“L’isola dell’abbandono” di Chiara Gamberale vorrebbe raccontare la storia di Arianna e il Minotauro, ma è patetico nello stile e nel contenuto. Veronica Tomassini, invece, nel suo nuovo romanzo si conferma una vera regina degli inferi: se vincesse lo Strega, vorrebbe dire che c’è speranza.
Il bastone. Quando una neomamma intorno ai quaranta ti dice quanto è bello avere un bimbo, quanto le ha cambiato la vita, quanto è dura la meraviglia e che, beh, l’importante è che il figlio non si divori la tua identità “perché se fatica a credere di essere diventata madre, nello stesso tempo fatica a credere di essere rimasta, semplicemente, donna”, di solito, gentilmente, la blocchi, la benedici, le dici che è bellissima, ti metti a disposizione per badarle il bebè quando vorrà riavviare una vita sessuale col suo maschio, poi la scansi non sei così suicidale da ascoltare le stesse cose per l’ennesima volta. Chiara Gamberale, invece, che è da poco diventata mamma, intorno alle solite chiacchiere sulla maternità ha costruito un romanzo di tonante banalità.
La storia è questa. Arianna sta con Stefano, maschio dominante e psicolabile di cui è la crocerossina; durante una vacanza a Naxos (eccola, L’isola dell’abbandono) Stefano s’invola a Londra con una Cora artistoide, abbandonando Arianna, la quale si consola tra le braccia di un surfista, Di, che è effettivamente un dio: è figo, amorevole, passionale. Questo accade nel 2008. Poi succede che Stefano muore, Arianna va in crisi, lascia Di con un pugno di illusioni in mano, si fa ricoverare dal dottore bellone e fedifrago e ben più grande di lei, Damiano, il quale, già che c’è, la mette incinta. Arianna partorisce, siamo nel 2018, è di nuovo in crisi – si sa, i drammi della gravidanza, la femminilità un tempo divampante che ora scema, insomma, non fa più sesso, e poi pare che il vetusto dottore torni a intendersela con la ex moglie. Perciò, Arianna torna da Di – che s’è consolato con un’altra, Christina, gran lavoratrice, da cui ha avuto tre figli – che la accoglie a braccia aperte e membro in resta. Dieci anni dopo i due trombano felici come la prima volta, predisponendoci all’happy end finale, con carnevalesco sfoggio di nuvole di zucchero filato, scroscio di stelle filanti, e bacini sulla fronte del bebè.
Insomma, un romanzo sfrontatamente patetico (senti come la Gamberale racconta l’orda del sesso tra Arianna e il vigoroso surfista, “Di la spinge dolcemente sul letto, lei sente un vago profumo di limone, lui riprende a baciarla, i polsi la fronte il collo, eccolo il mio sogno, le dice, sei tu, ha la pelle ancora incrostata di sale, sa di mare, sa di sabbia, sa di buono”, roba d’archeologia rosa, Ridge di Beautiful al confronto è il Marchese De Sade), che dovrebbe mimare il mito di Arianna, la sorellastra del Minotauro, mollata da Teseo sull’isola di Naxos, appunto, e poi raccolta ed esaltata da Dioniso, ma è, al contrario, trent’anni dopo, la pallida, incestuosa imitazione di Due di due di Andrea De Carlo e di quei libri lì. Irto di psicologia studiata a casaccio su canovacci televisivi (“Abbiamo paura di non essere amati. E allora ci rifugiamo nel nostro trauma, nelle nostre ossessioni”), il libro di Chiara Gamberale – target: quarantenni maritati (se separati, preferibile) con bebè a bordo, viziosamente frustrati, chi non lo è, pronti a mollare tutto per il nulla di una felicità qualunque, meglio se palestrata – va letto sinotticamente a Fedeltà di Marco Missiroli.
Entrambi i romanzi si svolgono nell’arco di dieci anni, non si confrontano con la Storia, non si scontrano con il mondo (come fa il romanzo americano) né con il mondo delle idee (come ha sempre fatto quello europeo). Sondano le voglie, inseguono le passioni deboli – qui, pensieri non ci sono, neppure deboli – con pallore stilistico. Solo che Missiroli – riminese bigotto – difende le ragioni del matrimonio, mentre la Gamberale – più scafata ma meno viziosa di Missiroli – lotta perché ognuno faccia un po’ come gli pare. “Mentre tu pensi che devi rinunciare a tutti i te che sei stato fino a quel momento, in realtà quei te si stanno dando all’improvviso un appuntamento”, dice Di ad Arianna, quando si ritrovano, entrambi genitori rosi dal desiderio e grigi di noia. Insomma, essere genitori a quarant’anni rende più intriganti, più sexy. Arianna non la pensa così, ma è Di, didascalico, a rincuorarla, “Sì, certo. Fai schifo. Infatti sono eccitato da sei ore e ancora non mi basta”. Basta, però, non dirlo ai rispettivi coniugi o compagni: non potrebbero capire quanto è sublime il tradimento. Che l’amore sia, soprattutto, obbedienza all’altro e non all’ego – altrimenti è vanità, arguzia di nebbia – non sto neanche a dirlo, la Gamberale, scrittrice che gambizza tutte le voglie – il romanzo è costruito, stilisticamente, come una sequenza di intimi e inutili post spiattellati su facebook – non apprezzerebbe.
Chiara Gamberale, L’isola dell’abbandono, Feltrinelli 2019, pp.218, euro 16,50
Il libro di Chiara Gamberale – target: quarantenni maritati (se separati, preferibile) con bebè a bordo, viziosamente frustrati, chi non lo è, pronti a mollare tutto per il nulla di una felicità qualunque, meglio se palestrata – va letto sinotticamente a Fedeltà di Marco Missiroli
La carota. Raccontare l’amore dalla scarnificazione, celebrare la Storia dal sottosuolo, dall’alcova dei pregiudizi, dal buio del perbenismo, dal lato oscuro, ingordo, ignorato del tempo – gridare lo sgretolio della civiltà, evocare la periferia e i suoi mostri, soffrire lo scrivere fino a dire lasciami, non mi basta più niente, la parola è troppo armonica per arguire il caos. Incredibilmente – per chi legge libri veri – Marco Missiroli e Chiara Gamberale raccontano le storie fatue di uomini quietamente borghesi, in cui non accade altro che lo smottamento di facili emotività.
Al contrario, la letteratura s’è sempre mossa a narrare gli estremi – che siano storie estreme o personalità radicali – mostrando ciò che nessuno vuol vedere. Non l’abbandono – colmato dal dio surfista – di Arianna, ma la scalpitante innocenza, cannibale, di Minotauro. La dico schietta: Veronica Tomassini, scrittrice sofisticata e strappata, regina degli inferi, Persefone dei perduti (una frase come questa, “I giorni si appressavano a finire, si radunavano ai piedi della disfatta”, oppure questa, “Eravamo una loggia di sbandati, ero l’alternativa colta, il parto cieco, quella riuscita male, il corpo estrano, ossuta distratta”, bastano per annientare le velleità letterarie altrui) è la nostra Janet Frame, autrice dell’urlo e del perdono, del delirio accudito, la santa bianca che si sobbarca gli imperdonati.
Mazzarrona, così, è macelleria verbale, l’epica dei disadatti, l’epos dei tossici che come spettri s’abbarbicano uno sull’altro, stipati, nel rione dantesco della “Mazzarruna”, ai confini di Siracusa. Una geologia di gente resa bestiale dalla dipendenza e dal dolore, calcificata nell’oblio, nella città che ospitò Eschilo e Platone, cantata da Pindaro, detta duramente da Tucidide. “Dovevo bruciare Mazzarrona, le steppe, il fango, l’infamia di quel deserto morale… Una giovinetta snaturata della sua salvifica vanità. Non mi bucavo. Non ero malata di Aids. Era solo la morte degli altri, che avanzava implacabile e lenta, ad avermi contagiato”. Di fronte alle storie di muto strazio raccontate dalla Tomassini, con una abbacinante indipendenza stilistica (“Sono fatta per superare i graticci, saltarli, oltrepassare i valli. La buona battaglia. Mi dico: è stata la tua buona battaglia. Sì, ma per dove? O perché? Lasciate che io mi chieda: perché? Oggi mi siedo sotto la finestra, non sono una ragazza, e con la mano, come allora, tengo il mento. Guardo lo stesso cielo, violaceo, verso sera, gli storni, e il mio colore di capelli è ancora bruno come allora”), gli abbandoni della Gamberale hanno fragranza comica. Con altra potenza rispetto ai “libertini” di Tondelli, come una santa nel rebus dei lebbrosi, la Tomassini impone la grazia tra i perdenti, perché la catacomba della periferia è prova e martirio. Mazzarrona è tra i libri che sono stati scelti per concorrere al prossimo Premio Strega: se capitasse a questo romanzo, se varcasse lo stigma della cinquina, ne sarei felice, potrei pure dire che c’è speranza, allora, per la letteratura italiana autentica, che dal basso qualcosa di verticale, simile all’alba, sfugga al controllo.
Veronica Tomassini, Mazzarrona, Miraggi Edizioni 2019, pp.174, euro 16,00