di Gabriele Ottaviani
Le sensazioni di allora sono ancora capaci di atterrirmi. Oggi che sono adulta non è cambiato niente. Non voglio tornare a Mazzarrona. Evito alcune strade, se sento gli odori di allora mi pare di morire di nuovo. I siciliani sono gente triste, diffidente. Il castigo di esserlo lo possiamo capire solo noi. Ed è un errore usare un plurale, odio le mie radici, una parte di esse. Non sono siciliana. Mi pare di morire di nuovo, come in quegli anni. Credo che fossero tutti morti per ignoranza, non perché si facessero di eroina, non leggevano, non ascoltavano buona musica, non conoscevano altro che la loro stazione di confine. I compagni della valle non avevano terminato le scuole. Terra maledetta. Il giorno della festa in casa di Mary, leggevo ad alta voce, in bagno da Romina, mentre lei finiva di prepararsi. La sonata a Kreutzer di Tolstoj. Non era poi un linguaggio ostile, se vogliamo parlava d’amore. Di Matrimonio, di tradimenti. «La depravazione non consiste in qualcosa di fisico» leggevo a pagina 151 «essa, l’autentica depravazione consiste proprio nel liberarsi da qualsiasi rapporto morale con la donna con cui si ha una relazione fisica». Siamo nella provincia russa ottocentesca, Romina. Lei passava l’ombretto sulle palpebre, la sua bocca morbida e regolare stavolta sorrideva. Succedeva quando leggevo a voce alta o le raccontavo le mie cose. Sorrideva, immagino per tenerezza. La vita era molto più infame dei miei libri e delle mie piccole cose riferite con lo slancio di una ragazzina viziata, confusa da parolone apprese maldestramente, senza un vero trasporto. Ogni tanto volevo essere impegnata, salivo sulla gomma di pneumatico e urlavo scioccamente: questa è una lotta di classe!
Mazzarrona, Veronica Tomassini, Miraggi. Si apre con una dedica che è pura poesia (Ai miei amati assenti) l’opera di Veronica Tomassini, presentata allo Strega da Giovanni Pacchiano, dottore in lettere classiche, insegnante in alcuni noti licei milanesi, traduttore e scrittore, con queste parole: Nel romanzo di Veronica Tomassini, Mazzarrona, diversamente dall’attuale pullulare di una letteratura d’evasione, l’autrice racconta sul filo del ricordo, con nobile e profonda passione, governata peraltro da un sapiente controllo della scrittura, le vicende, ambientate nell’estrema e degradata periferia di Siracusa (una realtà di falansteri e baracche ed amianto), di un mondo di giovani emarginati e drogati con poca o nessuna speranza di sopravvivere. La sua protagonista, una ragazza piccolo-borghese estranea a quel mondo ma insieme emotivamente coinvolta, cerca lì invano un affetto e un amore stabili, ma il ricordo di quei momenti di candore e di strazio è destinato a rimanere per sempre.
Prossima a una delle zone naturali più belle della città, in riva al mare e lambita dalle scogliere che di fatto formano la lunga costa (storicamente detta a costa re piliceddi) che parte da sud e si conclude a settentrione rispetto alla località, la Mazzarrona, o Mazzarruna, in dialetto, è un quartiere sorto durante il boom edilizio (popolare e privato) tra gli anni Sessanta e gli Ottanta del Novecento, con tutte le problematiche, in primo luogo di carattere speculativo, nonostante i numerosi progetti di recupero tentati e avviati, che ne conseguono, alla periferia nordest di Siracusa: è un luogo afflitto da una pandemia, quella di un’insaziabile fame di vita che si manifesta nella ricerca disperata di amore, di accettazione, di sesso. Disperate speranze che, come troppo spesso è accaduto e accade, passano attraverso vene avvelenate dalla droga: straziante, dirompente, eccellente, talmente vivido che fa immergere nei vicoli, negli anfratti, nel dolore.
Qui l’articolo originale: https://convenzionali.wordpress.com/2019/03/11/mazzarrona/