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Ho scoperto di essere morto, scritto dal brasiliano J.P. Cuenca, Miraggi Edizioni, è un testo arrabbiato che traduce, in crescenti allucinazioni, un provocato abbrutimento intellettuale che offusca le più segrete inclinazioni. La voce guida gioca tra l’elenco di vie brasiliane e ricorrenti trip geografici, con un rigurgito verbale che palesa incontinenza e irrequieto intorpidimento.

Le prime pagine narrano una lite ordinaria e improvvisata tra il protagonista scrittore João Paulo, in palese rapporto di omonimia con l’autore, e i vicini; il decollo del testo si sovrappone alla progressiva spirale che intrappola l’angoscia primordiale, sia singolare che collettiva, esemplificata dal momento in cui Cuenca viene a scoprire dalla polizia che esiste un verbale che notifica il suo decesso.

All’epoca di questa morte presunta lui però era in Italia a presentare la traduzione italiana del suo libro “Un giorno Mastroianni”. Inizia il gioco: la pedina salta tra le macerie di Rio De Janeiro mentre riprende con un grandangolo inanimati salotti e scolorite favelas, simboli concreti di un timido orizzonte; a João Paulo Cuenca non resta che cercare di svelare l’immenso mistero che fascia come mummia la sua identità.

Nell’atmosfera rarefatta in cui si muovono i Carioca, il mistero diventa sempre più intrigante e confuso, si susseguono pagine imbastite di idee altrettanto confuse in una trama che coinvolge e a sua volta vuole confonderci. Mi sono confusa pure io.

“tutte le strade, non appena ci posavo sopra il piede, si trasformavano in deviazioni”

Abbaglia il riflesso di un grigio sky line allo sfascio in cui si crea un vortice artistico-letterario simboleggiato dallo scrittore, che ci affida uno stile noir con cui vaghiamo per Rio de Janeiro, in un momento di catarsi che prende in giro l’opinione mondiale in attesa delle Olimpiadi, su un terreno comunque violentato.

La scrittura frammentaria potrebbe essere una confessione disturbata che ci fa compulsivamente entrare ed uscire dal testo e dalla finzione: non possiamo capire se l’episodio della presunta morte sia realmente avvenuto ed è proprio il modo più geniale per spalmare la curiosità tra le pagine in cui ritroviamo Cuenca pure in Italia; sappiamo che consegna all’amico Protz un manoscritto da leggere, manoscritto che poi non ha concluso, molto verosimilmente anche per le critiche dell’amico che lo trovava troppo intriso di invettive politiche.

A mio avviso, guardandomi bene da desueto perbenismo, il romanzo è puntellato di trivialità sessuali che però, riconosco, concorrono a restituirci attentamente l’immagine di un soggetto disubbidiente che osserva insieme a noi da un oblò la propria e altrui alienazione.

“mi sentivo come se fossi di vetro…. il sole di mezzogiorno mi trasformava in un corpo senza ombre. La mia testa si gonfiava come un pesce palla che incamera aria per poi ridursi subito fino a scomparire”

Si costruisce via via un palco dell’assurdo in cui recitano un uomo, la proiezione di sé con immediata negazione e fittizio ritrovamento; si crea un procedimento triadico che ricalca la sequenza hegeliana sciolta tra tesi, antitesi e sintesi per spiegare il momento intellettuale soggiogato dal momento negativo che sfocia nella più contorta speculazione.

Il romanzo è stimolante, folle, esagerato, macabro, forse realista? E’ un processo morale, contro se stesso e la sua città, tramite cui il lettore resta confinato in un’area deserta e labirintica senza spazio e senza tempo.

“Il presente non era più un punto di transizione del passato verso il futuro, e tanto meno uno spazio di ricreazione di questo passato e di questo futuro: era una ripetizione infinita di se stesso senza il minimo scopo”

Il manoscritto si interrompe a pagina 165 durante l’alba che proietta ombre.
“quella morte era tutta mia”

Ombretta Costanzo