Come ha scritto sul Fatto Quotidiano Lorenzo Mazzoni, Il suono di Torino «è una bellissima e originale raccolta che narra il capoluogo piemontese attraverso un’operazione totale. Lo stile a puzzle di John Dos Passos e quello ermetico senza fiato di Nanni Balestrini si incontrano davanti a Mirafiori e si mischiano, con il gergo volgo-forbito di Vittorio Giacopini». Una scelta stilistica forte e per certi versi controcorrente, così come molti contenuti del libro scritto da Domenico Mungo, che in questa intervista ci svela i segreti del suo lavoro.
Il suono di Torino è indubbiamente un libro eterogeneo. Come lo definiresti?
«Oggi è quasi impossibile scrivere un romanzo classico, a mio parere, poi c’è che lo fa egregiamente, con intrecci e caratterizzazioni psicologiche congrue e coerenti. La contemporaneità è imprevedibile, così come la ricostruzione sistematica di un passato più o meno distante, come quella che sottende la narrazione di una storia altra di Torino. Ho così raccolto eventi importanti, simbolici, fondamentali, ma anche personali, ironici, tragici. Veri, verosimili o fantastici che hanno influenzato, sfiorato, intersecato la mia biografia e ho cercato di costruirne un romanzo contemporaneo, o meglio un anti-romanzo. Un esercizio stilistico ma anche di contenuti sperimentali. Con una trama sottesa che riaffiora carsicamente legando luoghi, vicende, personaggi. Confondendo i livelli della storia, certificata attraverso una rigorosa ricerca di fonti e testimonianze- essendo fondamentalmente io uno storico, un docente di letteratura e storia ed un ricercatore – e la fiction, cut-up sonori e visivi, brandelli di documentari e sceneggiature mutanti, epitaffi e visioni mistiche. Imbevute in un maleodorante tentativo di noir urbano postpunk. Questo in virtù del fatto che anche la mia esistenza è stata molto frammentaria, un romanzo a racconti ne è lo specchio più fedele. Io sono un artigiano della scrittura. Parto da una massa informe di informazioni, documenti, appunti, bozze, scritti che ho lasciato scivolare nel retrobottega della memoria o pubblicato altrove sotto forma di articoli, recensioni, appunti, epigrammi ed epitaffi e poi lavoro di cesello. Scavo. Sostituisco. Taglio migliaia di parole, paragrafi, capoversi, fino a raggiungere ad una forma più essenziale, agile e, mi auguro, organica per il lettore. Per me lo diventa, eccome! Torino rappresenta il paradigma della città globale, non intesa dal punto di vista delle dimensioni e dell’esorbitante numero di abitanti, bensì per l’eterogeneità talvolta schizofrenica del suo tessuto etno-sociale e culturale. Una città storicamente multilivello e contraddittoria. Città imperiale e plebea, monarchica e rivoluzionaria, operaia e capitalista, avanguardia delle emancipazioni e roccaforte del conservatorismo, allevata dalla cultura istituzionale, editoriale, einaudiana, rigenerata ed innervata dalle contro-sottoculture di fine millennio, nobilitata dalle lotte operaie e studentesche e genuflessa alle logiche del neobusiness globale dalla riqualificazione ambientale, culturale e politica posteriore alla crisi dell’industrialismo novecentesco. Laboratorio di rivolta e repressione. Capitale dei buoni sentimenti di De Amicis e Fogazzaro, dell’ipocrisia piemontarda del Bicerin e Fiorio, ma anche dell’esoterismo nero, del razzismo scientifico di Lombroso, del taylorismo esasperato, della follia visionaria edesotica di Salgari, del pessimismo suicida di Pavese, della rabbia dei quartieri e dei vernissage internazionali del libro, dell’auto, dell’arte e della repressione. Del monopolio delle risorse pubbliche per cultura ed entertainment appanaggio dei soliti noti, degli spazi sociali autogestiti strappati all’asfalto, al degrado e all’ottusità del demanio al prezzo di arresti, denunce, torture, assassini di Stato e fiere occupazioni ancora r-esistenti. Era pertanto difficile rendere omogenea una matassa geneticamente incoerente. Era difficile raccontare una sola Torino. Era necessario osare una formula ibrida, urticante, uggiosa, palesemente devota alla letteratura classica e oscenamente debitrice delle avanguardie letterarie internazionali. Bisognava osare, infarcire le parole di suoni ed i suoni di parole. Un mosaico presente e chiaro nella mia mente, ma arduo da dipanare organicamente all’uso del lettore prosaico e diffidente. Il suono può essere pertanto considerato un romanzo sperimentale, multilivello, fraudolento in quanto spaccia per raccolta di racconti quello che la mia inerzia indolente non ha voluto trasformare in un romanzo composito e coerente».
I racconti nella letteratura italiana hanno spesso faticato a trovare spazio tra i lettori: perché hai scelto questa forma?
«Ritengo che nell’epoca della sovraesposizione iper-cinetica della comunicazione, laddove i tempi di reazione all’istantaneità sono ridotti a pochi frammenti di tempo e la soglia di attenzione, soprattutto dei più giovani, è ridotta a brandelli infinitesimali, il racconto – che può essere letto per intero senza interruzioni, compreso e analizzato anche in un tempo limitato – rappresenta un’opportunità usufruibile facilmente e positivamente. Brevità ed intensità caratterizzano il racconto, congeniale pertanto ai nostri tempi convulsi e frammentati. Nel Novecento, peraltro, tutti i grandi autori della letteratura italiana e straniera si sono confrontati con la misura del racconto attraverso storie di fatti concreti e coinvolgenti soprattutto alla portata dei lettori più giovani. Leggere, i racconti in particolare, significa incontrare dei personaggi, farsi imbrigliare ed affascinare subito da una storia, da un intreccio e da un epilogo abbastanza rapido ma anche dal modo di raccontare di chi scrive e narra. Attraverso il racconto, talvolta, è più agevole comprendere i contenuti di una storia, ma anche i pregi estetici, le caratteristiche stilistiche, la delicata poesia e/o la sottile ironia che li pervadono». Tutti i maggiori autori del Novecento sono riusciti efficacemente attraverso il racconto, talvolta anche più che con il romanzo lungo, a lambire ed approfondire – sembra una contraddizione in termini data l’essenzialità del racconto – efficacemente il nostro paese e ci danno il senso della ricchezza lessicale e delle vivacità creativa e spesso sperimentale della nostra lingua. Pertanto la mia risposta a questa domanda ribalta i termini: sono io che chiedo a voi “non è il racconto ad essere entrato in crisi, ma piuttosto non è forse vero che l’industria editoriale non è più disposta a riempire cataloghi, scaffali, distribuzione e visibilità con raccolta di racconti, antologie o racconti singoli?”. Bisogna vendere prodotti, che giustifichino costi di copertina adeguati, e non che abbiano l’esigenza primaria di raccontare e basta. Ecco, ritengo che non sia il racconto ad aver perso la sua forza narrativa, speculativa e divulgativa, bensì il correre forsennato dei tempi che assembla e omologa tutto al maggior consumo possibile per il maggior numero di pagine possibile».
Il libro è anche un duro atto di accusa nei confronti di Torino…
«Torino è una madre ingrata. Torino da secoli fagocita tutto ciò che raggiunge le sponde del Po. Partorisce, accoglie, nutre, alleva, fortifica, deprime, reprime, sbrana e sputa via. Un Conte Ugolino sopraffatto dalla storia, un Abramo che non viene fermato da Dio un attimo prima che il sacrificio abbia luogo. L’aspetto gotico, soffusamente noir e seriale, che sottende la sciarada di racconti vuole perorare la tesi che il vero responsabile di questa ecatombe è la stessa Torino transgender: un uomo-donna nero, con un cappellaccio ed un coltello a serramanico nascosto sotto il mantello. Si aggira tra Villarbasse dove compie un efferato eccidio rurale e Porta Susa a traino delle squadracce fasciste di Brandimarte inviate da Mussolini nel 1922 ad impartire una dura lezione a quella porca Torino avanguardia del Biennio Rosso, facendo capolino tra i Murazzi e Piazza Vittorio. E i suoi sotterranei. Si accanisce sulla Val Susa sotto forma di treno ad alta velocità e mortalità. Incendia il Cinema Statuto e fugge tra i mortaretti di un carnevale tragico e spolverato di neve fangosa. Deporta milioni di meridionali nella fabbrica sottratta ai nazisti dagli scioperi di guerra del ’44 con l’illusione del boom economico per incatenarli alla catena di montaggio di corso Agnelli e lasciarli senza lavoro, quindi condannarli alla morte sociale, dopo le occupazioni del 1980 ed il tradimento dei 40mila crumiri. Dal suo sottosuolo emergono artisti, musicisti, assassini, scrittori, ribelli, infami, venduti, eroi, tossici, tatuatori mistici, ultras, anarchici, pezzenti, santi e filosofi, puttane e spacciatori. E tutti muoiono a Torino oppure sopravvivono morituri, oppure incidono con il loro sangue la lapide del muro di suono digrignante che viene prodotta negli altoforni della sua civiltà industriale sepolta da un piano regolatore di riqualificazione urbana eppure disumana. Gli esempi sono decine disseminati in quasi tutti i 31 racconti, ma in realtà a me serviva un capro espiatorio, un assassino seriale, un’antropizzazione di un concetto allegorico, politico e storico per delineare organicamente il corpus tradizionale di un romanzo che, tradizionale, non lo è per niente. Pertanto la metafora che domina l’incedere del volume è caratterizzata dalla duplice icona della Torino omicida seriale che perpetra un’ecatombe lunga un secolo. Imprendibile e responsabile di lutti e sciagure come il Solito Sconosciuto che conclude, tragicamente, l’epopea rurale di Fontamara. È comunque questo un lavoro ancora nella sua fase iniziale ed incompiuta, poiché prevedo Il Suono come la prima parte di una trilogia torinese, il cui sequel è già in cantiere con il titolo del L’Altro Suono di Torino, una raccolta dei racconti in negativo di quelli comparsi nel primo volume, in grado di incastrarsi nelle zone d’ombra volutamente lasciate sospese e finalmente completare la cornice spazio-temporale e di causa effetto dei racconti».
Quanto c’è di autobiografico e quanta parte ha la fiction nella tua opera?
«La maggior parte dei racconti sono veri o verosimili. Lo spazio per la fiction è relegato al connettore delle diverse storie, costruito attraverso il grezzo canovaccio dell’eccidio di Villarbasse: una sorta di onirico gotico, allegorico neorealista. I criteri di scelta sono quasi sempre legati all’emozione, al sentimento, al caso e ad una buona dose di culo».
A rappresentare un filo conduttore tra le pagine è anche la musica punk…
«I racconti sono intersecati dalla liriche blasfeme ed insolentemente anarchiche dei Nerorgasmo, seminale punk rock band torinese che a cavallo dell’inizio degli anni 80 significò molto per la controcultura torinese e nazionale, ma anche di numerosi altri gruppi torinesi e non solo, ma anche di Lucio Dalla, Fred Buscaglione e gli eroi del rock e del punk internazionale. Il Suono di Torino è anche il ronzare impenitente delle sue chitarre digrignanti rabbia&disperazione, poesia e melodia in battere e levare, colate di velluto e bitume e cipressi distorti da un Marshall in eruzione incastonato in un giardinetto emostatico di Mirafiori e della Barriera di Milano.
In un’intervista hai dichiarato che “più le imprese sono disperate e più mi affascinano”: qual è oggi un’impresa disperata?
Credo che gli scrittori debbano osare, oggi più di ieri. Credo in un ruolo ancora destabilizzante, curioso, provocatorio, puro ed ingenuo dello scrittore rivolto alla società contemporanea, ed alla narrazione dei suoi mutamenti genetici e cronologici. Vedo attorno a me decine di scrittori bravi, ma sostanzialmente innocui. Ottemperati alla catena di produzione industriale della scrittura: al posto giusto nel momento giusto, senza incidere sulle coscienze, ma accompagnandone lo scorrere nell’alveo della normalità. Al cadenzar della periodicità stabilita dai contratti estorti e dal copyright e non dall’intuizione e dal talento. Osare, bisogna osare, come ha fatto la casa editrice Miraggi nel voler testardamente pubblicare Il suono di Torino, altrimenti la letteratura rimane ancella del consumismo e non si emanciperà mai come sua Cassandra. Io sono un disperato perché ti voglio amare…