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Strano ma ricco questo libro, Il gigante folle (Miraggi edizioni, pp. 316, euro 20,00); e con un titolo misterioso. E ancora più strano – davvero molteplice e affascinante – l’autore, Vladimir Zabughin: un russo nato a Pietrogrado, quella che poi è diventata Leningrado e San Pietroburgo, figlio di un alto funzionario del ministero delle Finanze dell’impero zarista; ma fin da giovane grande appassionato della cultura italiana e latina, in particolare umanistica e rinascimentale. A Pietrogrado si laureò in storia e filologia e ottenne un premio prestigioso, un viaggio di perfezionamento a Roma, dove già nel 1911, all’età di 31 anni, conseguì la libera docenza alla Sapienza in Letteratura umanistica. Intanto, aveva sviluppato il suo percorso religioso. Convertito al cattolicesimo di rito orientale, a Roma si legò all’abbazia di San Nilo a Grottaferrata, che ancora oggi esiste ed è completamente dipendente dalla Santa Sede: era ed è la sede principale dei cosiddetti «basiliani» in Italia. A San Nilo andò a dirigere la rivista «Roma e l’Oriente», per creare già allora quella forte liaison religiosa, ma anche politica, tra cattolici e ortodossi, che avrebbe avuto un vero profilo solo col Concilio Vaticano II.
Intanto Zabughin all’Università si era occupato della cultura latina nell’Umanesimo e nel Rinascimento, e incominciava a produrre saggi e libri (anche ponderosi) che sarebbero diventati importanti: a partire dai tre volumi (tradotti anche in russo) dedicati a Giulio Pomponio Leto, umanista del Quattrocento, studioso e cultore di storia romana e bizantina; per continuare col Vergilio nel Rinascimento italiano (Zanichelli 1921-’23; ristampa anastatica a cura dell’Università di Trento nel 2001), fino alla Storia del Rinascimento cristiano in Italia uscito postumo nel 1924. Perché, come se non bastassero le altre singolarità, Zabughin morì giovane in Alto Adige, caduto il 13 settembre 1922 in un ghiacciaio del monte Cevedale (venti giorni prima, il 25 agosto, il Corriere della Sera aveva dato notizia di un suo record alpinistico!).
Ma non è finita. Zabughin era un vulcano di iniziative che riguardavano vari ambiti, compresi i rapporti con la diplomazia. E veniamo a questo Il gigante folle: si tratta della ristampa, accompagnata da un ricco saggio biografico di Gian Paolo Castelli e altri contributi, di un libro che lo storico russo pubblicò nel 1918 da Bemporad. E il sottotitolo spiega l’arcano del titolo: Istantanee della Rivoluzione russa. Proprio così, «istantanee», perché il libro racconta il viaggio che Zabughin fece in Russia tra il giugno e il novembre 1917, i mesi in cui ebbe e si sviluppò la «Rivoluzione russa».
Il viaggio era stato progettato da Vittorio Scialoja, ministro senza portafoglio per la Propaganda durante la prima guerra mondiale, quando il primo ministro era Paolo Boselli. Dalla relazione per Scialoja, scritta giorno per giorno e consegnata al Ministero degli Esteri dopo il viaggio, nacque appunto Il gigante folle, e un saggio di Scialoja ne è la prefazione. Un libro «che può dar la misura della sua virtù di non tiepido osservatore della realtà e delle sue doti di scrittore spedito, efficace, spesso anche arguto»: così lo commentò a ragione, in un necrologio di Zabughin, il famoso «Giornale storico della letteratura italiana». È vero. Le «istantanee», scritte in mille modi, sono centinaia, stese via via durante il lunghissimo attraversamento della Russia, che in quel momento era in guerra con i tedeschi: passando da Pietrogrado fino al monte Ararat, attraverso le linee del fronte, a Riga, in Polonia, in Romania e in Ucraina; e ritorno.
Ma ovviamente il cuore è Pietrogrado, dove Zabughin seguì con precisione i durissimi e lunghi conflitti che si aprirono tra le varie forze politiche nate dopo la cacciata dello zar. La «rivoluzione russa» del titolo non è quella bolscevica e di Lenin, che si avviò a luglio, ma esplose veramente per «ventisei ore, dall’una antelucana del 25 ottobre alle tre del 26» (e fu un testimone, come ora sappiamo, a raccontarlo). Erano gli scontri riguardanti in particolare Alexander Kerenskij, che nella «rivoluzione di febbraio» era stato ministro di Giustizia come membro del Partito socialista rivoluzionario e poi primo ministro, vero leader in quella rivoluzione. Un uomo che Zabughin adorava: «dionisiaco, sfolgorante, alto di mente e di cuore» (così lo descrive a pagina 247). Invece per lui Lenin diventa un «Dalai Lama» (p. 85) e il «ciarlatano più servizievole» (p. 275); mentre definì la più celebre delle bolsceviche, Alexandra Kollontaj, «la Marfisa della rivoluzione» (p. 147) tanto per ricordare che l’autore sapeva anche di Ariosto.
Sono pagine e pagine che descrivono gli scontri, la corruzione, gli affarismi che si intravvedono attraverso i conflitti del 1917 e però lasciano anche emergere le tendenze e l’atteggiamento del giovane intellettuale russo nel proprio paese: odiava i contadini (erano riusciti a guadagnare di più nell’esercito come soldati) e gli operai, che «andavano in giro, vestiti con inaudita eleganza» (p. 133); per questo considerava invece i borghesi i veri perseguitati da quella rivoluzione («borghesi affamati e grassi proletari», p. 165). Quanto all’ufficiale dell’esercito, era convinto che quello russo (a differenza degli italiani e dei francesi) «è di tempra alquanto femminea» (p. 162). Zabughin vede ogni cosa, anche lo zar decaduto e la famiglia e i suoi appartamenti, e tratta tutto con un certo disprezzo: perfino il «sottotenente russo che esortava gli amici a non dare elemosina a un lazzaroncello stracciato che la chiedeva in tedesco»
Quello a cui si assiste nel lungo racconto è un «immenso carnevale» che contiene di tutto: i «cadetti» – il partito liberale che prese il potere, «liberaloni con comica gravità» (p. 102) e con una «rassegnata cretinaggine collettiva» (p. 164); ma anche la «microcefala mentalità socialista» (p. 127) dei rivoluzionari che appoggiavano Kerenskij (e un po’ anche quella dei bolscevichi). Due pagine vengono dedicate perfino a Trotzki, che l’intellettuale incontrò il primo novembre 1917, quando la rivoluzione vera e propria, quella bolscevica, era partita e Zabughin voleva ormai «infilare l’uscio del colossale manicomio russo». A Trotzki chiese il passaporto per scappare, e lo ottenne. Lo descrive così: «È chiomato, barbuto e molto brizzolato». Ma il viaggiatore è anche feroce: «ha l’aria annoiata di colui che aspetta un mondo d’affari, senza che ne venga neppure uno».
Si può capire perché un libro così complicato fu più o meno ignorato dalla cultura, dai giornalisti e dai comunisti dell’epoca. Per contro fu esaltato da Giovanni Gentile, che nel novembre del 1918 ne scrisse una recensione favorevole sul giornale di Bologna Il Resto del Carlino. Anche questo è un dato di rilievo, che ci dice qualcosa di questo intellettuale complesso e interessante: come spiega Gabriele Turi nella biografia del filosofo, l’anno dopo, nel 1919, proprio quell’entusiasmo permise a Gentile di imporlo come nuovo incaricato di Letteratura umanistica all’Università di Roma. Ma anche per questo Zabughin ebbe dei problemi con la cultura italiana (ne ha parlato di recente con grandi dettagli uno studioso bolognese, Francesco Sberlati): troppo «religiosa» la sua lettura della storia dell’umanesimo, in un periodo in cui Gentile stava cercando di far penetrare il cattolicesimo nella cultura italiana. Non stupisce che, in proposito, non fosse piaciuto a Croce e neanche molto a Gramsci, che nei Quaderni del carcere ne respinse (come Croce) il «rinascimento cristiano». Ai laici veri non piaceva proprio.

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