Respirare la germinazione dell’io, appropriarsene per sentire tutta la profondità del fondo, incatenare le negazioni per affermare il mondo attraverso una forma antilirica che spodesta il viso aperto dell’indefinibilità e concentra il respiro delle parole in mostra, la loro forza, il loro abbandono di collezione.
È da questa vitalità nascosta che è possibile leggere Poema bianco[1] di Pasquale Panella, edito da Miraggi, ora ridisegnato e ampliato dopo essere stato pubblicato la prima volta nel 2007, per le edizioni IRI.
Autore tra i più importanti della musica italiana, dall’ultimo periodo di Lucio Battisti, passando per Zucchero, Mango e Amedeo Minghi, qui concede il suono elementare della parola nel verso, nel soliloquio che tende all’istantaneo, nel cadenzato bianco dello sguardo.
È il tono dell’intimità smussata, dove l’ascolto diventa più di una voce e attraverso la grammatica del senso si compone l’umano, si libera il suono e l’assenza, che invade il suono del corpo, unisce e lega indissolubilmente l’essere e la sua appartenenza, il suo doppio e il tu, la consequenzialità espressiva e l’accento della propria inner vision, come afferma Isabella Cesarini:
«Per Panella il timbro nel tatto, il suono nello sfioramento. Scrivere negando la poesia per accordare corporeità, ossia corpo, al verso. La sagoma di una scultura friabile, posta sul frangente di un corpo armonioso: il lemma. L’altro è il sé, ovvero un luogo. Un altrove dove accadono le cose, i sentimenti nel prima degli oggetti e nel dopo dei corpi. Il midollo nella parola sollevata dalla forma per far fiatare solo il sangue. Rosso di cuore e rosa di carne: bianco nello stato metatemporale del compiersi. Quel che è scritto è scritto, non accaduto, ma nel futuro del possibile. Nell’aura l’afflato di una rivoluzione scandita da due offensive; l’incursione a spoetizzare la parola e l’invettiva nel poema d’amore: la guerra è amore tra i sessi. Il non esserci figura l’edificio marmoreo dell’esserci: fondamenta di vocali e consonanti a scompaginare la lirica. L’amore è ossessione fuori dal ricordo e nella memoria agita solo la costruzione della reminiscenza. L’altrove è l’oltretempo di una voce che tuona su se stessa».[2]
L’intima rassegna dell’assenza che sfiora il congedo dalla parola per farsi respiro, commiato di carezze che stringe i sensi, afferma la storia e la piena dell’io fino al termine e alla destinazione, fino alla vista che vive come inchiesta sull’avvenimento delle cose, sulla loro datità e permanenza, e sulla fine nell’animo: «Faccio che non esisti / perché vorrei esistessi / non in questa vita della gente / ma in quella che non sta né in cielo né in terra / ma solamente nella nostra contentezza».
Descrivere la densità dell’istante che si propone significa avvertire la debordante consunzione della parola che non riesce a dire pienamente, nonostante sanguini e patisca, nonostante il dicibile è appena un non-detto, un respiro affiorato e arenato: «Respiravamo e basta / Le mani come il vento che si calma / sul ventre, su una coscia, su una spalla / Il viso ritornava a fare il viso, / il profilo la prora / di una barca incagliata / Era il tuo viso che ritornava / La tua bocca affiorata, / la mossa di un’ultima ondata, / il tuo corpo arenato / Quanta sabbia t’ho amato».
Prendere l’immagine femminile e impossessarsene, per essere altro da sé e in sé, dialogare con la sua frattura e la sua figurale gradazione affettiva, ricolma nei dettagli spaesati:
«Lo sai che le nostre / figure camminano / sui muri e sul soffitto? / E si potrebbe ridere / per questo / Ma quante ombre / abbiamo fatto insieme / Non è con il pensiero / che ti ricordo / Non è con il ricordo / che ti penso / È un’altra cosa. / è il senso / Prima non era / necessario […] Trovo cose tue spaesate in casa / Come un orrore provo / – esagero, sì, ma dire le cose / (ovvero i sentimenti) è esagerarle – / e un freddo che fa tremare / la palpebra di un occhio / non voglio guardare / Se guardo è di traverso / Cerco di non vedere / Voglio allontanare / Fare sparire / Ma voglio anche / sapere dove / Di’ qualcosa anche tu / Fa’ finta che ti senta / Fa’ finta ossia fammi il poeta / (fallo tu) / Diventa marinista / (sennò che poeta sei): / “Orrore non è il timore che le cose / si possano animare come mostri, / orrore è il timore / che una tua cosa senza te / (rossetto, fermacapelli, / occhiali da sole), / muovendo da essa stessa / partendo da un capello o da un’impronta, / non possa dimostrarti, / come si dimostra un teorema – / tutta intera e animata, / anche, se vuoi, mostruosa, / mostruosamente amata”».
In questa distanza si compie un desiderio alto e finale di raggiungimento. Un soliloquio, dunque, che scrive la sua mancanza ultima, che declina le negazioni per affermare, che spinge il frattale del dissolvimento in una purezza levigata e sorgiva.
Nella prefazione Lucio Saviani scrive:
«Un soliloquio. Sorprendere qualcuno a parlare da solo crea imbarazzo, ci si sente come intrusi, uno parla da solo, si rivolge a se stesso. O a qualcuno che resta muto? Oppure a uno che è assente? È la parola nella solitudine, una parola agostiniana. Ma si parla, qui, di solitudine come condizione del corpo o come disposizione della mente? Parla da solo chi non ha nessuno intorno a sé o chi non parla a nessuno se non a se stesso, anche se in mezzo a una folla? Se parlo e sono solo non è detto che stia parlando a me, e se parlo a me non è detto che stia da solo. Eppure, se puoi parlare a te stesso, essere il tuo interlocutore è perché hai interiorizzato il parlare tra due, il dialogo, ossia il «pensare in due».[3]
Parlare a se stessi e alle proprie stanze, alla propria mancanza, al fondo estremo del pensiero che si riflette, si espone, dialoga con la propria ineffabilità e si apre alla indescrivibile ansa del raggiungersi, del compiersi, della vita che si dona per ultimarsi, commuoversi e diramarsi nel silenzio:
«Tra parentesi / (ti chiedo a me) / ti pare possibile / (a me sì, possibile che sì), / ti pare possibile che tu, / (tu no, non sei possibile) / come io ti parlo, sì, tu / mi stia parlando? / Ossia ti sento me / (ma non mi sento te) / Non so come altro / Non so come altro dirlo / Non so, come altro, te […] L’interpunzione, ecco: / questi due punti precedenti, / le virgole, / l’interrogativo poco fa / Il punto fermo, no / Quello, alla fine / Sai, sono segni».
Il silenzio che appartiene al fondo e alle separazioni, la piena del romanzo dell’io si scompone nelle fibre e nelle venature e trasuda. La scomposizione della grammatica si sposta così per l’altro io che appare, ascolta, vive, diventa coppia e vira al femminile («I fatti e le persone diventano / nel poema immaginari / e nella realtà non esistono più / La voce del poema è femminile» o ancora «se al maschile / abbiamo al mondo un fine/ è la fine che abbiamo al femminile»).
Qui la parola compie se stessa quando dice io, quando si coniuga nella sua mancanza e indocile scarsità, nel suo lampo unico e nella pioggia grondante cade dall’alto, come un ricordo di una scena che si ripete: la durata delle elisioni, le rime che si cercano, il corpo nudo e bianco e la lontananza che accade.
Sono i modi finiti del tempo nella sintassi ineludibile, nell’inciampo, nell’ombra che cammina. E le fratture dell’essere, fino al nascondiglio immaginato e al poema vacillano nell’assenza e nella perplessità dei corpi in amore. La loro incertezza, il loro bisogno a distanza, il pensiero che parla come se fosse un’altra stanza e una compagnia di solitudini: «La nostra non che fosse incerta, / anzi, ma sarebbe molto stupido / se ci si innamorasse per vivere / la vita / Morire insieme è il primo / Progetto sovversivo di chi / Si innamora da vivo».
Qui Panella addensa la scrittura per farne essenzialità di altrove, controversia, pagina non scritta e luogo stesso della pagina, doppia negazione e dissoluzione franta dell’io, gli apostrofi, i bersagli mancati, le cadute di suono e rumore, l’invisibilità, l’attraversamento di una sparizione e la bellezza:
«Insomma, è ovvio, dico / E cos’è l’ovvio? È la possibilità, / in questo caso, / che le cose ossia le persone, / noi due, per essere precisi, / noi, gli unici abitanti della terra, / per quanto ne so io di te e di me / (gli altri sono le solite voci che girano / vocìo, notizie, ossia troppa invenzione)… / la possibilità (dicevo) che in quella sparizione / (dico) eventualmente noi poi ci incontriamo, / là dove gli spariti vanno e stanno / (e chi è più sparito di noi?, mi domando / conoscendo la risposta, e questa, / per inciso, è l’unica risposta che conosco […]».
In questo agone quotidiano, Panella ridesta le soglie e le linee della quotidianità, i paradisi della vocalità, avrebbe detto Mario Luzi, le voci perdute nei dettagli. L’amore plurale di ogni cosa, lo stesso amore da lontano. È il gioco dei pronomi, la loro attestazione finale che precede il loro infittimento: «Come sarebbe il mondo se noi veramente sapessimo, / potessimo ascoltare il parlar da solo dell’altro».
Il procedimento linguistico dell’autore ricorda molto il Milton Model, strumento del linguaggio che Milton Erickson utilizzava con i pazienti e che poi Richard Bandler e John Grinder[4] hanno codificato, individuando pattern linguistici, come scrive Samuele Corona:
«Il Milton Model contiene una serie di locuzioni e schemi di linguaggio che comprendono generalizzazioni, affermazioni ambigue e linguaggio indiretto. Tali schemi linguistici possono risultare indirettamente evocativi; in pratica permettono di “portare” la persona a guardarsi dentro di sé in modo che possa utilizzare l’immaginazione creativa.
E ancora:
«Con il Milton Model il soggetto entra in uno stato alterato in cui la mente conscia è distratta, mentre quella inconscia è libera di ascoltare le parole del proprio interlocutore. La mente inconscia interpreta il linguaggio del modello come un’istruzione per accedere a nuove risorse e creare nuovi comportamenti. Le istruzioni sono mantenute deliberatamente vaghe in modo che la persona debba scavare in profondità fra le proprie risorse inconsce e produrre così un cambiamento in modo facile e senza compiere sforzi. Il Milton Model utilizza simboli, metafore, immagini e un linguaggio positivo che attrae la mente inconscia e può indurre uno stato di trance, scatenando le risorse inconsce e il potere dell’immaginazione».[5]
L’amore superstite, l’acqua feconda, il silenzio che nasce come se fosse esilio, mondo leggero, il viso inclinato, la bocca scalfita dal sorriso, ultimità serrata come il mare.
«Ho mentito che t’amavo / Capiscimi / Avrei voluto versarmi / sul tuo viso, sul tuo petto / come crema umana / invece la mia voce parlava / Avrei voluto tu fossi / fango, una melma
nella quale affondare / soffocando / Invece, restando in superficie, / ci dicevamo a parole l’amore / come due villeggianti nuotando / (nell’acqua le bracciate / sono come all’asciutto/ gli abbracci: ci fanno / galleggiare; anche le gambe: / tu a delfino, io a rana, / e nella stessa acqua) / Avrei voluto speronarti / entrando in te, / le braccia nelle braccia, / le gambe nelle gambe / come in una tuta / da meccanico con la chiusura / lampo serrata come il mare / sul nostro affondamento / Come in una muta / Invece vociavo senz’acqua / nella bocca, anzi, ricordo, / poi, dopo, bevevamo / da una bottiglia l’acqua / che, fresca, accanto a noi / si intiepidiva sapendo / di temperatura umana / Con l’acqua in bocca per volerla bere / perdemmo l’occasione di annegare / e di tacere».
Perché l’amore è il punto deserto, dove non passa nessuno, il punto fermo del corpo nel deserto. E poi ancora i gesti soli come i ricordi, i suoni, i posti che scorrono e si palesano nel mondo che dura in quel tempo, per continuare a vivere. I tempi non coincidono, la sintassi amorosa non ha tempo, non trova scorrimenti, si ferma, si scambia, diventa il gemito di un lascito indenne, come una vacanza dal testo o la testimonianza di una resa:
«il mondo esiste / per le coincidenze / tra gli avvenimenti / e i nostri segreti / nella violenza di una repressione / nelle urla, in una maglia strappata, / (e il corpo apparso pare avere fretta), / nello strazio e nell’uscita stranita / di una voce, avverto i tentativi / di riprodurre il nostro godimento, / le mani addosso, le cariche, attentati / lo sfondamento, quella mescolanza / di forze dentro forze, / di ordine e disordine, / di bocche e di vestiti / e teste spinte sotto / dalla mano sopra / (come la polizia / fa entrare in macchina / i fermati / così io te, tu me, / noi, nostri sospettati».
La fine delle parole quando si ama. Come se dovessero essere prese da una rete, un sintagma spezzato, una nervatura di suono che inquieta, estasia, deraglia il subconscio. I collages, i patchwork, le pastiches, i paradossi, gli aforismi fittizi, le asimmetrie dettate uniscono emozioni oscure. La parola ne esce levigata, non mutila ma essenziale, non cerebrale ma spogliata: «L’acqua non scorre più, scorre l’anta. La frizione di un asciugamano, un tirar su col naso, il contrasto tra il corpo e il tessuto dell’accappatoio, ciabattine senza tacco come nacchere morbide. Fuori è spiovuto, gli pneumatici sul bagnato imitano gli scrosci. L’imitazione, il come e la somiglianza sono il lascito di quel che è finito di accadere».
È traccia lasciata dopo il diluvio, come dall’inaudito, come il per sempre che è eversione, così sia, universo.
Andrea Galgano
[1] Panella P., Poema bianco, Miraggi Edizioni, Torino 2018.
[2] Cesarini I., Vertigine della parola, (http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/poema-bianco-pasquale-panella/), 25 febbraio 2018.
[3] Saviani L., Nel verso del bianco (nota minima), in Panella P., cit., p.6.
[4] Vedi: Bandler R. – Grinder J., I modelli della tecnica ipnotica di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1984.
[5] Corona S., Il Milton Model (https://www.samuelecorona.com/il-milton-model/), 9 giugno 2016.
Panella P., Poema bianco, Miraggi Edizioni, Torino 2018.
Bandler R. – Grinder J., I modelli della tecnica ipnotica di Milton H. Erickson, Astrolabio, Roma 1984.
Corona S., Il Milton Model (https://www.samuelecorona.com/il-milton-model/), 9 giugno 2016.
Cesarini I., Vertigine della parola, (http://www.lintellettualedissidente.it/letteratura-2/poema-bianco-pasquale-panella/), 25 febbraio 2018.