 anni in cinquanta immagini.
Un’ultima curiosità sul termine robot: deriva da «robota», parola ceca che significa lavoro faticoso e servitù. Fu suggerita a Karel Capek dal fratello, il pittore Jozef, mentre dipingeva un quadro.
R.U.R. è l’acronimo di (I robot universali di Rossum), la rivisitazione a fumetti di Miraggi Edizioni del dramma teatrale utopico e fantascientifico dello scrittore ceco Karel Čapek messo in scena per la prima volta al Teatro nazionale di Praga nel 1921 e subito affermatosi sui palcoscenici di tutto il mondo. La graphic novel firmata dalla giovane illustratrice ceca Kateřina Čupová dà forma e colore allo storico dramma umanista. La traduzione e la postfazione sono a cura di Alessandro Catalano, professore associato di letteratura ceca presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università di Padova, che ha inoltre curato un approfondimento sulle trasformazioni dei robot, 100 anni in cinquanta immagini, inserito all’interno del volume.
R.U.R., in uscita in libreria il 21 febbraio 2022 nella collana MiraggINK, racconta, da una prospettiva del tutto originale, una delle prime distopie del XX secolo. La storia, in particolare, narra le tragiche conseguenze innescate dalla creazione di un uomo artificiale, organico ma apparentemente privo di quelle caratteristiche che rendono l’uomo debole e fallibile, come i sentimenti, i bisogni e il libero arbitrio. In una parola: l’anima. Tuttavia nessuna creatura può essere radicalmente diversa dal suo creatore e i robot di Karel Čapek, prodotti come beni di consumo per sollevare gli esseri umani dalle fatiche del lavoro fisico, sanno essere solidali tra loro, ribelli e violenti come gli uomini che li hanno costruiti.
Nella storia di R.U.R. si riflettono le grandi paure del Novecento di fronte all’avanzata del totalitarismo bolscevico, della vertiginosa corsa del progresso tecnico-scientifico, della disumanizzazione delle masse e delle ingiustizie sociali del capitalismo industriale. Un tema che resta, a un secolo di distanza, incredibilmente attuale seppur con i dovuti “aggiornamenti”. I robot di Čapek non sono quelli del nostro tempo, ma piuttosto creature biologiche, umanoidi che ricordano un po’ il mostro di Frankenstein o i replicanti di Blade Runner.
R.U.R. è un’avventura tra umanoidi, replicanti e robot (parola inventata proprio in occasione della stesura dell’opera di Karel Čapek da suo fratello, il pittore e scrittore Josef Čapek, con l’intenzione di trovare un sostantivo che designasse l’operaio artificiale, sulla base della parola ceca robota che vuol dire “colui che svolge lavori forzati”).
A Boros, un villaggio affacciato su un lago inquinato e senza nome, si vive principalmente di pesca. Mani, il protagonista, abita con i nonni materni, non sa chi sia il padre e ricorda solo vagamente la madre. Ha tre anni quando lo incontriamo per la prima volta ed è un giovane uomo quando infine, dopo un lungo peregrinare attraverso esperienze difficili e toccanti, torna al paese d’origine.
La sua infanzia spensierata finisce quando anche la nonna lo lascia, costretta dalla comunità del villaggio, guidata dal presidente del kolchoz, a consegnarsi allo Spirito del Lago su una chiatta senza remi. Da quel momento gli eventi precipitano e lui deve provare a sopravvivere in ambienti sempre più tossici, aggrappandosi a pochi brevi momenti di felicità.
La storia di Nami è un racconto di formazione dal sapore universale, perché oltre a essere fuori dal tempo e dallo spazio, ricalca il mitico viaggio dell’eroe, un viaggio che l’autrice, Bianca Bellová, suddivide in quattro capitoli — Uovo, Larva, Crisalide, Imago —, affidando la narrazione in terza persona a una successione di episodi quasi sempre amari e dolorosi.
Il lago è l’altro grande protagonista del romanzo; uno specchio d’acqua inquinato, che gradualmente si ritira, le cui acque provocano eczemi e altri disturbi e il cui Spirito, secondo la gente del villaggio, deve essere nutrito affinché si pacifichi.
Ormai le barche sono così lontane dal molo originario che nella striscia tra il segno dell’alta marea e lo stesso molo i bambini hanno fatto un campo da calcio. È un po’ in pendenza, quindi ad ogni passaggio la palla rotola verso il lago. Dal campo si solleva la polvere e ogni tanto qualche gamba sprofonda nella crosta dura del sedimento. Il molo di cemento, coperto di alghe imputridite, emerge direttamente dalla sabbia incrostata e dal fango, sotto le bitte di ferro sono sparsi i rifiuti.
IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ
Bellová non si spinge a fondo nell’analisi del protagonista e degli altri personaggi, né ci consegna un finale chiaro e rassicurante. Lascia a noi il compito di interpretare i sentimenti e le ragioni di Nami e dare un senso all’epilogo.
La scrittura è disadorna, caratterizzata da frasi brevi e dall’uso del presente, che accentua l’atemporalità del racconto e pungola l’interesse di chi legge. I principali temi affrontati da Bellová sono la ricerca dell’identità e il rapporto dell’uomo con la natura, una relazione da cui quest’ultima esce sconfitta, ma che ne Il Lago tenta di riprendersi quanto le viene tolto.
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L’ambientazione
“Su entrambi i lati della via polverosa che risale la collina sopra il porto sorgono le casupole dei pescatori, alla fine della via ci sono un chiosco con le aringhe e un altro con i semi di girasoli. D’estate arriva anche un venditore di zucchero filato che prende in affitto tutta la vecchia birreria in fondo alla strada. Sono case in muratura, solide, di solito a un piano solo, giusto un paio — compresa quella in cui Nami vive con la nonna — hanno due piani. La chiamano Via dei Pescatori e in sostanza è il cuore del paese. A ovest della Via dei pescatori si trovano gli edifici adibiti a policlinico, casa della cultura, posta e scuola, e le case degli altri abitanti, costruite senza un chiaro progetto urbanistico. Non ci passano strade in mezzo, le costruzioni emergono dalla superficie in modo casuale, spesso a sorpresa. Ad est c’è il complesso residenziale per gli ingegneri russi, con la meravigliosa piazza e il monumento allo Statista, più oltre verso il bosco che indietreggia sempre più in favore delle case, si trova la caserma.”
IL LAGO, BIANCA BELLOVÁ
Nami cresce in un villaggio fittizioe in un periodo storico imprecisato (la mia testa l’ha collocato tra gli anni ‘80 e la fine degli anni ‘90). Sappiamo solo che il territorio è sottoposto al controllo dei russi e che il lago è inquinato e ospita un’isola dove sono stati condotti pericolosi esperimenti biologici.
Il pensiero va quindi al tristemente famoso lago d’Aral, situato tra Kazakistan e Uzbekistan. Sulla sua storia ti consiglio l’ascolto di Il lago che era, una delle puntate della seconda stagione di Cemento, il podcast di Eleonora Sacco e Angelo Zinna (fra i più interessanti in circolazione).
I luoghi del romanzo, desolanti quanto le vicende narrate, sono descritti dal punto di vista di Nami, che cambia con lui. Leggendo, li immaginavo poveri e spogli, fatti di terra e cemento, circondati da una natura maltrattata e matrigna. Compare anche una città, quella dove il protagonista inizia il viaggio alla ricerca di se stesso (e della madre).
Se dovesse descrivere la città, Nami non saprebbe da dove iniziare. I palazzi sono così alti che Nami tende istintivamente a farsi piccolo e i suoi occhi cercano di continuo l’orizzonte. L’aria è piena di clacson che strombazzano, di marmitte che scoppiettano e grida. Una donna rimprovera ad alta voce un bambino che piange. Si sente odore di escrementi, ma anche di profumi dolci e di grasso di frittura. In aria svolazzano fogli sporchi e polvere. Le persone hanno un aspetto un po’ diverso: gli occhi sono più luccicanti, luminosi, e si muovono più velocemente. Anche i cani vagabondi sembra vadano più in fretta. I muri sono coperti di vari strati di manifesti colorati. In basso si staccano, raccogliendo la polvere nell’aria.
Capisco bene cosa intendeva Laura Angeloni, la traduttrice, quando ha scritto “Nami è così, te ne innamori ancora prima di conoscere la sua storia“. Anche io mi sono affezionata a Nami fin dalle prime pagine. Credo abbia colpito (e affondato, aggiungerei) quel lato di me che desidera proteggere, aiutare e guidare e si riconosce nel viaggio dell’eroe. Te lo consiglio se sei pronta/o a immergerti in un mondo spesso brutale, cupo e incolore, dove la tenerezza e la speranza sono merci rare.
Il lago è il quarto libro della scrittrice ceca Bianca Bellová. In Italia è stato pubblicato nel 2018 da MiraggiEdizioni. Ha vinto due premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera. Per approfondirne la conoscenza, ti suggerisco la lettura dell’intervista di Martina Mecco di Est/ranei all’autrice.
Il Pensiero originale è infatti collettivo e indescrivibile.
Non esiste forse enunciato più acconcio per viaggiare in direzione eguale e contraria verso l’opera di Paolo Brunati. Scrittore, poeta, scultore, artista totale, nella cosmogonia letteraria che lo caratterizzò ogni elemento veniva irradiato di una vita propria che serviva a creare altra vita, altro significante.
Allora insetto non si riferiva soltanto alla minuscola vita strisciante, volante, saltellante di artropodi comuni, ma la metafora del passaggio dell’uomo sulla Terra, nella sua impossibilità d’essere altro dal minimo contributo occasionale e fugace di pensiero.
Mi chiedo a volte se la scrittura non sia, rispetto al pensiero, quello che è l’Insetto trafitto nella scatola entomologica rispetto all’Insetto vivo.
E il ricordo dell’insetto più famoso della storia della letteratura ritorna prepotente. Lo scarafaggio kafkiano trafitto nella sua scatola familiare è al tempo stesso pensiero e scrittura del pensiero, è il vivo-morto, il ritornante della sua specie mutata, così come lo è la scrittura del pensiero defunto che si fa carta e che riverbera da centosessanta prose intitolate all’inorganico, all’inessenziale, all’infinito, contenute in un testamento letterario dal titolo “Colloqui con il Pesce Sapiente”.
Brunati non conclude, non cristallizza nelle forme ma spazia negli oceani plasmabili dell’inconoscibile la sua materia filosofica, immergendola nelle acque tiepide dell’ironia sottile, del boudoir di un illusionista, in quel dietro le quinte di una rappresentazione a scopo dimostrativo e preparatorio della vita.
Nella sua incessante riscrittura dell’avventura umana, l’autore fagocita l’assurdo restituendo plausibili scenari, insuperate visioni metafisiche collimanti con l’abituale rapporto col quotidiano, con l’ineludibile consunzione della materia.
Ogni Morto è un grandissimo attore drammatico. La sua persona anagrafica sparisce con la sua totale immedesimazione nel personaggio.
L’umorismo paradossale che alberga in ogni prosa brunatiana fa i conti con una consapevolezza profonda del rapporto che lega gli elementi primordiali. Il gusto del contrario è cifra identitaria strutturata in relazione paritetica. Si è nel momento irripetibile del dolore e della farsa.
Persino sentimenti come l’inimicizia sovvertono l’efficacia di un’esperienza.
Sì, l’inimicizia è uno dei sentimenti più forti, più genuini. Un vero nemico è colui che riesce a rivoltarti, farti cambiare posizione da quella in cui già fin da troppo tempo giacevi anchilosato.
La letteratura come nemico è un’idea affascinante che scoraggia il lettore, aduso a un rapporto infantile, si direbbe quasi elementare con la parola scritta. Da un libro vuole ristoro, non la spinta al confronto. Ricerca il simile, l’ovvio, non l’eccezione, l’insolito.
La filosofia contenuta in “Colloqui con il Pesce Sapiente”, pubblicato da Miraggi Edizioni, da cui sinora sono stati tratti spunti di riflessione, è un luminoso istinto non già verso la salvazione, ma l’incontenibile suggestione di essere in presenza di un’aurora polare, il cui effetto ottico sta all’occhio che la osserva e al cuore che la prova. Non raramente chi legge Brunati avvertirà quei suoni elettrofonici che si odono in alcune manifestazioni di aurore boreali ma, come quest’ultime, si sarà in presenza di fenomeni che ancora sfuggono alla comprensione dell’origine della creazione di uno scrittore, che ha dato alla letteratura materiale organico in continuo divenire.
Tuffarsi nel mondo di Bianca Bellová è una esperienza sensoriale a suo modo unica. Classe 1970, la scrittrice è una delle voci femminili più significative della Repubblica Ceca.
Grazie a Miraggi edizioni, nella collana diretta da Alessandro De Vito, arriva al lettore italiano questa narrazione assordante. Perché, se si potesse paragonare a un elemento, la scrittura della Bellová è acqua. Acqua di lago, pioggia incessante, non fa differenza, basta saper ascoltare e si sente il rumore dell’acqua.
È il suo romanzo di esordio Romanzo senti/mentale, che Miraggi pubblica dopo averci fatto conoscere di lei i successi internazionali Il lago e Mona. Eppure la scrittura già forte e distinta ne è la voce.
Ebbene, tuffandosi in questi abissi incontriamo Eda e Nina, le voci narranti di Eliška: di Nina la sorella, di Eda l’amore. In realtà sono tutti affascinati da Eliška e lo siamo anche noi dal primo istante, dalla sua prima entrata in scena. Nonostante siano trascorsi quindici anni da quando Eliška si è chiusa il sipario alle spalle, nessuno pare averla dimenticata anzi, il passare del tempo fa di lei ancora di più un personaggio centrale della vita e nella vita degli altri.
Estremamente interessante è il gioco di alternare le due voci nel corso della narrazione, che pare svolgersi nell’arco di un giorno, forse due. In parallelo siamo scaraventati indietro nel tempo quando, ancora bambini, Eda, Eliška e Nina si sono incontrati per non lasciarsi mai più.
Ancora più potenti sono poi le figure genitoriali in particolare modo i padri. Forse non è un caso che la Bellová dedichi il romanzo al papà.
Nella finzione il padre di Nina e Eliška è cosparso da una luce che “è come attraversata da una specie di nebbia”, un padre lontano con la testa altrove. Il padre di Eda invece “è un personaggio di un certo calibro. Non ho solo ricordi brutti di lui”. Un padre fisico, fin troppo, con la sua percezione rocciosa che diventa violenza sulla donna. Ambedue, per motivi diversi, diversissimi, incapaci di amare la voce femminile che ne è la compagna.
Il presente si fa ricordo. Eda e Nina hanno in comune un passato che diventa, per una strana casualità, di nuovo presente. Finalmente insieme, di nuovo. Un nuovo dove forse potrebbe trovare spazio non solo il ricordo di Eliška, ma anche la possibilità di ricominciare, di crescere e diventare davvero adulti. Oppure no. Perché né Eda né Nina hanno previsto una variante che manda all’aria tutte le possibilità: “il senso di colpa”.
Come scrive Angelo Di Liberto nella prefazione: “non si può scappare dalla volontà della colpa, ha memoria antica, si può solo desiderare di dormire per dimenticare”.
Ci sono i diari di Eliška che Nina cerca, ci sono gli sguardi del non detto, c’è l’arte e la capacità dell’arte di ri-generarsi e poi c’è quello sguardo “accompagnato da un sorriso di labbra e occhi, e poi gli occhi si abbassano. E poi la colpa. Dall’alba dei secoli quello è lo sguardo che si riserva agli amanti”.
Romanzo senti/mentale che sentimentale non è, lascia il segno e il rumore dell’acqua si fa più forte nonostante tutto.
Un affresco tragico e tormentato della società italiana
La collana scafiblù della casa editrice Miraggi si ispira alle omonime imbarcazione usate a Napoli per il contrabbando di sigarette. Gli scafi blu della letteratura non trasportano più tabacchi e merci, ma contrabbandando idee clandestine, messaggi disobbedienti, originali e originari, attraverso stili e contenuti ribelli. Trasportando, oltre l’attenzione generale, i luoghi oscuri dell’uomo e le verità segrete ed inconfessabili dietro ogni uomo. Ci riesce bene Daniele Zito che nel suo “Uno di noi”(Edito da Miraggi Edizioni) compie l’affresco tragico e tormentato della società italiana. Raccontando la vicenda di un gruppo di amici, frustrati e sconfitti, che in un giorno di euforia, dopo l’ennesima disfatta in una partita di calcetto, decidono di dare fuoco ad una baraccopoli della loro città. Un gesto assurdo a cui cercano di dare più significati, etici, politici, morali, che nella loro mente nasce con la noncuranza spietata con cui ognuno distrugge senza pensarci nella vita. una noncuranza che li porterà a bruciare case e abitazioni di disperate e a condannare ad atroci ustioni una giovane ragazza emarginata e disabile. Un fatto drammatico per entrare nel ventre molle della società, nelle paure e gli odi di un mondo emarginato e sconfitto. Fatto di cattiveria ed emotività, di paure e disperazione. In una indagine priva di quella retorica patetica dei romanzi del nostro tempo, attraverso uno stile poetico e terribile che spezzetta le azione, apre le vite dei suoi personaggi mostrando vittime e carnefici, certamente, ma soprattutto, uomini, turbamenti, oscurità. Un romanzo anomalo che più che una trama ha una atmosfera, più che personaggi riflessi. Non hanno nomi veri i membri della banda del calcetto, né dottori precari, passanti e soccorritori, la bambina che soffre, suo padre rimasto solo e in agonia. I quattro hanno una voce unica rappresentata dal “uno di noi”, parlante, che si distrugge e logora tra i sensi di colpa e il bisogno di indifferenza per non farsi scoprire, tra la violenza verbale e l’annientamento umano e intimo. Ha nome solo sua moglie, Irene, che gli legge dentro, lo vede turato, orribile, pentito, confuso. Maschere che si accompagnano al coro volubile ed emotivo della società, capriccioso ed istintivo, bisognoso di certezze e comprensione, ma anche affamato di vendetta, arringato e sconvolto dalla chiacchiera e dagli sciacalli sociali. Dai ministri opportunisti sempre pronti a salire sul carro del vincitore, a giornalisti che si nutrono di morte e dolore. Volti, riflessi, allusione che raccontano la grande tragedia anonima che può aggirarsi nella vita crepata di ognuno di noi.
Storie russe: l’amore segreto per Čechov raccontato da Lidija Avilova
È stata intensa, come ogni storia russa che si rispetti, ma anche segreta, come la società voleva che fossero gli amori nati tra amanti. Al centro della scena c’è il noto scrittore russo, Čechov, e Lidija Avilova che – al tempo del loro primo incontro – era già moglie e madre di un bambino. In “Čechov nella mia vita” (Miraggi Edizioni, 2021, pp.123, euro 14, traduzione di Barbara Delfino, prefazione di Dario Pontuale) è la stessa Avilova a narrare i suoi sentimenti per la celebre penna russa, gli incontri fugaci, le attese e la corrispondenza epistolare.
Un’amicizia preziosa la loro, durata almeno dieci anni, resa unica da una complicità che è difficile da nascondere. E in effetti, tanto segreto il loro amore non lo era perfino per il marito di lei, un uomo che in cuor suo conosce la realtà dei fatti, ma che trattiene la consorte in nome di una compostezza doverosa soprattutto agli occhi della gente. La storia che la Avilova confessa in queste pagine è una relazione che, a gran fatica, soffoca e sacrifica per amore di quella “felicità familiare” a cui tanto anela e che ricorda quella più volte affrontata nei testi di un altro gigante della letteratura russa, Tolstoj. Tante sono le analogie con i racconti tolstojani che in questo piccolo scritto emergono: dai matrimoni di convenienza alle scenate di gelosia di Miša, marito della Avilova che, proprio come Aleksej Karenin in Anna Karenina rivendica quei doveri di moglie venuti meno. Lidija però sceglie di non abbandonarsi alla passione. Sceglie la famiglia e dunque di non vivere fino in fondo. E forse lo stesso fece Čechov scegliendo di sposare un’altra donna. Non era tempo per il loro amore. Non era tempo di guardare alla vita in modo complicato.
Un libro breve ma coinvolgente e avvolgente, consigliato per i nostalgici delle atmosfere del grande romanzo russo.
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