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di Alessandro Catalano, professore di Letteratura ceca presso l’Università di Padova e socio di Memorial Italia

La scrittrice ceca a Huffpost: «Noi che siamo nati nell’est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo”… “Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte».

La scrittrice Radka Denemarková rappresenta una delle voci più originali e provocatorie della letteratura ceca, ha vinto numerosi premi ed è un’intellettuale con grande visibilità nell’ambiente culturale tedesco. In italiano sono stati tradotti i romanzi I soldi di Hitler, sul complesso processo di denazificazione seguito alla Seconda guerra mondiale dal punto di vista di una ragazza sia ebrea che tedesca (Keller 2012), e Contributo alla storia della gioia, sulla dilagante violazione del corpo femminile nella storia (Sovera 2018, entrambi tradotti da Angela Zavettieri). Poche settimane fa l’editore Miraggi ha pubblicato, nella brillante traduzione di Laura Angeloni, il monumentale romanzo Ore di piombo, che la scrittrice ha appena presentato a Torino, Parma e Firenze.

Da quando l’ho intervistata l’ultima volta per lo spazio di Memorial Italia sull’HuffPost, due anni e mezzo fa, sono successe molte cose. Vorrei affrontare con lei sia la ricezione del suo romanzo appena tradotto in italiano, Ore di piombo, sia la situazione politica internazionale. Partirei da quando è stata invitata a inaugurare il festival Pordenonelegge, dove ha dialogato con la scrittrice Silvia Avallone. In una sera caratterizzata da una bella partecipazione di un pubblico caloroso, non sono mancate le polemiche da parte del sindaco della città, Alessandro Ciriani, che ha usato parole forti: “Ho assistito a una serie di luoghi comuni triti e ritriti di un vecchio femminismo che non esiste più”. Perché le sue parole provocano spesso questo tipo di reazioni?

Credo che molti esponenti politici odierni non siano più abituati al fatto che gli scrittori violino lo spazio della politica, la percepiscono come un’invasione. Ma non dobbiamo dimenticare che gli scrittori si sono sempre espressi sul mondo, fornendo spesso una prospettiva nuova e diversa, e sono persuasa che dobbiamo continuare a difendere la nostra autonomia e a dire quello che pensiamo. La politica è in fondo solo un servizio, anche se molti credono di essere immuni dal controllo della società. Io sono una scrittrice e una cittadina, e il XX secolo ci ha insegnato che il diritto di criticare è importantissimo. Un diritto che da una parte fa paura, ma dall’altra costituisce la nostra grande forza. Ha notato che una delle prime misure messe in atto da tutti i sistemi autoritari è quella di condizionare gli scrittori? Perché rappresentano lo specchio del potere. La censura è sempre tragica, ma allo stesso tempo è anche una buona notizia: significa che la voce della letteratura è ancora forte. Ricordo bene l’appassionata reazione del pubblico a Pordenone. Ecco, quello che mi sta più a cuore è ricevere il sostegno di chi ascolta. Credo che sia oggi molto importante dare voce a chi non ha la possibilità di manifestare pubblicamente le proprie idee, a chi non può rischiare. E credo che di questo tipo di coraggio avremo sempre più bisogno. 

Lei ha più volte richiamato l’attenzione sul persistere di una cultura patriarcale anche in contesti dove stentiamo a riconoscerla, ad esempio tra i dissidenti. Quanto c’entra il fatto di essere donna?

Sì, naturalmente le cose non erano affatto diverse neanche nella dissidenza. Se pensiamo ai dissidenti in Cecoslovacchia, ci vengono in mente i nomi di Václav Havel, o di Milan Kundera, sempre di uomini si tratta. Anche se a nessuno piace sentirlo, il mondo odierno è dominato ancora da un pensiero patriarcale, solo gli uomini vengono presi sul serio. Se le stesse frasi le pronuncia una donna, hanno minor peso.

In questi giorni lei è in Italia per presentare il romanzo Ore di piombo, uscito in ceco nel 2018. In questi sei anni trascorsi, secondo lei è cambiato qualcosa di essenziale nel modo in cui possiamo leggere questo romanzo, in buona parte ambientato in Cina?

Quando il romanzo è uscito, poteva paradossalmente suonare come un avvertimento. Oggi invece alcuni degli argomenti affrontati sono realtà. Viene quindi spesso letto come un romanzo che contribuisce a svelare i meccanismi del nuovo potere. Il mio intento era quello di mettere in guardia contro un nuovo tipo di totalitarismo. Molti erano convinti che un’economia che funziona porta automaticamente al benessere. Ma quando il governo è monopartitico, l’economia non fa che rafforzarne il potere. Avendo trascorso molti mesi in Cina, ho constatato con orrore quanti europei hanno sostituito i nostri valori con il denaro, allineandosi cioè al modus operandi degli oligarchi di tutto il mondo. E non parlo solo di Trump e Putin, il discorso può essere esteso anche altrove, generando un sistema che sfugge a tutti gli strumenti di controllo della democrazia. 

In diversi punti del romanzo mi sembra anche di percepire una forte critica, o se preferisce, un avvertimento, nei confronti della tecnologia, o meglio del mondo virtuale.

Sì, volevo in effetti mostrare quanto la tecnologia sia ormai onnipresente nelle nostre vite, cosa di cui soltanto adesso cominciamo a renderci pienamente conto. In internet si sono ormai formati dei veri e propri Stati, che nessuno controlla: Facebook, Meta, perfino il loro nome cambia di continuo. Per non parlare del fenomeno dell’intelligenza artificiale, con tutti problemi connessi. Sono realtà che non possono rimanere senza una forma di controllo. Pensiamo per esempio alle fake news: sono ormai talmente diffuse, che per il cittadino medio è difficile orientarsi; inoltre, creano il sostrato ideale per insabbiamenti di vario tipo, distolgono l’attenzione dai temi davvero importanti. Chi fa circolare menzogne dovrebbe essere punito, come del resto in molti paesi già viene punita la negazione della Shoah. In questo momento storico è fondamentale riaffermare il concetto di responsabilità.

Che troppo spesso è invece dimenticato proprio dalle alte sfere della politica…

Il problema è che abbiamo a che fare con individui che avanzano la pretesa di influenzare la politica mondiale, pur non essendo mai stati eletti. E penso alle immagini della “incoronazione” di Trump: in prima fila non c’erano di sicuro premi Nobel e artisti, ma individui che non dovrebbero avere nulla a che fare con la politica, visto che manifestano un aperto e profondo fastidio nei confronti della democrazia e hanno costruito veri e propri imperi sul verticismo, sul dominio assoluto. La politica dovrebbe occuparsi di organizzare la società così da garantire il benessere dei cittadini. Noi purtroppo avvertiamo il pericolo solo quando vediamo i fucili, ma il modo in cui questi individui influenzano la struttura sociale è molto più pericoloso di un fucile. Dovrebbero essere controllati con la massima attenzione e invece sono loro a controllare noi.

Eppure, dovremmo avere imparato la lezione… 

Esatto, guardando al passato, rimaniamo sempre attoniti all’idea che una sola persona sia riuscita ad alterare così profondamente l’idea stessa di democrazia, ma quando una cosa analoga si verifica davanti ai nostri occhi, nemmeno ce ne accorgiamo. Il ruolo peggiore lo ricopre sempre la maggioranza silenziosa, spalleggiata da una lunga serie di utili idioti. In un mondo interconnesso come quello in cui viviamo, non c’è via di fuga. C’è un gruppo ristretto di persone — e parlo di tutti gli oligarchi che proliferano ovunque, tutti con la stessa forma di narcisismo — che sembra aver preso il mondo per una sorta di giocattolo privato e si sente padrone del destino di interi paesi, più o meno piccoli. Se anche i grandi paesi cominciano ad agire nello stesso modo, allora è facile che scoppi una guerra, di solito contro gli stati più deboli. E sono guerre che non riguardano solo i paesi aggrediti.

È quello che è successo in Ucraina, per esempio?

Direi di sì, Putin a mio avviso non odia soltanto l’Ucraina, ma l’idea delle tradizioni democratiche in sé. E la sua forza è amplificata dalla debolezza dell’Europa. Sono discorsi che richiederebbero lunghe e dettagliate disquisizioni, ma non vorrei che si pensasse a Ore di piombo come a un trattato politico. I livelli di lettura del romanzo sono molti e diversificati. 

Infatti, vorrei anche chiederle, a beneficio di chi non ha letto il romanzo, come si declina poi tutto questo sotto forma di opera narrativa.

Ore di piombo è un esperimento. Mi sono chiesta se fosse possibile rappresentare la complessità dell’epoca che stiamo vivendo attraverso una forma nuova. Io credo che solo il romanzo sia in grado di affrontare contemporaneamente un gran numero di aspetti diversi da diversi punti di vista. Come rappresentare, infatti, questo processo di disgregazione dei valori che coinvolge la società, la famiglia, l’individuo e, perché no, perfino l’anima? A differenza della storia, che fotografa e analizza gli avvenimenti, la letteratura può cogliere il mondo interiore dei personaggi e far emergere la percezione individuale della mentalità di un’epoca. La metafora dell’“ora di piombo” in quanto momento fatale nella vita dei personaggi, ma anche della società e persino dei paesi, funziona secondo me meglio di tanti saggi sull’argomento. Il mio è un romanzo a più voci, anche se ovviamente il lettore è spesso portato a identificarmi con il personaggio di Scrittrice. Ma lei non capisce il mondo che ha attorno spesso provoca con i suoi atti la rovina di chi la circonda, per esempio nel caso di Ragazza cinese. Ho poi voluto dilatare il tempo e lo spazio, contrapponendo all’incomprensibile agire umano il mondo animale, gli uccelli e due gatti, Arancio e Mansur. Soprattutto il primo, Arancio, è un gatto millenario, ha vissuto varie epoche e ha visto la storia ripetersi innumerevoli volte, dunque osserva tutto con indulgenza, con il suo caratteristico umorismo nero. Questa pluralità di prospettive sulla storia raccontata è una cosa che solo un romanzo è in grado di far emergere.

In Ore di piombo c’è poi un particolare lavoro sulla lingua…

La battaglia della vera letteratura, oggi, è combattuta con la lingua e per la lingua. Un romanzo scritto con una lingua debole, incerta, senza prese di posizione chiare, non è in grado di svelare alcunché sul mondo. Ogni mio libro ha una lingua e una forma diversa. È il mio tentativo di recuperare una lingua che abbia un significato reale, facendo sì che ognuno si assuma la responsabilità di ciò che afferma. Il lavoro sulla forma è complesso, i singoli capitoli del romanzo rappresentano dei mattoni con i quali ho edificato una cattedrale. Al tempo stesso ogni linea narrativa e ogni capitolo possono essere letti come storie a sé stanti. Ore di piombo rappresenta quindi un esperimento con la lingua e con la forma: mi piace ripetere che contiene in realtà cinque romanzi diversi, che può essere letto come un romanzo d’amore, un romanzo su un singolo personaggio, sulla Cina e sull’Europa, su cosa sta succedendo oggi alla famiglia e su cosa significa essere “non rieducabili”. 

Volevo in effetti chiederle cosa significa per lei l’espressione “non rieducabile”, utilizzata spesso nel romanzo ed estendibile a molti episodi tragici del passato, basti pensare a una “donna non rieducabile” come Anna Politkovskaja.

I “non rieducabili” sono quelli che un tempo chiamavamo dissidenti, ma oggi la parola “dissidente” non basta più. Le nuove forme di totalitarismo esercitano un controllo così capillare sul singolo, che per loro non è sufficiente chiudere in prigione chi non si conforma. Il “non rieducabile” va eliminato in tutto e per tutto. Per questo, oggi, è estremamente importante non arrendersi.

Perché ha deciso di ambientare il romanzo proprio in Cina?

La Cina rappresenta una grande novità, in quanto ha sviluppato una nuova forma di totalitarismo che riunisce in sé il peggio del capitalismo e il peggio del comunismo. Pensi solo al totale silenzio sugli oppositori concreti. A suo tempo, quando Havel, il più famoso dissidente cecoslovacco, veniva arrestato, ne parlavano i giornali e le televisioni di tutti i paesi occidentali, insorgevano tutti i governi occidentali… Oggi in Cina spariscono spesso persone che all’estero sono del tutto sconosciute, quindi chi se ne preoccupa? È una forma di totalitarismo molto più efficace, che controlla i cittadini in modo feroce.

Non trova a suo modo curioso che, parlando della Cina, si continui a usare la parola “comunismo”?

Sì, senz’altro. Se definiamo oggi la Cina “comunista”, qual è il significato di questa parola? Il potere è una questione che riguarda i più ricchi, ovvero i capitalisti della peggior specie. La parola comunismo è stata completamente svuotata del suo significato. In un momento in cui l’unico valore sembra quello del denaro, dobbiamo tornare al vero valore delle parole, a partire da: che cos’è l’uomo? 

La guerra in Ucraina ha cambiato qualcosa da questo punto di vista? 

La guerra in Ucraina ha fatto emergere altri problemi della nostra epoca. Solo adesso ci rendiamo conto, per esempio, di quanto siano efficaci le guerre ibride e di quante persone abbiano assorbito la propaganda russa. Secondo me, comunque, alla base di tutto c’è un rovesciamento dei valori che fa sì che la vittima venga trasformata in colpevole. È per questo che è così facile rovesciare l’idea di chi sia il vero aggressore. 

La Repubblica ceca che posizione ha assunto nei confronti della guerra in Ucraina? 

Per fortuna la nostra politica ha assunto una posizione chiara, anche perché a Praga è stato tutto percepito in relazione al 1968 e ai vent’anni successivi, lasciando scarso adito a dubbi. Vari paesi dell’ex Europa dell’Est hanno ancora una conoscenza profonda della mentalità della Russia, convinta che ciò che le è appartenuto un tempo, le appartenga ancora… Ora, però, vediamo anche che alcuni paesi sono tornati ad assorbire forme di propaganda esplicita, basta pensare all’Ungheria. Il sogno di Putin non è scomparso, del resto, e mentre osserviamo la reazione coraggiosa dell’Ucraina discutendo nei nostri salotti, intanto lì si combatte. Ora la situazione politica mondiale sta cambiando, l’atteggiamento degli Stati Uniti è naturalmente essenziale, il che dimostra tra l’altro che basta un singolo narcisista per trasformare radicalmente tutto. Trump è fatto della stessa pasta e sarebbe disposto a sacrificare anche l’Europa intera. La guerra ha svelato anche a quali pericoli potremmo andare incontro, quali ore di piombo ci attendono. Se tutto è incentrato solo sull’economia, ogni rivendicazione riguarderà cose concrete, come hanno dimostrato la discussione sulle terre rare e la mentalità delle tante imprese che hanno fatto di tutto per aggirare le sanzioni. Purtroppo, pochi comprendono l’essenza della questione: in ballo non c’è solo qualche chilometro di un territorio lontano, ma siamo di fronte a un’epoca di rottura, in cui lo svuotamento dell’individuo è cosa reale. Il numero dei caduti rende necessario, dopo tre anni, fare blocco attorno all’Ucraina, altrimenti sarà troppo tardi e seguiranno altri casi simili: Groenlandia, Canada, Taiwan, Gaza etc.

Se lei dovesse ridefinire l’Europa, nei cui confronti in passato è stata più volte critica, descriverne i confini e ridisegnare le etichette che si continuano a usare (Occidentale, Orientale…), come la descriverebbe oggi? 

Molti di questi termini hanno ancora senso perché riflettono un’eredità condivisa da diverse generazioni, ma oggi non mi pare abbiano più un valore reale. Solo un’Europa realmente attiva potrebbe funzionare, perché c’è un grande bisogno di ribadire i valori nei quali ci identifichiamo. Ma in vari paesi la situazione è palesemente problematica. I valori sono una cosa, l’eredità un’altra. Se pensiamo all’Est e all’Ovest di un tempo, all’eredità del nazismo prima e del comunismo poi, e confrontiamo tutto questo con i recenti risultati politici, capiamo bene che fare i conti con i totalitarismi è un processo molto complesso. Questo dovrebbe anche insegnarci a riflettere sul futuro, mentre purtroppo continuano a prevalere, da una parte, una sorta di arroganza dell’Ovest e, dall’altra, una specie di senso di inferiorità dell’Est. Sarebbe necessario superarle e invece abbiamo sottovalutato molte cose. Rispetto all’occidente, in cui si pensava che tutto si potesse risolvere con le sanzioni, noi che siamo nati nell’Est capiamo molto meglio i segnali di una politica che rischia di diventare repressiva. Per me, in quanto scrittrice, è sconvolgente che il pensiero totalitario sia ancora così attraente, ma è un modello tutto sommato semplice, basato su ordine e consumismo.

E cosa può fare oggi la letteratura?

Si è parlato tanto di crisi del libro e naturalmente ho percepito anch’io gli ultimi anni come una crisi senza precedenti. Ma poi mi sono resa conto di quanto io stessa senta il bisogno della letteratura. In epoche simili, quando è in agguato una crisi di tale portata, le persone riscoprono la propria natura animale e si sforzano di comprenderne la ragione. Ho l’impressione che in alcuni paesi questo si stia già verificando. Nel mondo arabo, ad esempio, i cittadini assediati trovano un momento di aggregazione proprio attorno alla letteratura, che funziona come una sorta di oasi. Può sembrare assurdo, ma non mi stupisce che in tempo di guerra la gente si incontrasse proprio per leggere poesie, per non cadere in depressione: per questo si scriveva anche nei campi di concentramento. Tutte le proprie energie venivano riversate in un’attività come la scrittura. Io non ho mai creduto al fatto che si legge sempre meno. In fondo, se guardiamo la storia, la lettura non è mai stata un’attività chissà quanto diffusa. La letteratura ha il potere di salvare le persone, così è stato anche in passato. Anche se si tratta degli ultimi sopravvissuti, di un piccolo gruppo, molto distante dalle grandi masse, è comunque importantissimo. Magari ora potremmo sembrare dei paladini delle cause perse, guidati da un idealismo inutile e fastidioso, ma facciamo comunque parte di una lunga catena. Anche in passato ci sono stati scrittori che hanno pagato: sono rimasti incompresi, si sono suicidati, hanno bruciato i loro manoscritti, sono morti. È quindi anche un modo per proseguire nella loro tradizione, nella tradizione della “vera letteratura”. 

Ho l’impressione che per lei abbia un significato particolare questa idea di “vera letteratura”?

Sì, per me c’è una differenza essenziale tra “scrivere” e fare vera letteratura. Esistono tanti tipi di scrittori, ma non tutti sono disposti a rischiare, a seguire sentieri che non sono stati ancora battuti. È anche un’attività difficile perché in un’opera letteraria deve funzionare tutto, la forma, la lingua, la storia. Se un autore mette tutto sé stesso in un romanzo, i lettori se ne accorgono. Se ad esempio ripensiamo a Gita, la protagonista dei Soldi di Hitler, e al tema della Shoah, quanti libri kitsch, sentimentali, pieni di cliché sono stati scritti sull’argomento… Invece, gli autori che hanno davvero saputo fare i conti con sé stessi, Primo Levi, Imre Kertézs, Paul Celan, Jean Améry, lo hanno pagato sulla loro pelle. Si tratta di qualcosa che non è facile da definire, ma che avverto in modo molto forte. Pensi solo a quanti libri hanno enorme successo e due anni dopo non li ricorda più nessuno. Poi, certo, scrivere è anche una forma di narcisismo. Io, che ho avuto seri problemi finanziari e ho cresciuto da sola i miei figli, ho temuto spesso di dover cambiare modo di scrivere per vendere più copie. Per fortuna poi le cose sono andate in modo diverso. 

A questo punto non posso fare a meno di chiederle cosa rende un romanzo durevole nel tempo?

Non è il tema che rende certi romanzi immortali, ma il fatto che riflettono un intero mondo.  Le faccio due esempi molto diversi tra loro. Anna Karenina può essere letta in tanti modi, come una storia d’amore, una storia sul senso della famiglia, sull’infedeltà etc., ma se volete cogliere l’essenza della mentalità della Russia del XIX secolo, lì dentro c’è tutto. E questa è una forza che può avere solo un romanzo. L’uomo senza qualità riflette l’atmosfera di disgregazione della monarchia asburgica, e per coglierla Musil ha lavorato molto con la forma. Ma scrivere così comporta dei rischi. In Ore di piombo ho lavorato profondamente sulla forma, è un romanzo con tendenze liriche, riflessioni storiche, elementi saggistici, dialoghi con Confucio e Havel. E tante altre cose. Volevo verificare se oggi è possibile costruire un romanzo in questo modo. Io scrivo ogni mio romanzo come se fosse l’ultimo. E ritengo che riflettere sulla propria epoca significhi anche riflettere in termini di eternità. Funzionerà? Non lo sa nessuno. Ma è necessario provarci.

Alla luce di tutta la nostra conversazione, mi viene in mente una domanda finale, forse paradossale. Ma lei si sente una scrittrice ceca?

Io sono allergica a queste etichette, la letteratura italiana, la letteratura ceca etc. Per me esiste solo la vera letteratura. E sono convinta che in futuro la vera letteratura avrà un significato ancora più ampio, perché saremo investiti da un’alluvione di testi che riscriveranno la storia. L’intelligenza artificiale diventerà un’arma potente in mano a molti dilettanti. Ma dobbiamo imparare a conviverci: alcuni ambiti ne riceveranno un grosso aiuto, ma il pericolo c’è e non si può negare. Molti non si limiteranno a creare brevi video molto efficaci, ma anche testi più articolati in cui la verità e le menzogne saranno mescolate con sapienza. Solo la letteratura è in grado di raccontare i destini individuali e a illuminare la realtà da una prospettiva diversa, e ne abbiamo bisogno perché è un processo liberatorio. La fantasia ci aiuta a sviluppare il pensiero critico, attraverso cui decodificare la realtà.

QUI l’articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/guest/memorial-italia/2025/03/29/news/radka_denemarkova_e_il_tempo_degli_oligarchi_narcisisti_che_considerano_il_mondo_un_giocattolo_privato-18783761/