Trasfigurare la realtà in un carosello di sogni
Alla sua terza raccolta di racconti dopo L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) e Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017), Simone Ghelli raccoglie qui una teoria di narrazioni brevi collegate tra loro dall’atmosfera rarefatta e onirica, in cui i protagonisti si muovono galleggiando a metà tra le trasfigurazioni di cui è capace l’inconscio e una realtà talvolta amara da digerire.
I dieci racconti di La vita moltiplicata (Miraggi, 2019) ci proiettano in un universo in cui la nota di fondo è malinconica, fin dai titoli, che risuonano di un’eco sognante e ineluttabile – “L’ineluttabile” è tra l’altro il titolo dell’ultimo racconto, tra i più belli, dedicato a un ex studente di Siena che vi ritorna per un posto da ricercatore e, in un locale di via Pantaneto che ha ormai cambiato gestione, ha una intensa conversazione notturna con un bizzarro personaggio che si intende di cinema e filosofia.
Il titolo della raccolta sembra volerci introdurre, in maniera sintetica quanto incisiva, alla materia che troveremo affrontata nella raccolta: spezzoni, frammenti in perenne mutamento, stati di transizione, momenti clue – o meglio, epifanie –, una vibratile costellazione di esistenze sempre sul punto di “spiccare il volo”, come la figuretta in copertina, da una fase all’altra della vita o da un piano all’altro della propria essenza profonda.
Vi è, in questi racconti, un senso dell’attesa, dello stare a guardare, come nel primo, “Oboe d’amore”, che parla del difficile rapporto con la musica e con la madre di un bambino e poi adulto invaso dalle proprie personalissime muse.
«Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano».
Ci sono situazioni allucinate, come nel caso di Vera, dove dai ricordi, dalle fotografie, dalle memorie di vita di coppia lei scompare, lasciando al compagno il dubbio che non sia mai esistita («Vera divenne ben presto Era, terza persona singolare del verbo essere, passato imperfetto»), sullo sfondo di una città post-apocalittica in cui stuoli di uccelli imperversano sull’orizzonte «gravido di antenne».
Molto emblematici sono i personaggi di “La somma dei secondi e dei sogni” e “L’ultima vetrina”, rispettivamente uno stagista di casa editrice e un libraio indipendente. Il primo, seppur consapevole che sarebbe stato più saggio imparare, fare esperienza, è irrimediabilmente attratto solo dai manoscritti che continuano a fioccare in casa editrice nella speranza di esser valutati (metafora delle aspirazioni di sconosciuti e velleitari scrittori), il secondo, che ha ereditato carattere fumantino e piccola libreria dal genitore, è colto nel terribile momento in cui decide di chiudere per sempre, facendo calare per l’ultima volta la saracinesca sulla vetrina del suo eroico negozietto.
Vi sono poi i postini anti-Internet, il professore di provincia triturato dai social per aver voluto lasciare i suoi pestiferi ragazzi liberi di esprimersi aggirando le disposizioni ministeriali, ragazzi spenti a casa ma indisciplinati a scuola, risucchiati dai loro telefonini in un’illusione di vitalità. «E come dargli torto?», osserva questo professore. «Per loro la scuola dev’essere una specie di mondo in bassa definizione».
In “La grande divoratrice” e “La sentinella di ferro” troviamo invece la critica sociale, uno sguardo più lucido su alcune realtà scomode del nostro tempo, il lavoro spersonalizzante dei call center – in generale dei servizi di assistenza/vendita ai clienti, con i loro annessi e connessi di postazione pc, credenziali di accesso, team leader e piani produzione – e le vecchie fabbriche che mangiano sia il paesaggio sia gli operai che ci lavorano.
Nel primo il protagonista «prendeva appunti sul portatile e provava a scrivere qualcosa che non sapeva se sarebbe diventato mai un libro o se sarebbe rimasto soltanto un lamento in prosa, il tracciato emotivo di un soggetto defraudato di qualcosa». Nel secondo un vecchio operaio osservando la ex fabbrica si rammenta «del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare».
I personaggi che Simone Ghelli sceglie sono tutti specchi di qualcos’altro, emblemi e maschere utilizzati per proiettare momenti e sentimenti stratificati nel tempo. Sono sentinelle costantemente in bilico tra l’infanzia e l’età adulta, tra quel che volevano fare e quel che invece fanno, tra l’incredibile qui e ora in cui l’azione sembra possibile e il successivo attimo di dispersione.
Queste figure, il postino, il professore, lo stagista, l’operaio, l’impiegato, il libraio, il pianista coatto, appaiono nello stesso tempo molto reali e assolutamente avulse. Nell’economia della raccolta, servono però a veicolare pensieri e significati che convergono tutti in una stessa direzione, quella di una velata critica al vivere contemporaneo, una sensazione di “fuori sincrono”, di spaesamento. Che senso ha farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa? Non sarà che questo grande universo di dati e informazioni in cui tutti sono immersi è una grande illusione, il miraggio di una vita piena? Non sarà che alle persone ora basta un’idea, la possibilità di questa libertà illimitata? Perché nessuno scrive più lettere e riceviamo solo estratti conto e pubblicità, sarà che non abbiamo più niente da dirci? Perché dobbiamo farci venire delle crisi di rabbia guidando per strada dietro a una persona lenta, e arrivare in ritardo a un lavoro da automi in cui non conosciamo neanche tutti i nomi degli altri dipendenti?
Allora può essere che un personaggio, stufo di tutto, per reazione, non desideri altro che «vivere in mezzo ai boschi […] diventando semplicemente terriccio per i funghi».
Che pace. Che pensiero vitale anche se raccoglie un’idea di scomparsa. Soprattutto se a fare da contraltare vi è una città del genere (è Roma): «Si era a tal punto elevata sul proprio passato da assomigliare a una millefoglie: strati e strati di asfalto, di laterizi poggiati l’uno sull’altro, di fondamenta accavallate tra loro. E ogni volta che si apriva una voragine sulla strada, lui si affacciava di sotto con la speranza di vedere l’inferno, o almeno un antico centurione sulla biga, mentre invece non c’era che qualche centimetro di nulla in cui si sentiva l’odore del catrame bruciato».
Lo stile di Ghelli è ben calibrato, piano ma con aperture al ricercato, e nel tessuto della narrazione sono frequenti le incursioni di sensazioni e stati d’animo. Talvolta si accumulano passaggi disorientanti in cui il filo si aggroviglia, strati di parole che conducono a una stanza sempre diversa del labirinto. La forma preferita è quella della brevità senza troppo indulgere al dialogo, che è invece protagonista nel già citato ultimo racconto, quello che accoglie anche, nelle parole dell’uomo misterioso incontrato dall’ex studente, il pensiero che pervade e attraversa l’intero libro:
«È difficile aderire all’immagine che gli altri pretendono da noi. È il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali. La forma comica sancisce l’appartenenza alla società, così come la forma tragica ne sancisce l’esclusione».
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