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Andy e Lory Muratti – L’ora delle distanze: sogni lisergici e ribellione trasformativa

Andy e Lory Muratti – L’ora delle distanze: sogni lisergici e ribellione trasformativa

di Sabrina Tolve

L’ora delle distanze è un progetto ambizioso e visionario che fonde musica, arte visiva e letteratura in un racconto unico. Nato dalla collaborazione tra Andy e Lory Muratti, il progetto esplora tematiche di evasione, decadenza e resistenza creativa, e diventa un manifesto che riscrive le regole dell’arte contemporanea, strizzando l’occhio all’immaginario underground. Attraverso un mix di linguaggi che spaziano dal dark al pop, i due artisti hanno creato un’opera che invita il pubblico a immergersi in un universo surreale, dove sogni e colori cercano di sfuggire a una realtà corrotta e monocromatica.
In questa intervista, Andy e Lory ci raccontano il percorso dietro la creazione, e il potere trasformativo dell’arte e della musica nella loro visione del mondo.

Il vostro progetto è descritto come un’opera che combina musica, letteratura e arte visiva. Come avete sviluppato l’idea di unire questi tre linguaggi in un unico racconto?
Andy: L’idea è nata proprio dalla condivisione dei tre linguaggi. Mi sono sempre occupato di musica e pittura, Lory di musica e scrittura. Unendo le forze abbiamo creato la sinergia dentro la quale ognuno ha potuto ottimizzare le proprie risorse.
Lory: Credo si possa dire che il nostro linguaggio è per sua natura “multidisciplinare”. Quando ci confrontiamo non lo facciamo solo da musicisti o aprendo un dialogo tra scrittore e pittore. Ci siamo sempre sentiti partecipi di un immaginario condiviso. Per questo è stato del tutto naturale dare vita a un progetto che ha più volti e più anime, ognuna delle quali rappresenta una parte di noi.

Nel comunicato stampa si parla di un presente in cui sogni e colori resistono a una realtà corrotta e in bianco e nero. Quale significato assume questo contrasto nel vostro progetto?
Andy: Sogni e colori nella dimensione delle “Distanze” narrata nel libro rappresenta una possibilità di risoluzione, la necessità di mettere a fuoco il disagio ingrigito al quale crediamo sia possibile dare nuova forma e colore.
Lory: Il mondo delle “Distanze” rappresenta per il protagonista la fuga da una realtà divenuta insostenibile, ma anche la cura, il rimedio, la possibilità di mantenere vivo il sogno viaggiando in profondità per poi tornare al bianco e nero e provare a invertire la rotta. Infondere nuovo colore è la metafora che abbiamo voluto usare per rappresentare la speranza.

La storia di “L’ora delle distanze” si svolge in una “contro-realtà” popolata da personaggi post-punk, glamour e rock’n’roll. Come avete costruito questo universo surreale e qual è il suo rapporto con la nostra realtà?
Andy: Ho sempre rappresentato all’interno dei miei quadri una serie di personaggi che mi hanno ispirato. Dagli amici della vita reale ai grandi miti dello spettacolo. Lory ha articolato la storia dando a loro uno specifico ruolo di svolgimento.
Lory: Come dicevo, le “Distanze” sono la cura, il rifugio salvifico e come tali fanno da contraltare al piano di realtà. I personaggi che li popolano, come dice Andy, sono figure reali che, traslate in una dimensione parallela, diventano i perfetti custodi e animatori di quel rifugio psichedelico.

Il romanzo è definito un “viaggio psychofantasy, dark e pop”. Come avete bilanciato questi elementi nei testi e nelle illustrazioni per mantenere coerenza narrativa e visiva?
Andy: Il romanzo parla di un viaggio lisergico che nasce grazie a una trasfusione di musica e colore nelle vene del protagonista. La realtà in bianco e nero, decadente e corrotta, è in contrappunto con la dimensione fluorescente dei dipinti. Le illustrazioni esistevano già, i testi hanno permesso la connessione del viaggio.
Lory: Come avviene nel nostro “mescolare arti e mestieri” allo stesso modo le suggestioni si influenzano e bilanciano reciprocamente. I dipinti di Andy, diventati illustrazioni nel libro, sono lo scenario dentro il quale si svolge la storia e dove i personaggi da lui immaginati hanno preso vita nella mia narrazione. I toni dark, pop, psycho ed ogni altra sfumatura rintracciabile nel libro (e nei testi delle canzoni che abbiamo realizzato in parallelo) non sono altro che la naturale rappresentazione dell’essenza di quei personaggi e del modo in cui si muovono nelle Distanze o, nel caso del protagonista “Fluon”, tra Distanze e realtà. 

Nel libro emergono temi come il desiderio di evasione, la decadenza e la lotta contro il vuoto interiore. Quali esperienze personali o osservazioni del mondo vi hanno ispirato a esplorare queste tematiche?
Andy: Più che evasione, penso che sia maggiormente presente il desiderio di immersione e riflessione su ciò che avviene dentro di noi, utile a trasformare ciò che avviene fuori da noi.
Lory: Sono perfettamente d’accordo nel dire che il viaggio è dentro noi stessi. È da lì che abbiamo deciso di partire per provare a rileggere un presente che, in molti modi, non ci rappresenta e non rispecchia nemmeno gli ideali per i quali abbiamo sempre vissuto e lottato. Ricostruire immaginando piuttosto che fuggire è la strada che abbiamo deciso di condividere con chi desidera avvicinarsi a questo lavoro.

Il videoclip del singolo è stato girato a San Diego e mostra una realtà colpita dall’indigenza. Come si collega questa scelta visiva con i temi trattati nel libro?
Andy: A mio parere gli Stati Uniti rappresentano la forma più grave di avvilimento dell’essere umano. La disuguaglianza determinata dal denaro e dalla continua menzogna sociale ”pseudo democrazia” o “sogni da inseguire”, diventa uno spaccato perfetto per la narrazione.
Lory: È quella una realtà che ci sta a cuore raccontare e che basta osservare da vicino (anche incontrando e parlando con chi la vive) per rendersi conto che è più vicina e “possibile” di quello che siamo portati a immaginare. Molte di quelle persone vivono le nostre stesse lotte quotidiane e questo fa comprendere quanto il contesto, certe scelte, ma soprattutto la mancanza di supporto da ciò che ti circonda, possa influire sulla tua vita. È stato il punto di partenza per immaginare il bianco e nero in cui si apre il romanzo.

Il personaggio protagonista sembra trovarsi in una costante ricerca di identità e riconciliazione tra il sé interiore e il mondo esterno. Quanto di voi stessi avete riversato nel protagonista?
Andy: Per quel che mi riguarda c’è un parallelo quotidiano tra il protagonista del romanzo e quello che vivo. A tratti sembra un’autobiografia psicotica.
Lory: Ho chiaramente pensato molto a Andy scrivendo di Fluon, ma alla fine non vi è narrazione che non venga influenzata anche dallo stato d’animo e dalla storia personale di chi scrive. Penso che il tratto del protagonista che riguarda di più entrambi sia la sua tenacia, il desiderio di tenere vivo il sogno.

Il progetto include anche un’esperienza live che mescola concerto, teatro, installazione e DJ set. Come immaginate che questo approccio multimediale arricchisca la fruizione del pubblico?
Andy: Stiamo per costruire uno spettacolo multidisciplinare perché ci rappresenta, perché siamo creativi in diverse discipline. Penso che sia un modo interessante e divertente di avvicinare il pubblico al romanzo. A mio parere spesso le presentazioni di libri, salvo rari casi, sono avvolte da un alone di noia che non vorrei mai nel nostro caso.
Lory: Ho sempre amato far dialogare musica e narrativa e creare spettacoli a cavallo tra teatro e concerto. Con questo lavoro condiviso credo ci spingeremo anche oltre per avventurarci, assieme al pubblico, nel cuore della narrazione.Il libro è ricco di immagini potenti, tra cui il riferimento al “vento pieno di nuova speranza” e alle “strade smarrite nei colori”. Come avete utilizzato l’immaginazione per costruire questi paesaggi emotivi e visivi?
Andy: Durante le esperienze meditative o le pratiche di alterazioni dello stato di coscienza si vive spesso la sensazione di essere avvolti da un vento forte o da strade che, a un certo punto, non hanno più una direzione precisa e si perdono nei colori. Oltre all’immaginazione c’è quindi un lato esperienziale che mi permette di riconoscermi all’interno della narrazione di Lory.
Lory: Nel momento in cui si è compartecipi dello stesso immaginario, certe suggestioni affiorano in autonomia alla coscienza. Personalmente quando inizio a scrivere so qual è la strada da percorrere (la scansione cronologica degli eventi e il divenire narrativo), ma non ho la più pallida idea di quali immagini mi raggiungeranno, adatte a descrivere quel flusso di eventi che diventa inevitabilmente anche un flusso di coscienza.

Guardando al futuro, vedete “L’ora delle distanze” come un progetto isolato o come il punto di partenza per ulteriori collaborazioni artistiche tra voi?
Andy
: Vedo il progetto come il risultato dell’abbattimento dei tempi tecnici e dei problemi aggiunti. Un altro modo per quel che mi riguarda di concretizzare le idee. L’entusiasmo dell’editore, del discografico e la complicità con Lory mi fa sognare una continuazione.
Lory: Ritrovarsi a condividere un percorso in modo così spontaneo, alimentando e arricchendo vicendevolmente il risultato finale è cosa preziosa e ha una forza difficile da spiegare a parole. Innescare questo tipo di sinergie, per mia esperienza, è cosa piuttosto rara e mi fa quindi auspicare che questo progetto sia il primo capitolo di un lungo viaggio condiviso.

QUI l’articolo originale: https://offtopicmagazine.net/2024/10/12/andy-e-lory-muratti-intervista/

Lory Muratti & Andy (Bluvertigo) / Viaggi psico-naturali – Recensione su «Pulp Magazine»

Lory Muratti & Andy (Bluvertigo) / Viaggi psico-naturali – Recensione su «Pulp Magazine»

di Roberta Cospito

ora delle distanze è un singolare romanzo, ma anche un singolo musicale e un 45 giri disponibile da ottobre su vinile colorato, scritto da Lory Muratti e illustrato da Andy (Andrea Fumagalli) fondatore, insieme a Morgan, del gruppo musicale Bluvertigo. Colpisce subito la bella copertina e il particolare layout a due colonne che mi ha catapultato rapidamente in un tempo in cui ero ragazzina e tenevo in mano le pubblicazioni “Urania”. Il libro è un viaggio che, traendo ispirazione dalle numerose illustrazioni dei quadri visionari di Andy, è giocoforza qualcosa di surreale e psichedelico.

Il protagonista di questa strana storia è un disegnatore costretto da una misteriosa voce al telefono nel ruolo di “pusher del colore” che, se di giorno spaccia dosi di emozioni acriliche agli abitanti disorientati e anestetizzati di un mondo in bianco e nero, di notte si rifugia nel suo laboratorio per sottoporsi a una trasfusione di colore che lo porta a viaggiare dentro le sue stesse opere: ci viene così raccontata una “contro-realtà” abitata da personaggi imprevedibili, pittoreschi, onirici e fuori dagli schemi tipo il Killer del Phon, la Regina, l’Uomo dell’Interludio e il Violinista Appeso, ma anche da personaggi molto meno irreali come David Bowie, Isabella Rossellini, Alain Delon e un suo doppio malvagio da sconfiggere in una dura battaglia a colpi di pennarello.

In questo viaggio lungo una notte, troviamo musica, letteratura e pittura in modo da coinvolgere tutti i sensi nella lotta quotidiana di chi non vuole arrendersi a vivere in una realtà corrotta in quanto abitata da un’umanità che ha dimenticato l’importanza dei sogni e delle emozioni e che, sconfitta dal vuoto che avanza, vive immersa in un mondo in bianco e nero pericolosamente privo di sfumature: “Un mondo annoiato dai sogni è un mondo da far saltare in aria” ci dicono gli autori. Esiste, dunque, un’alternativa a questo nostro mondo violento, ignorante e vinto da regimi che indossano l’abito della democrazia, in cui la perdita di ciò che avevamo duramente conquistato decenni fa, ci ha portato a vivere in assenza di sentimenti, soffocati da rapporti malsani e fasulli, a convivere con persone che ci rubano il tempo – specie quello libero, preziosissimo – senza neanche chiedere scusa.

I sogni e i colori presenti nella dimensione parallela delle “Distanze” in cui si ritrova l’io narrante, rappresentano non solo una fuga da una realtà divenuta insostenibile, ma anche la cura, il rimedio, la possibilità di mantenere vivo il sogno viaggiando dentro noi stessi per poi provare, una volta tornati alla dimensione in bianco e nero, a invertire la rotta: infondere nuovo colore nelle persone vuol dire trasmettere speranza e ridare la giusta rilevanza ai sentimenti veri, specie in chi li aveva persi da tempo, perché solo chi emana vibrazioni positive potrà partecipare a una festa nel mondo a colori inventato dagli autori. Bisogna, quindi, avere coraggio nell’affrontare un viaggio dentro noi stessi: a volte occorre arrivare a scordare chi siamo per ricominciare, decostruirsi, per usare un termine molto attuale, perché ciò che succede dentro di noi può essere utile a trasformare anche ciò che avviene fuori da noi.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/y6wc7m8d

Il lungo viaggio di Marie: Io sono l’abisso di Lucie Faulerová su Articolo21.org

Il lungo viaggio di Marie: Io sono l’abisso di Lucie Faulerová su Articolo21.org

di Ornella Cioni

Tutum … sh – sh-sh – fiuuu sono i suoni onomatopeici che spezzano  in frammenti i ricordi, le riflessioni, le immagini , le fantasie che si affacciano alla mente di Marie, una ragazza ventitreenne che durante un viaggio in treno dialoga con la propria immagine riflessa sul finestrino o con i flashback della sua vita che scorre come una pellicola sgranata che intercetta talvolta le luci di un altro treno che corre nella stessa direzione,  talvolta il buio di una stazione in cui una busta bianca volteggia sul binario a fianco. A  Marie piace  essere una passeggera: “A volte di notte giro per la città. Con il tram notturno, con l’autobus, o con l’ultima metropolitana. Giro per la città perché non riesco a dormire. A volte è un trucco infallibile, come una mazzata in testa. I sobbalzi, le oscillazioni mi cullano, un paio di volte sono persino piombata in un sonno profondo … Altre volte non mi addormento, ma mi sento comunque rilassata. Fare la passeggera mi calma”.  Questa volta si tratta però di un viaggio lungo, doloroso, di cui non si conosce la meta, ma come si sa e sa anche Marie , “ la meta è il viaggio in sé” e forse questo sarà un viaggio di  ritorno. Marie ci consegna via via tessere disordinate della sua vita, una vita che l’ha messa a dura prova. Una famiglia: genitori e tre figli, Adam il maggiore e due figlie Marie e Madla , di due anni minore, molto unite fra loro, vivono nel piccolo paese di Carogna nella repubblica Ceca. La vita della famiglia viene  sconvolta prima dalla malattia di Madla e dall’abbandono della madre che,  presa in una sorta di follia,  se ne va; poi Madla, quando ormai sembra guarita, si suicida.  “Non può essere un caso, è tutta colpa mia! Mia responsabilità! Perché non ho lanciato un sasso addosso a Morana come tutti gli altri anni? Perché mi son messa in testa di tirarla fuori dall’acqua? Ho salvato la morte!” Marie sprofonda nel pensiero magico, sconvolta dai sensi di colpa  per l’abbandono della madre, per la sorella, cui era legata a doppio filo e di cui non aveva saputo capire fino in fondo la disperazione, per il padre, piegato dal dolore, che ogni giorno di più ingrigisce. La perdita della sorella è un vuoto  incolmabile “A Madla penso ininterrottamente. Un binario cieco. Un tunnel senza fine. La pagina vuota di un libro”. Vive un forte senso di perdita anche di se stessa “Probabilmente non sono mai stata me stessa. Mi sono sempre intrufolata di soppiatto nei mondi degli altri. Trasferendomi in essi come in case estranee. In casa di Madla, in casa del mio primo e poi del mio secondo ragazzo, nella casa di Rochester. Forse nella realtà non esisto. Forse nella realtà sono solo un’imitazione … Non sono me stessa. Devo attaccarmi. Essere parassita. Sono dipendente. Incompleta. Una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. Una frase incompiu- ta – tum”. La bambina che sognava di diventare una grande maga come Copperfield, che  era incantata dai pianeti, dall’Universo e  voleva scoprire il moto perpetuo, a ventitré anni ha già cambiato più  volte facoltà, fa lavori precari e umili, vive in un monolocale di una casa diroccata e coltiva un amore platonico per il falegname presso il cui laboratorio  fa le pulizie e che chiama Rochester, come l’accattivante, burbero e romantico personaggio di “Jane Eyre”.  A Marie succedono strani incidenti, che forse incidenti non sono e che lasciano pesanti tracce sul suo corpo. Si è rotta una mano cadendo da un albero, ha sbattuto violentemente la testa in  uno specchio nel bagno dello studentato, è stata vista cadere  da una scala mobile,  si è tagliata un dito, ha preso la scossa accendendo la luce con l’interruttore rotto del suo palazzo; è sopravvissuta alla scossa , ma si è tranciata un terzo della lingua e riesce a parlare sono in modo quasi incomprensibile. E’ossessionata dall’idea della morte,  affascinata fin da bambina dalla figura di Morana, nella mitologia slava dea della morte, ma anche della rinascita nei riti primaverili che si svolgevano nel suo paese. Morana, al cui fantoccio lei non ha lanciato il sasso come gli altri bambini e che lei ha recuperato di notte dal fiume per sconfiggere la morte e invece, si convince, ha salvato la morte e da allora sono iniziate tutte le disgrazie familiari. Nel tentativo di comprendere il gesto della sorella ha coltivato un interesse particolare per i suicidi e in alcune “divagazioni” della sua lunga narrazione dà molte informazioni sulle diverse forme di suicidi, del resto lei ama leggere manuali.  Ma nella lunga teoria di ricordi, fantasie, riflessioni, divagazioni che scorrono nel suo monologo, alle disgrazie e al dolore  si alternano alcuni sprazzi di luce: sono i racconti a volte ironici a volte buffi della vita  della sua famiglia, una famiglia in cui c’è stato amore, ci sono stati forti legami.  Fulerova ci accompagna in questo viaggio con una scrittura originale e incalzante che ci fa quasi trattenere il respiro quando l’autolesionismo di Marie la porta  a conficcarsi una matita in un occhio e anche dopo che l’hanno  salvata, seppur deturpata, sembra che nel suo abisso non possa in alcun modo arrivare la luce. “L’abisso è lì, vedo l’abisso, l’abisso vede me,l’abisso è in me, io sono l’abisso” è una delle frasi chiave del libro. L’ostinata presenza del fratello l’aiuterà  a prendere atto di quello che rimane della sua vita dopo le molte mutilazioni fisiche e psicologiche “Non potrò più fare una miriade di cose. Più cose cancello dalla mia lista immaginaria,  meno possibilità mi restano. Più rimango scarnificata, io e la mia vita. Tutto questo e molto di più non potrò mai fare ed essere. E’ impossibile. Eppure in tutto ciò  c’è qualcosa di maledettamente liberatorio!”. Marie dovrà accettare la perdita della sorella e che Morana diventi la sua dea interiore , la sua guida, che nella vita di ogni giorno a volte la lascia in pace a volte la assedia e allora deve fare qualcosa per togliersela di torno; del resto può ancora riuscire a immaginare che Sisifo fosse felice.

Lucie Faulerova (1989) è una delle più apprezzate  giovani scrittrici ceche. Si è fatta notare già nel 2017 col suo romanzo d’esordio, “ Gli  acchiappa polvere”,  per il quale è stata nominata  ai premi Magnesia Litera e Jiri’ Orten. Nel 2020 ha scritto “Smrtholka”, che  letteralmente  significa “Ragazzamorte”, ma indica anche la dea della morte Morana ,Titolo che è stato tradotto con “Io sono l’abisso”. Il libro nel 2021  si è aggiudicato l’ambito Premio dell’Unione Europea per la letteratura. Prima opera tradotta in italiano per l’abile lavoro di Laura Angeloni è pubblicato da Miraggi edizioni che ha un’attenzione particolare per la letteratura ceca contemporanea e per la letteratura al femminile. Il libro  di Faulerova’  è uno dei ventuno pubblicati dalla casa editrice nella collana  di letteratura ceca “Nova Vlna”, letteralmente Nuova Onda,  nome che allude alla Nouvelle Vague cinematografica cecoslovacca degli anni della primavera di Praga. La collana si propone, con un progetto organico, di far conoscere al pubblico italiano nuovi autori cechi e recuperare testi incredibilmente dimenticati  perché, come sottolinea la nota editoriale “In passato come oggi la letteratura ceca è stata portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle  profondità  esistenziali”.

QUI l’articolo originale: https://tinyurl.com/3bwjymhm

Karel Čapek – focus sull’autore ceco del professore Alessandro Catalano su Modus legendi

Karel Čapek – focus sull’autore ceco del professore Alessandro Catalano su Modus legendi

Karel Čapek e la pandemia letteraria del 1937 come sintomo della catastrofe incombente

“In Cina, caro mio, quasi ogni anno spunta fuori qualche nuova malattia interessante” è la battuta, dal tono vagamente premonitore, pronunciata da un cinico personaggio del testo teatrale Bílá nemoc (La malattia bianca), portato sulle scene a Praga nel 1937 da Karel Čapek (1890-1938). Come in tutte le opere dello scrittore ceco che, tra le altre cose, ha creato il personaggio letterario del robot, il fantastico irrompe nella quotidianità con tutta la sua carica di devastazione, come purtroppo avviene in occasione di ogni pandemia imprevista e sconvolgente. Dopo un sofferto dialogo con pesanti toni da tragedia medievale tra tre appestati, il vanitoso consigliere di corte Sigelius, nel corso di una autoreferenziale intervista propagandistica, spiega a un giornalista la natura della pandemia in corso: la malattia infettiva morbus tschengi (dal nome del medico cinese che l’ha descritta per primo), trasmessa “da un agens ancora ignoto”, contagia le persone con più di 45 anni, si manifesta con l’insorgere di macchie bianche sul corpo e ha già portato alla morte “almeno cinque milioni di persone”. Legata alla cupa atmosfera della fine degli anni Trenta, La malattia bianca rappresenta molto più che la dissoluzione di una società, affrontando il complesso problema del legame tra pandemia e svolta autoritaria. Čapek cerca affannosamente un artificio letterario per combattere la vertiginosa ascesa della dittatura militare in un bellicoso paese limitrofo, ricorrendo a un sofisticato rovesciamento del tema della degenerazione della razza, visto che a venire colpiti dal nuovo morbo sono proprio gli uomini dalla pelle bianca.

Il caso dello scrittore ceco non è certo nuovo e, com’è noto, le epidemie hanno offerto ripetutamente, nella storia recente e più remota, lo spunto per raccontare il crollo delle società e la disperazione individuale di fronte all’improvvisa diffusione di un nemico subdolo e invisibile. Spesso portata dall’esterno da inconsapevoli untori, poi liquidati come capri espiatori, la pandemia si è dimostrata uno strumento letterario potente per disegnare mondi distopici attigui al nostro, senza dover inventare complesse società sviluppatesi dallo sfruttamento di mirabolanti scoperte scientifiche o in conseguenza di incredibili viaggi intergalattici. Spesso metafore di derive ideologiche e sociali, le epidemie sono state sfruttate da scrittori molto diversi tra loro, da Daniel Defoe ad Albert Camus, passando per Edgar Allan Poe, Alessandro Manzoni, Jack London e molti altri. Ma, nelle società occidentali, in tempi recenti le pandemie sono tristemente tornate di attualità anche come fenomeni reali, rendendo nuovamente attuali testi e pellicole di molti anni fa.

Non c’è troppo da meravigliarsi che uno scrittore come Karel Čapek, da sempre legato al tema del difficile rapporto tra scienza e potere, abbia sentito, nel 1937, l’esigenza di scrivere un’opera teatrale in cui l’epidemia si fa metafora delle preoccupanti pulsioni totalitarie della vicina Germania. Sintomatiche delle preoccupazioni di molti intellettuali cechi, dopo l’ascesa di Franco in Spagna e la generale militarizzazione europea, sono anche le illustrazioni, opera del fratello dell’autore, il pittore Josef Čapek, tratte dal ciclo Gli stivali del dittatore, anch’esso del 1937. Nella Malattia bianca il tema della contrapposizione tra dittatura e democrazia si fonde in modo originale con quello della diffusione incontrollata della pandemia e della lotta per il dominio del pianeta per sollevare un profondo e sostanziale interrogativo: è lecito sottoporre i potenti del mondo a un “ricatto pacifista”, negando loro la cura di una malattia spaventosa, a meno che non rinuncino alle guerre?

Gli stivali del dittatore

Va ricordato che Karel Čapek aveva scritto un primo “ciclo” di opere a carattere distopico tra il 1920 e il 1924, in cui scoperte di carattere scientifico-alchemico alteravano l’ordine naturale delle cose, provocando la rovina del mondo. Nella fortunatissima opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), di recente pubblicata in una nuova traduzione da Marsilio, aveva presagito l’introduzione nel mercato dei robot (in realtà sotto forma di androidi) che avrebbero dovuto affrancare l’uomo dal lavoro, creando un neologismo, in verità coniato dal fratello Josef a partire dalla parola ceca robota (lavoro servile, fatica) destinato a un incredibile successo.Poco dopo i palcoscenici mondiali hanno accolto con favore anche Věc Makropolus(L’affare Makropulos, 1922), messo in scena con grande successo anche in Italia da Luca Ronconi, in cui la scoperta dell’elisir della lunga vita rappresenta in realtà un pretesto per indagare i problemi connessi al desiderio di liberare l’uomo dalla morte. Nello sperimentale romanzo-feulleiton Továrna na absolutno(La fabbrica dell’assoluto, 1922), di cui Voland ha appena proposto una nuova traduzione, protagonisti sono invece degli stupefacenti “carburatori” nucleari che producono come materiale di scarto nientemeno che l’assoluto, la divinità, con il conseguente stravolgimento di ogni valore umano. Questa serie è stata chiusa da Krakatit (Krakatite, 1924), che finalmente Miraggi ha presentato per la prima volta anche ai nostri lettori sanando uno dei maggiori debiti dell’editoria italiana. Quest’ultimo romanzo vede il febbrile protagonista Prokop, scopritore di un devastante esplosivo basato sulla fissione nucleare, alle prese con la concreta opportunità di poter dominare il mondo. Se in tutte queste opere l’unica possibile soluzione al conflitto era la distruzione della scoperta che aveva provocato lo stravolgimento dell’ordine e il conseguente ritorno alla vita “naturale”, molto più cupo sarà il finale del secondo ciclo di opere utopiste della seconda metà degli anni Trenta. Del romanzo 1936 Válka s mloky (La guerra delle salamandre), uno dei testi in assoluto più noti di Čapek, esistono varie edizioni della stessa traduzione italiana, particolarmente preziosa è quella del 1961, arricchita dalle curiose illustrazioni di Tono Zancaro. Il romanzo riprende in una nuova forma sperimentale la formula dei robot, dando vita però all’evoluzione di un nuovo alter ego dell’uomo dalle caratteristiche ridotte e alterate, ideale per essere sfruttato a fini lavorativi e bellici. Il fossile di una grande salamandra estinta, all’inizio erroneamente attribuito da Johann Jacob Scheuchzer, nel 1725, a “un uomo che fu testimone del Diluvio universale” offre a Čapek la straordinaria opportunità di analizzare il totale fallimento dell’uomo nel rapporto con questo essere dalla “natura golemica e diabolica” (G. Giudici), che lo priverà progressivamente di ogni spazio vitale.

La malattia bianca, pubblicata dalla rivista Sipario nel lontano 1966 in un numero speciale dedicato al teatro cecoslovacco e mai più riproposta in italiano, porta invece sul palcoscenico un insolito scontro tra le pulsioni totalitarie della società e il curioso tentativo di imporre l’utopia della pace. Il medico Galén, ennesimo nome “parlante” dell’opera di Čapek, è infatti l’unico in grado di curare la pandemia ma, in cambio del siero, pretende dai potenti del mondo l’impegno a rinunciare alla guerra (“E io non la darò finché… finché non mi prometteranno che non si ucciderà più”). L’irremovibilità del medico, in evidente contrasto con il suo giuramento, incontra comunque il netto rifiuto del dittatore: “Non possiamo mica permettere che un qualsiasi utopista c’imponga le sue condizioni!”.

In un’atmosfera di febbrile militarizzazione e fabbriche a pieno servizio dell’industria bellica, di produzione di gas tossici e proposte di rinchiudere i malati in campi di concentramento, un inquietante Maresciallo vuole realizzare la sua “missione superiore” nell’interesse del suo popolo, e sta per proclamare la guerra contro “quel piccolo, miserabile staterello che aveva creduto di potere impunemente provocare e offendere il nostro grande popolo”. Il contesto non può naturalmente non richiamare la contrapposizione tra la piccola Cecoslovacchia democratica e la Germania nazista, che da lì a poco avrebbe portato alla fallimentare Conferenza di Monaco, che Čapek ha commentato infatti con queste amare parole: “non ci hanno venduti, ci hanno dati in regalo”. Non stupisce dunque che La malattia bianca, in modo alquanto inconsueto rispetto alla produzione dell’autore ceco, si chiuda senza alcuna speranza: quando il Maresciallo malato sembra deciso a proclamare la pace, Galén resta schiacciato nella ressa mentre sta andando a portargli la medicina. Il passo indietro del dittatore è quindi impedito da una folla ottusa che grida “Un traditore di meno. Gloria al Maresciallo!”.

Se Krakatite è un romanzo-mondo, che attira il lettore in un vortice di temi e stili diversi, anche La malattia bianca, diviso in tre atti intitolati “Il Consigliere di Corte”, “Il barone Krüg” e “Il maresciallo”, è un’opera che osserva le vicende da punti di vista divergenti e con cambiamenti di scena repentini. I tre atti possono essere infatti letti come i frustranti incontri/scontri di questo “bambinone”, com’era scherzosamente chiamato Galén da giovane, con la scienza, la grande industria e lo stato militare, in un momento di evidente deformazione del funzionamento delle società moderne. E qui il Maresciallo, il grande imprenditore Krüg (dal tedesco Krieg, la guerra), lo scienziato Sigelius (dal tedesco Siege, la vittoria) e la folla ideologizzata testimoniano il fallimento di un’intera società, chiaramente modellata su quella tedesca, anche se in Čapek non mancano mai i riferimenti al modello originale delle dittature degli anni Trenta, il fascismo italiano. Con grande gusto l’autore ceco si sofferma in particolare sulla malleabilità della scienza di fronte alle pulsioni totalitarie, offrendo una mordace satira del servilismo e sciovinismo di quelle classi intellettuali che, in un articolo, ha definito “prostitute dei regimi contingenti e delle loro ideologie”, vendutesi per “un piatto di lenticchie”. Ciò che sta a cuore all’autore è infatti il confuso legame tra populismo, potere e malattia, che tristemente vediamo all’opera anche nel tempo presente.

A questo piano della “grande storia” si alterna la storia privata di una famiglia normale, grazie alla quale l’autore, attraverso il carrierismo del padre, può rappresentare la pandemia anche come bieca occasione di guadagno economico e sociale. Non a caso alla fine proprio il figlio sarà uno dei capi della folla che provoca la morte di Galén, questa sorta di Don Chisciotte dell’epoca totalitaria. Figura dai tratti di un messia, obiettore di coscienza a qualsiasi costo, quest’ultimo è un cittadino greco naturalizzato, ex assistente universitario, ora medico della mutua per via della sua origine sospetta, non è un grande arringatore di folle, anzi spesso si limita a ripetere frasi semplici («ma davvero non è possibile»), e si comporta come uno straniero che osserva, suo malgrado, una società malata. La sua scoperta del siero permette a Čapek di sviluppare il tema del singolo che tiene in scacco l’intera umanità: nella prefazione ha ricordato che era stato un amico dottore a suggerirgli l’idea di un medico che scopre nuovi raggi potentissimi in grado di distruggere i tumori, cosa che dà presto allo scienziato un potere assoluto. Quello della responsabilità della scienza è del resto un tema che Čapek ha affrontato ripetutamente, in quest’opera rovesciando l’assunto di Krakatite: se lì era stato tratteggiato l’angosciante dilemma interiore di chi potrebbe diventare dittatore assoluto del mondo, qui è invece un medico che cerca di utilizzare il suo potere per il bene dell’umanità intera.

Se nella versione manoscritta dell’opera il medico si chiamava Herzfeld ed era ebreo, a testimonianza della critica espressa nella prefazione (“non più l’uomo, ma la classe sociale, lo stato, la nazione o la razza è ora portatrice di tutti i diritti”), nella versione definitiva il rimando è stato spostato dall’autore verso la cultura greca. Com’era già avvenuto in R.U.R. e Krakatite, la perdita dell’eredità classica segna infatti, nella nostra storia e nella nostra cultura, una cesura di tali proporzioni da spalancare la strada alla barbarie. L’ingenuo tentativo di Galén di sfruttare l’influenza sociale delle élite per ottenere la pace a ogni costo, contrapponendosi al vero dittatore ed ergendosi a medico-dittatore e fanatico della pace, termina però con un completo fallimento. Come purtroppo vediamo anche ai giorni nostri, conoscere i sintomi di una malattia, come a volte la letteratura è in grado di fare con grande anticipo rispetto alla scienza, non significa certo aver trovato una cura. Da questo punto di vista Galén è stato quindi giustamente considerato la «prima vittima della Seconda guerra mondiale».

Come spesso avviene nel caso delle opere letterarie dense e polisemiche, anche La malattia bianca assume oggi una serie di nuovi significati e si colloca in modo originale nella linea di opere letterarie centrate sulle pandemie che abbiamo tratteggiato. L’intera opera di Karel Čapek è infatti a lungo rimasta nell’ombra di una precisa linea evolutiva della distopia che, per semplificare, viene di solito descritta lungo la direttrice Wells-Zamjatin-Huxley-Orwell. Lo sperimentalismo con i generi letterari, il rifiuto del finale distopico e la mancata descrizione della società del futuro, collocano di per sé l’opera di Čapek in una posizione diversa. Anche se naturalmente non sono pochi i punti di contatto con molte importanti distopie della cultura occidentale, merita qui di essere citato almeno il film Vita futura (1936), con sceneggiatura di H.G. Wells, in cui un mondo distopico sconvolto dalla seconda guerra mondiale è attraversato in un lontano futuro da un’epidemia devastante («la piaga errante»).

Va inoltre ricordato che La malattia bianca rappresenta per Karel Čapek un ritorno al teatro dopo una pausa di vari anni, legato evidentemente alla necessità di far tuonare nuovamente la sua voce sul palcoscenico, nella sua concezione dello spazio teatrale come un pulpito da cui ammonire l’umanità. Le prime notizie su una nuova opera teatrale risalgono al dicembre del 1936, e il testo è stato pubblicato e messo in scena per la prima volta, a Praga e a Brno, nel gennaio del 1937. La rappresentazione ha suscitato, anche per l’attualità internazionale del tema, un’eco notevole, seguita poi dal conferimento del premio di stato per la letteratura. Uno dei grandi promotori della letteratura ceca all’estero nel periodo tra le due guerre, Max Brod, ne ha subito predetto il sicuro successo internazionale e Thomas Mann ha poi parlato di “successo trionfale” e di una fusione di elementi fantastici e simboli realizzata “con la maggiore vitalità e plasticità possibili”. Meno entusiasta è stato Karel Čapek rispetto alla messa in scena londinese del 1938 (con il titolo Power and Glory), in cui il regista ha deciso di far recitare i ruoli del dottor Galén e del Maresciallo allo stesso attore. Nella rassegnata riflessione affidata a una lettera inviata al Manchster Guardian, Čapek, pure avvezzo al continuo fraintendimento delle sue intenzioni, si è rammaricato della stravaganza di alcuni registi, paragonando l’intervento sulla propria opera a una rappresentazione in cui Otello e Desdemona venissero impersonati dallo stesso attore.

Senz’altro con maggiore interesse deve avere invece accolto la riuscita trasposizione cinematografica, realizzata in tempi brevissimi con gli stessi attori della messa in scena teatrale, anche se con un’importante modifica del finale: il Maresciallo infatti firma la pace e Galén, prima di morire, lascia a un collega la formula della medicina (il film si può vedere sul canale dei classici cechi: https://www.youtube.com/watch?v=HJMUIBEzYnI). La prima proiezione ha avuto luogo il 21 dicembre del 1937 ed è stata seguita, due giorni dopo, dalla vibrante protesta dell’ambasciata tedesca. Non c’è quindi da meravigliarsi se, dopo la conferenza di Monaco, nel novembre del 1938, il film sia stato immediatamente bandito dalle sale cinematografiche, anche se per fortuna, grazie a una copia portata all’estero, siano state poi prodotte le versioni francese e inglese.

Il tentativo di Karel Čapek di richiamare l’attenzione sui cambiamenti antropologici in atto nelle società occidentali e impedire la caduta della Cecoslovacchia era ovviamente destinato al fallimento, come hanno da lì a poco sancito le lugubri parole di Chamberlain nel suo discorso Peace for our Time, in cui, lasciando mano libera a Hitler, rifiutava la guerra “per una lite in un paese lontano, di cui non si sapeva niente”. La morte di Čapek, che ha assunto nel contesto ceco una chiara valenza simbolica, è apparsa qualche settimana dopo, davvero come la fine di un’epoca, anche se forse ha evitato all’autore una fine ancora peggiore. Qualche mese dopo infatti il fratello Josef, uno dei pittori cechi più significativi della prima metà del XX secolo, sarebbe stato arrestato e trascinato nei campi di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen, per morire poi a Bergen-Belsen poche settimane prima della fine della guerra.

Come dimostra la sensazione di assoluto pessimismo con cui termina La malattia bianca, in Karel Čapek si era indebolita la fiducia nella gente comune e nella reale possibilità di fermare l’avanzare del totalitarismo. Anche se la situazione storica è oggi completamente diversa, si tratta di temi tornati di grande attualità ed è sempre più necessario tornare a interrogarsi su quali siano i rapporti tra potere, populismo, fanatismo e pandemia. Il grande potere della letteratura è in fondo proprio quello di anticipare molti problemi prima della loro esplosione e Čapek, negli anni Venti e Trenta, ha sollevato delle questioni nodali che hanno poi angosciato l’immaginario delle nostre culture per tutto il XX secolo. Nel 1937, agli occhi di un autore ceco sulla soglia di una catastrofe che sta per inghiottire tutto il mondo, la risposta è tristemente univoca: nemmeno una pandemia è in grado di bloccare la deriva militarista della società europea e, una volta linciato Galén, il corteo prosegue urlando i suoi triti slogan, “Viva la guerra! Viva il Maresciallo!”.

Karel Čapek (Malé Svatoňovice 1890 – Praga 1938), giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento ed è stato ripetutamente tradotto in italiano fin dagli anni Venti. Grande sperimentatore di nuove forme e generi letterari, ha affrontato nella sua opera temi di grande attualità: l’intelligenza artificiale, l’energia atomica, la diffusione di epidemie etc. Deve la sua consacrazione internazionale all’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), che ha introdotto nella cultura mondiale il termine “robot”. Molto noti sono anche l’opera teatrale L’affare Makropulos (1922), i Racconti da una e dall’altra tasca (1929) e i romanzi La fabbrica dell’assoluto (1922), Krakatite (1924) e La guerra delle salamandre (1936).

QUI l’articolo originale:

https://www.moduslegendi.it/apparati/viscerale/karel-capek-e-la-pandemia-letteraria-del-1937-come-sintomo-della-catastrofe-incombente/

LANGHE INQUIETE – citazione di Enrica Torchio su Un libro a colazione

LANGHE INQUIETE – citazione di Enrica Torchio su Un libro a colazione

“Mio nonno è un uomo giovane e forte e su quella piazza gioca alla palla. La palla si batte col pugno, la palla è grande quanto un’arancia ma pesa come un melone, e mio nonno e gli altri uomini sono a messa e dal fondo, quando il parroco si dilunga, fanno vedere la palla e il parroco si sbriga, conclude in fretta, un pater e un’ ave veloci, poi tutti sulla piazza per la sfida degli uomini giovani e forti.”

Marco Giacosa – Langhe inquiete

“Ma se noi ogni estate continuiamo a mandarlo sulle langhe, per forza finirà col farsi un’anima Fenoglio, anche se alla nascita non ce l’aveva. Quanto a me debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia, nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, quando a scuola ci accostavamo a parole come “atavismo” e “ancestrale” il cuore e la memoria mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.”

Beppe Fenoglio – Ma il mio amore è Paco
ScoutINK 2021 – Primo contest per disegnatori di fumetti – MIRAGGI EDIZIONI

ScoutINK 2021 – Primo contest per disegnatori di fumetti – MIRAGGI EDIZIONI

Contest per 10 tra i migliori talenti emergenti del fumetto italiano, scadenza 31 marzo 2021

Il disegno è la tua passione e hai bisogno di nuovi spazi per esprimere la tua creatività? Sei un autore, sceneggiatore e disegnatore di fumetti? Ecco il modo migliore per valorizzare le tue creazioni ed essere finalmente pubblicato da una casa editrice affermata.

Sono aperte le iscrizioni alla prima edizione del Contest nazionale ScoutINK, la selezione indetta da Miraggi Edizioni, per la collana MiraggINK, che premia 10 tra i migliori talenti emergenti del fumetto italiano. Le 10 storie vincitrici saranno pubblicate in un volume raccolta, distribuito a livello nazionale.

“Una sezione dedicata a tutti i disegnatori, autori e appassionati di fumetti.

Un’occasione unica per mettere in mostra le proprie abilità nell’arte del fumetto!”

QUI per leggere il REGOLAMENTO e fare ISCRIZIONE > https://www.miraggiedizioni.it/prodotto/scoutink/

Il 10 aprile 2021 saranno proclamate le 10 storie selezionate e il volume sarà ufficialmente presentato in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2021.

Possono partecipare al Contest gli autori/disegnatori maggiorenni (anche in team) la cui opera (storia a fumetti) sia originale. Per iscrivere l’opera al Contest, gli autori dovranno accettare integralmente le condizioni del presente regolamento. Ciascun autore può partecipare al Contest anche con più di un’opera, purché sia autore o co-autore, dell’opera presentata e sia titolare, in via originaria, di tutti i diritti di utilizzazione e sfruttamento, anche economico, dell’opera presentata per le finalità del presente Contest.

Musica solida – estratto sulla Numero Uno su Rockol

Musica solida – estratto sulla Numero Uno su Rockol

Numero Uno: 1969-1974, la storia di cinque anni di successi

La storia della Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti, raccontata da Vito Vita

di Franco Zanetti

Ma questa Numero Uno, nei suoi cinque anni di vita, cos’era, chi c’era, come funzionava? Ce lo racconta Vito Vita, grande esperto di discografia e autore del fondamentale “Musica Solida”, che Rockol ha recensito qui.

Nel 1969 alcune tensioni createsi in seno alla Ricordi tra la sua dirigenza e la coppia formata da Mariano Rapetti e il figlio Giulio, responsabili delle edizioni musicali, condussero alle dimissioni dei Rapetti e di altri personaggi attivi in vari settori della Dischi Ricordi, che fondarono una nuova casa discografica: la Numero Uno. Fu coinvolto anche Lucio Battisti, la cui produzione era stata negli ultimi tempi la maggior fonte d’incasso per la Ricordi: il successo al Disco per l’estate 1968 con Prigioniero del mondo e al Cantagiro nello stesso anno con “Balla Linda”, la partecipazione a Sanremo nel 1969 con “Un’avventura” e il primo posto in hit-parade con “Acqua azzurra, acqua chiara”, senza contare gli hit scritti
per altri artisti dell’etichetta, in primis i Dik Dik e l’Equipe 84. Battisti aveva tuttavia un contratto con Ricordi che sarebbe scaduto solo due anni dopo, per cui – pur facendo parte della proprietà della nuova etichetta – non entrò a far parte degli artisti in catalogo fino al 1971.
La sede fu stabilita in Galleria del Corso 2 a Milano, e per la distribuzione venne effettuato un accordo con l’Rca Italiana.
Il logo verde dell’etichetta, con il numero 1 in bianco su campo arancione, fu disegnato da Guido Crepax, fratello del discografico della Cgd Franco. 


Subito la Numero Uno cercò nuovi artisti da mettere sotto contratto, sia con proposte inedite, sia convincendo artisti già noti a passare sotto la nuova etichetta. Nel primo gruppo rientrava la Formula 3, un complesso appena formato con tre musicisti di esperienza quasi decennale: il romano Alberto Radius, il livornese Gabriele Lorenzi e il turnista napoletano Tony Cicco. Il primo 45 giri della Numero Uno fu il loro “Questo folle sentimento”, brano rock scritto da Mogol e Battisti, che li portò subito in hit-parade, arrivando a vendere 350000 copie.

Fu invece particolare il primo album pubblicato dall’etichetta: “E poi domani ancora”. Anche in questo caso era un’artista debuttante, che però eseguiva testi in piemontese firmati dal giornalista Piero Novelli, cugino del futuro sindaco Diego Novelli, con tematiche legate alla malavita, e musicati dal fisarmonicista Mario Piovano. La sua interprete era Luisella Guidetti.

Come responsabile della promozione della Numero Uno venne assunta Mara Maionchi, proveniente dalla Ariston. Il suo primo incarico fu quello di promuovere il 45 giri della Formula 3 “Questo folle sentimento”, che riuscì a far scegliere da Vittorio Salvetti come sigla del Festivalbar 1969 e da Renzo Arbore come disco da far ascoltare tra le novità a “Per voi giovani”, contribuendo così al traguardo delle 350000 copie vendute.
Tra gli artisti sotto contratto nei primi mesi dell’etichetta ci furono poi Tony Renis dall’Rca Italiana, gli Alpha Centauri, gruppo veronese, Bruno Lauzi dalla Ariston, gli Anonima Sound di Ivan Graziani provenienti dalla CBS, Edoardo Bennato, La Verde Stagione, in precedenza alla Equipe con altre denominazioni, Annamaria Rame dalla Italdisc, i Computers, duo formato dai fratelli Gabriele e Mario Balducci, i Jumbo, Sara (Sara Borsarini), Adriano Pappalardo, Mario Berto e Oscar Prudente, mentre su iniziativa di musicisti all’interno dell’etichetta (Mario Lavezzi, Damiano Dattoli e Sergio Poggi) si formarono i Flora
Fauna Cemento.
Come assistente della Maionchi fu assunta una giovane ragazza, Manuela Mantegazza, che in seguito entrò per un certo periodo nei Flora Fauna Cemento. 
Antonella Camera, segretaria di Mogol alle edizioni Ricordi, fu assunta come responsabile dell’Ufficio Stampa insieme a Claudio Bonivento, mentre il responsabile dell’Ufficio Amministrativo era Antonio Coni, ragioniere proveniente dall’Rca e trasferitosi da Roma a Milano; il grafico di riferimento era Cesare Monti, ma i dipendenti della Numero Uno
non erano certo una moltitudine, come ricorda Franco Daldello:


“Nel momento di massima espansione della casa discografica e delle edizioni musicali, penso al biennio 1971-72, non eravamo in tutto più di dodici persone, e parlo di un periodo in cui, in certe settimane, nella hit-parade di Lelio Luttazzi c’erano quattro o cinque canzoni nostre, tra Battisti, Formula 3, Mina con brani Mogol-Battisti, Lauzi, perché con noi Lauzi vendeva, cosa che non gli era riuscita prima con le altre etichette, ed altri artisti, o comunque canzoni nostre a livello editoriale, come “Vendo casa” dei Dik Dik o “Io vagabondo” dei Nomadi o “La prima cosa bella” di Nicola Di Bari, che è una produzione Numero Uno. Noi, con una struttura tutto sommato esigua, facevamo un fatturato annuo di cinque miliardi e mezzo di lire, ma di lire del 1971-72, che rapportati al giorno d’oggi fanno una cifra enorme, e che non era solo dovuto a Battisti, ma a Lauzi, alla
Pfm, alla Formula Tre, a Pappalardo, nonché alle edizioni”. 

Nella primavera del 1971 Colombini abbandonò la Numero Uno (vendendo le sue quote a Battisti). Colombini portò con sé alla Ricordi Edoardo Bennato, che alla Numero Uno aveva inciso solo tre 45 giri. Nel settembre 1971, scaduto il contratto che lo legava alla Ricordi, Battisti passò alla Numero Uno, debuttando con il 45 giri “La canzone del sole/Anche per te” e registrando negli anni seguenti album e singoli entrati nella storia della musica italiana.

Alla fine del 1971 firmò con l’etichetta la Premiata Forneria Marconi, gruppo nato dall’incontro tra i Quelli, transfughi dalla Ricordi, composto da alcuni tra i più noti session-men milanesi e il flautista Mauro Pagani, proveniente dai Dalton; il debutto della Pfm, così venne chiamato da subito il gruppo dalla stampa, fu con il 45 giri “Impressioni di settembre”/”La carrozza di Hans”, due brani epocali con la collaborazione di Mogol al testo del lato A, a cui fece seguito a gennaio ’72 l’album
“Storia di un minuto”. Il gruppo fu il primo tentativo della Numero Uno di lancio internazionale di un artista, grazie alla collaborazione con la Manticore, l’etichetta fondata in Inghilterra da Emerson, Lake & Palmer.

Il 1972 vide anche la pubblicazione di un 45 giri dell’ex cantante dei Ribelli, Demetrio Stratos, con due brani cantati in inglese “Daddy’s Dream”/”Since You’ve Been Gone”, di cui il primo fu inciso nello stesso anno da Mina con un testo di Lauzi, “L’abitudine”. E proprio alla Numero Uno nacque in Stratos l’idea di formare gli Area, registrando una session per l’album di Alberto Radius da solista del ’72 insieme a Giulio Capiozzo, Patrick Djivas e Gaetano Leandro in un brano intitolato appunto Area.

Nel 1973 Mogol decise di acquistare un vecchio mulino ad Anzano del Parco in provincia di Como, e lo fece ristrutturare per allestire in gran parte di esso uno studio di registrazione all’avanguardia, e nel resto della costruzione le stanze da letto per gli ospiti, i saloni e la cucina, data in gestione ai genitori del batterista Gianni Dall’Aglio: nacque così lo studio il Mulino, che divenne il riferimento per la Numero Uno ma fu usato anche da artisti di altre etichette, come i Pooh. Lo stesso anno debuttò con l’etichetta il cantautore milanese Eugenio Finardi, che pubblicò il suo primo 45 giri con due brani rock in inglese, “Spacey Stacey”/”Hard Rock Honey”, per poi passare alla Cramps. Nello stesso periodo si sciolse la Formula 3 e Radius e Lorenzi diedero vita a un nuovo gruppo, Il Volo, con Dall’Aglio, Bob Callero al basso, Vince Tempera e Mario Lavezzi; vennero pubblicati due album, il primo cantato e il secondo strumentale, ma le vendite non furono soddisfacenti anche per la scarsa promozione.

Alla fine del ’74 Mogol scelse di cedere interamente la Numero Uno all’Rca per 400 milioni di lire e alcuni personaggi dello staff decisero quindi di abbandonare l’etichetta e accettare le proposte di altre label portandosi dietro alcuni artisti: Mara Maionchi passò alla Ricordi e la seguì Gianna Nannini, che era appena entrata come cantante nei Flora Fauna Cemento facendo in tempo a incidere un 45 giri e a partecipare nel ’74 a “Un Disco per l’Estate” con “Congresso di filosofia”; Franco Daldello si trasferì alla Cgd convincendo anche il chitarrista-cantante Umberto Tozzi, che aveva appena inciso con la Numero Uno un album con il suo gruppo, i Data.

Negli anni seguenti la Numero Uno, di fatto diventata una sussidiaria dell’Rca, continuò a pubblicare i dischi di Battisti e di qualche nuovo artista, come il cantautore triestino Gino D’Eliso e Mara Cubeddu, ex cantante dei Daniel Sentacruz Ensemble, ma i più rilevanti furono senz’altro il percussionista napoletano Tony Esposito con “Rosso napoletano” (1975) e “Processione sul mare” (1976) e Ivan Graziani, ex Anonima Sound, con i suoi album storici: “I lupi” (1977), “Pigro” (1978) e “Agnese,
dolce Agnese” (1979).

QUI l’articolo originale:

https://www.rockol.it/news-718206/numero-uno-1969-1974-la-storia-di-cinque-anni-di-successi?refresh_ce&fbclid=IwAR0-0unOyKv9BrcVbRx83hdObV7UBjN1LzveWNsbGUJKDBzjnruKqG-n87o

FRANCESCO FORLANI su Libération (articolo di Claire Devarrieux)

FRANCESCO FORLANI su Libération (articolo di Claire Devarrieux)

FRANCESCO FORLANI, UN POÈTE EN CLASSE TOUS RISQUES

Le «communiste dandy» dévoile son quotidien de prof d’italien dans des collèges d’Eure-et-Loir

Francesco Forlani à Rome, le 11 mars 2012.
Francesco Forlani à Rome, le 11 mars 2012. Photo Marcello Mencarini. Leemage  

Francesco Forlani est un poète italien qui vit en France. Il a fondé une somptueuse revue internationale, SUD, et participe à l’Atelier du roman. Il écrit dans les deux langues. Il est aussi traducteur. Il est vraiment ce qu’on appelle, d’un terme un peu dévalué tant il a été utilisé, un passeur. Entre un passeur, ou un éclaireur, et un pédagogue, il n’y a pas trop de différence, parfois. Par-delà la forêt met en scène Forlani dans le rôle de professeur d’italien qui est le sien depuis trois ans. Le récit, composé de 24 chapitres comme autant de nouvelles, parcourt le petit monde scolaire, de la cour à la classe en passant par la salle des profs, avec un amour du langage qui est poétique, bien sûr, mais, profondément, qui est une forme d’altruisme, d’amour de son prochain. Sans excès, sans démagogie. On ne va pas se plaindre, on va plutôt plaisanter, et jouer le plus sérieusement du monde, pour mieux se faire comprendre.

Après avoir enseigné la philosophie en terminale au lycée français de Turin, Forlani découvre les collèges. «Mon appareillage théorique et didactique avait subi la même révolution qu’un char d’assaut russe transformé en foodtruck après la chute du Mur», écrit-il, sans être pour autant en train de dévaluer la tâche qui se présente. Il s’agit d’un poste réparti sur deux établissements d’Eure-et-Loir, à Dreux et à Anet. Comme il lui manque le permis de conduire qui lui permettrait d’utiliser la voiture qu’il n’a pas, rejoindre les deux endroits où il a été nommé est compliqué. Des collègues secourables – bêtise et inélégance n’ont pas droit de cité dans cette histoire, pas plus que la fatigue ou le découragement – un usage efficace de l’autostop également, pallient l’absence de transports en commun.

Photocopieuse.L’auteur habitant à Paris, les journées de cours commencent avec le premier métro. Les travailleurs de l’aube comme lui, et les exclus qui restent à quai, peuple de la nuit, sont évoqués dans Penultimiles Pénultièmes, un recueil bilingue (1) publié en 2019. «Sur le chemin de la maison j’ai croisé deux pénultièmes. Il y en avait une qui dormait dans la soute, tandis que l’autre scrutait la mer d’asphalte comme un naufragé fouille l’étendue d’eau du regard dans l’attente d’éventuels secours.» Dans Par-delà la forêt, pas le temps de rêver, il faut ruser avec le début et la fin de la sonnerie, parier que la photocopieuse va marcher si on s’en sert au dernier moment. Et, plutôt que s’attarder à contempler ses contemporains, il convient d’abord de maîtriser sa classe, cette forêt de jeunes adolescents.

Forlani a recours à un interlocuteur qu’il tutoie : «Tu sais que je ne te juge pas, et pourtant je sais que tu me juges. Beaucoup de choses ont changé depuis le temps où j’avais ton âge.» Naguère, l’élève craignait de se faire mal voir. Aujourd’hui c’est le contraire. «Car chacun de nous sait très bien que si l’un de vous l’a catalogué comme antipathique, il est fort probable que l’année à venir ne sera pas une promenade de santé, et cela, indépendamment de la matière enseignée.» Autre terrain miné : les parents. «Du jour au lendemain, les parents d’élèves se sont transformés en ennemis du corps enseignant.» Un chapitre attristé est consacré à la tendance à «l’inquisition».

Acronymes irrésistibles. Par-delà la forêt, qui tient son titre des trois mille hectares de bois qui séparent les deux collèges, est sous-titré «Mon éducation nationale». Il peut arriver à Francesco Forlani de philosopher à partir des arbres, mais il ne généralise jamais. A Dreux, il enseigne dans un REP + (Réseau d’éducation prioritaire, les acronymes sont irrésistibles pour le poète), et à Anet dans un collège normal, où les élèves sont majoritairement blancs. Sans se faire d’illusion sur sa mission, il préfère, c’est évident, la mixité du premier.

Un atelier pâte à pizza, un marathon de lecture du Petit Prince dans toutes les langues enseignées dans l’établissement, l’étude comparée de «ta gueule» et «vaffanculo» en passant par «mal di gola», mal à la gorge, qui permet à chacun d’envoyer son voisin se faire foutre en se touchant simplement le cou ou en toussant : le professeur d’italien est apprécié. Il a obtenu de l’inspection le droit de faire cours en chapeau. Il porte un costume clair et une cravate rouge. Il a 50 ans quand le plus vieux des enseignants en a 30. Il se présente volontiers comme un «communiste dandy». Dans la «police familiale» que représente la vie scolaire, il est «l’oncle fantasque venu d’un pays exotique», explique le collègue d’histoire.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://next.liberation.fr/livres/2020/06/19/un-poete-en-classe-tous-risques_1791800

DI SANGUE E DI FERRO – presentazione alla Libreria Milton di Alba in collaborazione con Book Advisor (la voce di Alba.it)

DI SANGUE E DI FERRO – presentazione alla Libreria Milton di Alba in collaborazione con Book Advisor (la voce di Alba.it)

Sabato 27 giugno, alle ore 21, la libreria albese sarà invece in diretta dal cortile interno della libreria con gli amici di Miraggi Edizioni per l’evento Mira-Book, in collaborazione con Book Advisor, per la presentazione dell’ultimo romanzo di Luca Quarin “Di sangue e di ferro”. I partecipanti alle dirette potranno richiedere di ricevere una copia con dedica autografa dell’autore da ritirare direttamente in libreria.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.lavocedialba.it/2020/06/22/leggi-notizia/argomenti/eventi-17/articolo/alba-alle-dirette-della-milton-gli-scrittori-niccolo-targhetta-e-luca-quarin.html

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI vincitore del Premio Più a Sud di Tunisi 2020

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI vincitore del Premio Più a Sud di Tunisi 2020

Angelo Orlando Meloni s’impone nella categoria “Calcio e narrativa”

Anche la XV edizione del Premio Nazionale “Più a Sud di Tunisi”, in programma a Portopalo dal 21 al 23 agosto 2020, conferma il binomio tra calcio e letteratura, potenziato a partire dal 2017 dall’appuntamento con l’Osvaldo Soriano Futbol Fest, curato da firme prestigiose del giornalismo e della letteratura legata al futbol.

Angelo Orlando Meloni, autore del libro “Santi poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni), si è aggiudicato il riconoscimento nella categoria “Calcio e Narrativa”. Il libro, uscito l’anno scorso, ha raccolto ottime recensioni.

“Il libro di Meloni è l’occasione, – ha scritto Leonardo Lodato sul quotidiano La Sicilia – un’altra ancora, per parlare di calcio, per smontarne determinate trame e trascorrere, magari, una domenica con tra le mani un buon libro. Con buona pace dei nostalgici di Tutto il calcio minuto per minuto”. Il sito letterario Culturificio ha definito il libro di Meloni “un feroce pugno nello stomaco, dove gli ultimi resteranno ultimi, senza possibilità di rivalsa o di rivincita, perché gli uomini, gli unici a poter cambiare e scardinare alcuni corrotti meccanismi sociali, non lo permetteranno mai”. Racconti di calcio e società, passioni e identità. Un corpus di storie con denominatore comune il football, dissacrato dall’autore con grandi dosi di leggerezza e ironia.

Tante piccole storie: il bomber alcolizzato, l’arbitro integerrimo giunto all’ultima tappa della sua carriera e costretto a fare i conti col suo passato, il giovane campione che non riesce a rapportarsi con la follia dei genitori degli altri ragazzi. Pagine in cui la sfera di cuoio s’interseca con gli amori finiti e sfuggenti, mancati o mancanti. Elegia del calcio di provincia che corre il rischio di finire nel fango del dio pallone.

Una narrazione, quella di Angelo Orlando Meloni, che bussa alle porte del cuore, arrivando nella parte che custodisce l’arcadia della nostra esistenza, miscelando tutto con un sorriso soave e leggiadro.

L’edizione 2020 del Premio Più a Sud di Tunisi, uno degli appuntamenti culturali di maggior prestigio tra quelli organizzati in provincia di Siracusa, avrà il patrocinio del Comune di Portopalo.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.gazzettadelmediterraneo.it/portopalo-angelo-orlando-meloni-vincitori-del-premio-piu-sud-tunisi/