Qual’è stato il particolare e il tuo stato d’animo quando hai scoperto questo libro? Perchè hai deciso di farlo conoscere in Italia?
Ho vissuto la sorpresa di quando si scopre un autore sconosciuto per motivi misteriosi perché la sua opera è invece di grande valore. Klopstein appartiene alla grande tradizione ebreo-americana, anzi ne è uno dei precursori, perché viene prima di Bellow e Roth. Ma in lui echeggia anche Kafka. E non è una sorpresa che i suoi dialoghi surreali affascinassero Chanlder.
Spesso si sente dire che la lettura svolga un ruolo curativo, secondo te la scrittura ha anche lo stesso ruolo? Stesso vale anche per la traduzione?
Credo che la letteratura – parlo di questo tipo di lettura, almeno – debbano essere prima di tutto intrattenimento. Klopstein lo è, anche se poi in tutta la sua narrativa c’è un percorso esistenziale, domande sull’arte e sulla vita
Se questo libro che hai tradotto fosse un medicinale che medicinale sarebbe? E pensando ai bugiardini che accompagnano appunto i medicinali, quali potrebbero essere gli effetti collaterali?
Sarebbe un placebo. Zero effetti collaterali. Semplice acqua che diventa magica per chi ci vuole credere.
C’è una domanda che avresti voluto ricevere e che nessuno ti ha mai fatto sul tuo mestiere? Provi a rispondere a questa domanda?
Vorresti campare con la scrittura? Risposta. Sì.
Sulla base dei libri precedenti che hai tradotto, cosa rappresenta questa traduzione? In fin dei conti tradurre significa anche riscrivere, reinterpretare, pensi che ogni scrittura sia trovare un pezzo di te? Oppure lasciare un pezzo di te?
Questo è uno dei libri più intimi e personali che ho tradotto. Sento questo autore molto vicino, ogni tanto mi sembra quasi di personificarmi in lui. I libri che scrivo come autore sono molto diversi da quelli di Klopstein, ma anni fa, quando ho iniziato a scrivere, sognavo di realizzare un libro sciolto, diretto e agile come “I perdenti”. Credo di averci messo dentro questo di me, quel pezzo del mio passato che oggi rivive attraverso Klopstein.
Ecco la postfazione del traduttore che accompagna il romanzo uscito ieri 16 novembre!
Ci sono pochissime informazioni riguardo ad Aaron Klopstein, scrittore ebreo-americano nato a Tysmenitz in Galizia, oggi in Ucraina, nello stesso paese dove nacque Henry Roth. I due scrittori, di fatto, avevano solo un anno di età di differenza e si incontrarono qualche volta a New York e in seguito a Yaddo, come risulta dalle carte di Henry Roth custodite dall’American Jewish Historical Society. Probabilmente, chissà, chiacchierarono di scrittura e di celebrità, e del perché, per motivi diversi, il mondo delle lettere pareva ignorarli. Henry Roth ebbe un lungo blocco creativo, dopo Chiamalo sonno, che lo portò a mollare la scrittura per decenni e a tornare con il fluviale Mercy of a Rude Stream solo in tarda età, quando alcuni critici importanti già avevano riscoperto quel suo primo romanzo e lo avevano eletto a genio dimenticato. Il percorso di Klopstein fu diverso, ma altrettanto sofferto. Pubblicò sempre in poche copie, gettò via un sacco di idee, non raggiunse mai la fama, eppure per i suoi amici, per le persone che lo conoscevano intimamente (Raymond Chandler, Hedda Hopper, John Houston, e in qualche modo anche Ernest Hemingway), era lo scrittore di maggior talento della sua generazione. Il suo nome comparve solo qua e là saltuariamente, divenne leggendaria la sua abitudine di scrivere i libri “ a memoria ” prima di stenderli su carta. Lavorava a mente, come un aedo, sviluppando le proprie storie attraverso una tradizione orale che lui stesso creava; giorno dopo giorno, nei circoli artistici che frequentava, si presentava narrando nuovi episodi della storia a cui stava lavorando. Tutti gli copiavano idee mentre lui solo saltuariamente si prendeva la briga di battere a macchina quello che aveva elaborato. Furono soprattutto i suoi amici più stretti a insistere e a convincerlo, anche perché Klopstein, con la sua vita estrema, versava sempre in enormi difficoltà economiche.
Si racconta che già a quindici anni, sulle terrazze del Lower East side, la gente si raccoglieva attorno a lui per sentirlo raccontare. Le sue erano storie che partivano dal quartiere ebraico di New York ma poi diventavano altro, diventavano sogni, allucinazioni, favole universali. E presto, dal Lower East Side, si mosse verso gli ambienti culturali più vivi della città per conoscere gli scrittori – i colleghi – che a volte, per lui, si rivelarono una grossa delusione. Hedda Hopper racconta di come Hemingway si impossessò di uno di quei raccontini “ orali ” di un giovanissimo Klopstein per farne una delle sue short story più celebri. Da qui nacque uno scontro, un’antipatia, una gelosia che forse costò la carriera a Klopstein. Per quanto riguarda l’altro grande scrittore americano dell’epoca, F. Scott Fitzgerald, si sa che i due si frequentarono e che c’era simpatia, e poco altro. Si sa che si consigliarono dei libri reciprocamente, e che chiacchierarono un paio di volte di letteratura americana. Questo ce lo racconta la scrittrice del Nebraska Sarah Ferguson, che con Klopstein ebbe una relazione piuttosto tormentata (fu, a tutti gli effetti, la sua femme fatale).
Klopstein comunque scrisse e pubblicò, anche se in poche copie. Tre romanzi (The Chinese Magician, I perdenti e Bay) arrivarono quasi a ottenere una tiratura più alta, ma c’era sempre qualcosa che si metteva in mezzo. Spesso il carattere di Klopstein, dipendente dall’alcol, umorale, non amante dei compromessi, volubile. In ogni caso furono, dei suoi sette romanzi messi su carta (altri ce ne sarebbero stati se fosse stato possibile fermare nel tempo le storie da lui raccontate oralmente) quelli più fortunati (anche se di piccola fortuna si tratta). Anni dopo, quando il nome di Klopstein fu riscoperto per caso grazie a Barry Day e al suo lavoro su Chandler, furono questi romanzi che emersero per primi. Da allora (stiamo parlando solo di una manciata di anni fa) si è creato un piccolo culto attorno all’opera dello “ scrittore maledetto ”. Intanto, è emerso il suo ruolo nel sottobosco della cultura newyorchese prima e di quella losangelina in seguito. Si è parlato molto dei suoi demoni privati. Soprattutto, le sue pubblicazioni originali, come la copia de I perdenti, con appunti a mano di Raymond Chandler, sono diventati pezzi da collezione, da cultori, battuti all’asta per migliaia di dollari. È emerso il suo ruolo a Hollywood, il sogno di fare l’attore, l’amicizia fraterna con John Houston. La morte tragica – suicida al Greenwich Village – già prefigurata prima per scherzo da Raymond Chandler, quasi come se Chandler fosse il Conte di Saint Germain.
Il suo nome ora colpisce gli occhi dei suoi ancora pochi cultori, che lo ritrovano in corrispondenze private, che lo vedono emergere ogni tanto in appunti di autori molto più fortunati. Forse, lentamente, questa fortuna si sta riversando anche su di lui, il più misconosciuto autore ebreo-americano.
In questo senso, il recente ritrovamento del profilo di Klopstein a opera di Hedda Hopper (manoscritto che ringrazio Diego Bressan per avermi aiutato a decifrare) è una preziosa fonte di informazioni. Chi era Klopstein? Che cosa si nasconde dietro il suo percorso assolutamente anomalo? Forse, come pare sperare Louis Berenstein dei Perdenti, una redenzione c’è e anche per Klopstein ora è il momento di essere recuperato e salvato dal tempo.”