A dispetto della simpatica e tenera copertina, ciò che emerge sin dalle primissime pagine nella lettura di questo libro di poesie targato Alessandra Carnaroli, edito per Miraggi edizioni, è proprio “lo stile katana”, inteso propriamente come una versificazione che affetta, si precisa, non in senso sentimentale.
Non si parla di un’opera infatuata della cultura proveniente dal Paese del Sol Levante e pregna di esotismo, almeno non per quanto riguarda le tematiche tradizionaliste o la cultura tecnologica che ha reso il Giappone appetibile al gusto occidentale. Quella che ci viene presentato da Alessandra Carnaroli è una poesia dal taglio (perdonate il gioco di parole) tagliente, più vicina alle suggestioni della letteratura e del cinema pulp che alla rappresentazione di spietata bellezza tipica della cultura nipponica.
Nell’epoca globale le forme si svuotano di significato, la tradizione perde ulteriori colpi e il parodiare sa essere un’arma di rappresentazione dell’attualità tremendamente efficace, spesso in modo paradossale ben più credibile di forme che amano definirsi serie, dunque in controtendenza a ciò che il Sommo Poeta dichiarava in uno dei suoi celebri Canti: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Niente di nuovo su questo, sono ormai secoli di messa in discussione della tradizione in poesia, di rappresentazione del brutto che diventa sublime: lo hanno fatto I Fiori del Male di Baudelaire o l’Impeto incendiario del Palazzeschi futurista, eppure Alessandra Carnaroli mette in atto un’operazione intelligente a cui va dato interesse per l’allusione formale (e quindi non un vero e proprio rimaneggiare) e la freschezza sostanziale dei versi.
Partiamo dalla prima sezione del libro, Carico e scarico, in cui la forma si fa brevissima, tanto essenziale quanto sferzante. Il verso scarno non perde quasi mai efficacia e fa della propria immediatezza un formidabile punto di forza: difficile non richiamare alla mente quelle forme che hanno fatto la fortuna della poesia giapponese, come l’haiku o il tanka, ma qui non c’è bellezza né sublime, non c’è stagione né elemento naturale, soltanto la dura realtà di una prostituta nigeriana costretta a fare la vita di strada in Italia.
26
d’inverno accendiamo
un fuoco
vicino la strada
urlano
vi prende fuoco il culo
allora rispondiamo
vieni a buttare
liquido seminale
30
sei fortunata da
essere in italia
se restavi
in nigeria
avevi la polio
qui mi trombano
sul sedile di una
polo
42
metti il preservativo
hai famiglia
non lo faccio per te
ma per mia moglie incinta
non voglio attaccarle
la tua faccia da banana
fargli venire un
figlio
con una voglia strana
In queste poche “gocce” (ce ne sono ben 127) si scorge uno spiccato e giocoso gusto per la critica diretta alla società italiana, a un maschilismo soffocante e a un sistema di dominio che impedisce il cambiamento della propria condizione di vita, questione che vale per la classe media e che, con maggiore drammaticità, si riflette nei riguardi degli individui ai margini. Nei versi domina un certo sarcasmo che si lascia accompagnare dalla leggerezza pur dissacrando le parvenze: così l’amore a pagamento abbraccia una miseria collettiva in cui l’affermazione personale è strumento di desiderio imprescindibile e irrinunciabile sia per poveri sia per chi gli insoddisfatti dalla vita. Un ritratto non proprio lusinghiero che punta il dito contro l’ipocrisia di tante persone, coloro che amano l’oggetto del disprezzo, a patto di poterlo a possedere. Non c’è spazio per i sentimenti, l’io poetante saggiamente immedesimato non fa del vittimismo: la sua è un’operazione verità focalizzata sul reale senza peli sulla lingua, che in poesia è sempre un grande rischio in quanto il linguaggio e la forma sono tutto. Nonostante tutto, forte di questa ragione e con un incedere diretto e volutamente sghembo, si conquista la fiducia e la simpatia del lettore.
La seconda sezione, “Murini / Inserisci un emoji”, mette in campo altri elementi linguistici e stilistici che si lasciano apprezzare. Innanzitutto vi è l’emulazione di un linguaggio approssimativo tipico dei social network che quotidianamente alimenta lo stucchevole flood di pressappochismo spicciolo o, nella peggiore delle ipotesi, veterocomplottismo in salsa negazionista. Lo scenario su cui si muove la poesia di Alessandra Carnaroli resta sempre la critica alla società, ma stavolta l’io poetante non è vittima, bensì vittimista. I componimenti, inoltre, presentano un elemento espressivo probabilmente inedito e decisamente originale: la descrizione degli emoji, inseriti in alcuni versi, quasi come a voler ridicolizzare ulteriormente il contenuto del testo. Vediamone un esempio:
ci vogliono togliere i figli
lo stato
omicidio legalizzato / diavoletto faccia arrabbiata
verranno quando invecchiamo
a toglierci i figli
che si ammalano
o amputati / due facce spaventate
come guardie zoofile
sulla panda verde
con i cani alla catena
i nostri figli tolti dalla cuccia
per due pulci
sulla schiena / grrr gatto orso coniglio iena
L’espediente del corsivo è godibile alla lettura non solo in senso descrittivo e parodistico, ma soprattutto sonoro (arrabbiata che fa da eco a stato e legalizzato, oppure iena che richiama catena e schiena). Si noti, inoltre, anche un gusto stilistico che nella rapidità trova i propri inceppamenti, tipici di quei contenuti poco ponderati, di pancia, tirati fino al punto di toccare anche questioni insensate. Eppure questo approccio si rivela vincente e dà valore ai versi di Poesie con katana, un lavoro ben calibrato, leggero sì, ma ben curato. Di certo non esprimerà un alto valore morale, ma gli è congeniale uno sguardo peculiare circa il ruolo della poesia civile oggi, nuda e senza retorica.
la vita dei deboli
non ha valore / sigh sigh
si salvano solo gli immigrati
dai barconi
scambieranno i bambini italiani
con i cinesi copiati / alieno alieno
diventeranno un serbatoio di organi
da trapiantare
per il mercato orientale
/ lacrima lacrima faccina triste occhi cuore spezzato orecchio naso
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