Campano per nascita e formazione, parigino per scelta, Francesco Forlani è scrittore eclettico, performer, traduttore, fondatore di riviste come «Sud», instancabile promotore di iniziative che gettino ponti tra culture diverse ma con molti punti in comune, quella italiana e quella francese.
E mentre sta per uscire in Francia un suo nuovo libro, intitolato Par-delà la forêt: Mon éducation nationale, in Italia pubblica, in edizione bilingue e con fotografie fatte da lui stesso (contaminare i linguaggi è una caratteristica del lavoro di Forlani) una sorprendente opera di poesia intitolata Penultimi (Miraggi edizioni, pagine 128, euro 13) che nasce da un’occasione autobiografica per acquisire valenze di grande significato.
Diventato professore di italiano nelle scuole francesi, Francesco Forlani è stato costretto a modificare sostanzialmente le sue abitudini. La scuola in cui insegnava era quasi in Normandia, e per quanto efficienti siano i trasporti francesi ci volevano un paio d’ore per arrivarci. Fine, quindi, delle frizzanti serate parigine, per uscire all’alba o in piena notte, prendere il metrò alla prima corsa e raggiungere la stazione Montparnasse, da dove partono i treni per l’Ovest. Un’occasione preziosa per scoprire una dimensione sconosciuta della città e, appunto, quelli che Forlani chiama empaticamente «i penultimi»: persone che dipendono dalla puntualità del treno, che se c’è qualche ritardo saranno «donne delle pulizie non presenti/ come da contratto negli uffici, manovali assenti dai cantieri,/ i professori dalle cattedre e impiegati dalla macchina/ che amministra il tempo degli uomini e delle donne».
Persone, insomma, chiamate a svolgere ruoli subalterni, obbligate a essere delle rotelle di ingranaggi che tendono sempre più a ignorare l’aspetto umano dell’organizzazione sociale, di quelle spietate macchine finalizzate esclusivamente al guadagno e al controllo in quel «capitalismo della sorveglianza» di cui parla la studiosa americana Shoshana Zuboff e che ha sconvolto anche la tradizionale divisione in classi.
Per «raccontare» i suoi penultimi, l’autore casertano ha scelto una lingua poetica colloquiale, quasi narrativa, che rinuncia all’enfasi lirica, privilegiando i toni bassi anche se non rinuncia a guizzi e accensioni, collocandosi in una posizione decisamente «altra» rispetto alla koinè dominante. Nella consapevolezza che le cose dicono sempre «più di quanto non si sia in grado di sentire veramente» e che si dovrebbe fare almeno il tentativo di riuscirci.