
Si sente sempre raccontare il dopoguerra come un’epoca che si proiettava con leggerezza ed entusiasmo verso l’avvenire, sulle ali dei ritrovati valori democratici. Ma era davvero così?
Quando i padri camminavano nel vuoto racconta la generazione dei padri che hanno fatto la guerra, il loro smarrimento di fronte a un presente inaspettato e al progressivo allontanamento dei figli che, già molto prima del Sessantotto, si preparano a prendere il potere. Figli che si sono fatti maestri di se stessi: nell’educazione sentimentale, sessuale, culturale, nella costruzione di una strategia di guerra che spazzerà il passato. Soprattutto, intorno ai padri aleggia un’aria di sconfitta. E i figli, feroci, la fiutano.
Alla vecchia generazione appartiene il padre del narratore, fervente latinista, che cerca di animare la vita culturale di provincia inimicandosi concittadini e politici influenti, che traduce in latino Il giovane Holden per far avvicinare gli allievi alla lingua antica… Bizzarro e inattuale, buono e inutilmente intelligente, infelicemente innamorato di due donne: la sua figura donchisciottesca attraversa il romanzo e domina l’immaginario del figlio, per spegnersi nell’amarezza. Con una sorpresa finale.
Anche il figlio amerà due donne: annodando il proprio destino a quello del padre con i fili degli amori difficili e della lotta silenziosa tra le rispettive generazioni.