Ultimo libro dello scrittore ceco, morto prematuramente nel 2010, all’età di 49 anni, Chiedi a papà è la storia di un post mortem ambiguo e doloroso. C’è un padre che muore. E’ stato un medico, un uomo religioso e all’apparenza buono, stimato nell’ambiente cristiano evangelico di cui fa parte ma… qualcosa, durante la degenza e dopo la sua morte, arriva a turbare la vedova e i tre figli del Dottor Nedoma (che in ceco suona come “senza casa”). Sono lettere, lettere di grande violenza che citano le Scritture, invocano una punizione divina per il morto, una condanna di cui la malattia è solo una parte, a cui deve seguire una condanna in eterno “per espiare forse il sangue sulle sue mani”. Non sono anonime, le scrive il signor Petr Wolf, un ex insegnante di lingue (ha perso il lavoro per la sua intransigenza morale che lo ha messo in urto con il regime comunista del Paese) che fu grande amico del medico e le cui figlie giocavano con i figli di Nedoma quando erano ragazzine. Ma quali sono le accuse rivolte con tanta violenza dal suo ex amico? Non ci sono fatti circostanziati, imputazioni precise. Si parla genericamente di “mano sporca di sangue”, “scandalo”, “opera di distruzione”, si disegna il ritratto di un carrierista che si è macchiato di corruzione, forse addirittura di assassinio, di certo complice del regime. Saranno verità o calunnia? Sarà il delirio di qualcuno a cui le traversie della vita hanno minato la ragione o ci sarà qualcosa di vero? Solo lui, il padre morto, potrebbe dire come stanno le cose. “Chiedi a papà” diventa perciò un doloroso, inutile, paradossale arrovellamento che turba i figli, ovviamente senza risposta.
Su una trama esile (il signor Wolf e le sue lettere restano sullo sfondo) Balaban costruisce una serie di “quadri”, o “scene” – così potremmo definirli – dalle tinte ora forti ora tenui. Una ragazza dal sorriso splendente, “quasi bambina ancora”, che si droga sotto un alto pioppo nero; Kateřina, la figlia del medico, nella Valle della Černá Ostravice, dove lui la portava da bambina; un altro figlio, Hans, che si sente “perso nella vita” ed è rapito dal ricordo della testa di un bambino sul cuscino, nella notte (“Avere un bambino, stare con lui, avere paura per lui”). E poi lo scontro di Hans con il figlio adolescente, “il suo amato figlio”, che ora gli mente, gli urla contro.
Qua e là, echi di un cupo regime comunista, “dove ‘il partito’ fruga nelle vite private e detta legge”, dove il 1° maggio è una kermesse fasulla, dove nelle scuole medie è obbligatorio imparare il russo, “per amore dell’Unione sovietica”. E dove un professore dissidente viene cacciato dall’Università e trasferito a pulire i gabinetti. E quando divorzia, incontra una giudice crudele che gli vieta assolutamente di incontrare la figlia.
Attorno alla morte del padre e alle misteriose lettere, un intreccio di monologhi interiori, di riflessioni, di domande sul senso della vita e su quello della morte.
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