Penso da sempre che quel momento più o meno lungo nel quale con garbo si passa dal sonno alla veglia, di prima mattina, dopo una nottata di riposo, quello in cui ti galleggiano in giro per la mente pensieri ed immagini che stanno lì a metà tra sogno e realtà, ecco, quello ho sempre pensato sia l’attimo in cui ciascuno di noi crea, riassembla, elabora il lato più intimo e vero di sé. Lì, proprio in quei brevi istanti, trascorsi in una sorta di terra di mezzo in cui le immagini fugaci dei sogni appena fatti e quelle delle giornate reali, siano esse ricordi o proiezioni di un futuro prossimo, si fondono in una mistura che ha qualcosa di magico, di quella magia di cui è fatto il nostro strato più sottile, quello composto di anima e mente, quello scevro del plumbeo raziocinio che ci tiene pericolosamente legati ai paradigmi della vita contemporanea, proprio lì noi costruiamo ciò che siamo, proprio lì è installata la nostra capacità di creare. Non so fino a che punto un essere umano possa, anche con l’esercizio, rimanere in quella dimensione a lungo proprio perché essa non appartiene alla sfera di ciò che dipende dalla volontà ma a quella degli eventi che semplicemente accadono. Una cosa, però, mi pare innegabile: per dote di nascita o per allenamento Klopstein aveva imparato a rimanerci in quello stato. Aveva imparato a viverci nel continuo. Non so se per semplice merito o demerito dell’alcool, oppure, più probabilmente per una sua peculiare capacità di contattare quella dimensione che per comodità siamo abituati a definire onirica. Io temo, in realtà, la si definisca onirica più per paura di entrare in contatto con se stessi, più per poter evitare di ammettere che in quello spazio ciascuno di noi è ciò che è, con tutte le proprie debolezze, i propri limiti, col proprio passato non necessariamente risolto, coi propri desideri, forse non sempre così riconoscibili, più per prenderne le distanze da tutto ciò che per altro. I Perdenti, a mio parere, si gioca tutto in quella dimensione. E infatti, non a caso, i personaggi del romanzo usano molto la vista, l’udito, l’olfatto ma molto meno il tatto. Louis Berenstein mette in scena figure eccezionali, con caratteri così potentemente descritti da diventare tridimensionali. Essi però si annusano, si guardano, si scrutano, si sfiorano ma non si toccano a meno di non essere fantasmi. Allora si, essi abbracciano, stringono e trasmetto calore. Nelle descrizioni che il narratore disegna c’è spesso fumo, ci sono aloni di luce rosa, verde, azzurro, ci sono voci, musica, corridoi bui ed elefanti dipinti su tela stando ad una finestra di Orchard Street ma la dimensione del tatto scompare quasi del tutto, tranne laddove, mentre un piccolo gruppo di formiche trasporta una enorme briciola di pane in un qualche anfratto e ricompare….senza la bara, le dita di Louis sfiorano e fanno rotolare e poi ruzzolare nella tromba delle scale….la morte.
Coerentemente con questa caratteristica del romanzo, nella prefazione di Hedda Hopper si legge che Aaron Klopstein fu un assoluto cultore della tradizione orale. Non scriveva, narrava e basta. Componeva nella propria mente anche un romanzo intero per poi, semplicemente raccontarlo. A braccio, perché la scrittura non è che l’ultimo gesto per uno scrittore e non il più importante. Quasi a voler affermare che ciò che si tocca non è infine l’essenza. Essa sta altrove.I Perdenti è disseminato di numerosissime metafore delle questioni che attengono ai dilemmi, agli irrisolti della vita umana: inferno, paradiso, amore, amicizia, solitudine, passato presente, molte di esse incarnate da personaggi letterari, più o meno celati, di indubbia fama. Ancora Hedda Hopper ci svela che Klopstein era un patito di ascensori e dei loro meccanismi di funzionamento, dei loro ingranaggi ed era affascinato dalla loro capacità di portare gli utilizzatori in alto. Una attrazione per metà verso le cose razionali e per metà verso ciò che sta in alto o verso la visione che dall’alto è possibile avere delle cose.”Louis restò per un attimo in strada, quasi che tornare nel proprio appartamento lo spaventasse ancora di più che rimanere al Paradiso”.Una provocazione: e se Thodd Phillips con il suo Joker fosse stato influenzato da Aaron Klopstein? Buona lettura.
La Libreria Milton è la sua libreria preferita!