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Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Romanzo senti/mentale – recensione di Maria Caterina Prezioso su Satisfiction

Tuffarsi nel mondo di Bianca Bellová è una esperienza sensoriale a suo modo unica. Classe 1970, la scrittrice è una delle voci femminili più significative della Repubblica Ceca.

Grazie a Miraggi edizioni, nella collana diretta da Alessandro De Vito, arriva al lettore italiano questa narrazione assordante. Perché, se si potesse paragonare a un elemento, la scrittura della Bellová è acqua. Acqua di lago, pioggia incessante, non fa differenza, basta saper ascoltare e si sente il rumore dell’acqua.

È il suo romanzo di esordio Romanzo senti/mentale, che Miraggi pubblica dopo averci fatto conoscere di lei i successi internazionali Il lago e Mona. Eppure la scrittura già forte e distinta ne è la voce.

Ebbene, tuffandosi in questi abissi incontriamo Eda e Nina, le voci narranti di Eliška: di Nina la sorella, di Eda l’amore. In realtà sono tutti affascinati da Eliška e lo siamo anche noi dal primo istante, dalla sua prima entrata in scena. Nonostante siano trascorsi quindici anni da quando Eliška si è chiusa il sipario alle spalle, nessuno pare averla dimenticata anzi, il passare del tempo fa di lei ancora di più un personaggio centrale della vita e nella vita degli altri.

Estremamente interessante è il gioco di alternare le due voci nel corso della narrazione, che pare svolgersi nell’arco di un giorno, forse due. In parallelo siamo scaraventati indietro nel tempo quando, ancora bambini, Eda, Eliška e Nina si sono incontrati per non lasciarsi mai più.

Ancora più potenti sono poi le figure genitoriali in particolare modo i padri. Forse non è un caso che la Bellová dedichi il romanzo al papà.

Nella finzione il padre di Nina e Eliška è cosparso da una luce che “è come attraversata da una specie di nebbia”, un padre lontano con la testa altrove. Il padre di Eda invece “è un personaggio di un certo calibro. Non ho solo ricordi brutti di lui”. Un padre fisico, fin troppo, con la sua percezione rocciosa che diventa violenza sulla donna. Ambedue, per motivi diversi, diversissimi, incapaci di amare la voce femminile che ne è la compagna.

Il presente si fa ricordo. Eda e Nina hanno in comune un passato che diventa, per una strana casualità, di nuovo presente. Finalmente insieme, di nuovo. Un nuovo dove forse potrebbe trovare spazio non solo il ricordo di Eliška, ma anche la possibilità di ricominciare, di crescere e diventare davvero adulti. Oppure no. Perché né Eda né Nina hanno previsto una variante che manda all’aria tutte le possibilità: “il senso di colpa”.

Come scrive Angelo Di Liberto nella prefazione: “non si può scappare dalla volontà della colpa, ha memoria antica, si può solo desiderare di dormire per dimenticare”.

Ci sono i diari di Eliška che Nina cerca, ci sono gli sguardi del non detto, c’è l’arte e la capacità dell’arte di ri-generarsi e poi c’è quello sguardo “accompagnato da un sorriso di labbra e occhi, e poi gli occhi si abbassano. E poi la colpa. Dall’alba dei secoli quello è lo sguardo che si riserva agli amanti”.

Romanzo senti/mentale che sentimentale non è, lascia il segno e il rumore dell’acqua si fa più forte nonostante tutto.

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Uno di noi – recensione di Francesco Subiaco su Contro il nulla

Uno di noi – recensione di Francesco Subiaco su Contro il nulla

Un affresco tragico e tormentato della società italiana

La collana scafiblù della casa editrice Miraggi si ispira alle omonime imbarcazione usate a Napoli per il contrabbando di sigarette. Gli scafi blu della letteratura non trasportano più tabacchi e merci, ma contrabbandando idee clandestine, messaggi disobbedienti, originali e originari, attraverso stili e contenuti ribelli. Trasportando, oltre l’attenzione generale, i luoghi oscuri dell’uomo e le verità segrete ed inconfessabili dietro ogni uomo. Ci riesce bene Daniele Zito che nel suo “Uno di noi”(Edito da Miraggi Edizioni) compie l’affresco tragico e tormentato della società italiana. Raccontando la vicenda di un gruppo di amici, frustrati e sconfitti, che in un giorno di euforia, dopo l’ennesima disfatta in una partita di calcetto, decidono di dare fuoco ad una baraccopoli della loro città. Un gesto assurdo a cui cercano di dare più significati, etici, politici, morali, che nella loro mente nasce con la noncuranza spietata con cui ognuno distrugge senza pensarci nella vita. una noncuranza che li porterà a bruciare case e abitazioni di disperate e a condannare ad atroci ustioni una giovane ragazza emarginata e disabile. Un fatto drammatico per entrare nel ventre molle della società, nelle paure e gli odi di un mondo emarginato e sconfitto. Fatto di cattiveria ed emotività, di paure e disperazione. In una indagine priva di quella retorica patetica dei romanzi del nostro tempo, attraverso uno stile poetico e terribile che spezzetta le azione, apre le vite dei suoi personaggi mostrando vittime e carnefici, certamente, ma soprattutto, uomini, turbamenti, oscurità. Un romanzo anomalo che più che una trama ha una atmosfera, più che personaggi riflessi. Non hanno nomi veri i membri della banda del calcetto, né dottori precari, passanti e soccorritori, la bambina che soffre, suo padre rimasto solo e in agonia. I quattro hanno una voce unica rappresentata dal “uno di noi”, parlante, che
si distrugge e logora tra i sensi di colpa e il bisogno di indifferenza per non farsi scoprire, tra la violenza verbale e l’annientamento umano e intimo. Ha nome solo sua moglie, Irene, che gli legge dentro, lo vede turato, orribile, pentito, confuso. Maschere che si accompagnano al coro volubile ed emotivo della società, capriccioso ed istintivo, bisognoso di certezze e comprensione, ma anche affamato di vendetta, arringato e sconvolto dalla chiacchiera e dagli sciacalli sociali. Dai ministri opportunisti sempre pronti a salire sul carro del vincitore, a giornalisti che si nutrono di morte e dolore. Volti, riflessi, allusione che raccontano la grande tragedia anonima che può aggirarsi nella vita crepata di ognuno di noi.

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Čechov nella mia vita – recensione di Sara Pizzale su Modulazioni Temporali

Čechov nella mia vita – recensione di Sara Pizzale su Modulazioni Temporali

Storie russe: l’amore segreto per Čechov raccontato da Lidija Avilova

È stata intensa, come ogni storia russa che si rispetti, ma anche segreta, come la società voleva che fossero gli amori nati tra amanti. Al centro della scena c’è il noto scrittore russo, Čechov, e Lidija Avilova che – al tempo del loro primo incontro – era già moglie e madre di un bambino. In “Čechov nella mia vita” (Miraggi Edizioni, 2021, pp.123, euro 14, traduzione di Barbara Delfino, prefazione di Dario Pontuale) è la stessa Avilova a narrare i suoi sentimenti per la celebre penna russa, gli incontri fugaci, le attese e la corrispondenza epistolare.

Un’amicizia preziosa la loro, durata almeno dieci anni, resa unica da una complicità che è difficile da nascondere. E in effetti, tanto segreto il loro amore non lo era perfino per il marito di lei, un uomo che in cuor suo conosce la realtà dei fatti, ma che trattiene la consorte in nome di una compostezza doverosa soprattutto agli occhi della gente. La storia che la Avilova confessa in queste pagine è una relazione che, a gran fatica, soffoca e sacrifica per amore di quella “felicità familiare” a cui tanto anela e che ricorda quella più volte affrontata nei testi di un altro gigante della letteratura russa, Tolstoj. Tante sono le analogie con i racconti tolstojani che in questo piccolo scritto emergono: dai matrimoni di convenienza alle scenate di gelosia di Miša, marito della Avilova che, proprio come Aleksej Karenin in Anna Karenina rivendica quei doveri di moglie venuti meno. Lidija però sceglie di non abbandonarsi alla passione. Sceglie la famiglia e dunque di non vivere fino in fondo. E forse lo stesso fece Čechov scegliendo di sposare un’altra donna. Non era tempo per il loro amore. Non era tempo di guardare alla vita in modo complicato.

Un libro breve ma coinvolgente e avvolgente, consigliato per i nostalgici delle atmosfere del grande romanzo russo.

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Il lago – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Il lago – recensione su Progetto Repubblica Ceca

“NováVlna” è una nuova collana italiana di letteratura ceca, il cui nome è ispirato alla “Nouvelle vague” cinematografica ceca ai tempi della Primavera di Praga. I primi due libri pubblicati nella collana sono stati: “Volevo uccidere J.-L Godard”, di Jan Němec, e “Il Lago” di Bianca Bellová. “Il lago” è un vero e proprio capolavoro che fa da cornice alle vicende di Nami, il protagonista: un bambino che non ha nulla e che, diventando uomo, deve trovare la propria strada nel mondo. La storia è ambientata in un villaggio di un paese dell’ex blocco sovietico; un villaggio che vive di pesca, ma all’improvviso i pesci muoiono, il lago si riduce e i pescatori e la gente del luogo soccombono. Il lago d’Aral, che è facile riconoscere nel racconto, non viene però mai menzionato lasciando così il lettore nel dubbio su dove la storia sia veramente ambientata. Nami, una volta rimasto solo, partirà per la capitale dove farà i lavori più disparati e andrà incontro alle bestialità umane legate alla metropoli e al progresso. Poi tornerà a casa perché, forse, per poter trovare bisogna sempre tornare anche indietro.

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Il bruciacadaveri – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Il bruciacadaveri – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Una nuova edizione di un classico. Questa storia è ambientata in uno dei periodi più tragici del Novecento, quello dominato dal nazismo con la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate e l’invasione dell’Europa. Il protagonista, il signor Kopfkringl, è un tenero e sdolcinato padre di famiglia, un uomo che sorride sempre. Tutto ciò, però, solo in apparenza, perché interiormente è invece una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti in modo stereotipato. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.Forse ha un senso ulteriore riproporre oggi questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé gli ordini con leggerezza e conseguenze paradossali. Sebbene alcuni fantasmi sembrino appartenere solo al passato, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie, e che far finta di niente potrebbe farci precipitarci nuovamente in esso.

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Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Chiedi a papà – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Esce la traduzione italiana del libro “Chiedi a papà” di Jan Balabán. Dal titolo traspare un’amara ironia perché “chiedere a papà come siano andate realmente le cose non è più possibile”. Dopo la morte del medico Jan Nedoma, letteralmente tradotto “senza casa”, i figli Hans, Emil e Katerina insieme alla madre devono far fronte non solo al lutto, ma anche alle accuse inflitte di presunta complicità con le autorità comuniste e di corruzione mosse contro il padre da quello che un tempo era il suo migliore amico. “Chiedi a papà” è un libro che affronta temi sul senso, sulla qualità e sul percorso della vita umana, sui rapporti familiari, sulla malattia e sulla morte, ma anche su quello che si incontra dopo. Balabán riesce a descrivere in modo estremamente preciso l’aspetto tragico del destino individuale che inevitabilmente tende al suo punto finale. L’autore si pone diverse domande: non è forse vero che è dalla nascita che si comincia a morire? Chi siamo e che cosa facciamo nel frattempo?

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Grand Hotel – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Grand Hotel – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Vincitore nel 2007 del premio letterario ceco Magnesia Litera, “Grand Hotel. Romanzo sopra le nuvole” racconta la vicenda surreale di un ragazzo stritolato dalle difficoltà di una vita a ostacoli, ma che sa comprendere le nuvole, le alte e le basse pressioni e i misteri dei venti. Fleischman, il personaggio principale è un trentenne solitario, rimasto orfano da ragazzino. La sua vita è un fallimento. Non è mai riuscito in nulla. Non ha mai neppure lasciato la sua città, Liberec, nei Sudeti, al confine ceco-tedesco. La sua vita è un diagramma in cui annota il tempo atmosferico e lo scorrere del tempo. Fleischman, che non conosce nemmeno il suo nome proprio, è il tuttofare del Grand hotel di Ještěd, l’avveniristico e gigantesco hotel a forma di astronave che sovrasta la città. In questo luogo, sospeso tra la terra e il cielo, si rende conto che troverà una via d’uscita dalla sua città e dalla sua stessa vita solo attraverso le nuvole, ma nei suoi piani irrompe la cameriera Ilja, che un giorno arriva come un’apparizione alla reception dell’hotel.

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La perlina sul fondo – recensione su Progetto Repubblica Ceca

La perlina sul fondo – recensione su Progetto Repubblica Ceca

Finalmente tradotto in italiano da Laura Angeloni, con una postfazione del boemista Alessandro Catalano, il libro che ha fatto conoscere lo scrittore ceco Bohumil Hrabal al grande pubblico. “La perlina sul fondo”, infatti, fu l’esordio nel 1963, all’età di 49 anni, di Hrabal, oggi considerato uno dei più grandi scrittori del Novecento. “Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano”, scrive Bohumil Hrabal in quella che può essere considerata la presentazione migliore di questo libro che racconta con lucidità e ironia la realtà di un popolo e di un Paese negli anni prima della “normalizzazione”.

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Il richiamo del dirupo – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Il richiamo del dirupo – recensione di Alessandra Fontana su La lettrice controcorrente

Frammenti

Il richiamo del dirupo di Mìcol Mei è un libro breve, particolare e intenso. Difficile collocare in un genere un racconto così, composto da frammenti, suggestioni, emozioni e ricordi.

L’atmosfera è ammantata di mistero e io ho pensato subito, lo so anche se non c’entra quasi nulla, a Shirley Jackson e al suo L’incubo di Hill House. Anche ne Il richiamo del dirupo infatti la protagonista sembra essere una casa assai particolare, una casa che inghiotte e trasforma i suoi personaggi.

Raccontare Il richiamo del dirupo è difficilissimo perché il pericolo “spoiler” è sempre dietro l’angolo e io ovviamente non voglio rovinare la sorpresa a nessuno. Degno di nota è il modo di raccontare la storia. Il lettore si trova sempre di fronte a un registro diverso: ci sono descrizioni tradizionali, canzoni, diari… Il richiamo del dirupo è un racconto in costante movimento.

Se all’inizio crediamo di trovarci di fronte a un horror, con l’andare avanti delle pagine scopriamo che non è proprio così. La seconda metà del libro esplode e si trasforma in qualcosa di completamente diverso.

Il richiamo del dirupo racconta la storia di una casa in stile vittoriano a picco sul mare. Un giorno il proprietario, Felice Hernandez, decide di ingaggiare un agente immobiliare per affittare la casa. E fin qui direte: cosa c’è di strano? Gli inquilini dovranno avere particolari caratteristiche e infatti gli ospiti della casa di Hernandez saranno quattro persone diversissime e soprattutto tormentate da qualcosa.

Nell’inquietante casa prenderanno posto una donna che ha perso la figlia,  uno scultore, un’ ex tennista e un ragazzo affetto da una rara malattia.  Ed è qui che comincerà per loro un percorso attraverso ossessioni, vendette e ripicche.

(…) ciò che colpì maggiormente il giovane furono però delle vecchie foto appese con cornici d’epoca. Ritraevano quelli che avevano tutta l’apparenza d’essere vecchi attori d’inizio secolo, quando tradizionalmente ci si aspetterebbe di trovare fotografie di parenti e famigliari.

In questa casa nulla è lasciato al caso: le stanze degli ospiti sono arredate secondo un’intenzione precisa. Nessuna è uguale ad un altra, proprio come nessun dramma assomiglia a un altro.

Se ho imparato una cosa buona da lei, è che la tragedia col passare del tempo diventa farsa, perciò tocca sorridere quando grandina.

Il richiamo del dirupo è…

Frammenti. Mei compone un puzzle avvincente e spiazzante. All’inizio si può fare un pochino di fatica perché la narrazione non è tradizionale. Questo è sicuramente l’aspetto che ho apprezzato di più. Mi è piaciuta la tensione crescente quando entrano in scena i personaggi e l’idea di immergerli, come se fosse in un esperimento, in un ambiente pronto a far emergere le loro fragilità e addirittura di ribaltare le convinzioni che avevamo su di loro.

Quello che mi è piaciuto meno è stata la brevità. Avrei voluto rimanere ancora un po’ in loro compagnia e magari aggiungere qualche pagina mi avrebbe fatto innamorare di più. Ma lo sapete, io amo i mattoni e non faccio testo.  Ringrazio AldoStefano Marino e l’autrice per avermi mandato la copia. Miraggi ancora una volta si è distinta pubblicando un romanzo nuovo, insolito e godibilissimo.

Consigliato per gli amanti delle storie inclassificabili, per quelli che sono in cerca di storie particolari e mai banali, per chi non si accontenta e vuole essere stupito.

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Romanzo senti/mentale – recensione di Gianluigi Bodi su Senzaudio

Romanzo senti/mentale – recensione di Gianluigi Bodi su Senzaudio

A volte ti bastano poche righe per incontrare una voce che poi imparerai a riconoscere come familiare e addirittura andrai a cercare tutte le volte che ti sembrerà di essere a corto di letture, tutte le volte in cui guarderai la libreria strapiena, con gli scaffali piegati dai libri (alcuni mai aperti) e ti dirai: non ho nulla da leggere. Bianca Bellová è quella voce lì, quella voce che nell’arco di una pagina fa risuonare già un certo tipo di affinità che riservi solo agli autori e alle autrici che considerei beni rifugio quando ci sono tempi di magra.

“Romanzo senti/mentale” è, per quel che mi riguarda, solo apparentemente un romanzo a due voci. Il racconto viene portato avanti in modo alternato, guardando prima nella vita di Nina e poi in quella di Eda. In mezzo a loro due presenze disturbanti. Da un lato Eliška, la sorella di Nina e dall’altro il deux ex machina, il santone…il padre di Eda. La narrazione parte da due lutti non legati tra loro. Il primo lutto ha a che fare con la morte della madre di Nina, il secondo con quello di un cliente dell’albergo in cui lavora Eda. Eda viene incaricato di andare a casa del malcapitato e comunicare la sua morte ala moglie. Diventa un angelo della morte.

Ma c’è, sopra di loro, un lutto supremo dal quale nessuno riuscito a staccarsi. Nina ha perso la sorella, Eda ha perso l’amore. Eliška è stata, nelle loro vite, una presenza disturbante, folle, portatrice si squilibrio, ma allo stesso tempo, magnete che attira a sè gli sguardi e i desideri delle persone. Quell’Eliška che da artista vive la propria vita come fosse un’opera d’arte e poi soccombe a un demone interiore nutrito dal santone, il padre di Eda. E tutto questo con nello sfondo il regime e la sua presenza chiara e vivida nella memoria delle persone, presenza che la Bellová reifica nel personaggio potente e inquietante del padre di Eda. Un uomo che può tutto e a cui non si può opporre difesa.

“Romanzo senti/mentale” è caratterizzato da una serie di incroci tra persone, da una struttura che si regge in perfetto equilibrio e, come ho detto all’inizio, da un elemento importantissimo: la voce della scrittrice Bianca Bellová. C’è, nel suo modo di raccontare, nel ritmo che tiene durante tutto il libro, un lento avvicinamento verso la conclusione che a tratti ricorda la rigida e commossa malinconia dei cortei funebri. Si tratta di un romanzo breve che, ne sono certo, non potrà fare altro che rieccheggiare a lungo nella mia memoria.

Traduzione di Laura Angeloni.

Bianca Bellová (1970) è una delle autrici più affermate della Repubblica Ceca. Ha esordito nel 2009 con Sentimentální román (“ Romanzo sentimentale ”), ripubblicato in nuova edizione nel 2019, a cui ha fatto seguito nel 2011 Mrtvý muž (“ L’uomo morto ”), tradotto in tedesco, e due anni dopo Celý den se nic nestane (“ Non succede niente tutto il giorno ”). Nel 2016 arriva il grande successo di critica e di pubblico de Il lago, tradotto in più di 20 lingue (in Italia in questa stessa collana) e vincitore nel 2017 di due importanti premi: il Premio Unione Europea per la Letteratura e il premio nazionale Magnesia Litera. Mona consacra la sua voce unica e inconfondibile, quella di un’autrice tra le più interessanti nel panorama letterario contemporaneo.

QUI l’articolo originale:

http://senzaudio.it/bianca-bellova-romanzo-senti-mentale/

Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Endecascivoli – recensione di Stefano Bonazzi su SATISFICTION

Mi approccio a questa lettura con colpevole ritardo. Libri e libri che si accumulano sulle mensole e che continuo a rimandare, nel frattempo, come tutti aggiungo e impilo, appunto altre letture che andranno a rimpinguare quello spazio sempre più ridotto ma che resta lì e in qualche modo mi da sicurezza. Il porto sicuro in cui so che potrò attingere ogni volta che ne sentirò il bisogno. Un po’ come i frammenti letterari presenti in questa raccolta, gli “Endecascivoli”, appunto. Memorie luminose e impalpabili che affiorano incontrollate alla superficie, come la marea che torna a bagnare la punta dei piedi, come quelle immagini che ci appaiono davanti agli occhi se li stringiamo forte, con il sole piantato dritto negli occhi.

E allora via di frasi e paragrafi che sono particelle, luminose e sfolgoranti, fragori che si consumano nel tempo di un respiro o, come ci suggerisce l’autore stesso, nell’istante di un vuoto d’aria, come quelli che ci colgono alla sprovvista, dopo aver salito decine di scalini, prima di un salto nel vuoto.

Sessantacinque (come l’anno di nascita dell’autore) sono i racconti presenti in questo pregiato volume edito da Miraggi, editore che da sempre confeziona le sue uscite con una cura a tratti artigianale. La copertina piacevolmente ruvida, con quella carta di un bianco che tende verso il seppia e l’immagine di una manica a vento che emerge da un paio di buffe nuvolette stilizzate, è già la conferma che qui siamo lontani dal territorio delle letture convenzionali.

Racconti brevi, a tratti brevissimi. Schegge di memoria intagliate nella corteccia di una vita policroma di esperienze. Non importa quando ci sia di realmente biografico e quanto sia fiction, o citazione, il focus è tutto spostato verso il substrato emotivo dell’autore: il rapporto con la sua famiglia, le giornate trascorse con il padre, il nonno, gli zii, il alla miniera, il carbone sulla pelle, i cunicoli che toglievano il respiro, le cui pareti d’ombra sono rimaste impresse negli occhi lungo gli anni. E poi i pomeriggi a turno sul muretto con gli amici, indossando i primi Lewis da portare rigorosamente senza giaccone, per sfoggiare l’etichetta. Il ricordo del primo viaggio a Cagliari, in una trattoria che ancora esiste, con Gigi Riva seduto nel tavolo alle spalle. Le distese di sabbie rosse che portano fino al mare, le camminate senza meta, con l’erba nascosta sotto i vestiti e uno zaino sfilacciato sulla spalla, sotto un sole carico di promesse e i confini tutti sbiaditi. Un’epopea onirica in cui la dimensione del sogno non dimentica la crudeltà di una realtà beffarda. Lo capiamo subito, dal primo, brevissimo racconto, deflagrante in tutta la sua spietata lucidità. All’autore bastano poche frasi, una manciata di descrizioni e già siamo lì, al centro della tragedia, sfiniti dal peso di quel corpo dilaniato che a stento riusciamo a reggere. In mezzo al fumo, alle grida, impregnati di quella stessa fuliggine che ritornerà ancora e ancora, lungo tutto l’arco narrativo, come lo spettro di una macchia indelebile. Poi il ritmo rallenta e subito mi torna alla mente quel concetto a me tanto caro di “anemoia”. Il retrogusto nostalgico per una un’epoca mai vissuta ma che in qualche modo mi appartiene, ci appartiene, rendendoci complici inconsapevoli di una grande memoria collettiva. 

Patrizio Zurru è bravo a giocare con un ritmo narrativo che mette a suo agio il lettore. Come se sfogliando questi racconti, l’autore ci sussurrasse all’orecchio di non avere fretta, prenderci i nostri tempi, centellinare la scoperta di questi fotogrammi sospesi tra l’ironia dell’attimo (il reportage ambientato durante il festival letterario Una marina di libri è una chicca per chiunque abbia a che fare con il mondo editoriale) e l’agrodolce malinconia del ricordo.

Il tutto tratteggiato con grande padronanza linguistica e un’umiltà che traspare anche quando l’autore si concede dei piccoli guizzi stilistici (alcuni paragrafi in rima, qualche indovinello sparso). Le immagini si sovrappongono, gli odori si mescolano (la passione per la cucina è evidente) e proprio come la cadenzata costanza di una mareggiata, senza nemmeno accorgercene stiamo scorrendo assieme all’autore quell’immenso album fotografico. Istantanee dai tratti nitidi che sbiadiscono gradualmente fino a dissolversi in un riverbero fuori fuoco. L’aroma del latte bollito, il bruciore del carbone sciolto sulla pelle, l’ebbrezza di una serata trascorsa con i migliori amici, il viaggio e il bisogno di riconoscersi nomade, seppur ancorato a quell’isola preziosa dove la vita è scandita da un tempo diverso. 

Il tempo sospeso, lo stesso di quest’opera. 

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Krakatite – recensione di David Frati su Mangialibri

Krakatite – recensione di David Frati su Mangialibri

Praga, anni Venti. Il giovane ingegnere Prokop barcolla sul marciapiede della strada che costeggia il fiume Moldava. Ha i brividi e la schiena inzuppata di sudore, gli gira la testa, vorrebbe sedersi su una panchina ma ha paura di attirare l’attenzione di qualche poliziotto e quindi raccoglie le poche forze che ha e tira dritto. Si sente svenire, si accorge che un passante lo fissa con insistenza allora cerca di accelerare il passo ma vacilla, quasi cade a terra, è costretto a poggiarsi ad un albero e a chiudere gli occhi ansimando. Il passante lo raggiunge, a quanto pare lo conosce, dice di essere Jirka Tomeš, un suo collega del Politecnico. Si sente male? Può aiutarlo? Prokop accetta, è ferito: farfuglia qualcosa riguardo a un esplosivo sperimentale che ha battezzato “krakatite” in onore del vulcano Krakatoa, soltanto una piccolissima quantità di polvere ha distrutto la stanza dove si trovava Prokop, lo ha scaraventato a terra come un fuscello. Poi Prokop sviene. Tomeš lo raccoglie, lo fa salire su un calesse e lo porta a casa sua, dove gli dà un’aspirina, lo sveste e lo mette a letto. Prokop dorme e sogna. Sogna di incontrare Plinio in una fabbrica e di spiegare a lui il meccanismo d’azione della letale krakatite, poi di cadere, di fuggire, di rivelare la formula del nuovo esplosivo ai suoi colleghi accademici. Quando si sveglia, nota che Tomeš accanto a lui ha preso appunti: vuole rubargli la scoperta dunque? Dopo tanto lavoro, tanta sofferenza sarebbe un vero disastro… Crolla di nuovo in un sonno stavolta senza sogni. Si sveglia che si è fatto giorno, sono passate molte ore: si sente confuso, debole, ha un mal di testa lancinante. È solo in casa, Tomeš a quanto pare è uscito. Suonano alla porta, è una ragazza con il viso coperto da un velo. Prokop la fa entrare in casa, inebriato dal suo intenso profumo…

Finalmente pubblicato in italiano a quasi un secolo dall’uscita a puntate sul quotidiano “Lidové Noviny” nel 1923 (modalità narrativa che peraltro si rintraccia nella struttura un po’ frammentaria del romanzo), Krakatite è uno dei due grandi romanzi “pessimisti” di Karel Čapek assieme a La fabbrica dell’assoluto. In uno l’energia che tiene unita la materia viene sfruttata per causare esplosioni di potenza catastrofica, nell’altro per creare una divinità. In entrambi i casi però le conseguenze sono apocalittiche. Del resto Čapek, profondamente segnato dall’esperienza della Prima guerra mondiale – definita dagli storici il primo vero conflitto “tecnologico” della storia – era sinceramente preoccupato per le sorti del genere umano di fronte all’incalzare di una scienza solo raramente utilizzata per scopi pacifici (“A me la forza non piace, né quella bellica, né quella elettrica”, scrisse). Così, dopo il successo strepitoso delle pièces teatrali R.U.R. (nella quale viene coniato il termine “robot”) e L’affare Makropulos decise di regalare ai suoi lettori un inquietante, minaccioso apologo sulle armi di distruzione di massa che anticipa quasi profeticamente il tema dell’escalation nucleare. Ma non c’è solo questo in Krakatite. Come la quarta di copertina della bellissima edizione Miraggi vuole suggerire con la citazione riportata, c’è anche una metafora sociale nel romanzo, non solo un plot fantascientifico geniale: al mondo per Čapek “tutto è esplosione”, “tutto sfrigola come una compressa effervescente”, anche i pensieri e le emozioni, persino l’erotismo. Il rombo delle esplosioni è il suono della modernità, della frenetica cultura urbana che prende il posto di quella tradizionale contadina e travolge la vecchia morale. Nel 1948 il regista cecoslovacco Otakar Vávra girò una pellicola tratta dal romanzo che è passato alla storia per essere il primo film al mondo in cui è descritto un olocausto atomico.

QUI l’articolo originale:

https://www.mangialibri.com/krakatite?s=09