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«C’è nebbia fuori/la scambio per miopia/ma non è un difetto congenito/ho solo guardato troppo/e straccato le pupille/sono sana e senza scuse/Non stravolgo nulla/non ho fondi di bottiglia/ti giudico bene anche da qui/senza alcuna vicinanza/senza polpastrelli tattili/il muro è opaco e sono onesta/non imbroglio più, ho solo pietà/e le bugie bianche per te/le lascio ai bambini.»
(Martedì)

Quello che vive tra la pentola sul fuoco e lo spazzolino da denti, il tubetto di dentifricio lasciato a metà, spremuto male; l’interstizio, lo sporco sotto un vaso mai spolverato. Simmetrie e realtà tridimensionale, quello che ci circonda in fondo ci racconta, quello che possediamo assorbe la nostra storia e ogni oggetto diventa un pezzo di noi che racconta noi. E allora sarà facile riconoscere quello che siamo stati in una cornice senza foto, guardare una bottiglia vuota, un vaso di marmellata quasi finito, per far tornare una storia che ci parla di ricordi e di tutto quello che siamo stati mentre quella marmellata la mangiavamo a cucchiaiate.

Il gioco che fa la nostra mente è semplice anche se a noi, delle volte, appare straordinario; apri un cassetto, una matita spezzata giusto al centro della sua traiettoria, un po’ di polvere, un aereo di plastica che un giorno qualcuno ha fatto finta di far volare; e quindi se gli oggetti vivono della nostra vita, e se quello che ci circonda quotidianamente si impregna del nostro passato, è fondamentale riconoscere alle cose il potere di poterci raccontare, e altresì è importante, talvolta, togliere il potere a quella tazza rimasta nella credenza, che magari ti riporta ogni tanto l’immagine di lei, di lui, che da lì beveva il suo cappuccino e poi magari ti sorrideva con le labbra sporche di bianco.

Giulia Fuso è nata a Perugia nel 1988, questa sua raccolta di poesie porta il nome di E dentro luccica pubblicata da Miraggi edizioni, il disegno di copertina è a cura di Emanuele Copernico.

Le storie che ci raccontano queste pagine sono ore strappate al quotidiano, e ogni poesia porta in calce un titolo evocativo che ci fa subito capire dove la nostra poetessa vuole portarci, almeno per quelle righe. Giulia Fuso è dotata di uno stile poetico che rasenta la prosa, e più si va avanti nella lettura e più ci si convince che se la struttura dei versi fosse stata orizzontale e non verticale, avremmo potuto leggere della narrazione stilisticamente accattivante. C’è la magia e il male del quotidiano, di un pettine che passa tra i capelli e si impiglia, delle ore fermi a una stazione ad aspettare un treno (o forse noi stessi), ci sono le ore passate in una stanza o seduti a un tavolino di un bar, dove il mondo fuori accade ma quello che fa rumore è poi il mondo dentro.

«Mi dici che sono/ come i nodi dell’ulivo/io cerco similitudini/ e trovo malattia/ Metti cerotti waterproof/ sui miei buchi da guerra mondiale/ che, da lontano/ sembrano soluzioni/ ma sono appena/ tamponi misericordiosi/ Non li lascio, trappo/ zoppico docile/ e la carne fresca/ è la mia Caporetto.»
(G.)

Ci si arrampica, su queste poesie, e a volte, durante la salita, si cade, e ci si sbuccia le ginocchia, e saremmo costretti a cercare cerotti, acqua ossigenata: le parole di Giulia. Ogni frase sembra viva, sotto i nostri occhi; evocazioni di un attimo, di una giornata, forse di un’ora, in cui tutto è cambiato o forse, in cui tutto è rimasto maledettamente uguale mentre noi, invece, eravamo in cerca di mutazioni.

«Accadi sempre per riflesso/ io non ci penso e mi capiti/ tra i piatti della cena/ e le calamite del frigo/ in un coltello unto/ che spalma solo ansia/ Mi ricordi quando fuori/ inciampo nelle scarpe/ e non mi fermo, continuo/ adolescenziale e pigra/ con i lacci che si ciancicano/ e urlano, ma non ascolto/ Mi appanno e non rifletto/ sono uno specchio/poco esemplare.»
(Bloody Mary)

E Giulia Fuso ci prende la mano, e ci fa tornare bambini, ci costringe a riporre la nostra fiducia nelle sue vocali sporche di confettura, nelle sue consonanti rimaste incastrate nella raccolta differenziata, in frasi brevi che come pesci rossi girano in tondo dentro un’ampolla piena a metà di acqua.

E se ogni oggetto è capace di possedere una propria personale narrazione del nostro passato, è anche vero che delle volte, per liberarci di qualche fetta di ieri, siamo costretti a cestinarlo, quell’oggetto ingombrate.
«Ho comprato le matite/ per correggerti gli apostrofi/ sono dodici, appuntite/ le ho in tasca da quattro giorni/ si muovono e graffiano/ mi grattano le cosce/ e diventa tutto rosso/ il tuo errore, il mio appunto/ tanto che poi mi confondo/ e divido malamente/ non trovando più l’originale/ in questa pozza fonda.»
(Not found)

Una raccolta di poesie scritte con il corpo, dove ogni sensazione, che sia di pelle o di muscoli o di ossa, viene sviscerata e messa in bella mostra, davanti ai nostri occhi. E voi non lo sapete, forse non potete immaginare, la stanchezza antica di un corpo dopo la battaglia con le sue parole; non potete immaginare, non potete sentire la mano che trema ancora, la mente che corre, ancora, la schiena fatta a pezzi, e la bocca asciutta come un acquario dal vetro rotto, dove i pesci cadono in terra, come le parole che cadono sul foglio.

FRANCESCO BORRASSO