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La vita moltiplicata – recensione di Teodora Dominici su Flaneri

La vita moltiplicata – recensione di Teodora Dominici su Flaneri

Trasfigurare la realtà in un carosello di sogni

Alla sua terza raccolta di racconti dopo L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) e Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017), Simone Ghelli raccoglie qui una teoria di narrazioni brevi collegate tra loro dall’atmosfera rarefatta e onirica, in cui i protagonisti si muovono galleggiando a metà tra le trasfigurazioni di cui è capace l’inconscio e una realtà talvolta amara da digerire.

I dieci racconti di La vita moltiplicata (Miraggi, 2019) ci proiettano in un universo in cui la nota di fondo è malinconica, fin dai titoli, che risuonano di un’eco sognante e ineluttabile – “L’ineluttabile” è tra l’altro il titolo dell’ultimo racconto, tra i più belli, dedicato a un ex studente di Siena che vi ritorna per un posto da ricercatore e, in un locale di via Pantaneto che ha ormai cambiato gestione, ha una intensa conversazione notturna con un bizzarro personaggio che si intende di cinema e filosofia.

Il titolo della raccolta sembra volerci introdurre, in maniera sintetica quanto incisiva, alla materia che troveremo affrontata nella raccolta: spezzoni, frammenti in perenne mutamento, stati di transizione, momenti clue – o meglio, epifanie –, una vibratile costellazione di esistenze sempre sul punto di “spiccare il volo”, come la figuretta in copertina, da una fase all’altra della vita o da un piano all’altro della propria essenza profonda.

Vi è, in questi racconti, un senso dell’attesa, dello stare a guardare, come nel primo, “Oboe d’amore”, che parla del difficile rapporto con la musica e con la madre di un bambino e poi adulto invaso dalle proprie personalissime muse.

«Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano».

Ci sono situazioni allucinate, come nel caso di Vera, dove dai ricordi, dalle fotografie, dalle memorie di vita di coppia lei scompare, lasciando al compagno il dubbio che non sia mai esistita («Vera divenne ben presto Era, terza persona singolare del verbo essere, passato imperfetto»), sullo sfondo di una città post-apocalittica in cui stuoli di uccelli imperversano sull’orizzonte «gravido di antenne».

Molto emblematici sono i personaggi di “La somma dei secondi e dei sogni” e “L’ultima vetrina”, rispettivamente uno stagista di casa editrice e un libraio indipendente. Il primo, seppur consapevole che sarebbe stato più saggio imparare, fare esperienza, è irrimediabilmente attratto solo dai manoscritti che continuano a fioccare in casa editrice nella speranza di esser valutati (metafora delle aspirazioni di sconosciuti e velleitari scrittori), il secondo, che ha ereditato carattere fumantino e piccola libreria dal genitore, è colto nel terribile momento in cui decide di chiudere per sempre, facendo calare per l’ultima volta la saracinesca sulla vetrina del suo eroico negozietto.

Vi sono poi i postini anti-Internet, il professore di provincia triturato dai social per aver voluto lasciare i suoi pestiferi ragazzi liberi di esprimersi aggirando le disposizioni ministeriali, ragazzi spenti a casa ma indisciplinati a scuola, risucchiati dai loro telefonini in un’illusione di vitalità. «E come dargli torto?», osserva questo professore. «Per loro la scuola dev’essere una specie di mondo in bassa definizione».

In “La grande divoratrice” e “La sentinella di ferro” troviamo invece la critica sociale, uno sguardo più lucido su alcune realtà scomode del nostro tempo, il lavoro spersonalizzante dei call center – in generale dei servizi di assistenza/vendita ai clienti, con i loro annessi e connessi di postazione pc, credenziali di accesso, team leader e piani produzione – e le vecchie fabbriche che mangiano sia il paesaggio sia gli operai che ci lavorano.

Nel primo il protagonista «prendeva appunti sul portatile e provava a scrivere qualcosa che non sapeva se sarebbe diventato mai un libro o se sarebbe rimasto soltanto un lamento in prosa, il tracciato emotivo di un soggetto defraudato di qualcosa». Nel secondo un vecchio operaio osservando la ex fabbrica si rammenta «del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare».

I personaggi che Simone Ghelli sceglie sono tutti specchi di qualcos’altro, emblemi e maschere utilizzati per proiettare momenti e sentimenti stratificati nel tempo. Sono sentinelle costantemente in bilico tra l’infanzia e l’età adulta, tra quel che volevano fare e quel che invece fanno, tra l’incredibile qui e ora in cui l’azione sembra possibile e il successivo attimo di dispersione.

Queste figure, il postino, il professore, lo stagista, l’operaio, l’impiegato, il libraio, il pianista coatto, appaiono nello stesso tempo molto reali e assolutamente avulse. Nell’economia della raccolta, servono però a veicolare pensieri e significati che convergono tutti in una stessa direzione, quella di una velata critica al vivere contemporaneo, una sensazione di “fuori sincrono”, di spaesamento. Che senso ha farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa? Non sarà che questo grande universo di dati e informazioni in cui tutti sono immersi è una grande illusione, il miraggio di una vita piena? Non sarà che alle persone ora basta un’idea, la possibilità di questa libertà illimitata? Perché nessuno scrive più lettere e riceviamo solo estratti conto e pubblicità, sarà che non abbiamo più niente da dirci? Perché dobbiamo farci venire delle crisi di rabbia guidando per strada dietro a una persona lenta, e arrivare in ritardo a un lavoro da automi in cui non conosciamo neanche tutti i nomi degli altri dipendenti?

Allora può essere che un personaggio, stufo di tutto, per reazione, non desideri altro che «vivere in mezzo ai boschi […] diventando semplicemente terriccio per i funghi».

Che pace. Che pensiero vitale anche se raccoglie un’idea di scomparsa. Soprattutto se a fare da contraltare vi è una città del genere (è Roma): «Si era a tal punto elevata sul proprio passato da assomigliare a una millefoglie: strati e strati di asfalto, di laterizi poggiati l’uno sull’altro, di fondamenta accavallate tra loro. E ogni volta che si apriva una voragine sulla strada, lui si affacciava di sotto con la speranza di vedere l’inferno, o almeno un antico centurione sulla biga, mentre invece non c’era che qualche centimetro di nulla in cui si sentiva l’odore del catrame bruciato».

Lo stile di Ghelli è ben calibrato, piano ma con aperture al ricercato, e nel tessuto della narrazione sono frequenti le incursioni di sensazioni e stati d’animo. Talvolta si accumulano passaggi disorientanti in cui il filo si aggroviglia, strati di parole che conducono a una stanza sempre diversa del labirinto. La forma preferita è quella della brevità senza troppo indulgere al dialogo, che è invece protagonista nel già citato ultimo racconto, quello che accoglie anche, nelle parole dell’uomo misterioso incontrato dall’ex studente, il pensiero che pervade e attraversa l’intero libro:

«È difficile aderire all’immagine che gli altri pretendono da noi. È il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali. La forma comica sancisce l’appartenenza alla società, così come la forma tragica ne sancisce l’esclusione».

QUI l’articolo originale:

http://www.flaneri.com/2021/11/15/vita-moltiplicata-ghelli-recensione/?fbclid=IwAR0SY_VtpWFZh2kXrI-qtnsGMuNSbG-Ef3mu459BcE5p3CwQgt7Uq3eA0uI

L’odore delle gambe delle donne – recensione di Paolo Pera su Letto, riletto, recensito!

L’odore delle gambe delle donne – recensione di Paolo Pera su Letto, riletto, recensito!

Col romanzetto pseudo-autobiografico L’odore delle gambe delle donne (Miraggi Edizioni, 2015), Carlo Molinaro consegna all’attenzione del lettore un [chissà quanto] involontario manifestino della sua filosofia: una filosofia del fare – e del dubitare – che poggia sulla sua esistenza, su blocchi e sbloccamenti. Abbiamo all’inizio a confrontarci con un bimbo da subito attratto dall’«intenso odore» delle sue compagne; questo, un po’ trattenuto da un senso di stare e non stare nel mondo – un bimbo già con un simile cruccio? –, le contempla ma con difficoltà le approccia; similmente non riesce a sventare la morte di un piccolo mammifero, sentendosi come legato da una fisica (e invisibile) impotenza: la sua compassione per ogni “fratello terrestre” è quasi francescana – come suggerisce il poeta e critico Franco Trinchero –. Cresce un po’ goffamente, intraprendendo studi linguistico-letterari, e in questi la sua riflessione sull’indicibilità delle cose si rafforza: molti tentativi di diario – con cui apre i brevi capitoli – risultano stati di fatto cancellati dal nostro autore che qui si nomina Enea, un personaggio che però non fonda alcunché – ma che, come vedremo, fugge –. È sempre nell’ambito universitario che riesce finalmente a penetrare la prima femmina dopo alcuni tentativi fallimentari, da ciò un primo sbloccamento, ma pure la nascita di un «chiodo fisso» che quasi compensa una differente impotenza (quella di essere nato “perdente”, giacché creatura debole, breve e dolorosa). L’autore ormai giunto al ruolo di “cacciatore dolce” rimane comunque straniero nel mondo, in diversi colloqui con una donna reduce da un grave trauma – colloqui che portano a un incontro “materassico” su desiderio di lei – Enea pare smorto (imprigionato nel suo pensiero) udendone le disgrazie: ogni mancato intervento non è figlio dell’accidia, ma della fatica di credersi qui. Quest’odore, che lo spinge a penetrare, a sua volta lo penetra profondamente… Non pare una mera essenza di feromoni ma qualcosa di più inguinale che resiste a ogni soppressione da profumi fatta per istillare in esso quella passione mai sopita ma vissuta, oso dire, animalescamente: come un dirigersi inevitabile, depensato, senza domandamenti di sorta. Il romanzo si costella, oltreché della Donna e delle sue somme bellezze (con relative mode invise al Nostro, per esempio la depilazione integrale), di immagini moderatamente pornografiche (che colorano la lettura) e di assaggi filosofico-antropologici, alcuni di stampo dissacratorio. Molinaro insomma dà accenni di libertinaggio filosofico, ragionando pure di relazioni carnali tra il Dio cristiano e la ‘Vergine’ Maria, utile comunque a sfatare il mito misogino della donna o santa o puttana. Qui occorre una trascrizione integrale del passo, da me ritenuto il più alto del libro: «Poi penso che l’uomo vuole che la donna sia Maria, vuole che gli sia fedele, per sentirsi come dio, perché dio è solo lui che scopa con Maria. Dio scopa Maria con lo spirito santo, l’uomo scopa la sua Maria con il cazzo, usa il cazzo come spirito santo. Le altre sono Eva, sono femmine a disposizione dell’umanità, con loro il cazzo è solo cazzo, non spirito santo; finché qualcuno non le cattura e le trasforma in Maria, privatizzandole e “disfemminandole”. 

Così, almeno, è stato per secoli; ora forse un poco cambia, forse, un poco, ma non è nemmeno chiaro come». Verso la conclusione di questi «accenni di una propria storia», quasi un «tentativo di critica di sé stesso», il tutto prende a scemare, il livello della scrittura si infiacchisce – quasi programmaticamente, a parere mio: questo per dimostrare quanto sia effettivamente impotente il linguaggio, quanto il sentire non possa essere trasposto con compiutezza. Fortunato (e abile) chi è in grado di evocare nell’Altro quell’ineffabile che va percepito! –. Ecco allora che il romanzo si interrompe ex abrupto con un abbandono, il personaggio alza i suoi tacchetti e lascia la storia nel suo perfetto scorrere sempre uguale a sé stesso. Egli lascia e nessuno lo cerca più: inevitabile se pensiamo quanto un tale modo di stare nel mondo infastidisca e confonda chi sa di essere piantato nella vita, quanto equivoco appaia uno “straniero”, un «incurabile estraneo». Con questo finale a ghigliottina – che noi augureremmo “non letteraria” per il collo di certi politici, e relativi cani da guardia odierni – Molinaro confessa infine la sua svogliatezza nel continuare a narrare quella storia poco, poco interessante che è la vita, il vivere.

QUI l’articolo originale:

http://www.lettorilettorecensito.flazio.com/it/blog-details/post/143738/lodore-dellinterno-coscia-delle-donne

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Vincenzo Trama su Il foglio letterario

L’uomo che rovinava i sabati – recensione di Vincenzo Trama su Il foglio letterario

Ma che bella scoperta è L’uomo che rovinava i sabati!

La cosa pregevole è che la lettura di un libro di 352 pagine è andata giù come una birra fresca, tipo una festa molto più mobile di qualche americano triste. Conoscere Jack Ebasta e gli altri auto-reclusi della Val Crodino mi ha fatto pensare che in fondo sono meno solo di quanto possa pensare. Sì, perché se c’è una cosa che ho afferrato della vacuità di Facebook, da cui sono iscritto da maggio con grande, grandissima riluttanza, è che libri come questi, in contesti dove si ciarla a vanvera di qualsiasi cosa, li trovi col lumicino, se insisti, a tentoni. E invece dovrebbero essere loro a trovare te, in qualche modo, perché teoricamente sei in cerca di qualcosa, di qualcuno, di un modo diverso di pensare e di leggere.

Se aspetto però gli algoritmi faccio in tempo a chiudere il profilo, per cui tanto vale parlarne, almeno un po’, qui nel cantuccio della nostra rivista online.

Nella Val Crodino, in Lombardia, Poloni ci racconta della storia di tre amici: il poeta Jack Ebasta, il cantautore Chiarugi e il Palma, che invece fa il liutaio. Nelle loro vite c’è sempre un “che” di sbagliato, una nota distorta che non vuole sapere di accordarsi con il resto del volgo, quello che “sta bene”, che non sosta nella “zona disagio”, come la definiscono loro. Eppure anche il solo parlarne, il condividere assieme punti di fuga, più che di vista, rende la loro esistenza sensata, pur all’interno di una enclave che ha scelto consapevolmente di rimanere ferma nel tempo – o meglio con il tempo – rifiutando una scellerata corsa alla modernità a tutti i costi, alla spersonalizzazione social e alla svendita un tot al chilo della propria libertà.

C’è tanta poesia in questo libro, e tanta natura. C’è l’immersione in un borgo screziato di verde e di blu e c’è l’amicizia. C’è una scrittura paziente e tenace, che leviga il foglio. E ci sono passaggi, spunti e riflessioni che vanno ben oltre la soglia del romanzo.

Il bello di questo libro è proprio questo, che è soltanto in apparenza un romanzo. È molto di più; è un distillato visionario, un estratto allucinogeno di qualche funghetto montano, un file corrotto di un sistema affaticato, che si ostina a girare male, malissimo.

Nelle pagine de L’uomo che rovinava i sabati si trovano indicazioni di vita, scelte plausibili per quanto rischiose, modalità alternative per condurre un’esistenza più faticosa, magari, ma estremamente libera. Questa urgenza comunicativa di Poloni io l’ho avvertita, tra le righe. Nella sua stessa bio, quando parla di insegnante redento, si legge tutta la disillusione di una professione allo sbando da più di un trentennio. E i tre amici che partono alla ricerca di un uomo che forse neanche esiste sono lo specchio di tutto ciò; ci si lascia qualcosa di certo alle spalle, ma solo per tendere ancora una volta all’indefinito, come promessa che nessun database o forma sociale prestabilita può darci. La ricerca a tutti costi del successo, sia esso espresso anche da un semplice like in più, ha avvelenato le coscienze della maggior parte di noi, sterminando quei minimi anticorpi che avevamo da stagioni di lotte sociali e civili. Leggere un libro come questo riequilibra. E ne abbiamo bisogno, dannatamente.

Io, vi assicuro, un giro nella Val Crodino me lo vado a fare. Se ci venite anche voi buttate un fischio, che si prepara lo zaino assieme.

QUI l’articolo originale:

Vincenzo Trama – “L’uomo che rovinava i sabati” di Alan Poloni

Chiedi a papà – recensione su Istituto di studi sulla paternità

Chiedi a papà – recensione su Istituto di studi sulla paternità

Ultimo libro dello scrittore ceco, morto prematuramente nel 2010, all’età di 49 anni, Chiedi a papà è la storia di un post mortem ambiguo e doloroso. C’è un padre che muore. E’ stato un medico, un uomo religioso e all’apparenza buono, stimato nell’ambiente cristiano evangelico di cui fa parte ma… qualcosa, durante la degenza e dopo la sua morte, arriva a turbare la vedova e i tre figli del Dottor Nedoma (che in ceco suona come “senza casa”). Sono lettere, lettere di grande violenza che citano le Scritture, invocano una punizione divina per il morto, una condanna di cui la malattia è solo una parte, a cui deve seguire una condanna in eterno “per espiare forse il sangue sulle sue mani”. Non sono anonime, le scrive il signor Petr Wolf, un ex insegnante di lingue (ha perso il lavoro per la sua intransigenza morale che lo ha messo in urto con il regime comunista del Paese) che fu grande amico del medico e le cui figlie giocavano con i figli di Nedoma quando erano ragazzine. Ma quali sono le accuse rivolte con tanta violenza dal suo ex amico? Non ci sono fatti circostanziati, imputazioni precise. Si parla genericamente di “mano sporca di sangue”, “scandalo”, “opera di distruzione”, si disegna il ritratto di un carrierista che si è macchiato di corruzione, forse addirittura di assassinio, di certo complice del regime. Saranno verità o calunnia? Sarà il delirio di qualcuno a cui le traversie della vita hanno minato la ragione o ci sarà qualcosa di vero? Solo lui, il padre morto, potrebbe dire come stanno le cose. “Chiedi a papà” diventa perciò un doloroso, inutile, paradossale arrovellamento che turba i figli, ovviamente senza risposta.

Su una trama esile (il signor Wolf e le sue lettere restano sullo sfondo) Balaban costruisce una serie di “quadri”, o “scene” – così potremmo definirli – dalle tinte ora forti ora tenui. Una ragazza dal sorriso splendente, “quasi bambina ancora”, che si droga sotto un alto pioppo nero; Kateřina, la figlia del medico, nella Valle della Černá Ostravice, dove lui la portava da bambina; un altro figlio, Hans, che si sente “perso nella vita” ed è rapito dal ricordo della testa di un bambino sul cuscino, nella notte (“Avere un bambino, stare con lui, avere paura per lui”). E poi lo scontro di Hans con il figlio adolescente, “il suo amato figlio”, che ora gli mente, gli urla contro.

Qua e là, echi di un cupo regime comunista, “dove ‘il partito’ fruga nelle vite private e detta legge”, dove il 1° maggio è una kermesse fasulla, dove nelle scuole medie è obbligatorio imparare il russo, “per amore dell’Unione sovietica”. E dove un professore dissidente viene cacciato dall’Università e trasferito a pulire i gabinetti. E quando divorzia, incontra una giudice crudele che gli vieta assolutamente di incontrare la figlia.

Attorno alla morte del padre e alle misteriose lettere, un intreccio di monologhi interiori, di riflessioni, di domande sul senso della vita e su quello della morte.

QUI l’articolo originale:

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Emiliano Colomasi su REWRITERS

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Emiliano Colomasi su REWRITERS

Angelo Orlando Meloni ci conquista con una scrittura ironica e profonda

Cosa passa per la testa di uno talmente innamorato di uno sport da non concepirne la sua trasformazione in un business esasperato? Chiedetelo ad Angelo Orlando Meloni, chiedetelo al suo “Santi, poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni).

Sei racconti irriverenti, teneri, commoventi, incentrati sullo sport più amato dagli italiani: il calcio. Metafora, collante sociale, fucina di sogni e delusioni, corruzione e sudore, denaro, sacrificio e vendetta.

C’è la squadra di provincia che inizia a vincere perché santa Serafina, la santa patrona del paese, suggerisce formazione e tattiche al parroco; c’è un centravanti alcolizzato che riaccenderà la passione dei tifosi di una neopromossa in B; un ragazzino di talento, figlio di una famiglia umile, messo fuori squadra per far spazio agli altri, ai ragazzi con i padri avvocati, medici e notai. C’è lo sport in tutte le sue sfaccettature, si parla di calcio ma quello che ti resta in testa è la trasformazione di una intera società.https://googleads.g.doubleclick.net/pagead/ads?client=ca-pub-6096339054037913&output=html&h=200&slotname=6402658951&adk=2293240344&adf=2340260423&pi=t.ma~as.6402658951&w=798&fwrn=4&lmt=1641306606&rafmt=11&psa=0&format=798×200&url=https%3A%2F%2Frewriters.it%2Fsanti-poeti-e-commissari-tecnici-i-racconti-di-angelo-orlando-meloni%2F&flash=0&wgl=1&uach=WyJtYWNPUyIsIjEyLjAuMSIsIng4NiIsIiIsIjk2LjAuNDY2NC4xMTAiLFtdLG51bGwsbnVsbCwiNjQiXQ..&dt=1641306935602&bpp=2&bdt=490&idt=514&shv=r20211207&mjsv=m202112060101&ptt=9&saldr=aa&abxe=1&prev_fmts=0x0%2C798x280&nras=1&correlator=7003414156900&frm=20&pv=1&ga_vid=1557863565.1641306936&ga_sid=1641306936&ga_hid=1285529850&ga_fc=1&rplot=4&u_tz=60&u_his=2&u_h=900&u_w=1440&u_ah=875&u_aw=1440&u_cd=24&u_sd=2&dmc=8&adx=321&ady=2264&biw=1440&bih=796&scr_x=0&scr_y=0&eid=21067496&oid=2&pvsid=1910922950845235&pem=407&tmod=842&eae=0&fc=1920&brdim=0%2C25%2C0%2C25%2C1440%2C25%2C1440%2C875%2C1440%2C796&vis=1&rsz=%7C%7CeEbr%7C&abl=CS&pfx=0&fu=1152&bc=31&ifi=3&uci=a!3&btvi=2&fsb=1&xpc=eJ2vFfKDQs&p=https%3A//rewriters.it&dtd=518

Angelo Orlando Meloni riesce a tenere insieme queste storie spingendosi al limite del surreale e lo fa con una scrittura agile, ironica e profonda che accompagna il lettore tra le pagine di questa raccolta di racconti. I suoi personaggi, mai banali, portano sulle spalle, nel bene e nel male, il peso di questa trasformazione antropologica e si comportano di conseguenza creando una galleria di caratteri e di indoli davvero formidabili.

«Lindo Martinez invece il giorno corricchiava e la notte andava a puttane, anche se lo sapevano solo un barista e un gastroenterologo di Buenos Aires, che lui fosse sostanzialmente un alcolizzato. Martinez di sé pensava in grande, di essere un campione e di non avere niente da dimostrare. Era felice e beveva come una merda.».

Leggendo “Santi, poeti e commissari tecnici” si ride molto, ci si indigna perfino ma la particolarità di questa raccolta di racconti è il filo rosso di profonda umanità che lega, una dopo l’altra, queste storie, tra sogni infranti, delusioni, amore e rinascite.

«E hai pulito lo spogliatoio e hai raccolto i palloni e sentivi una cosa in gola. Quando sei uscito di lì con la borsa sulle spalle la cosa nella gola era diventata un artiglio dentro lo stomaco e non era possibile che solo venti minuti prima poteva essere così bello. Non hai nemmeno sentito l’allenatore che si lamentava con il custode del campetto: “Tutte le teste di cazzo sempre a me”. O forse hai fatto finta di non sentirlo, come hai fatto finta di sorridere a tuo padre, all’uomo dei tic, mentre tornavate a casa, e tuo padre ha fatto finta che non fosse successo niente. Perché così va l’amore, a volte non facciamo domande per paura delle risposte.».

QUI l’articolo originale:

Romanzo senti/mentale – recensione di Martina Mecco su Estranei

Romanzo senti/mentale – recensione di Martina Mecco su Estranei

Un microcosmo di voci che si intrecciano

Bianca Bellová è una delle voci più interessanti della letteratura ceca contemporanea. L’edizione italiana di senti/mentální roman (“romanzo senti/mentale”), fresca di stampa, riconferma al pubblico questo aspetto. Grazie alla traduzione di Laura Angeloni, è finalmente edito il primo romanzo dell’autrice presso la casa editrice Miraggi Edizioni, dove sono già stati pubblicati altri due romanzi: Jezero (“Il lago”) e Monasenti/mentální roman è, straordinariamente, un romanzo d’esordio in cui è già possibile cogliere l’inconfondibile cifra stilistica dell’autrice. Ciò che colpisce sempre nei romanzi di Bellová è la sua capacità di condensare in un numero anche esiguo di pagine un intreccio molto complesso di sfumature tematiche. Innanzitutto, è necessario sottolineare il fatto che in senti/mentální roman si riscontra, nei confronti di Jezero e Mona, una differenza sostanziale, ovvero la presenza di coordinate spaziali e temporali precise, nonché contestualizzabili in passato recente. Il presente da cui procede inizialmente il romanzo è, infatti, la Cecoslovacchia all’indomani della Rivoluzione di Velluto del 1989. Nonostante ciò, la scelta di collocare l’azione entro coordinate precise si rivela essere un elemento relegato sullo sfondo della narrazione, mentre questa si concentra piuttosto sui singoli personaggi.

Il cielo si scurisce davanti ai miei occhi come una vasca da bagno in cui si versa inchiostro.

Con questa metafora si apre romanzo senti/mentale. Difficile parlare di un’opera come questa cercando di rendere giustizia all’incredibile capacità espressiva della sua autrice. Il romanzo presenta una struttura piuttosto interessante, dove la narrazione è affidata a due dei personaggi principali: Nina e Eda, legati da un passato e da un destino comune. In realtà, la vicenda ha come suo fulcro il motivo di questa connessione, ovvero Eliška, la cui voce emerge solo nell’ultima sezione del romanzo, in cui l’autrice decide di riportare una parte dei suoi diari. Le due voci narranti, rigorosamente in prima persona, si alternano in continuazione producendo così un effetto particolarmente dinamico e mettendo in luce la vicenda sotto due prospettive differenti. Tanto nel caso di Nina quanto in quello di Eda si assiste a un recupero del passato, partendo da un’infanzia che assume sembianze al tempo stesso traumatiche e mitiche, fino ad arrivare al presente, il momento in cui le due prospettive trovano il loro punto di intersezione. A risvegliare il bisogno di recuperare il passato è l’elemento della perdita, rappresentata dalla morte di Eliška.  Legata dal vincolo famigliare a Nina e da uno di carattere invece sentimentale a Eda, Eliška si rivela essere la chiave di volta, nonché il pilastro su cui si regge tutta l’opera. Anche dopo la sua morte, continua a permeare e a invadere la vita, ad esempio, di Nina attraverso oggetti, tracce tangibili:

Dopo tutti gli anni di “non toccare quella tazza”, “meglio lasciarla sullo scaffale”, “è l’ultimo ricordo di Eliška”, “questa non la diamo nemmeno agli ospiti”, era chiaro che prima o poi si sarebbe rotta. […] Non era di certo quello l’ultimo ricordo di Eliška. Questa casa è così piena di suoi ricordi che per girarti devi prima uscire dalla stanza: una mezza dozzina di cavalletti, decine di tele in varie fasi di realizzazione, acquarelli, scatole piene di tubetti di colori a olio ormai secchi, addirittura tutte le uova di Pasqua che un tempo ha dipinto.

Gli oggetti che affollano la stanza non sono altro che una proiezione di quanto sia importante la (non)presenza di Eliška nella vita di Nina. Lo stesso accade nel caso di Eda, continuamente tormentato dal ricordo di lei e, soprattutto, dagli eventi immediatamente precedenti al suo suicidio. A complicare la situazione contribuisce il fatto che è proprio Eda a trovare il corpo senza vita e a comunicare la morte alla madre di lei.

Il tentativo di ripercorrere un tempo ormai trascorso si identifica con un processo, necessario, di ricostruzione di questo. Processo in cui, il lettore, non può rinunciare a nessuna delle due prospettive per poter avere un quadro completo, sebbene questo venga ricostruito solo grazie ai diari. Fare i conti con il passato si rivela essere, però, molto più complesso di quanto non sembri. Come accade anche ne Il lago, Bellová problematizza questo recupero costruendo una dimensione della vicenda profondamente umana, un discorso in cui non vengono mai messe a tacere questioni delicate o problematiche. Se, però, ne Il lago si assiste a un protagonista che si allontana dagli apparentemente sicuri luoghi dell’infanzia per entrare nella vita adulta, in romanzo senti/mentale si assiste al percorso opposto. Difatti, si palesa necessario un ritorno all’idillio dell’infanzia per comprendere le tragiche dinamiche del presente in cui i personaggi si ritrovano incastrati. Una nostalgia che nel romanzo si vede rappresentata dalla citazione di When you were young dei Killers: “Sometimes you close your eyes and think ok the place you used to live… when you were young”.

Da giovani, Eliška, Nina e Eda sono semplici compagni di giochi che, però, si vedono già costretti ad affrontare le difficili questioni della vita degli adulti. A questo proposito, ad essere centrale è la complessità dei rapporti entro le mura domestiche, dove anela una profonda incomunicabilità. L’apparente idillio si rivela essere, al tempo stesso, un’infanzia tradita, che in Eda è determinata principalmente dalla figura del padre. Il loro rapporto si mostra insanabile sin dalla tenera età, quando Eda scopre della violenza sessuale che il padre esercita sulla madre, aspetto che condizionerà in modo profondamente negativo il modo che egli avrà di intendere la sfera della sessualità. Allo stesso modo anche nel caso di Nina riemerge in continuazione il difficile rapporto con i genitori, nonché quello con la sorella. Bellová si mostra particolarmente abile nel tratteggiare sia i complessi contorni di queste situazioni, utilizzando un linguaggio complesso e crudo, sia gli effetti che le esperienze traumatiche della giovinezza si riversano sui singoli personaggi nel corso della vita adulta. Un’indagine, quella dell’autrice, che conduce il lettore in una messa a nudo delle debolezze delle voci narranti, senza nasconderne in alcun modo le fragilità.

Tornando ad Eliška, che si è detta essere un elemento irrinunciabile dell’opera, è interessante osservare come si evolva nel corso nella narrazione. Sia in Nina che in Eda l’indagine sul sé è necessariamente anche un’indagine su Eliška e sulle relazioni che li legano a lei. I ricordi di Nina abbondano di descrizioni della sorella, alla quale spesso lei stessa si contrappone – mettendo in risalto i propri difetti – e che cerca, quasi disperatamente, di comprendere senza mai riuscirci. L’immagine che viene concessa al lettore, il quale non ha mai un contatto diretto con la voce di Eliška se non nella parte dei diari, è quello di una ragazza eclettica, dotata di un grande talento artistico e, al tempo stesso, profondamente instabile. Instabilità dovuta al suo stesso carattere e, in parte, all’impossibilità di essere compresa, che si mostra anche nei tentativi operati da Nina e Eda dopo la sua morte. Anche se il lettore dispone di un assaggio delle rivelazioni intime della ragazza all’interno die diari, il cui stile ne rivela in modo efficacie il carattere, non c’è mai una completa comprensione di Eliška, che perennemente sfugge all’essere delineata in modo chiaro: un’impossibilità profondamente umana. I diari si rivelano essere un elemento fondamentale anche per Nina e Eda, ma in modo diametralmente opposto. Mentre lei non ne è in possesso ed è determinata a recuperarli – col fine di riuscire finalmente a comprendere la sorella –, lui, avendoli, decide di distruggerli in un modo che viene annunciato sin dalle prime righe del romanzo, da quella “vasca da bagno in cui si riversa inchiostro” che si citava inizialmente. Ritornando alla questione dell’incomunicabilità, che permea tutto il romanzo, la forma del diario è anche l’unico modo in cui riesce a esprimersi con l’esterno: Vorrei con tutta me stessa che qualcuno trovasse questo diario, visto che non posso comunicare in altro modo…, dice a un certo punto. Anche Nina è attanagliata da questa difficoltà di esprimersi:

Ho sempre sentito il bisogno di livellare le mie emozioni. Eliška era quella che esprimeva sempre ciò che sentiva, e in modo dannatamente spontaneo; mentre a me veniva un groppo in gola appena, ahimè, un’emozione affiorava in superficie, e non sapevo come evitare di sembrare un’idiota, una rigida ochetta.

romanzo senti/mentale è dunque un microcosmo in cui Bellová mostra un’umanità lacerata, il tentativo e la necessità di ognuno dei suoi personaggi di ritrovare un equilibrio. Le voci si separano e si rincorrono, si smentiscono e si confermano, concorrendo così a creare una vicenda in cui vengono affrontati temi profondamente attuali, che penetrano la società in modo silente. La forza narrativa dell’autrice risiede proprio nel riuscire a scoperchiare il silenzio che li cela, senza rinunciare a incorniciare il tutto in una struttura complessa di voci e punti d’osservazione differenti. Bellová mette ancora una volta il lettore di fronte alle difficoltà del trovare un proprio equilibrio, anche se il finale porta a porsi un’ulteriore questione: esiste davvero un equilibrio possibile?

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Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

Poesie dal campo di concentramento – recensione di Antonella Lucchini su Mangialibri

“Rettangolo di muri di pietra / un quadrato di ferro il cancello / serrato dal cielo lontano, / in alto il filo spinato: / questo è il nostro giardino, questo il nostro campo”: così il poeta descrive, con la forza della poesia, la sua prigionia, che non è solo fisica ma interiore, metafora del corpo recluso ma anche della mancata libertà morale, di espressione, giacché il regime nazista era già al potere, e aveva iniziato a colpire gli intellettuali dissidenti. Altro riferimento agli avvenimenti che stavano formando la Storia di quel tempo: “…tu vorresti che questo mondo fosse più felice / che vi si possa discernere il bene / e non dover gridare di terrore…/”, un “tu” generico che prende tra le sue braccia tutti gli individui, un “tu” universale. Sembra esistano due velocità del tempo: “Il tempo si trascina sui miei giorni troppo lento, / così pesante che a terra li schiaccia…niente porta via e indugia/tempo troppo, troppo lento” quando si è rinchiusi in uno spazio circoscritto che rende angusto anche lo scorrere dei giorni mentre, potendo godere della libertà, del lusso di vivere il quotidiano comune la velocità è diversa “Tempo…dov’è il tuo passo feroce…dov’è la fretta e la furia”. Cosa può ristorare questo tempo che va a velocità dimezzata, se non le piccole cose, quelle che seppur minime, toccano e per un istante risollevano l’anima del poeta prigioniero? Anche solo un cielo terso, dove le nuvole sono “visioni di paradiso!…promesse di portenti, peccato però, /peccato che così fuggitive… / si disperdano subito in un niente”, una pausa troppo breve “mentre la miseria senza sponde e fondo / non si disperde, non svanisce, ma quaggiù immota dura”, in un luogo dove anche la poesia sovente perde il suo valore, la sua utilità (Smettila, grillo, con quel tintinnio / cosa cerca qui la tua canzone? / qui, tra le mura della prigione il tuo gaio canto / pace e calma finge ove è rinchiuso muto compianto”)…

Il poeta ceco Josef Ĉapek nasce nel 1887. Artista eclettico, si dedica prima alla pittura (dopo un soggiorno a Parigi dove frequenta l’ambiente del postimpressionismo, tornato in patria è tra i fondatori del gruppo dei Testardi), poi alla scrittura: pubblica qualche racconto e saggio sulla pittura, ma il suo contributo più importante resta il romanzo/trattato Il pellegrino zoppo (1936). Parallelamente diventa redattore del quotidiano “Lidové Noviny”, organo di stampa del partito nazional-liberale da dove mette in guardia dall’avanzata del nazismo. I suoi interventi attirano l’attenzione della Gestapo che, nel settembre 1939, lo arresta. Ĉapek subisce diversi trasferimenti, in prigioni e campi di concentramento. Morirà di tifo nel campo di Bergen-Belsen nel 1945. È proprio durante la sua detenzione che scrive tutte le sue poesie, giunte a noi grazie ai suoi compagni sopravvissuti che le hanno portate con loro una volta liberati. Ciò che colpisce, leggendole, è la grande capacità di far “vedere” i versi, di visualizzare le immagini che descrive, di sentirle parte di una realtà vissuta che, proprio perché vissuta, ha una potenza davvero rilevante. Pur essendo una poesia soprattutto descrittiva, non perde la sua valenza lirica e mantiene un lessico interessante, variegato, non scade nel languido o nel vittimismo. Non è uno stile barocco, l’aggettivazione è dosata. Da sottolineare inoltre l’assenza di versi rivolti agli aguzzini, il centro delle sue poesie è l’uomo, spolpato della sua libertà, immerso nella sporcizia e nel fango dei campi di concentramento, ma ancora capace di stupirsi della natura (vedi la poesia Nuvole), che mantiene ancora la sua dignità perché attento a mantenere la sua anima salda e presente, viva e pulsante. Poesie che restano dentro, come deve essere.

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L’EDOnista – recensione di Laura Marzi su Il manifesto

L’EDOnista – recensione di Laura Marzi su Il manifesto

La formazione sentimentale di un «edonista»

L’Edonista è il titolo del romanzo scritto a quattro mani da Francesca Angeleri e Alessandra Contin (Miraggi Edizioni, pp. 172, euo15). Edo è il nome del ragazzo protagonista, nonché voce narrante: un giovane rampollo dell’alta borghesia torinese, che già nelle prime pagine impartisce una lezione tanto severa, quanto realistica: «nella vita contano i soldi e quelli fatti in una sola generazione non sono sufficienti. Nell’ufficio di mio padre ci sono appese lauree che risalgono agli inizi dell’Ottocento Quei titoli rappresentano una vasta rete di contatti e di benessere, nonché un laboratorio di eugenetica che ha portato al mio concepimento».

IL ROMANZO racconta il percorso che ha condotto il ragazzo, che all’inizio della storia è dominato da una tale visione del mondo, feroce e classista, a diventare un adulto. La vita di Edoardo si compone di studio – deve scrivere la tesi in giurisprudenza – uscite con amici, che appartengono alla sua stessa classe sociale, e amplessi con ragazze che hanno tutte in comune disturbi alimentari. Queste amanti non hanno un nome, ma vengono indicate con locuzioni tipo: «Disturbia Mentina», «Disturbia Cappuccino», eccetera. Le principali attività che Edoardo svolge insieme agli amici Gianmarco, Leone e Sofia sono: assumere dosi massicce di alcol e droghe sintetiche e fare delle bravate, come terrorizzare coppiette appartate sulle strade della collina torinese. Sembrerebbe quasi che la ferocia e la superficialità dei comportamenti di Edoardo siano da addebitare alla sua situazione familiare: la madre, anch’essa laureata in legge, ha abbandonato la sua carriera da giovane, mentre il padre, brillante e agguerrito avvocato torinese, che lavora per «il diavolo», cioè le grandi aziende, la tradisce regolarmente con ragazze, che non superano mai i venticinque anni.

IL TURNING POINT del testo è generato, ça va sans dire, dall’amore: Edoardo che sembra un anaffettivo, erotomane cronico, è in realtà semplicemente innamorato, senza volerlo ammettere neanche a se stesso, della sua compagna d’asilo Viola. Anche la ragazza è figlia dell’alta borghesia torinese, ma non di quella che si assume la responsabilità del classismo, bensì la fazione radical chic.
Dopo che la verità del sentimento esploderà in faccia a entrambi, Edo si recherà a Brighton, per la consueta estate a casa di sua zia Ginevra. La donna ha il ruolo della coadiuvante dell’eroe: grazie all’affetto di questa zia e al suo essere davvero irresistibile, Edoardo scoprirà alcune verità sulla sua famiglia, lasciandosi alle spalle l’insensatezza delle abitudini torinesi, il vuoto di un’esistenza dedicata alla distruzione di se stesso e al consumo di sostanze e di persone, come se fossero la stessa cosa.

Il testo di Angeleri e Contin si contraddistingue per un uso della lingua particolarmente adeguato al tema della narrazione e coerente coi personaggi, che rende la lettura agevole e contribuisce alla creazione di un mondo, composto da persone estremamente ricche, eccezion fatta solo per il personale domestico, che nel testo è decisamente riuscita e convincente.

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Endecascivoli – recensione di Paola Giorgia Ascani su Exlibris20

Endecascivoli – recensione di Paola Giorgia Ascani su Exlibris20

Un arcobaleno di sensazioni

Dal frivolo al più profondo, i racconti, ben 65, sono tutti a tinte forti, ben delineati, pur nella estrema brevità sono pieni di dettagli che li rendono sorprendentemente articolati.

Nell’insieme, a fine lettura, si rivelano come i singoli, minuscoli frammenti di un discorso unico.

Zurru semina questa unitarietà in ciascun racconto e lascia il lettore trovare il suo fil rouge.

Una parola, un luogo, una scena, comporrà il tutto in un unico affresco.

Non a caso i racconti non hanno un titolo; forse proprio per non spezzare quel filo che li lega. Per non dare loro un’indipendenza, lasciando che sia il lettore a unire i piccoli indizi, come puntini che formano una sola figura.

La voce di Zurru è molto precisa. Ha caratteri univoci è ironica, ma sa essere anche dura, drammatica. Il registro cambia spesso lungo i racconti e questo rende la lettura oltremodo piacevole, mantenendo alta l’attenzione alle tante storie raccontate.

Lui stesso parla della propria voce di scrittore. Nel racconto 44 confida al lettore che, dopo mille ricerche, osservando le cose, la natura, e dopo l’ascolto dei suoni e delle voci altrui, è stata proprio lei a trovarlo e a rimanergli fedele “la voce scava da sola, se vuole, le parole sanno la strada che parte e arriva sicura”.

Ed è bellissimo anche il racconto 43, nel quale accosta lo scrittore a un direttore d’orchestra, la scrittura alla musica. Scrivere è come riempire uno spartito. La ricerca della parola perfetta è come il tocco del musicista sui tasti d’avorio; la lettura del proprio testo finito è come suonare la musica che si è creata. Un racconto elegantissimo.

Per questo Endecascivoli non è solo un’antologia di racconti. Sembra piuttosto un insieme di frammenti dello stesso romanzo, una storia unica distinta in flash, in istantanee. Piccole fotografie che possono essere scattate o disegnate e inserite nel riquadro vuoto che il lettore trova all’inizio di ciascun capitolo, come una cornice pronta a ospitare l’immagine evocata leggendo in racconto. Gradevole e molto fantasiosa questa idea editoriale di far interagire, sotto diversi punti di vista, chi legge.

Spesso, chi scrive, lo fa partendo da un’immagine; che sia un passaggio volontario, un’operazione contemporanea o meno alla stesura, è un’operazione comune a molti scrittori. Si parte da un’immagine e poi ci si scrivono su le parole; in questo caso, l’incontro è doppio e intrecciato. La prima immagine è Zurru a metterla, scrivendo un racconto che poi il lettore potrà tradurre in un’altra immagine ancora. Due immagini e in mezzo le parole a veicolarla.

Con questi racconti il lettore è ricondotto in un mondo che non esiste più. Quando si legge dei frammenti di una vita rurale ormai dimenticata, quando l’autore ricorda le merende di pane e zucchero per i bambini preparate dalle nonne, “in campagna, riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco, ma questo è già detto. Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria, almeno quel giorno”, i ritmi lenti, i sapori forti di sentimenti e rapporti umani.

In altri racconti, a uscire nitido è invece il rapporto viscerale con il mare. Descritto come una creatura sensuale la cui brezza è un essenza conturbante, il respiro è l’artefice di un movimento che diventa seduzione “mi fermo su un granello di sabbia che rimane sul letto anche se ho fatto la doccia al ritorno dal mare.”

E ancora, c’è la vita circense come metafora usata spesso da Zurru per divertire il lettore e suscitare in lui una riflessione profonda con un’atmosfera onirica, dal sapore quasi felliniano, per descrivere una realtà tragicomica.

Ma è nei racconti che sono filastrocche, in cui l’autore dà il meglio di sé. Divertissement con un fondo di riflessione che addolciscono l’anima in uno spazio effimero; il loro ritmo giocoso si esprime e comprime in una pagina o poco più. Il racconto 45, ad esempio, in cui lo scrittore usa una filastrocca ironica che fa ridere di gusto, malgrado la tematica sia tutt’altro che scherzosa nel far riflettere sulle persone che si perdono, lasciando un retrogusto amaro nel lettore più attento.

Da metà libro in poi si trovano, forse, i racconti più profondi, più intimistici; la voce dell’autore si fa confidenziale, calda, la sua visione del mondo si rivela appieno ed esce l’attenzione ai rapporti umani, in particolare all’amicizia come istante in grado di durare tutta una vita e unire nel profondo le persone, pronto a rinnovarsi.

E c’è anche l’attualità. La pandemia, che pervade, ma non invade il campo. Rimane come elemento incidentale, fa da sfondo nel racconto 50. Un pezzo particolarmente esilarante e critico al tempo stesso. Nell’intervallo esiguo di una pagina, vi trova posto un’acre critica ai social, mondo inventato, dove si riciclano frasi e comportamenti che prima trovavano posto “nei cessi”. Un racconto che è quasi un sonetto, per struttura e morale.

In altri casi invece, i racconti assomigliano a ballate; ritmi e contenuti che, ancora con una metafora musicale, potrebbero esprimersi in fraseggi alla De Andrè, coi quali condividono il ritratto dolce-amaro dell’umanità.

In Endecascivoli c’è anche tanto della terra natìa dell’autore: la Sardegna con le sue miniere, la vita dei minatori, dura, essenziale e ricca di valori, descritta con tinte meno vivaci, forse più cupe, ma sempre schiette.

Complimenti a Patrizio Zurru, che incontra la realtà e ne scrive con vigore e nuance variegate, conservando una voce personale, a tratti tinta di poetico, dove la realtà è ricordo, evocazione o durezza del quotidiano. Questa raccolta fa riflettere in modo talvolta leggero, talvolta impegnativo sull’esistenza, sul passato e sui valori attuali della vita.

Un libro da leggere anche in questa estate bizzarra, sia nel meteo che nel quotidiano, che si lascia scorrere in modo scorrevole e piacevole; con la consapevolezza che qualsiasi cosa si possa leggere “appena finisce il racconto è finito l’amore che hai ascoltato, che hai letto, o immaginato”.

Così è, se vi pare, insomma.

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Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Più di là che di qua – recensione di Massimo De Feo su Il manifesto

Passeggiata in bicicletta con celebrità

Inforcata una bici un monaco buddhista tibetano si inoltra nel Bardo, dimensione in cui per 49 giorni viaggia l’anima del defunto in attesa di rinascere o di raggiungere l’illuminazione. Nel suo pedalare si imbatte in Garibaldi, Fausto Coppi, Omero, Gesù, Attila, Van Gogh, Dante, Karl Marx, Freud, Hitler, Santippe, Elvis Presley, Cleopatra… per citare solo alcuni dei 49 trapassati, tutti più o meno «illustri» e tutti confusi e perplessi, di cui riporta le peripezie. Nel Bardo non valgono le leggi dello spazio-tempo dei vivi, passato presente e futuro si intrecciano, si sovrappongono, e i ricordi di quanto si è fatto in vita non mollano facilmente la presa, annebbiando la mente. È la trama di «Più di là che di qua», ultimo scritto di Paolo Morelli (Miraggi edizioni, 170 pag. 16,15 euro). Di ogni deceduto viene riportata la data, il luogo e la causa della morte, e quando è possibile anche l’ora. «’Addio Totonno, non veggo più luce’ esalato l’endecasillabo sfranto Giacomo Leopardi s’è appressato alla morte il 14 giugno del 1837, alle 21 precise in vico Piero 2 a Napoli, tra le braccia di Ranieri Antonio, appunto». Dopo varie avventure calcistiche ed endecasillabi sempre peggiori, l’ex poeta infinito «riuscirà a intrufolarsi nella signorina Clemente Anna, la quale il 15 febbraio ’98 dava alla luce Antonio Vincenzo Stefano, meglio conosciuto come Totò».

Alighieri Durante, detto Dante, cerca di capire chi sono tutti questi arrabbiati con lui che gli vengono incontro. Che gli ha fatto? Non se lo ricorda. Johann Sebastian Bach si risveglia in un canneto. Gesù «ha esalato l’anima il 7 aprile dell’anno 30 dopo sé stesso, un retrogusto acetoso in bocca…».

I primi passi nel Bardo di Blaskó Béla Ferenc Dersö, in arte Bela Lugosi, sepolto con mantello di velluto nero e rosso, sono in un campo sterminato, coltivato ad aglio. «Ah no! Io qui non ci vivo neanche morto!». Per Karl Marx c’è il deserto rosso di Marte, landa senza una capitale, per Napoleone Buonaparte ovviamente il manicomio. Cristoforo Colombo è prigioniero di una banda di vichinghi. Cervantes e Shakespeare, morti entrambi il 23 aprile 1616, si ritrovano abbracciati l’un l’altro guardandosi in cagnesco. Adolf Hitler si porta appresso le ultime ore nel suo bunker, e ossessivamente cerca invano di suicidarsi di nuovo, con coltelli, veleni, cocci di bottiglia, salti nel vuoto… «non era certo un trionfo per la logica tentare di ammazzarsi per chi è già morto». Archimede di Siracusa fu ucciso veramente il 14 marzo del 212 a.C., ossia nel giorno del pi greco?

La testimonianza del monaco a un certo punto viene interrotta da un reportage dalla Moravia, regione della repubblica Ceca, di cui discutono Alberto Moravia, Elsa, Pierpaolo ed Enzo. In chiusura prende il via il Gran Premio del Mandala, corsa ciclistica di 40 km. Garibaldi va subito in fuga, il plotone guidato da Bach e Paganini lo riprende quasi subito. Il primo gran premio della montagna se lo aggiudica Lugosi su Savonarola. La corsa continua, scatti di Van Gogh, Dante e Salomone e via pedalando con Romolo, Elvis, Cleopatra, pioggia e vento contrario, cadute, inseguimenti, fino al circuito di Quintessenza dove si taglia il filo di lana caprina dell’arrivo.

«Più di là che di qua ha un che di psichedelico, si specchia nella dimensione dei sogni, a volte assurdi e sconclusionati, a volte profetici o misteriosi. I giochi di parole e i calembour abbondano, la fantasia straripa. L’autore si è chiaramente divertito in sella a questo libro, che rimanda alla Livella del Principe de Curtis lucidando la falce del Tristo Mietitore.

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Più di là che di qua – recensione su Blow Up

Più di là che di qua – recensione su Blow Up

Per festeggiare lo stato di prolifica grazia in cui versa la sua prosa da qualche anno a questa parte, Morelli si concede un vagabondaggio oltre la soglia non oltrepassabile che divide perentoriamente in due le esistenze di noi tutti: il di qua della vita e il di là della morte. Nell’intercapedine, quello che i buddisti chiamano Bardo, l’interregno di 49 giorni prima dell’ingresso in nuovo corpo e via così. Se Saunders si era dilettato di buttarci Lincoln, in quella terra di mezzo, crogiolandosi (anche) nel lacrimevole dolore, Morelli prova ad attraversarla in bicicletta, inanellando una schidionata di incontri che si riappropriano delle salutari rughe della commedia, sorridendo di fronte all’imperscrutabile. Fedele alla strampalatezza, il nostro crea un pretesto ridicolo per violare il diaframma e dilagare tra le anime dei morti, millenarie o giovani che siano.

Che sia Elvis o Napoleone, Gesù o Omero, Nerone o Salomone, Hitler o Socrate; ma anche Totò, o Marx, Bela Lugosi o Luigi Malabrocca la celebre maglia nera del ciclismo eroico, il punto vitale sta sempre nella felicità dell’incontro. Non c’è mai abbassamento o sarcasmo, piuttosto una serena attenzione di sguardo, pronto al riso, certo, ma anche all’inevitabile malinconia della finitezza, a una salutare saggezza del non sapere.

Bianca Bellová – la regina ceca del romanzo su LA SICILIA (articolo di Gabriella Magistro – settembre 2021)

Bianca Bellová – la regina ceca del romanzo su LA SICILIA (articolo di Gabriella Magistro – settembre 2021)

Lunedì 20 alle 19 nell’Aula consiliare del Palazzo municipale di Sant’Agata Li Battiati, appuntamento con la maggiore autrice contemporanea cecoslovacca, Bianca Bellová, tradotta in 22 Paesi del mondo, in Italia dalla piemontese Miraggi, che per l’area metropolitana di Catania in occasione del suo tour italiano ha scelto il piccolo Comune, noto per essere Città della cultura tout court. Se il giorno prima sarà a Palermo e il giorno dopo, il 20, a Firenze, la Bellová che è stata inserita in un fuori programma di “Etnabook 2021” per volontà del presidente del Comitato scientifico, Salvatote Massimo Fazio, che assieme al sindaco Rubino hanno dialogato col direttore Cristaldi, del Primo Festival del Libro e della Cultura della Città Metropolitana di Catania, motivando la straordinarietà del personaggio, porta con sé copie rare dei due volumi tradotti in Italia, a prezzo normali: per lettori, per collezionisti che avranno possibilità di farseli autografare. «Un incontro unico – dichiara Fazio – Scegliere e sapere della consapevolezza d’oltre confine che Sant’Agata Li Battiati è il territorio primo dell’area etnea riconosciuto come paese della cultura, rende onore ad un sindaco; Rubino, definito “del fare”».

All’incontro, oltre alla Bellová, accompagnata dalla traduttrice Algeloni e dall’editore Reina, e al sindaco Rubino, il blog “Letto, riletto, recensito!”, la Libreria Sofà delle muse” e la “No_Name AC” encomieranno il comunicatore dott. Giovanni Di Stefano contraddistintosi per l’impegno culturale, e il presidente del ritorno nella massima serie della pallavolo etnea, la Saturnia Acicastello, nonché scrittore, Luigi Pulvirenti.