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Sergio La Chiusa, Il cimitero delle macchine, Miraggi ed./Scafiblù, 2024.

Avevo molto apprezzato l’esordio narrativo di La Chiusa, il romanzo “I Pellicani” (Miraggi, 2020), cui ha fatto seguito il godibilissimo racconto lungo “Madre nel cassetto” (Industria e Letteratura, 2023). Ma devo dire che con “Il cimitero delle macchine”, (che riprende e rielabora una prima stesura degli anni 2003-05) mi sembra che l’autore segni una svolta nella sua poetica e acquisisca sempre più consapevolezza delle sue capacità autoriali. Il romanzo gronda letterarietà da ogni pagina. Sia per l’architettura formale e le tecniche narratologiche che lo sostengono, sia per le scelte simboliche (il personaggio “Ulisse” e il suo viaggio surreale; “la città delle opere”), sia infine per i riferimenti e gli omaggi letterari (tra tutti, a mio vedere, Buzzati e Bianciardi). Il pedinamento del personaggio, la voce narrante che segue il personaggio e ne racconta pensieri e azioni, narratore e personaggio che a volte si sovrappongono e il soggetto diventa un “noi”: sono espedienti narrativi che qualificano l’opera e certificano un impianto formale studiato, curato e interessante. C’è fin da subito nel romanzo anche, come dicevo, un impianto simbolico: l'”odissea” surreale del personaggio che, di passaggio in passaggio, finisce per perdere dignità sociale e identità tanto che le ultime pagine del romanzo lo vedono cercare riparo e luogo dove passare la notte nel cimitero della “città della moda e degli eventi”.

C’è, va detto, una ripresa del topos presente ne “I Pellicani”, ma qui volutamente più ridondante: quello del condominio fatiscente, dei cantieri edilizi, le impalcature, i palazzi in costruzione. C’è l’esatto opposto dei sentimenti di vitalismo che volevano proporre i futuristi (“La città che sale”). La città cresce, sì, in altezza e si espande, ma qui in più di un cantiere si trovano nicchie dormitorio per i senzatetto e i loro cani, orde di abusivi, tanto per chiarire che la città delle opere nutre in seno possibili apocalissi future.

C’è un ricorso a piccole resistenze urbane (non pagare le spese condominiali, essere in ritardo con l’affitto); iniziative velleitarie e come si vedrà autolesionistiche, che comunque rappresentano le uniche piccole anarchie che Ulisse Orsini può mettere in atto contro il sistema. Troviamo nel romanzo paesaggi urbani desolati: periferie piene di capannoni industriali, containers, cimiteri di automobili, cantieri abbandonati, stazioni dismesse rifugio di reietti umani con i loro cani. Nella desolazione urbana e suburbana svetta simbolicamente -vi compare più volte nel testo- il duomo della “città delle opere”. Ma è un ricorso corrivo: le sue guglie si sollevano dal marasma umano, sì, ma puntano su un cielo sempre cupo e plumbeo. Su un cielo da cui cade quasi sempre pioggia (ho pensato a “Hard rain” di Bob Dylan).

Nel suo andare, (nel suo fuggire?, nel suo cercare? nel suo disumanizzarsi?) Ulisse Orsini passa da un contesto simbolico all’altro, ognuno con personaggi che esercitano il potere o lo combattono: il condominio con l’amministratore e i vicini che si coalizzano per farlo sfrattare; la struttura ospedaliera con infermieri corrotti e ambigui; il cimitero delle macchine con i ragazzi incendiari che s’illudono di combattere il sistema; le campagne accanto alla statale, con donne contadine che s’impegnano per i diritti umani che devono valere anche per gli animali. Troviamo anche un povero Cristo redivivo, col suo asino, ridotto a disdicevole evento. E in questo “paese dei campanelli”, che mette a profitto persino l’impensabile, svetta la figura di Lazzaro Lanza, un guru della resistenza urbana, un profeta delĺ’anticonsumismo e della difesa dell’ambiente che Bianciardi avrebbe trasformato in guerrigliero urbano ed eroe ma che La Chiusa preferisce ironizzarci su e presentarcelo come un borderline.

Forse, magari sul finire, qualcuno avrebbe anche apprezzato maggiore sintesi, ma l’affabulazione, la ridondanza, il flusso di parole sono cifre dello stile di La Chiusa. Il romanzo scorre sui binari del tragicomico e del grottesco. E probabilmente senza l’eccesso, senza l’espansione del discorso e -diciamolo- il divertissement verbale, questo autore non sarebbe più lui.

Le sue parole che, se a un certo punto non decidesse di fermarle con la parola Fine, avvolgerebbero il mondo, sono troppo preziose e godibili per chiedergli maggiore sobrietà. Non è quello il suo stile. Come non è il suo stile rappresentarci la “città delle opere” come luogo dove possa regnare un qualche bene del mondo. Al contrario, in quell’ombelico della postmodernità, vi si annidano per il nostro autore tutti i mali possibili. Pesantezza? No, nel modo più assoluto. Perché La Chiusa sa raccontare quei mali con la corriva ironia e con la piacevole affabulazione del cui sapiente uso è abilissimo estensore.

Per finire voglio rendere merito ai responsabili delle edizioni Miraggi: intercettare un autore della portata di Sergio La Chiusa, capirne le prospettive, investirci pubblicando un romanzo denso di contenuti ma accattivante al sommo grado e di forte profilo letterario, non è cosa da tutti. Come non è cosa da tutti poter realizzare un libro con tanta minuziosa cura, senza economia di mezzi, con un progetto grafico d’avanguardia come è questo. Grazie.

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