15 maggio 2020 Miraggi festeggia 10+1 anni di attività, e non è poco! Ma non ci fermiamo qui…
Miraggi è nata dopo la crisi del 2008, ha esordito al Salone Internazionale del Libro di Torino nel 2010 e giunge a questo traguardo con la crisi del coronavirus in atto. Fino a oggi, in questo stato di crisi permanente che chiamano editoria, abbiamo superato ostacoli che anche a noi parevano insormontabili, e abbiamo resistito. E l’abbiamo fatto dimostrando ai lettori (e a noi stessi) che con il coraggio, un pizzico di intuito, la passione e l’amore per questo lavoro meraviglioso che consiste nel “fare libri” ci si può guadagnare il proprio spazio nel mare magnum editoriale italiano. Piccoli ma forti!
Abbiamo deciso, in questo momento di crisi “viralmente perenne”, di festeggiare comunque i nostri 11 anni, chiedendo a voi, lettori che ci avete seguito e apprezzato in questi anni una piccola donazione, secondo modalità che ci permetteranno di regalarvi dei pezzi della nostra storia. Purtroppo si legge poco in Italia e un sacco di libri sarebbero destinati al MACERO ma noi non vogliamo mandarceli anche se lo spazio per tenerli scarseggia.
Potete donare con PayPal o tramite SatisPay
Ecco come:
1€ come piccolo e semplice contributo: un caffè (per lavorare meglio!)
5€ e ti regaliamo 1 libro storico di questi nostri 10 anni a sorpresa, che spediremo con piego libro (importante lasciare un recapito);
10€ e ti regaliamo 2 libri storici di questi nostri 10 anni a sorpresa, che spediremo con piego libro (importante lasciare un recapito);
Offerta libera (sapremo dimostrare la nostra riconoscenza, importante lasciare un recapito).
Grazie per la fiducia!
Se ti va di aiutarci e di diffondere e condividere questo nostro sentimento te ne saremo grati.
Poeta, narratore, romanziere insolito. Non si può racchiudere Luca Ragagnin in una definizione unica e completa, come racconta il suo percorso di autore multiforme, che non poteva restare indifferente a una casa editrice come Miraggi: dall’esordio nel 2012 con Musica per orsi e teiere, al passaggio di Capitomboli del 2013, alla perla rappresentata dalla trilogia Imperdibili Perdenti di fine 2015 scritta per i Totò Zingaro, fino al recente Agenzia Pertica del 2017, racconto di una improbabile agenzia investigativa che ha appassionato i lettori per la scrittura funambolica e sorprendente.
La musica per l’appunto. Ragagnin ha realizzato testi per parecchi interpreti: il rapporto solido e proficuo con i concittadini Subsonica, cominciato nel 1997 con il primo album del gruppo torinese. E poi canzoni per Garbo, Mao e la Rivoluzione, Antonello Venditti e, oggi, Mina. Quella che è considerata la più grande interprete italiana ha pubblicato a fine marzo Maeba, disco interamente realizzato con brani inediti. L’ultima canzone della tracklist è “Un soffio”, con musica di Davide “Boosta” Dileo – tastierista dei Subsonica – e testo di Ragagnin. Una canzone descritta come eterea e destrutturata, apparentemente lontana dal mondo della cantante per la traccia elettronica e le atmosfere psichedeliche. Ma la collaborazione tra Boosta e Ragagnin ha saputo regalare un’atmosfera insolita, resa ancora più unica dalla voce inimitabile di Mina.
Me la prendo comoda, per quanto possibile. Cerco di rintracciare ogni prova tangibile che testimoni quello che c’è stato fra me e Lei. Sono diventato quello che si potrebbe chiamare un “topo da biblioteca”, mi sono messo a studiare come non ho mai studiato in vita mia: con diligenza, con regolarità, pure con una certa pignoleria da primo della classe. Voglio recuperare ogni materiale disponibile, dagli scontrini dei negozi dove siamo stati ai conti dei ristoranti, dai biglietti del cinema alle lettere d’amore; voglio avere tutto sopra al tavolo senza saltare i capitoli e senza dare per scontato anche il più limitato particolare, voglio fare il bravo studente, per una volta, e non puntare solamente sulla faccia tosta. Me la prendo comoda nel senso che ci metto tanto; è da non credere quanto materiale probatorio si possa accumulare in soli tre anni di relazione, quanto ne venga fuori anche all’ultimo momento quando si pensava il lavoro oramai finito. Ecco appena rintracciato, in questo preciso istante (ore 5.18) un documento scritto di mio pugno di cui mi ero completamente dimenticato:
G.* dov’è che sei? G. cos’è che vuoi? G. ma come faccio a farti innamorare? Tu dormi mentre io rimango in poltrona e ti mando saluti vari ed eventuali. Ecco, vediamo un po’. Ti saluta la lampada a luce gialla di questa portineria, ti salutano le chiavi delle camere, i porta-chiave, i numeri attaccati, le cassette della posta. Ti salutano i registri da compilare, le schede di notifica, i numeri progressivi, le assenze e le presenze. Ti salutano le foresterie, le federe dei cuscini, la biancheria e il cambio biancheria. Ti saluta lo stanzino dei portieri e il frigo-bar che mi rimproveri, i biglietti attaccati ai vetri, gli avvisi e il telefono che rimane zitto. Ti saluta qualcuno che di tanto in tanto passa e non dice niente. Ti saluta la segnaletica e il piano d’evacuazione d’emergenza, gli estintori rossi. Ti saluto soprattutto io, cara G., che qua non sembra ma mi faccio stanco, mi prendo tutte le occhiaie e divento scorbutico, più del dovuto. Ti saluto io che ugualmente mi mantengo e di nuovo ti saluto. Buonanotte G. P.S. Sono quello nella fotografia. Il primo da destra ma anche da sinistra.
P.P.S. Ma quanto posso essere scemo qualche volta?
(*G. sta per l’iniziale del cognome che nel documento è scritto per esteso.) Così vado avanti, in questa maniera che (e non so se l’ho già detto ma credo di sì) è sicuramente poco salutare, fa male ai nervi, alle ossa, alla circolazione e soprattutto a ciò che ruota attorno al tratto gastrointestinale. È una roba mica da ridere, o se non altro a me non fa ridere per niente, tranne qualche volta, quando magari sono in vena e mi esce una risata isterica, a strattoni, come la marmitta un poco andata di quei motorini che inspiegabilmente si riprendono in salita. Sono le cuciture interne che per qualche strana ragione di tanto in tanto vanno su di giri e fanno un po’ come gli pare, poi tornano giù e si sta peggio di prima visto che quello scatto repentino da centometrista ha sbagliato tipo di corsa e non è servito a niente, se non a finire quel poco di fiato che rimaneva e che sarebbe stato molto meglio centellinare. Ho la sensazione che in qualche modo sia Lei ad aspettarselo da me. Credo che dal suo punto di vista io non abbia mai concretamente fatto niente e, sempre dal suo punto di vista, sarebbe ora che cominciassi a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Tuttavia non è per questo che mi sono infilato in una faccenda che sta risultando molto più complicata di quanto pensassi all’inizio. Sarà che ero partito bene, anche troppo, con tutti quei buoni propositi che mi facevano apparire la cosa semplice o per lo meno naturale. Però mi sta venendo il dubbio che non ci sia niente di naturale, e sicuramente niente di semplice, nel crogiolarsi fra quegli scatoloni di vecchi discorsi e discussioni il cui sunto finale è quasi sempre lo stesso: D’accordo, è appurato che il più delle volte non ci sopportiamo, però non diciamo che ci siamo sbagliati, diciamo che sarebbe stato meglio organizzarci. Organizzarci meglio.
(…)
Schiena. Mi ricordo che aveva una schiena lunga, e credo ce l’abbia tuttora. Una schiena come un muro bianco, però morbido e con un buon odore di frutta mista. Soprattutto cocco, kiwi e banane. – Nei. Quanti ne aveva? Diamine, non mi riesce di ricordare il numero esatto. Chissà se si offenderebbe se la chiamassi appositamente per chiederglielo? Comunque ne aveva un bel numero. A me piacevano soprattutto quelli finali, più bassi, meridionali. Ne aveva sicuramente tre o quattro intorno alla natica destra. – A proposito: natiche. In fondo al muro bianco ci trovavo sempre questi due meravigliosi affari a cui non so dare un nome. Non so perché, ma a me le sue natiche hanno sempre fatto pensare alla porta di un saloon: semplice, basilare, povera, eppure uno spettacolo. È il modo in cui si aprono e si chiudono che è uno spettacolo a cui non riesco a dare un nome. Dire natiche è riduttivo, dire culo non è proprio esatto. Lo so che anche la porta di un saloon non rende bene, è un poco stupida come immagine, ma è la prima a cui mi viene di pensare quando penso alle sue natiche. E poi c’è da dire che le porte di un saloon quando si aprono si aprono sempre o su di una bella rissa o su di una bella sbronza, o almeno così mi piace immaginare. – La prima volta che l’ho portata qui, dentro al gabinetto, è stato il giorno che mi ha aiutato a fare il trasloco. Era di lunedì. Non abbiamo fatto niente ma ci abbiamo pensato, soprattutto Lei. – Abbiamo rimediato la seconda volta che ci è venuta. In piedi, davanti al lavandino, molto svelti ma convinti. C’era una lampadina fulminata che rendeva la luce ancora più perfetta. – Le volte dopo sono state molto spesso sotto la doccia. Era che l’acqua calda giocava a nostro favore. – L’ho vista farsi tanti di quei bidet che se adesso mi abbasso sono convinto di trovarci ancora un pelo incastrato sotto al tappo. Legato col doppio nodo. Ma è meglio non rischiare. – L’unica cosa su cui qui dentro non ho capitolato è stata quella di pisciare, seduto sulla tazza, mentre Lei si lavava i denti. Su questo argomento non ho voluto sentir ragioni, le cose erano due: o io pisciavo o Lei si lavava i denti. – Adesso però credo che raggiungerei volentieri un compromesso, anzi, le farei tutte le pisciate che vuole, anche quelle acrobatiche, se solo si decidesse a lavarsi ancora i denti qui dentro. – Adesso. Adesso. Adesso chissà cosa diamine sta facendo. Adesso magari niente, dorme. Ma prima di dormire qualcosa avrà fatto, e non saperlo è più che fastidioso. – Aveva un maglione bianco che era di tre misure sopra la sua. Io glie ne ho lasciato uno mio, blu, dopo che mi si era ristretto in lavatrice. Adesso sono sicuro che le starà benissimo. I pigiama. Me ne ricordo soprattutto due. Uno bianco con i pallini rossi, che si sbottonava come una camicetta. E uno metà bianco e metà rosso, molto invernale, con sopra disegnati tanti gatti. – Andava matta per i pois e per i fiocchi. A volte anche per le acconciature da cinquantenne o sessantenne. – Le piacevano le vecchie collane e i vecchi braccialetti, gli orecchini giganteschi che metteva sua nonna. Anche a me piacevano ma mi sa che non gliel’ho detto troppo spesso. – Dovrei decidermi a scriverle almeno una poesia senza finale tragico. O se non altro almeno una totalmente positiva, senza nessun sottinteso catastrofico. – Dovrei riuscire a fare più di una cosa contemporaneamente. Ma forse no. – Probabilmente dovrei perdere due chili e se c’è tempo scolpire gli addominali bassi. – Sicuramente dovrei fumare meno. – Dovrei anche bere meno vino bianco e smettere completamente con la birra. Prima nemmeno la bevevo la birra. – Dovrei smettere d’aver paura dei supermercati e smettere d’andarci solamente in orari improponibili. – C’è da dire però che l’ultima volta che mi ha abbracciato dentro a un supermercato eravamo davanti al reparto frigo, settore latticini. E ci siamo abbracciati parecchio. – C’è da dire soprattutto che quella volta lì, che è stata la nostra ultima volta insieme in un supermercato, non ci siamo solo abbracciati. Lei mi ha anche detto una cosa all’orecchio, una di quelle cose che non passano inosservate. Mi ha detto, testuali parole: «Oddio, quanto ti amo». Non è tanto per il ti amo ma per l’Oddio: Oddio, Oddio quanto ti amo, non è una cosa che si sente tutti i giorni quell’Oddio. Lì, al supermercato, davanti ai formaggi semi stagionati e alle mozzarelle quell’Oddio ha fatto nel mio orecchio lo stesso rumore che farebbe un palazzo di quindici piani se venisse giù, dopo scarica di dinamite, per fare posto a un altro più bello, non di quindici ma di centoventicinque piani. – Oddio. Oddio. Oddio. Oddio. Oddio. Oddio… Oddio, quanto ti amo. Bisognerebbe avere il porto d’armi per permettersi di dire una cosa del genere. Può essere pericoloso dirlo così su due piedi, soprattutto se non si avverte l’altro che lo stiamo per dire. Oddio. Non so se è normale ma per me questa è una di quelle parole che se messe davanti a quanto ti amo stanno a significare che oramai i giochi sono fatti e che non è più possibile tornare indietro per nessuna, e dico nessuna, ragione al mondo. Oddio, quanto ti amo. – E poi qualcuno si stupisce se ho il terrore dei supermercati…
Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia di Marco Giacosa diventa un cooking show con menu originale del ‘600 di Chef in Valigia Fabio Mendolicchio (Kitchen mon amour). Una cena itinerante, proposta nei luoghi più disparati, come ci ha abituati lo “Chef in valigia”, una serata in cui gustare un menu antico, preparato dal vivo, godendosi i racconti, le curiosità e i divertenti aneddoti manzoniani di Marco Giacosa.
Anno 1630, ci si ritrova seduti al banchetto di nozze della coppia letteraria più famosa d’Italia. Mangiando con loro un menù dell’epoca, ripercorreremo che cosa è successo in quei due anni, riscoprendo i momenti più importanti della vicenda che ha tenuto col fiato sospeso intere generazioni.
Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia di e con Marco Giacosa – Chef Mendo Fabio Mendolicchio
È facile innamorarsi dei Promessi sposi se sai come farlo.
Manuale di seduzione per lettori disaffezionati.
C’è di che riconciliarsi con I promessi sposi. Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito.
(Umberto Eco, 1985)
Non c’è nulla di più concreto che ripartire, a distanza di circa 400 anni, proprio da ciò che all’epoca si mangiava. Il cibo, la tavola, il bisogno di sfamarsi tra carestie e povertà. Gli alimenti che erano facilmente recuperabili ci raccontano molto di quell’epoca, narrano meglio le storie delle famiglie, inquadrano bene le esigenze dei diversi ceti sociali. Sarà il format del cooking show di Fabio Mendolicchio, popolarmente conosciuto con L’IBRIdaCENA, che curerà la preparazione delle portate che riporteranno i commensali in un’epoca lontana, attraverso il gusto.
Sarà invece lo scrittore Marco Giacosa che condurrà il gioco dell’immaginazione, stuzzicando il vostro appetito narrativo con un racconto incantevole e coinvolgente de I Promessi Sposi e di quel tanto atteso finale.
“Gentili signori, siete qui convenuti, a questo pranzo di nozze, con due anni di ritardo. Avevate ricevuto l’invito per il giorno 8 novembre 1628, che era un mercoledì; purtroppo però molto in quella settimana andò storto, e non se ne fece nulla. Per tanto tempo il destino si è frapposto tra i nostri cari Lucia e Renzo, ma quando tutto sembrava ormai perduto, ecco la Divina Provvidenza posare su di loro la sua mano santa. E finalmente eccoci, tutti assieme, a festeggiare l’unione di Renzo e Lucia! Io vi auguro buon appetito, di cuore.”
E spero apprezzerete, tra un piatto e l’altro, il racconto che andrò a fare delle grandi e gravi cose accadute negli ultimi due anni, che hanno tenuti lontani gli innamorati, che non sono riuscite, tuttavia, a vincere il loro amore!
Marco Giacosa
Menù
aperitivo d’epoca
Ricottine in salsa di lenticchie, miele e noci
Macedonia salata di cicerchie, uva e mais a tocchi
Crostino di pane con pollo e funghi
Farinata di ceci all’antica e quartirolo lombardo
Zuppetta di cipolle con pane accomodato
Mono crostatina degli sposi di frutta fresca sciroppata
Domani inizia la quinta edizione di BookCity Milano. Come ogni anno il primo giorno è dedicato alle scuole e ai progetti ad esse collegati. Quest’anno BookCity per le Scuole ha coinvolto 1300 classi di Milano e dell’hinterland che hanno aderito a più di 160 progetti proposti da editori, associazioni e professionisti del mondo del libro.
I progetti di BCM Scuole non si fermato ai quattro giorni della manifestazione, ma continuano tutto l’anno in tutti gli ordini scolastici per portare libri e lettura tra i banchi di scuola.
appuntamenti: Sabato 19 novembre 2016
ore 12.00 Una stroia tedesca
Con Roger Salloch, Francesco Forlani
e Davide Reina
Ore 15.30 Tombola letteraria
Tanti modi per leggere Teatro Franco Parenti – Digital Studio Dove? Al Castello Sforzesco – Biblioteca d’Arte piazza Castello 1
ore 21.00 Opinioni da clown e Romanzo musicale di fine millennio
di e con Giangilberto Monti
Dove? Alla Libreria Caffè Colibrì via Laghetto 9/11
Domenica 20 Novembre 2016 Les chansonniers. Le traduzioni e gli adattamenti della chanson française, tra parole e musica.
Con Giangilberto Monti e Fabrizia Parini
Dove? Alla Fondazione Milano – Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli
via Francesco Carchidio 2
Noi siamo pronti, ci vediamo sabato e domenica alla Libreria più lunga del mondo. Via Roma angolo piazza CLN, insieme a Trebisonda e ScritturaPura, amici autori e lettori. Il programma completo: Portici di Carta 2016
Contemporaneamente, siamo a Messina al SabirFest, ma ci rendiamo conto che fare un salto a entrambi gli eventi sarebbe chiedere troppo. Info: SabirFest
Perché, oggi, una nuova collana di libri? Di traduzioni, per giunta. Non c’è già TUTTO?
Pur senza andare a citare i dati numerici della produzione libraria italiana, è evidente anche al profano che escono e continuano a uscire libri in grandissima quantità, anche con la flessione dovuta all’aggravarsi della crisi del settore negli ultimi anni.
A che serve allora aggiungere ancora altra carne al fuoco? Il perché ci appare evidente, nella posizione di piccolo editore quale Miraggi è, ma spesso anche in quella di lettori, grandi lettori, appassionati lettori. Migliaia di novità, e non trovare poi molto sale, tra gli scaffali delle librerie, come se si avesse spesso la sensazione che manchi qualcosa. E forse è proprio compito del piccolo editore, un po’ più libero, un po’ meno vincolato dalla dittatura dei grandi numeri, alla velocità usa e getta con cui si consumano e si soffocano le novità, continuare a cercare anche quelle “cose che mancano”. Da anni, ci sono editori che lo fanno, con senso etico, rischio personale e un successo non trascurabile. Non faccio nomi, il vero lettore sa.
Ci si chiede perché, allora, alcuni libri non vengano tradotti. O perché altri non siano più reperibili, a volte da decenni. La risposta, per noi, è venuta un po’ per caso parlando di libri, suggestioni e passioni con l’amico scrittore e traduttore e altre mille cose (Nazione indiana) Francesco Forlani, riecheggiando discorsi ripetuti tante volte con i miei soci Davide Reina e Fabio Mendolicchio. Aleggiano nell’aria le parole “Samizdat” e “Tamizdat” che, come sapete, erano le pubblicazioni clandestine che sfidavano la censura nei paesi d’oltrecortina. Samizdat, quelle “autopubblicate” di autori del posto, russi, cechi, polacchi ecc.; Tamizdat (dalla radice “tam”, là, altrove), quelle tradotte e importate clandestinamente di autori occidentali, o specularmente quelle di autori del blocco realsocialista portate in qualche modo fuori, nel mondo “libero”. Essendo di origine ceca, ovviamente mi sento subito a casa.
Certo, non siamo in una dittatura, e quei termini sono solo suggestivi. Però accade. Tornando alla domanda iniziale, accade ancora, e spesso, che libri che vorremmo, di cui possiamo ammettere di “aver bisogno”, libri che arricchirebbero il nostro dibattito pubblico, la nostra idea di letteratura, semplicemente non ci siano. In un momento storico non particolarmente grandioso del nostro paese, anche dal punto di vista dell’influenza culturale, ci sembra giusto e doveroso provarci, oltre che bello.
Così nasce Tamizdat, più progetto che semplice collana, che amplia l’orizzonte di Miraggi, che si è fatta conoscere per altro, e includerà testi molto differenti tra loro. Siamo partiti con un romanzo, Una storia tedesca, di Roger Salloch, e per il 15° anniversario dell’11 settembre è uscito un pamphlet incredibilmente negletto in Italia: Cari jihadisti, di Philippe Muray. Tra le prossime uscite, un testo, come gli altri della collana mai pubblicato nel nostro paese, di Venedikt Erofeev (Diario di uno psicopatico), la splendida prosa poetica del ceco Petr Král (Nozioni di base), e i racconti caustici del grande regista praghese Jan Nemec (Volevo uccidere JL Godard).
Nel 2017 partirà la collana gemella di autori italiani, che non poteva chiamarsi che Samizdat.
riportato sul blog di Giacomo Verri, chi non lo conoscesse può approfondire https://giacomoverri.wordpress.com/2016/09/16/alessandro-de-vito-presenta-tamizdat-la-nuova-collana-di-miraggi/
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