di Alessandro Catalano
“A Madla ci penso ininterrottamente. Un binario cieco. Un tunnel senza fine. La pagina vuota di un libro”. L’assenza della sorella risuona in ogni parola di Marie, la protagonista di Io sono l’abisso, che isolata da tutto e da tutti cerca a fatica di uscire da un mondo di cicatrici, ferite e “dolori fantasma”.
Se già il romanzo di debutto, Gli acchiappapolvere (2017), non era passato inosservato, con Smrtholka, del 2020, la giovane scrittrice ceca Lucie Faulerová (1989) ha vinto il prestigioso premio Magnesia Litera e il premio dell’Unione Europea per la letteratura. Il titolo ceco suonerebbe alla lettera “Ragazzamorte”, uno dei nomi della dea Morana, tradizionalmente legata ai riti primaverili della rinascita. Per la difficoltà di trovare un efficace equivalente è stato cambiato in uno dei pensieri ricorrenti della protagonista: “l’abisso è lì, vedo l’abisso, l’abisso vede me, l’abisso è in me, io sono l’abisso”.
Pubblicato nell’empatica traduzione di Laura Angeloni, fedele e inventiva traghettatrice di gran parte della letteratura ceca recente, questo romanzo prosegue il meritorio lavoro portato avanti dall’editore Miraggi. Nella collana “Nová vlna” (il rimando è alla celebre nouvelle vague del cinema ceco degli anni ’60) sono stati pubblicati in sei anni 21 volumi, in maggioranza di autori contemporanei, ma con grande attenzione alle scrittrici. Questa notevole letteratura al femminile, che nel caso della Faulerová è legata anche a una forma narrativa originale, è ancora troppo poco nota fuori dalla Repubblica Ceca.
Io sono l’abisso è il resoconto di un lungo viaggio in treno, con l’intera vita della protagonista che scorre davanti al finestrino: è una partenza o un ritorno a Carogna, il paesino da cui è scappata? Tutto ciò che ci viene raccontato si svolge davanti ai nostri occhi, anche gli episodi del passato, come se gli scompartimenti del treno rappresentassero stanze della memoria, che ci vengono aperte da una narratrice non sempre affidabile. Il movimento del treno determina il ritmo. Le espressioni onomatopeiche, che riflettono i rumori della locomotiva e degli scambi, danno vita a una raffinata tessitura linguistica, sottoposta a continue accelerazioni e rallentamenti, nell’estenuante tentativo di ricostruire un ordine.
Marie ha appena ventitré anni, ha già cambiato facoltà all’università due volte, ma soprattutto ha dovuto fare i conti con la follia della madre e il recente suicidio della sorella, che aveva già combattuto contro un cancro. La realtà frantumata della sua vita riemerge in modo disordinato, solo pian piano acquisisce senso e i tasselli si rimettono insieme. I suoni del treno funzionano come un metronomo della memoria, che oscilla tra i demoni interiori della narratrice e la dolcezza di ricordi ormai lontani.
Ma Io sono l’abisso non è soltanto un romanzo sul dolore, la simbiosi tra la protagonista e la sorella offre all’autrice la possibilità di sviluppare un altro gioco nel gioco. La frequentazione di seminari esoterici di vario tipo, dove “la questione è sempre la stessa: purificarsi, concentrarsi, armonizzarsi”, permette allo stesso tempo di ironizzare goliardicamente, con tutta la spensieratezza della gioventù, sulle questioni essenziali. Lucie Faulerová sa osservare il passato come se fosse un film e il finestrino fosse lo schermo sul quale la memoria può proiettare la vita, tornando a piacere avanti e indietro, alla ricerca dell’istante chiarificatore, che naturalmente non c’è: “La registrazione termina qui, poi non c’è più niente, qualcuno deve aver disconnesso le telecamere di sorveglianza”.
Marie non è mai stata se stessa, si reputa una “parassita”, “una cornice senza quadro. Una scopa senza paletta. Una semiretta. Una frase incompiuta”. E al lettore viene progressivamente presentato un quadro di autolesionismo: un dito tagliato, la fronte sbattuta contro lo specchio, una matita colorata nell’occhio, la lingua recisa che la rende quasi muta, metafora anche di un linguaggio che non riesce a esprimere il dolore. Una personalità da ricostruire, che ha abbandonato il padre e il fratello Adam, e sembra più volte sul punto di seguire il destino della sorella Madla: “come sull’orlo di un abisso che a furia di scrutarlo ti scruta dentro lui”.
Marie è oggi una vera esperta in materia di suicidi, conosce macabre statistiche su chi salta da un tetto, cerca di annegare, si impicca, etc., percentuali che cercano invano di rendere comprensibile l’atto della sorella. E di mettere a tacere i propri sensi di colpa e cancellare un ricordo in particolare: il fantoccio di Morana, coperto di paglia su una croce, viene lanciato nel fiume e colpito con i sassi da tutti i bambini del paese. La protagonista invece non lo fa e decide di recuperare il fantoccio e nasconderlo nel bosco: “Ho salvato la morte!”. È quello il momento in cui è iniziato tutto?
Io sono l’abisso è una ricerca, drammatica e poetica allo stesso tempo, del senso della propria vita, della possibilità che Marie possa ancora vivere “in un mondo in cui Madla non c’è”.