Un graphic novel che prende le mosse da un testo teatrale intriso di leggenda visto che fu il primo in assoluto a introdurre nell’immaginario collettivo, un secolo fa, il termine robot. Parliamo di R.U.R., acronimo di “Rossum’s Universal Robots” (I robot universali di Rossum), la distopia dello scrittore ceco Karel Capek, una delle primissime del secolo breve, nonché tra le più profetiche. La sua messa in scena inaugurale avvenne al Teatro nazionale di Praga nel 1921 e prese subito a girare e affermarsi sui palcoscenici mondiali. Il vaso di Pandora era ormai dissigillato.
Adesso quest’opera alchemica rivive, a fumetti, in un libro edito da Miraggi disegnato dalla giovane illustratrice Katerina Cupova. Anche lei è della Repubblica ceca, e riesce a infondere forma e una spiritualità cangiante a colori, con tratti raffinati e sobri, all’immarcescibile dramma post-umanista. La traduzione e la postfazione sono curate da Alessandro Catalano, professore associato di letteratura ceca al dipartimento di studi linguistici e letterari dell’università di Padova: sempre quest’ultimo ha firmato uno zoom sulle evoluzioni iconografiche e concettuali dei “nostri migliori amici bionici” (“100 anni in cinquanta immagini”), ospitato all’interno del volume. La versione di Cupova, classe 1992, offre una rivisitazione assolutamente originale ma rispettosa della pietra miliare. Il suo stile e la sua matita, rimandanti all’universo del cartone animato, affondano le radici in decenni di premiata animazione ceca. Non a caso lei si è laureata nella prestigiosa Tomáš Batt”a di Zllíín.
R.U.R. a fumetti ci rituffa all’alba della nostra metamorfosi in golem e poi in cavat digitali. Riecco sotto i nostri occhi mai smaliziati del tutto le tragiche conseguenze della creazione di un uomo artificiale, fatto di muscoli, pelle e sangue ma in teoria privo del nostro corredo più prezioso. I sentimenti, i bisogni, il libero arbitrio. Quegli elementi che ci rendono così straordinari e fragili. In sintesi, l’anima. Però poi accade che questi robot di Rossum (analoghi al Frankenstein e ai replicanti), che pure erano stati plasmati per affrancarsi dalle angustie del lavoro fisico, diventano ribelli, rivendicativi, violenti all’esatta stregua dei loro fautori terrestri.
Una metafora potente delle supreme paure di inizio Novecento, come del resto fu l’intera produzione di Capek, drammaturgo e narratore che sperimentò molti generi e guardò sempre all’attualità più bruciante, trasfigurandola. Il totalitarismo sovietico, la disumanizzazione delle masse, il cinismo e le contraddizioni del capitalismo, l’elevazione a feticcio delle macchine. Le fregole e le ottusità del potere politico, le epidemie di conformismo, la corsa cieca a precipizio verso l’autodistruzione del progresso tecnico-scientifico.
Ineluttabilmente macerato, anche perché la sua epoca non induceva certo all’ottimismo, come la nostra, Karel Capek morì nemmeno cinquantenne. Si risparmiò gli orrori della Seconda guerra mondiale, che non lo avrebbe sorpreso affatto, come non si stupirebbe oggi. Perché «nulla è più estraneo all’uomo della sua immagine».