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Il bambino di Ragagnin

Nel cortiletto della libreria Milton sono tornate a risuonare le voci dei libri grazie al coraggio di Carlo, Serena e della casa editrice Miraggi. È stato presentato Il bambino intermittente: diretta streaming e firma copie per i lettori di Luca Ragagnin, già candidato allo Strega 2019 con Pontescuro (proposto da Alessandro Barbero). Torinese, dotato di estro poliedrico, dopo aver esordito come poeta negli anni ’90 (vincendo il premio Montale) Ragagnin ha proseguito come autore di romanzi, racconti, testi teatrali e canzoni (anche per Mina, Antonello Venditti e Subsonica). Nella sua ultima opera ha racchiuso le memorie di una vita.

Com’è nato il romanzo?

«Quattro anni fa, mentre stavo scrivendo altre cose, ho sentito l’esigenza di raccontare un periodo abbastanza lungo della mia vita di Berg, personaggio che in qualche modo mi appartiene. Con molto pudore potremmo definirlo un romanzo di formazione: in fondo si segue la crescita di Berg, nome principale del protagonista che nel libro ne assume diversi altri. Una delle sue caratteristiche più importanti, comune a tutti i bambini, è una sorta di esubero di fantasia, per cui vive le sue esperienze e i fatti che gli capitano stravolgendoli. Di solito lo scarto che si crea tra la sua interpretazione e la realtà è buffo e divertente. Manterrà la caratteristica fino all’età adulta, producendo una serie di eventi agrodolci, che sono un po’ la mia cifra stilistica».

Chi è il bambino intermittente?

«L’intermittenza riguarda i pensieri di Berg sul mondo, le persone, i bambini che incontra all’asilo, poi a scuola, all’oratorio, poi anche nella vita adulta, durante il primo scontro-incontro con l’altro sesso, ma anche le problematiche sociali che gli si presentano quando è adolescente, dato che ci troviamo alla fine degli anni ’70. Nel romanzo si attraversano gli anni di piombo, delle droghe, fino ad arrivare alla data simbolica dell’11 settembre 2001, che rappresenta la morte dell’Occidente. Con questo disincanto e intermittenza, Berg vorrebbe agire, fare, collocarsi nel mondo, ma poi finisce spesso per fare l’opposto».

Con quale approccio hai ricostruito quel periodo?

«Ho cercato di ricordare il mio passaggio in quegli anni, Berg è un po’ un mio coetaneo (leggermente più giovane), è un bambino e poi un adolescente che ha pochi mezzi conoscitivi, come pochi ce n’erano in quegli anni. Non capisce, chiedi lumi a sua madre che è una professoressa e che ha a che fare anche con ragazzi problematici. In fondo i terroristi che incontra sono appena più grandi di lui, ma sono irraggiungibili per la sua comprensione. Neanche la madre ha delle risposte, cerca solo di approntare delle difese, mettendogli dei divieti minimi per evitare rischi (no treni, no mezzi pubblici, no manifestazioni)».

Il tuo romanzo precedente aveva un aspetto favolistico. Hai mantenuto anche qui quel tipo di narrazione?

«In questo libro lo scopo principale è preservare la memoria, per quanto aberrata dalle caratteristiche del personaggio che l’attraversa. In pandemia a malapena ricordiamo un mondo che è scomparso 15 mesi fa, immagina lo sforzo per ricostruire il mondo degli anni ’70 e ’80, anche nel modo di vivere la gioventù in una città industriale con pochi spazi».

Che rapporto hai con le Langhe e i suoi scrittori?

«Un rapporto stretto. Ci vengo spesso. Considero Milton di Carlo Borgogno una seconda casa. Con Enrico Remmert abbiamo scritto per Laterza L’acino fuggente, una scorribanda nei territori del vino tra cui soprattutto il Roero e la Langa. Gli scrittori come Pavese, Fenoglio, Lajolo li ho amati e li apprezzo molto, ma vorrei citare anche Marco Giacosa, che è originario di qui e ha appena pubblicato lo splendido Langhe inquiete».

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