Nell’agosto del 1986 andai con alcuni amici in vacanza a Praga. C’era ancora il regime e fioco era il soffio della Primavera.
Poco tempo prima di partire ero entrato in contatto con uno studioso e traduttore di letteratura ceca che era un amico di amici. Ci eravamo scritti qualche volta e alla vigilia della partenza mi telefonò e mi suggerì itinerari alternativi a quelli turistici consueti. Poi mi chiese un favore. Mi chiese se, durante la mia permanenza, sarei potuto andare in uno dei musei della città. Vi lavorava come impiegato un suo amico. Aveva dei manoscritti che avrebbe voluto e dovuto far arrivare in Italia. Me li avrebbe consegnati in occasione di una mia visita al museo. Quell’impiegato era stato, ai tempi della Primavera di Praga, docente all’Università. Dopo la normalizzazione non lo avevano più assunto e lo avevano collocato in una posizione lavorativa che, certo, non gli competeva. Questo era il prezzo che aveva pagato per il suo impegno.
Senza riflettere molto dissi di sì, che ero disponibile. Le preoccupazioni vennero dopo.
Immaginai che quello scritto fosse un samizdat.
Quando fummo a Praga, proprio il giorno dopo il 21 agosto, quando la polizia e l’esercito presidiavano Piazza S. Venceslao per timore di proteste in occasione dell’anniversario dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, andammo al museo. Cercai l’impiegato, ma mi dissero che era in ferie. Non ho mai capito se quella fosse la verità. Nei giorni seguenti, però, sia io, sia gli amici con cui ero, avemmo la strana sensazione di essere controllati. Poteva essere una nostra paranoia, però quella sensazione rimase sino all’ultimo giorno della nostra permanenza là. Pensai anche che molti praghesi dovevano vivere quotidianamente quello stato d’animo che noi stavamo vivendo eccezionalmente.
Continuammo la nostra vacanza senza scrollarci di dosso la pesante percezione di essere seguiti e controllati.
L’ultimo giorno del nostro soggiorno partimmo da Praga, destinazione Brno dove andammo a visitare lo Spielberg. Poi proseguimmo fino alla frontiera con l’Austria. Al confine ci smontarono letteralmente l’auto alla ricerca di non so cosa, forse di un samizdat. E’ vero che, a quei tempi, era prassi consolidata fermare per lunghe ore le auto e ispezionarle in modo ossessivo. Ma noi ci insospettimmo ulteriormente e ci preoccupammo molto. Passarono delle ore poi ci lasciarono andare. Quando arrivammo dall’altra parte tirammo un sospiro di sollievo. Eppure né io, né gli amici che mi avevano accompagnato ci pentimmo di essere andati a cercare quell’impiegato che doveva consegnarci i dattiloscritti anche se la missione era fallita, ma non per colpa nostra. Nessuno di noi voleva fare l’eroe -ci mancherebbe altro! Gli eroi compiono ben altre azioni!- però ci dicevamo che sì… per i libri… per la letteratura… per la letteratura si può e si deve rischiare…
Faccio un passo indietro. Per paradosso, mentre stavo facendo la valigia, dopo aver accettato di far visita all’impiegato del museo, non vi misi “Praga magica”, lo splendido libro di Angelo Maria Ripellino.
Angelo Maria Ripellino è stato uno straordinario intellettuale e un grandissimo studioso della letteratura ceca. Quello che abbiamo conosciuto di essa, soprattutto in quegli anni, è stato grazie a lui. “Praga magica” (Einaudi. 1973), proibito in Cecoslovacchia, era un libro che avevo letto, riletto, annotato e pieno di post-it. Lo avrei voluto portare con me e usarlo come guida. Dovetti rinunciare.
Angelo Maria Ripellino non è famoso solo per “Praga Magica”, ma anche per a aver scritto una bellissima “Storia della poesia ceca contemporanea” (E/O. 1981), per averci fatto conoscere ed essere stato uno dei traduttori di alcuni testi di uno dei più famosi scrittori praghesi, Bouhmil Hrabal, per averci fatto conoscere un altro grande scrittore di Praga, Ladislav Fuks. Sua la cura de “Il bruciacadaveri” (Einaudi 1972) con la traduzione della moglie Ela Ripellino Hoclova. Suo il merito di aver affidato la traduzione di “Una buffa triste vecchina” (Garzanti 1972), ad una delle sue allieve, che sarebbe diventata un delle più importanti slaviste italiane, Serena Vitale.
La mia vicenda autobiografica, il lavoro di Ripellino, i libri di Ladislav Fuks mi sono venuti simultaneamente alla mente – e non è un caso- e non mi hanno più abbandonato, durante la lettura del bellissimo e sorprendente “Il lago” della scrittrice praghese Bianca Bellovà (Miraggi. 2018), romanzo vincitore, nel 2017, del Premio Unione Europea per la Letteratura e del Premio Magnesia Libera della Repubblica Ceca.
Alcuni personaggi de “il lago”, come la Vecchia Dama, come il presidente del Kolchoz, come Nikitich, come Jhonny, ricordano i personaggi di Fuks: come marionette, appaiano e scompaiono in un clima da fiaba nera.
A questo punto, però, è necessario soffermarsi sul libro di Bianca Bellovà che la casa editrice Miraggi ha pubblicato nell’ottima traduzione di Laura Angeloni in una collana che è stata felicemente battezzata NovàVlana, “Nouvelle Vague”. Bello quello che si legge in fondo al libro:
“NovàVlana è la nuova collana italiana di letteratura ceca e prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca degli anni della Primavera di Praga.
In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali”.
Aggiungo che è molto bello vedere che tra le prossime pubblicazioni figura proprio il libro di Fuks “Il bruciacadaveri”, ormai introvabile.
“Il lago” è una fiaba nera, nerissima, è un romanzo di formazione, è una ricerca, a tratti disperata, delle origini, è una denuncia della dittatura, della presenza russa, quasi una forza di occupazione, nelle zone del lago di Aral, è una denuncia della terribile catastrofe ecologica che ha colpito il lago . Anche se i villaggi hanno nomi inventati e il nome della capitale non è mai citato, il lago di Aral è facilmente identificabile. Il prosciugamento del lago di Aral è stata, ed è tuttora, una delle più grandi catastrofi ecologiche del novecento. Questo lago salato, di origine oceanica, si trova alla frontiera tra Uzbekistan e Kazakistan. Dal 1960 la sua superficie si è ridotta del 75% e dei 68.000 chilometri quadrati originali ne resta solo il 10%. Il restante 90% è sabbia. Il regime sovietico aveva fatto deviare il corso di due fiumi che si immettevano nel lago tramite dei canali. L’acqua prelevata andava ad irrigare i campi a coltura intensiva, soprattutto quelli di cotone. Senza l’apporto dei fiumi il lago si è prosciugato e, inoltre, nei campi di cotone sono stati usati diserbanti peggiorando la già terribile situazione.
Si diceva che il libro è, tra le altre cose, un libro di denuncia: della catastrofe ambientale e della presenza russa in quelle zone.
La denuncia della presenza russa risulta evidente dalla descrizione delle piazze e dei villaggi: in ognuno di essi troneggia la statua o il busto dello Statista. Che potrebbe essere Stalin ma, ancora più verosimilmente, Putin, quel Putin anche troppo vezzeggiato da alcuni paesi dell’occidente.
E’ soprattutto la descrizione di questa presenza che mi ha fatto rammentare, mentre leggevo, Ripellino e il mio soggiorno a Praga nel 1986, quando si era in piena dittatura.
Bianca Bellovà scrive:
“Questo è l’inferno. Un lembo secco di terra su cui non crescono nemmeno i cardi. Non dà niente di cui vivere. Perché dovremmo rimanere qui a sgobbare per i russi, che hanno cacciato tutta questa gente dalle loro case? Non ha senso!” (pag.143).
Torno brevemente alla trama: Nami è orfano, vive con i nonni che, poi, moriranno sul lago. In un periplo intorno al lago, quel lago così inquinato che produce bambini deformi, eczemi, sintomi di ogni genere in chi si bagna nelle sue acque che sempre più si ritirano, egli è alla ricerca della madre, quella madre che, forse, gli appare nelle prime pagine del romanzo in forma di bikini:
“Dev’essere domenica, se sta lì sulla coperta col nonno e la nonna. C’è qualcun altro, Nami ricorda le tre macchie rosse di un costume. I te triangoli di un bikini, e sopra, un fascio di capelli neri ben pettinati, una coda di cavallo. E due ciuffi di peli neri sotto le ascelle. I tre triangoli si muovono lenti, girandosi e rigirandosi sotto il sole finché ne resta uno solo. Non lontano dalla riva un pesce gatto fa guizzare pigramente la coda” (pag. 5).
Questo è il notevole incipit del libro. Un primo capitolo che si intitola “Uovo” e che è ambientato nel paese di Boros. Ma è l’incipit di ogni capitolo che ha grande forza narrativa e introduce immediatamente al tema. Il secondo capitolo è intitolato “Larva” ed è ambientato nella capitale che è così descritta:
“Se dovesse descrivere la città, Nami non saprebbe da dove iniziare. I palazzi sono così alti che Nami tende istintivamente a farsi piccolo e i suoi occhi cercano di continuo l’orizzonte. L’aria è piena di clacson che strombazzano, di marmitte che scoppiettano e grida. Una donna rimprovera ad alta voce un bambino che piange. Si sente odore di escrementi, ma anche profumi dolci e di grasso di frittura. In aria svolazzano fogli sporchi e polvere. Le persone hanno un aspetto un po’ diverso; gli occhi sono più luccicanti, luminosi, e si muovono più velocemente. Anche i cani vagabondi sembra vadano più di fretta. I muri sono coperti di vari strati di manifesti colorati. In basso si staccano, raccogliendo la polvere nell’aria” (pag,64).
Il terzo capitolo, “Crisalide”, ambientato nel villaggio di Kuce, inizia così:
“Kuce è un villaggio in mezzo al deserto, raggiungibile dalla capitale dopo undici ore di strade polverose. Lungo il villaggio scorre un canale che irriga i campi di cotone. E’ stato scavato anni prima dal fiume Dera, che sfocia nel lago. In qualsiasi direzione guardi, Nami non vede altro che infiniti campi innevati di cotone: cotone, cotone, cotone” (pag.131).
E, infine, il quarto e ultimo capitolo, “Imago”, il capitolo del ritorno, dapprima alla capitale, poi a Boros comincia in questo modo drammatico:
“Il viaggio per la capitale è lunghissimo e spossante. Nami ci mette quasi una settimana intera, un pezzo in autostop e poi dei lunghi tratti a piedi. Dalla strada vede in lontananza un villaggio bruciato. Incontra varie colonne militari russe. I soldati sono taciturni, smarriti nei loro pensieri. Il deserto sembra non aver fine, ormai si trascina fino alla capitale. La città è ammutolita, lungo la strada, a dargli il benvenuto, trova carcasse bruciate di automobili, le vetrine dei negozi sono rotte o coperte da assi inchiodate. Le bancarelle del bazar sono abbandonate e distrutte, in aria svolazzano pezzi di giornale piegati a cartoccio, quelli in cui si vendono i semi di zucca tostati”. (pag. 153).
Il titolo di ogni capitolo è un passaggio evolutivo, segna il processo di crescita di Nami. Egli attraversa paesaggi in cui il lago, con la catastrofe ecologica che porta in sé, è sempre presente. Paesaggi costellati dall’ingombrante presenza russa e costellati di rovine, quelle rovine che hanno ispirato importanti riflessioni a Walter Benjamin e che Bianca Bellovà tratteggia con grande efficacia:
“Il sole è ormai basso, l’orizzonte dietro la baia si colora di rosso. Contro di esso si stagliano gli scheletri dei pozzi petroliferi, alti animali estinti, mostri a sette livelli con le schiene intessute di scale traballanti. Si ergono sulla superficie sopra delle piattaforme che di tanto in tanto lo Spirito del lago fa affondare sott’acqua; ma oggi no, il lago è calmo e la serata gradevole” (pag. 80).
In un mondo dove sembra si sia rotto ogni legame sociale e dove la presenza russa si fa sentire in ogni manifestazione della vita quotidiana, Nami, nel suo viaggio, incontra anche persone a cui è rimasto ancora un barlume di pietas come Nikitich, sfruttato come lui, il marinaio traghettatore Vaska che, con rassegnata indignazione seguirà la caccia agli animali presuntamente contaminati che vivono in un isolotto del lago non lontano dalla capitale e che aiuterà Nami in un momento molto difficile per lui. Nami incontrerà, poi, la Vecchia Dama che sembra uscita, pur nella sua assoluta originalità, dalle pagine di un libro di Ladislav Fuks. Incontrerà anche un altro personaggio molto importante e sarà un incontro toccante. Lascio al lettore il piacere di scoprire come e con chi sarà l’incontro.
Il linguaggio è scabro, le situazioni spesso violente e che ti lasciano senza respiro. In mezzo ad esse descrizioni improntate ad una certa nostalgia come quando viene descritta la casa della Vecchia Dama:
“Vive in una di quelle ville sontuose, con le recinzioni coperte d’edera e le iniziali dei proprietari incise sulle facciate cadenti, e i giardini pieni di meli selvatici, mandorli, melograni, fichi, e cespugli secchi di malvarosa” (pag.,118);
o liriche come quando viene descritto il deserto intorno a Kuce:
“L’aria è limpida, sembra non contenere assolutamente niente a parte le particelle polverose della sabbia nera del deserto che fluttuano leggere sopra il terreno. Verso l’alto si avvicina a un azzurro accecante. I suoni nell’afa ardente si perdono come nel vuoto, come il grido soffocato di Nami nel cuscino” (pag. 132).
Momenti che sembrano dare un attimo di tregua al lettore. Ma è una tregua che dura l’espace d’un matin. Nami, inesorabilmente, cresce, conosce l’amore, la violenza, l’amicizia, le delusioni e il suo ritorno a casa è un ritorno problematico. Come fa notare il grande filosofo francese di origini russo-ebraiche, Vladimir Jankélévitch nel suo libro “L’irréversible e la nostalgie” (Flammarion. 1974. Pag. 360-67), Ulisse, quando ritorna ad Itaca, non riconosce la sua isola a causa dell’intervento di Atena e non è immediatamente riconosciuto. Anche in un altro suo libro “Il non-so-che e il quasi –niente” (Einaudi. 2011) il filosofo francese torna sull’argomento del ritorno parlando del figliol prodigo:
“… la casa che torna ad accogliere il figliol prodigo non è la stessa che questi aveva lasciato andandosene via; è ancora la casa del padre, e al tempo stesso non lo e più. E’ un’altra casa! Da parte sua, il figlio, temprato dalle prove sostenute, maturato dalle tribolazioni, non è più lo stesso figlio: è un altro figlio che ritrova un altro padre. Insomma, nulla è più come prima… il tempo si è portato via ogni cosa nella relatività del suo flusso universale, compreso il sistema di riferimento che serviva a conteggiare gli anni. Il tempo è nel frattempo trascorso, e questo tempo è un divenire irreversibile”. (pag.174)
Anche per Nami, sorta di Ulisse dell’Est e figliol prodigo sui generis, il tempo è irreversibilmente passato quando ritorna a Boros dopo il suo periplo intorno al lago. Fatica a farsi riconoscere, fatica a riconoscere Boros:
“Gli sembra di vedere Boros in lontananza. Sullo sfondo c’è la rupe di Kolos, anche se sembra un po’ più piccola. Più piccoli sono anche la via dei pescatori e il complesso residenziale russo, le strade paiono più strette. Si strofina gli occhi e gli sembra di essere arrivato in un’altra città. Una città piccolissima, una città per bambini. Ma il tronco del trasmettitore interplanetario sulla collina è ancora lì, non ci sono dubbi: Nami è arrivato a Boros.
Nami accelera il passo e si avvicina al paese, ma le proporzioni rimangono invariate. Solo il lago si è rimpicciolito talmente che l’acqua si vede a malapena, lontano. Nami continua a guardarlo ossessivamente, ha l’impressione che il lago si ritiri come si ritira il mare prima di uno tsunami, e che fra un po’ spazzerà via tutto. Ma la superficie dell’acqua luccica in lontananza e rimane immobile. Distante, quasi all’orizzonte, si estendono le flotte delle navi da carico arrugginite, sepolte nella crosta di fango secco. Alla loro ombra riposano dei cammelli” (pag.165-66).
Se il tempo è irreversibile, proprio questa irreversibilità ha fatto maturare Nami, lui così legato ad un passato che non passa, ad eventi con i quali deve ancora fare i conti. Riuscirà, nel divenire irreversibile del tempo, a sciogliere i nodi e a liberarsi di quel passato che non passa? Al lettore scoprirlo.
Il romanzo è in terza persona, ma lo sguardo, per usare termini presi a prestito dalle tecniche cinematografiche, è sempre in soggettiva. Vediamo le cose attraverso lo sguardo di Nami, il senso che diamo loro è il senso che le dà Nami, viviamo con lui le sue paure, le sue angosce, le sue rabbie, la sua trepidazione. Ha ragione la traduttrice Laura Angeloni quando scrive, in bandella del libro,
“Vuoi essere al suo fianco nella dolorosa, sfiancante, ricerca di sua madre e delle sue radici e ciò che ti muove, oltre all’amore per le parole, è la speranza che gli sia concessa una tregua, di vederlo rinascere… Non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per un’ora, almeno per un po’”.
“Il lago” è un bellissimo e sorprendente romanzo. E ci fa pensare che i libri dobbiamo difenderli sempre: dagli indici dell’Inquisizione, dai roghi nazisti, dalle liste di proscrizione dell’impero sovietico, dalle tentazioni di censura che ancora si manifestano anche nei paesi europei. Se per un romanzo come quello di Kaouther Amidi, “La libreria della rue Charras (L’Orma. 2018 ) si può dire che i libri hanno il compito di unire le sponde del Mediterraneo, per “Il lago” possiamo e dobbiamo dire che i libri dovrebbero essere l’antidoto alle catastrofi ecologiche, alle dittature, all’avanzare minaccioso della barbarie. Dovrebbero avere il magico potere di non far più accadere quello che mi accadde nel lontano agosto 1986 a Praga.