Credo che tutti noi negli anni della scuola abbiamo avuto prima o poi occasione di ascoltare l’imprescindibile lezione sul finale de La coscienza di Zeno, in cui il nevrotico protagonista immagina un individuo ancora più nevrotico che inventa un ordigno esplosivo dalla potenza distruttiva inimmaginabile e un terzo individuo (forse più nevrotico degli altri due, forse tutto sommato più saggio nella misantropia radicale) che lo utilizza per polverizzare il pianeta intero. L’anno successivo alla pubblicazione del capolavoro di Svevo, Karel Čapek, figura fondamentale nella fantascienza della prima metà del novecento (Darko Suvin lo definisce addirittura “lo scrittore di fantascienza in assoluto più significativo tra le due guerre”) prende il secondo di questi personaggi e ci costruisce attorno un intero romanzo tutto giocato sulla soglia della distruzione totale.
Krakatite, tradotto per la prima volta in Italia e presentato da Miraggi in una bella edizione corredata da illustrazioni di gusto futurista che ricordano i poster Agit-Prop di Vladimir Majakovskij, è un’opera dalla forma e dai contenuti complessi. La storia di Prokop, chimico geniale e afflitto da un esaurimento nervoso cronico è un ibrido, instabile come la materia esplosiva che le dà il titolo, di romanzo picaresco, romance, fantascienza e allegoria. La scrittura oscilla tra un distacco denotativo pseudoscientifico, sperimentalismo e lirismo, faticando quasi a star dietro alle avventure senza fine del protagonista. Inventore dell’esplosivo definitivo, capace di liberare l’energia racchiusa nella materia in esplosioni devastanti, e per questo al centro di un intricato complotto internazionale, Prokop agisce in maniera spesso incomprensibile, muovendosi più che altro per spinta di violente passioni amorose che lo lasciano puntualmente in fin di vita. Non a caso, la quarta di copertina definisce Krakatite “il libro dell’amore atomico”, sottolineando come i sentimenti dell’instabile protagonista siano capaci di scatenare detonazioni non meno pericolose di quelle derivate dai prodotti chimici. C’è una probabile nota autobiografica nella centralità dei rapporti amorosi sui quali Čapek indugia ossessivamente. Come nota Alessandro Catalano nella postfazione, infatti, l’autore era all’epoca diviso tra l’amore per due donne diversissime che, unito a dei problemi di salute, gli causò una seria crisi nervosa, chiaramente ravvisabile nella follia inarrestabile del protagonista.
Ma forse né le esplosioni né l’amore sono davvero il centro della narrazione tanto surreale quanto torrenziale di Čapek. La riflessione sul potenziale distruttivo (e auto-distruttivo) dell’umanità, comprese le sue possibili declinazioni sentimentali, infatti, è sempre inserita all’interno di una ben precisa struttura sociopolitica che sembra avere un effetto decisivo sull’evoluzione della storia. Ognuna delle tappe del delirante viaggio sentimentale e chimico di Prokop include anche un ritratto compiuto delle diverse realtà sociali: quella rurale, quasi bucolica, della giovane e ingenua Anči, quella dittatoriale e soffocante della monarchia di Balttin (luogo del più travolgente e doloroso degli amori raccontati nel romanzo) e quella dell’organizzazione rivoluzionaria, dove l’afflato libertario si volge alle possibilità più oscure. In definitiva, Krakatite è un romanzo impossibile da incasellare, che pare sfuggire da tutte le parti e cambiare forma ogni volta che si cerca di etichettarlo. Una storia vulcanica come la caldera dalla quale prende il nome, caotica, che lancia uno sguardo sull’umanità sempre diviso tra la derisione cinica e la compassione dolorosa.
Il possibile cataclisma planetario tra immaginazione e realtà
Si deve a Miraggi Edizioni, una pregevole casa editrice nata nel 2010 a Torino, se i lettori possono conoscere opere di sicuro valore letterario, come “Mona” della ceca Bianca Bellová il romanzo “Krakatite” di Karel Čapek, mai tradotto prima in italiano e ora pubblicato con la traduzione di Angela Alessandri. Apparso nel 1924, conserva il fascino dell’immaginazione della scrittura e l’inventiva dello sguardo letterario quando anticipa inquietudini che saranno del genere umano.
Impreziosito da una colta postfazione di Alessandro Catalano, il romanzo di Čapek ha come protagonista un geniale chimico di nome Prokop, inventore di una miscela esplosiva capace di distruggere interi paesi. Una bomba atomica ante litteram di cui si iniziava a temere a cavallo della prima guerra mondiale. È infatti del 1914 l’espressione “bombe atomiche” apparsa nel romanzo The World Set Free del britannico H.G. Wells, iniziatore del genere letterario “scientific romance”. Un filone lettera- rio che si fa carico, tra immaginazione e realtà, delle ricerche scientifiche – fissione nucleare, particelle, robot, gas – e del possibile cataclisma planetario. Testi letterari di grande respiro che si interrogano “sul lato oscuro del potere acquisito dall’uomo attraverso la scienza e sul destino dell’umanità” p. 397.
Ed è su questo lato scuro che scorre “Krakatite”, le cui vicende narrate convergono nella presa di coscienza del protagonista dei pericoli impliciti nella formula della sua scoperta. Convinto della forza esplosiva nascosta nella materia, la realtà è per Prokop instabile e incontrollabile. Complice il fascino delle donne la cui seduttività il protagonista vive e insegue nel suo immaturo immaginario erotico. Donne diverse – Anči, la principessa Wille, Ludmila – spesso sovrapposte nella sua mente, rimanendo prevalente l’immagine della ragazza con il velo che gli consegna un pacchetto da recuperare all’amico e compagno di scuola, l’ingegnere Tomeš. “E quando lei, un po’ esitante, entrò sfiorandolo, lo raggiunse un profumo lieve e delizioso, che lo fece sospirare di piacere”. Un romanzo attraversato da febbrili visioni, non prive di simbolismi e di rimandi culturali a testi biblici, miti classici e a certi personaggi descritti da Dostoevskij. Con un finale fortemente simbolico allorché dice ad un vecchio-Dio incontrato sulla sua strada di non sapere più come si fa la Krakatite.
“Strano potere hanno le fiamme, come l’acqua che scorre; le guardi e ti incanti, resti immobile, non pensi più, non sai e non ricordi più niente, ma rivedi dentro di te tutto ciò che hai vissuto, tutto ciò che è stato, al di fuori di ogni forma e tempo.”
Krakatite dello scrittore, drammaturgo e giornalista Karel Čapek pubblicato dapprima a puntate sulla rivista Lidové noviny e poi in un libro unico nel 1924, è un romanzo fantascientifico che rappresenta i temi utopistici dell’epoca, gli effetti devastanti di una polverina esplosiva creata dal chimico Prokop, capace di radere al suolo interi paesi.
Krakatite è tradotto per la prima volta in Italia grazie alla casa editrice Miraggi, nell’esplosiva traduzione di Angela Alessandri, con una esaustiva postfazione di Alessandro Catalani.
Prokop, un geniale chimico, mette appunto una rivoluzionaria polvere esplosiva, ma se usata impropriamente può avere effetti catastrofici. La Krakatite esplode solo il Martedì e il Venerdì, ma non solo, la Krakatite ha un altro effetto sugli uomini e le donne: la polverina bianca ha la capacità di decifrare le vibrazioni degli atomi, scaturendo passioni incontrollabile.
Prokop, nella sua estenuante peregrinazioni vissuta come una vera e propria odissea, come ci spiega Catalani, è riconducibile ai miti dell’antica Grecia. Le donne di Prokop come le donne incontrate dall’eroe greco, si insinuano raffinatamente nella sua vita sconvolgendo il buon chimico.
In Krakatite sono presenti dunque innumerevoli riferimenti allegorici, tra deliri febbrili, sogni e realtà, Prokop affronterà una serie di peripezie per scappare da chi vuole impadronirsi della potente polvere, per un insano potere, per tenere in pugno uomini e nazioni.
Siamo difronte a un libro con la straordinaria capacità di attirate l’attenzione del lettore, non è solo un romanzo fantascientifico – sarebbe banalmente considerato così da un occhio poco attento – ma è soprattutto una estenuante ricerca intima ed esistenziale del proprio io: Prokop cerca l’amore, un amore idealizzato, infatti la donna con il velo che inizialmente incontra, non ha volto: è solo un’illusione o esiste realmente? Anche la spregiudicata principessa del castello, per quanto innamorata non basterà a colmare la sua sete d’amore.
“il cuore di Prokop era già in imbarazzo, colto da dubbi infami e umilianti; io sono, Gesù io per lei sono un servo, per il quale…probabilmente…si infiamma nel…nel…momento del delirio, quando…quando è sopraffatta dalla solitudine o cosa.”
Kralik lo ha definito “la più raffinata poesia sessuale della letteratura ceca” ed è così, Karel Čapek ha rivoluzionato sia le caratteristiche del romanzo fantascientifico, sia quelle del romanzo sentimentale, un libro dunque geniale e moderno che rispecchia la natura umana e la sua sete di esistenza, ma anche di assenza, in una ricerca tormenta, convulsa e dolorosa dell’amore.
Karel Čapek (Malé Svatoňovice 1890 – Praga 1938), giornalista, drammaturgo e narratore, è stato uno dei maggiori scrittori cechi del Novecento ed è stato ripetutamente tradotto in italiano fin dagli anni Venti. Grande sperimentatore di nuove forme e generi letterari, ha affrontato nella sua opera temi di grande attualità: l’intelligenza artificiale, l’energia atomica, la diffusione di epidemie etc. Deve la sua consacrazione internazionale all’opera teatrale R.U.R. Rossum’s Universal Robots (1920), che ha introdotto nella cultura mondiale il termine “ robot ” ed è stata di recente riproposta in una nuova traduzione da Marsilio.
In questa raccolta di dodici racconti, Bohumil Hrabal fa parlare la gente comune che lavora, passeggia, prende il sole, beve birra; gente comune che, in una parola sola, vive e che proprio nell’atto stesso di vive, racconta. Scrive la traduttrice Laura Angeloni: “è attraverso la parola che cercano di emergere dall’invisibilità in cui sono relegati e svelano la loro identità più profonda, composta di ciò che sono e che sono stati, ma anche di ciò che avrebbero voluto, o hanno sognato, di essere. Ed è in quel momento che il riflettore di Hrabal li illumina, mostrandoceli nell’attimo in cui « si sono strappati di colpo la camicia e mi hanno mostrato il cuore ».”
Hrabal quindi da scrittore diventa un trascrittore, taglia e monta dialoghi, per riprodurre “i discorsi della gente comune, assemblandoli in un susseguirsi di voci che con la tipica genuinità e vivacezza della lingua orale danno vita alla polifonia di ciascun racconto.”
Scrive lo stesso autore alla fine dei racconti: “La perlina sul fondo non racconta le avventure di un orecchino di perla precipitato sul fondo di un pozzo secco, né di un uomo soprannominato Perlina che ha toccato il fondo. La perlina sul fondo non contiene nemmeno testi che nel loro sovratesto e sottotesto nascondono allegorie o simboli. E tanto meno racconti che si basano su un punto di svolta. Piuttosto ne La perlina sul fondo ho spostato la perlina al di là del fondo del libro. Volevo piuttosto indurre il lettore a riflettere sul fascio di luce di questi racconti, in cui le persone entrano all’improvviso per poi uscirne altrettanto all’improvviso, come se, avendo percorso insieme un pezzo di strada sul tram, da frammenti di conversazione e pochi gesti fossimo riusciti a conoscerli in profondità. Lasciando poi al lettore, nel caso ne abbia voglia, il compito di depositare sul proprio fondo le proprie perline. Grazie a quest’esperienza così forte i valori delle biblioteche universitarie riprendono vita e ogni più incredibile avventura umana rappresenta di per sé un’allegoria, un simbolo, e nasconde il punto di svolta e la perlina sul fondo anche al di là del suo fondo.”
Non avevo mai letto Bohumil Hrabal prima di questo libro. A ben predispormi nei confronti di questa lettura è stato il fatto che ami sia gli scrittori cechi sia leggere racconti. Leggerò sicuramente altro di questo autore.
«Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano».
Così scrive Bohumil Hrabal (1914-1997), il più grande scrittore ceco del secondo Novecento insieme a Kundera, nella breve introduzione al suo esordio nella narrativa, «La perlina sul fondo» (1963), ora tradotto da Laura Angeloni in prima edizione italiana e ottimamente curato da Alessandro Catalano per una piccola e coraggiosa casa editrice torinese dal nome promettente, Miraggi, con una collana dedicata ad autori cechi, dove spicca un titolo ormai introvabile, «Il brucia cadaveri» di Ladislav Fuks, che uscì nei Coralli di Einaudi negli anni ’70 tradotto dalla moglie di Angelo Maria Ripellino, ora riproposto in una nuova ed efficace versione da Alessandro De Vito.
Hrabal pubblicò questo libro abbastanza tardi, a 49 anni, approfittando del venir meno del rigido realismo socialista degli anni Cinquanta, quando i suoi racconti circolavano soltanto in samizdat, e del disgelo dei primi anni Sessanta, prima che la Primavera di Praga venisse stritolata dai carri armati sovietici.
Si tratta di dodici racconti che segnano una novità nel grigiore culturale dell’epoca: Hrabal riproduce i discorsi della gente comune, con il gusto per il racconto orale, per le situazioni surreali create dalla lingua parlata degli avventori delle birrerie, degli operai di un’acciaieria, e un montaggio quasi cinematografico.
Qui ci sono già i personaggi dei capolavori successivi, «Vuol vedere Praga d’oro?» (1964), «Treni strettamente sorvegliati» (1965), «Ho servito il re d’Inghilterra» (1971) e «Una solitudine troppo rumorosa» (1976), quelli che Hrabal definisce «stramparloni», chiacchieroni che raccontano storie di donne e di calcio, di motori e di caccia. Corredano il volume una bibliografia e una preziosa filmografia con l’elenco di tutti i film tratti dalle opere di Hrabal.
Questa perla di libro, pubblicato nel 1963 a Praga e appena pubblicato in Italia da Miraggi è davvero una bella sorpresa. Bisogna immergersi, fino in fondo per trovare la perlina e in ognuno dei racconti che lo compone si trova sempre splendente. Sono 12 racconti di gente comune, di lavoratori in diversi ambiti, acciaierie, deposito di carta da macero, assicuratori, racconti di gente comune dentro qualche birreria, ad assistere ad una gara di macchine in corsa, che prendono lezioni di guida e sono racconti nei racconti. Tutti hanno qualcosa da raccontare, tutti hanno ricordi che emergono, ognuno va a ruota libera perché per ognuno è importante quello che ha da dire, il bello è che ognuno può dirlo ed è pure ascoltato. E l’umanità che ne scaturisce è “ la perlina “ ,laddove magari non ci si fa caso. Sono personaggi marginali, a volte sopra le righe un po’ sbruffoni o timidi oppure un po’ strani ed incompresi. La scrittura di Hrabal, ci permette di andare oltre quello che appare ovvio, è una scrittura fluida, che attrae, a volte ironica, ricca di metafora e poetica. Sono pennellate di poesia quelle che nell’ immersione fanno entrare in empatia e permettono alla perlina di luccicare. Hrabal scrive di cose che conosce ed ha vissuto, i lavori di cui parla sono lavori che lui personalmente ha svolto quando nel 1939 la Cecoslovacchia, suo paese d’origine viene invasa dalla Germania nazista e lui deve abbandonare gli studi e mantenersi.
La pubblicazione di questo libro nella sua terra nel 1963 appunto, ha portato una grande novità nella letteratura ceca, dove non c’è l’eroe ma l’umanità comune con le sue peculiarità “imperfette “. Si trova in questo libro una lucida analisi di una società complessa. Dopo la Primavera di Praga, nel 68, il regime ha censurato totalmente le opere di Hrabal, i suoi libri circolavano clandestinamente, erano un antidoto alla al regime di Stalin , nonostante ciò ha ottenuto un buon successo come scrittore anche fuori dai confini della sua nazione. Merita una nota di plauso la traduttrice , lo dice lei stessa nella nota a fine libro, che non ha avuto un lavoro facile da fare, il linguaggio che ha usato lo scrittore è quello della lingua parlata, piena di modi di dire e sottintesi e semplificazioni che tradurre e rendere bene in italiano è per chi è bravo ( questo lo dico io). Una postfazione molto interessante di Alessandro Catalano anche curatore del libro, arricchisce e porta a conoscenza lo scrittore e le sue opere . È un libro da leggere è un libro che arricchisce e fa riflettere. È uno scrittore da leggere (e approfondire almeno per me) per la capacità di far dialogare collettivamente e ad alta voce , anche quelli che non hanno potuto farlo. Miraggi ha fatto ancora un bel canestro.
“Il bruciacadaveri” è il secondo romanzo dello scrittore ceco Ladislav Fuks. Pubblicato a Praga nel ’67, apparve in Italia nel ’72 nei Coralli dell’Einaudi, tradotto da Ela Ripellino e con un’introduzione di Angelo Maria Ripellino. Dopo quell’edizione, peraltro non più ristampata, non vi sono state altre successive edizioni e quindi quella è stata, sino ad oggi, l’unica da noi esistente. Finché, nel marzo di quest’anno, la casa editrice Miraggi edizioni, all’interno della sua collana di letteratura ceca, ne ha pubblicato una nuova edizione, con una nuova traduzione curata da Alessandro De Vito e una postfazione di Alessandro Catalano. A distanza quindi di circa cinquant’anni viene riproposto, in modo aggiornato, questo libro straordinario, rendendolo nuovamente disponibile.
Riproporre Fuks e “Il bruciacadaveri” è non solo un’iniziativa editoriale assolutamente meritoria ma è un tributo a un grandissimo scrittore e ad un’opera geniale che è da considerare a tutti gli effetti un capolavoro della letteratura del ‘900. Nel segnalare pertanto l’uscita di questa nuova edizione che colma con la sua presenza un vuoto nel panorama di quei libri di assoluto valore, ingiustamente dimenticati, propongo contestualmente, qui di seguito, due contributi per “avvicinare” o “riavvicinare”, per chi già lo conosce, “Il bruciacadaveri”.
Il primo, così da avere anche un riscontro della nuova edizione, è il testo di presentazione de “Il bruciacadaveri” contenuto nella bandella di copertina della edizione della Miraggi a firma di Alessandro De Vito che ringrazio per avermene concesso la pubblicazione. Segnalo inoltre la nuova traduzione di Alessandro De Vito che, rispetto alla precedente, è più diretta, più cruda e realistica laddove quella della Ripellino, senza nulla togliere, era più “fantasiosa” e più spinta sul grottesco. In questo senso la nuova traduzione restituisce di più il nudo e metallico meccanismo che scandisce tutta la vicenda de “Il bruciacadaveri” senza perdere nulla di quell’assurdo che pervade il testo. Sicuramente un’evoluzione e un aggiornamento della precedente traduzione con un linguaggio più contemporaneo.
E, a seguire, come secondo contributo, il mio commento de “Il bruciacadaveri” (che lessi anni fa nella precedente edizione) già pubblicato e presente in questo blog che ripropongo per l’occasione.
******
Bandella di copertina de “Il bruciacadaveri” di Ladislav Fuks edito da Miraggi edizioni, a firma di Alessandro De Vito
Praga, 1938-39. La storia del Novecento marcia a passo forzato verso uno dei suoi momenti più critici: il magniloquente Nuovo Ordine nazista, la guerra imminente, la “questione ebraica”, le persecuzioni pianificate, l’invasione dell’ Europa.
Chi è il signor Kopfrkingl, protagonista di questa storia nera praghese? Un tenero, sdolcinato padre di famiglia, impiegato al crematorio, un uomo che sorride sempre. Si, in apparenza. Interiormente, invece, è una marionetta dall’animo monodimensionale, dalla volontà larvale, dalla morale astratta e limitata, che vede tutto e tutti come stereotipi. Un uomo intimamente servile per cui il bene è indifferentemente cura e sterminio, felicità e olocausto, la cui idea di paradiso in terra condanna gli altri all’inferno.
Lo stile ossessivo e preciso di Fuks sottolinea perfettamente questo aspetto e gli è funzionale. “Il bruciacadaveri” procede come una partitura con il frequente contrappunto di ripetizioni di nomi e intere espressioni. Lo sguardo alienato e distorto del protagonista, con tracce di macabro divertimento, amalgama un testo di cui si può apprezzare la struttura profonda e la caleidoscopica creatività: siamo a tutti gli effetti di fronte a un capolavoro del Novecento. Ma forse ha un senso ulteriore, oggi, riproporre questa figura di “volenteroso carnefice”, che accoglie in sé le parole d’ordine naziste con leggerezza e conseguenze paradossali, opportunista, perbenista e superficiale.
“…la violenza non paga per nessuno. Con essa si può tirare avanti solo per un breve periodo, ma non si può scrivere la storia. Viviamo in un mondo civilizzato, in Europa, nel Ventesimo secolo” si dicono più volte i personaggi, nel 1938. La storia ha provato loro il contrario a stretto giro, e ormai, anche molti anni dopo, passato l’inizio del Ventunesimo secolo, sappiamo che nulla può essere dato per scontato, che l’angusto abisso del signor Kopfrkingl non si è richiuso per sempre con la fine delle ideologie e grazie al benessere, e che far finta di niente può precipitarci nuovamente dentro di esso.”
Alessandro De Vito
******
Il mio commento de “Il bruciacadaveri”
Karel Kopfrkingl (K.K.) è il protagonista de “Il bruciacadaveri”. Che fa K.K.? E’ impiegato al Crematorio di Praga o, come dice lui, al Tempio della Morte. K.K. non solo è un consumato esperto delle pratiche crematorie ma ne è un fervente paladino.
Non perde occasione per sottolinearne i vantaggi e i pregi: la rapidità e asetticità del processo, la sua non aggressività, in quanto la cremazione non intacca i corpi in modo diretto col fuoco ma agisce per effetto del solo calore, insomma, come dire, non è invasiva e poi l’intrinseca democraticità della cremazione che ci riporta tutti, indifferenziatamente, alla nostra originaria condizione di polvere da cui proveniamo senza lasciare in giro sgradevoli tracce dei nostri corpi, ma lasciando libera la nostra anima di andarsene dove e come vuole perché K.K. crede pure, bontà sua, nella reincarnazione: legge da sempre lo stesso libro, un volume sul Tibet.
Ma non si deve credere che per questa sua passione mortuaria oltre che abnegazione professionale K.K. sia un sinistro e lugubre figuro, nossignore, al contrario è un amorevole, anzi, diciamolo, un zuccheroso e mellifluo signore: “Tenera” è la parola con cui inizia “Il bruciacadaveri” ed è per l’appunto K.K. che la pronuncia rivolgendola alla moglie Lakmè che, in realtà, si chiama Marie ma K.K. ha deciso che si chiama Lakmè, così come lui che si chiama Karel si è ridenominato Roman. E alla moglie, alla figlia e pure alla gatta non risparmia vezzosi aggettivi quali: “maliarda”, “eterea”, “celeste”, “soave”, “diletta”, “purissima” e il suddetto “tenera”.
“Sono romantico” dice ”ed amo la bellezza”, non si fosse capito. Colma i familiari di regalini, li porta spesso a spasso, stravede per la propria casa che ama arricchire di ninnoli e oggettini, teche, quadri e quadretti tra cui spiccano: la tabella degli orari delle cremazioni nonché una nera Drasophilia funebris. E nella sua smania di ribattezzare tutto pure il quadro col faccione del presidente del Guatemala diventa per K.K. il ritratto di un famoso ministro delle pensioni francese, anche se sotto, nel quadro, c’è scritto Presidente del Guatemala. Insomma tutto ha un ordine e un senso per K.K., il suo.
Ma tant’è, cosa volete che sia, in fondo in fondo, nel suo intimo, K.K. è un buono: “Non dobbiamo far torto a nessuno, nemmeno col pensiero” dice, e poi non ha vizi e debolezze di sorta, è un premuroso sostenitore del matrimonio, del suo matrimonio: “Non c’è matrimonio, mia celeste, che sia così bello e felice come il nostro”, salvo poi andare regolarmente a farsi vedere dal Dottor Bettelheim, esperto in malattie veneree, suo vicino di casa, di nascosto dalla moglie, chissà come mai? Si fa pure scrupoli sulle percentuali che deve riconoscere a due suoi collaboratori che incarica di procurargli “clienti” per il “suo” crematorio, mosso a pietà per le loro tristi condizioni familiari, salvo, di quelle condizioni, non occuparsene affatto.
Ma K.K. ha anche un amico, un certo Willie Reinke, un fervente e accanito filonazista (la storia si svolge durante l’occupazione tedesca) il quale, in modo pomposo e borioso, quale egli è, dipinge attrattivamente al nostro K.K. i vantaggi e i piaceri che lui, K.K., potrebbe avere aderendo al partito nazista: nomina certa alla direzione del crematorio, anche perché di un esperto come lui c’è un crescente bisogno, e poi la possibilità di frequentare belle donne, l’ingresso garantito allo sfarzesco Casinò tedesco di Praga e in generale l’essere ben visto e ben accolto tra i “nuovi padroni”.
K.K. non è un vero e proprio ambizioso però capisce che qui c’è un nuovo ordine con cui fare i conti e siccome all’ordine, alle forme, alle regole lui ci tiene, alle profferte di Reinke ci fa più di un pensierino. Ma c’è un problema, la moglie e quindi anche i figli (ne ha due) hanno sangue ebreo e questo è un neo grave gli dice l’amico Willie, che va affrontato, pena il non accesso ai benefit nazisti. E quale miglior modo per affrontarlo ma, ovviamente, facendo fuori moglie e figli: perché non soffrano, poverini.
E così porta il figlio in visita al crematorio, lo spranga, lo infila in una bara con un altro morto già pronto per la prossima cremazione, di cui quindi beneficerà anche il figlio e, non visto, si allontana andando, come se niente fosse, a denunciare la scomparsa del figlio. Per far scomparire la mite e inconsapevole moglie organizza un’impiccagione–finto suicidio, ne denunzia irreprensibilmente il fatto alle autorità dando ovviamente il benestare per la cremazione dell’amata Lakmè. La figlia si salverà solo perché a K.K. fa visita un monaco tibetano che, venuto direttamente dal Tibet, gli dice che lui, K.K., è il nuovo Dalai Lama quello che “Budda ha scelto e in cui si è reincarnato”. Il finale è ancor più grottescamente tragico e lo risparmio.
Adesso viene da chiedersi ma in conclusione chi è veramente K.K.? Angelo Maria Ripellino nella sua introduzione lo definisce così: “L’immagine calcolatissima di un benpensante e ipocrita cerimoniere, uno schizoide impigliato nelle consuetudini di un macabro rituale, un saccente becchino-filantropo, che l’epoca incline alle stragi e la sicumera esequiale e la sciocca ambizione e la flaccidità del carattere e la tenerezza, si’ la tenerezza tramutano in un dispensatore di eutanasia” (A.M. Ripellino – “Fuksiana” in Ladislav Fuks – “Il bruciacadaveri” – Einaudi – 1972 – Pg. XV)
E tutto questo va perfettamente bene. Ma qui c’è dell’altro secondo me. Perché Fuks ha realizzato non solo un’opera geniale per il suo macabro surrealismo grottesco ma, a mio parere, ha soprattutto individuato e sviluppato un modello, un archè, che è sia estetico che concettuale, che si basa sull’idea di forma. Se infatti rileggiamo tutta la storia e il modo in cui vengono raccontate le cose ci accorgiamo che tutto in K.K. risponde, deve rispondere, al rispetto delle forme, sia come immagini che la narrazione stessa suscita, sia per il tipo di atteggiamenti e comportamenti di K.K., per il valore intrinseco che hanno.
K.K. fa tutto quello che fa non perché c’è una relazione che egli instaura con le cose e con gli altri, ma perché tutto deve rientrare in un suo schema formale. Tutto deve corrispondere ad una forma prestabilita e inalterabile: si pensi al delirio di cambiare i nomi propri o di cambiare i nomi agli oggetti. E tutto ciò che può alterare questa forma: per assurdo in primis proprio la realtà, quella vera, va eliminato. Anche l’adesione al nazismo diventa per K.K. un problema di adesione alla forma nazismo, non al nazismo in sé, cosa che invece fa l’amico Willie. Ma questo dominio della forma in K.K. è il dominio di una forma vuota di contenuti, è mera apparenza, è il nulla.
E’ una cosa già in sé defunta, è un’iterazione solipsistica della morte che così come nella catena di montaggio del crematorio si ripete sistematicamente negli atti, nei gesti e nelle parole da inutile idiota di K.K. La forma è per K.K. l’unico senso della vita. Per K.K. tutta la vita si consuma nella forma e nelle forme e come tale si nega la vita, in quanto tutto in lui si riduce ad un insieme di pratiche meticolose, ordinate, coerenti, perbene ma inutili. Pratiche solo formali dove anche la morte è ridotta a procedura asettica ed “igienica”.
E adesso si insinua una domanda affascinante nella sua tragicità, ma non è forse che il nazismo è stato, in ultima istanza, un mostruoso, orripilante, agghiacciante tentativo di affermazione del dominio della forma? Se infatti affermiamo, assumendo lo schema de “Il bruciacadaveri”, che la forma nel momento in cui si nega di contenuti e di senso e perciò si sclerotizza in sé stessa, traducendosi in cosa morta, nega la vita, altrettanto possiamo dire del nazismo, laddove esso si afferma come delirio onnipotente che vuole mettere ordine, il suo ordine, nel mondo ripulendolo da tutto ciò che è diverso da sé e, pertanto, imponendo la sua forma che non consente alcun grado di libertà, alcuna possibile tolleranza in più o in meno rispetto al modello fissato dalla forma nazismo.
E’ evidente che al di là delle volontà soggettive il dominio della forma diventa assolutamente prevalente e ovviamente aberrante e per imporsi ha bisogno di affermarsi a scapito della vita la quale invece presuppone diversità, eterogeneità, differenze, movimento invece che fissità, rigidità, iconicità, ripetitività, propri della forma fine a se stessa e, peraltro, tipici del nazismo. In questa ipotesi il nazismo assume, in conclusione, le sembianze di un’orrenda gestalt autoreferenziale e autoriproducentesi in quanto pura espressione solo di se stessa. Ed è forse questa la grande metafora contenuta ne “Il bruciacadaveri” che ci illumina con un sinistro bagliore che ci arriva direttamente dal forno crematorio della Storia.
Come funziona la mente di chi ha un’opinione su tutto? Quasi sempre è un bacino riarso, che attende la piena del senso comune. Un luogo, o un luogo comune: “la negazione del pensiero: meglio ancora, la sua sostituzione”, la definiva Ortega y Gasset nel 1930, a tre anni soltanto dal cancellierato di Hitler. E, riferendo di un’altra peste, Manzoni ha messo in forma l’incompatibilità fra pensiero e senso comune: “il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.” L’opinione come la intendiamo qui è un luogo comune camuffato da pensiero autentico. Guidato da grossolane analogie, il signor Kopfrkingl, primo zelatore del crematorio di Praga, rimonta secondo il proprio tornaconto le frasi colte a volo per strada, sui giornali, dalla bocca dell’amico Willi, e vi arreda la sua mente come un decoroso interno borghese. Ha un’opinione per ciascun argomento o situazione, purché qualcuno gliene mostri prima l’utilità. Di fronte al nuovo, all’imprevisto, si blocca. Come leggere il quadro nello studio di Bettelheim, il dottore ebreo che abita a poche pedate di scala sopra la sua testa? Che pensare del montante ardore hitleriano di Willi? Comincerà a capirci qualcosa quando vedrà nel nazismo un’opportunità per fare carriera, e nel dipinto un’immagine del successo.
Karel Kopfrkingl è un melenso. Suoi lontani parenti sono Polonio e Charles Bovary. Ma quando il melenso è nel contempo uno zelante, ecco che diventa un idiota attivo, attivissimo, uno capace di combinare autentici disastri. (Ricordate Bovary? Infallibile con la lancetta per i salassi, ma quando si esce da lì: cancrena e morte.) Inoltre è un melomane, come l’aspirante eugenista di Cuore di cane, e proprio sulla musica si impernia il suo intellettualismo socratico, per cui chi è colto è sensibile, e dunque buono. Ma la sensibilità di Kopfrkingl dà i brividi. Come le battute, in cui già al primo tocco si sente che il suo spirito suona fesso: il contenuto di una facezia senza il contorno intonativo dell’ironia. Come i nomi che affibbia a suo talento a cose e persone.
Zina, la figlia del protagonista, rientra a casa dopo una lezione di piano. In seguito a un errore, “la vecchia” per poco non l’ha bacchettata sulle dita. Kopfrkingl interviene: “Zinuška, non parlare così […] è un’anziana signora. […] Non dobbiamo far torto a nessuno nemmeno col pensiero”. Come non pensare alla nevrotica coniazione di eufemismi negli ambienti del Terzo Reich, dei quali Endlösung, la Soluzione Finale, è la summa beffarda?” Oggi lo definiremmo un campione di political correctness, per come sa rendere ogni elemento della realtà più gradevole. Con perfetta politeness, infatti, chiede ai suoi cari il permesso, prima di sterminarli.
Il bruciacadaveri
Il linguaggio di uno scrittore può avere due direzioni: o descrive il mondo, lo racconta e lo enumera, oppure lo crea, traendolo dal nulla. La seconda è di pertinenza della grande poesia, ma in forma volgarizzata abita anche la mente dei dittatori.
Il bruciacadaveri disvela un meccanismo di epurazione del linguaggio che prelude all’epurazione di esseri umani. La creazione linguistica di un mondo per obliterarne un altro. In questo caso, anzitutto quello ebraico. Come gli artisti eccelsi, Ladislav Fuks cerca e trova una forma di conoscenza nello stile, non nei simboli. È vano, forse, provare a decifrarli e stabilire cosa dicono: la bacheca con le mosche, i ritratti alle pareti, la visita del monaco tibetano, il brillio della fede al dito, il giallo come dominante cromatica. La ragazza dalle guance rosse vestita di nero, o la coppia uomo grasso con farfallino e donna con piuma al cappello, che vanno a spasso come certe figurette di Georg Grosz, sono forse proiezioni del desiderio predace del protagonista, ma in fin dei conti, non importa più di tanto.
Il libro non è metafora di alcunché (ci sono nomi e cognomi), ma un verbum proprium travestito da metafora. Non è un libro sull’invasione tedesca e la persecuzione degli ebrei, ma un libro che fa vedere i processi, anzitutto linguistici, all’origine di tale aggressione. Le ripetizioni di cui è contesto sono una forma di conoscenza della macchinalità (e banalità) dello sterminio.
Il Bruciacadaveri è il libro di due sgomentevoli vigilie. Dell’invasione nazista di Praga e, trent’anni dopo, di quella sovietica. Soffocata la Primavera, il linguaggio burocartico e mortale di ieri tornerà sotto altre spoglie. Col suo gesto, Fuks addita la comune protervia di due ideologie idealmente opposte. In più, la prefigurazione è una tecnica interna. La peste di Praga del 1680, una volta inscenata nel panopticum si riverbera su tutto il libro. E sulle efferatezze cui assiste durante lo spettacolo, Kopfrkingl calcherà i suoi omicidi.
Il bruciacadaveri 2018
Disponendosi a tradurre La metamorfosi, Franco Fortini si chiedeva quale fosse il timbro da imprimere al testo italiano. E trovò che doveva essere “freddo”. Tra “insetto” e “scarafaggio”, l’uno era freddo, l’altro caldo. Anche la nuova traduzione di Alessandro De Vito va in questa direzione.
Il libro che oggi torna a parlarci grazie all’iniziativa di Miraggi non è più quello di allora. Ha da dirci altre cose. Quasi cinquant’anni fa, nella sua prefazione Fuksiana, Angelo Maria Ripellino bollava i personaggi di Fuks come “borghesucci appagati di esigui orizzonti”, che “nella morsa di un tempo demente e devastatore tralignano in mentecatti. La loro rabbrividita marginalità si converte in mostruosa, ghignante forsenneria da panoptikum. L’insicurezza, l’intollerabile assurdo dell’epoca li raggriccia e distorce, gonfiandone le fissazioni”. E in particolare si chiedeva chi fosse il signor Kopfrkingl, dandosi una risposta che oggi non soddisfa pienamente:
“L’immagine calcolatissima di un benpensante ed ipocrita cerimoniere, uno schizòide impigliato nelle consuetudini di un macabro rituale, un saccente becchino-filàntropo, che l’epoca incline alle stragi e la sicumera esequiale e la sciocca ambizione e la flaccidità del carattere e la tenerezza, sì, la tenerezza tramutano in un dispensiere di eutanasia”. Ora pensiamo invece che, al di là delle congiunture storiche, Kopfrkingl sia un atteggiamento mentale in agguato in ciascuno di noi, quando accettiamo passivamente di venire informati; perché senza una curiosità attiva non siamo che un vuoto, in attesa di colonizzatori.
Kopfrkingl è un uomo buono, mite, dedito alla sua famiglia, affettuoso verso la moglie e i figli. Le sue parole sono auliche, i suoi pensieri sono trascendentali, non sembra che abiti la Terra, eppure, rispetta le leggi, perché queste sono state create per far vivere meglio gli uomini.
Kopfrkingl è dedito al lavoro. Passa le sue giornate vicino a un forno crematorio. Svolge il suo compito in maniera impeccabile, perché grazie alla sua opera i morti diventano cenere in settantacinque minuti, quindi, ognuno di loro potrà raggiungere velocemente il Regno delle Anime, evitando così perdite di tempo. Infatti, un cadavere seppellito nella nuda terra impiega vent’anni per decomporsi.
Kopfrkingl è un appassionato lettore del Libro Tibetano dei Morti, perché la morte apre le porte della vera vita e l’uomo, dopotutto, deve aspirare solo al raggiungimento del Nirvana.
È enigmatico il signor Kopfrkingl, uomo con una goccia di sangue tedesco che si aggira leggiadro per la Praga di fine anni Trenta; per l’esattezza, del 1938, anno in cui i nazisti annettono la Cecoslovacchia al Reich con la scusa di voler proteggere i tedeschi dei Sudeti. Ed è proprio in questo periodo che il buon borghese Kopfrkingl, così pieno di spirito e di necrofilo fervore, si lascia trascinare dall’amico Willi nel vortice della religione hitleriana.
Ladislav Fuks (Fota da Miraggi.it)
Il bruciacadaveri di Ladislav Fuks è stato stampato per la prima volta negli anni della Primavera di Praga. A distanza di più di cinquant’anni, la casa editrice Miraggi lo riporta in vita. Un’opera surreale, come surreale è la vita di Kopfrkingl, uomo malato, perturbato, in costante dialogo con la morte, perso in un’estasi grottesca. Fuks non ci descrive i connotati del signor Kopfrkingl, tantomeno quelli di sua moglie e dei suoi figli, ma riusciamo a immaginarli con un costante sorriso stampato sul viso, avvolti in una atmosfera melensa, così nauseante da innervosirci, ma dietro cui appare prepotentemente quella sporcizia delle intenzioni che ha bisogno solo di un piccolissimo pretesto per tramutarsi in azione.
In Kopfrkingl troviamo tutte le contraddizioni del nazismo, tutte le tracce di una follia collettiva che ha saputo sfruttare l’indifferenza delle masse. Indifferenza generata dal tacito consenso. Così, Fuks è stato capace di raccontare attraverso un uomo ligio alle leggi, educato, premuroso e in odore di santità, la storia di una tragedia senza fine dietro cui si cela la folle necessità di unire in un solo simbolo la vita e la morte.
Bettolacce, risate e Bohème. Le perle più belle di Hrabal
C’è un racconto di Bohumil Hrabal che si intitola Gli impostori. Fa parte del libro di esordio dello scrittore, nella Cecoslovacchia del 1963, dal titolo La perlina sul fondo e che appare oggi per la prima volta in Italia (Miraggi edizioni, pagg. 256, euro 20; trad. Laura Angeloni, a cura di Alessandro Catalano). Parla di un giornalista e di un cantante d’opera ricoverati nella stessa stanza d’ospedale che si confortano a vicenda raccontandosi i loro più grandi successi in carriera, scoop e trionfi. Cambio di scena (Hrabal nel montaggio dei suoi racconti è sempre molto cinematografico, ed è molto amato dal cinema): i due sono cadaveri, sul tavolo dell’obitorio, e dai pettegolezzi scambiati tra il barbiere che li sta rasando prima della sepoltura e l’addetto alla camera mortuaria si viene a sapere che il giornalista non era proprio una grande firma, al più uno scribacchino della cronaca locale; e il cantante non era proprio un divo, semmai una terza fila del coro… Ah, poi c’è il barbiere che dopo aver biasimato i due impostori, uscendo dall’obitorio col camice bianco svolazzante, si compiace nel farsi scambiare dai pazienti dell’ospedale per un dottore… Del resto «è pieno di gente che confonde quello che avrebbe voluto essere con quello che è davvero».
Ecco, Bohumil Hrabal (Brno, 1914 – Praga, 1997), uno dei massimi scrittori cechi del ‘900, non ha mai confuso le due cose. È sempre stato quello che voleva essere, non ha mai voluto sembrare quello che non era. Ed è stata la fortuna della sua scrittura: fatta di naturalezza, istinto, spontaneità. Ciò non toglie che si trovasse bene con gli impostori, e i balordi, chiacchieroni, sbruffoni, fantasticatori. Erano il suo mondo, a cui non fingeva di non appartenere. E nel quale sguazzava, come uomo e come scrittore. Nella sua brevissima introduzione alla raccolta di racconti La perlina sul fondo Hrabal confessa: «Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano». E la «perla» è quella cosa che alla fine ci salva.
Comunque, Hrabal pubblicò il suo primo libro abbastanza tardi, a 49 anni, nel 1963. Sfruttò la stretta finestra di disgelo culturale che si aprì in Cecoslovacchia, Paese satellite di Mosca, tra il rigido realismo socialista degli anni Cinquanta e il nuovo giro di vite post ’68, quando la Primavera di Praga appassì sotto i cingoli dei carri armati sovietici. Insomma, infilandosi tra stalinismo e normalizzazione riuscì a pubblicare i primi libri. Certo, molto aveva scritto, tra poesie e narrativa, in gioventù, ma era rimasto alla stato di Samizdat, tra censure e circolazione underground, e il primo saggio critico sull’opera di Hrabal, un libro clandestino che girava tra i circoli intellettuali alternativi di Praga, è firmato addirittura da un giovanissimo Václav Havel, futuro presidente del Paese dopo la caduta del Muro… Ed ecco quindi i racconti, popolari e popolareschi, ai quali diede il titolo La perlina sul fondo. Che accesero – e lo spiega molto bene Alessandro Catalano nella lunga postfazione – una vera luce nel grigiore socialista. Nella letteratura ceca all’improvviso esplode una nuova lingua, uno nuovo stile, nuovi temi: ecco i «discorsi della gente», l’inventiva linguistica, il «parlato quotidiano», lo slang, il goliardico, la creatività popolare dei suoi personaggi, che facevano i mestieri che aveva fatto lui: apprendista in uno studio notarile, magazziniere in una cooperativa di ferrovieri, operaio nelle acciaierie Poldi, addetto in un deposito di carta (dove si maceravano i libri bloccati dalla censura…), macchinista di scena e comparsa a teatro… Qui c’è già tutto lo Hrabal successivo, l’autore di libri amatissimi come Vuoi vedere Praga d’oro? o Treni strettamente sorvegliati (che, portato sullo schermo da Jiří Menzel, vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 1968), Ho servito il re d’Inghilterra o Una solitudine troppo rumorosa (fatti conoscere in Italia da e/o, Einaudi, Guanda e finiti anche in «Meridiano» Mondadori nel 2003) e qui, soprattutto, c’è il gusto per il racconto orale, per la battuta, aneddoti bizzarri, pettegolezzi comici, situazioni surreali. Storie di sesso, crapula e anarchia… È la Praga buffa contro la Praga magica, la Praga delle birrerie contro la Praga dei caffè, la realtà umana contro il realismo socialista.
Bettolacce, risate sfrontate, occhiute polizie segrete, beffe, bische, bravate e un boccale di bohème. Il lato tragicomico dell’esistenza.
Ecco, poi c’è come raccontare il tragico e il comico del quotidiano. E qui Hrabal, che come ha notato Marino Freschi «è riuscito a far ridere la lingua ceca in un periodo in cui non c’era proprio nulla da ridere», costruisce i suoi parlatissimi racconti come matrioske, dove i personaggi principali, protagonisti della storia che fa da cornice, non fanno altro che raccontare a loro volta delle storie, in un dialogo a più voci sovrapposte. Esempi. Corso serale racconta di una spericolata lezione di scuola guida, in moto, per le vie di Praga, in cui l’allievo narra mille impressionanti avventure motociclistiche del padre. Molto amato mette in scena un gruppo di operai chiacchieroni dentro un’acciaieria dai colori infernali che si raccontano storielle di donne e partite di calcio (Hrabal amava il calcio e i motori), con colpo di scena finale. In I bei tempi andati due vecchietti, un birraio e un medico, prendono il sole in uno stabilimento balneare rievocando i loro successi professionali: nessuno dei due ascolta veramente l’altro, entrambi esagerano probabilmente i toni epici nei ricordi. Un pomeriggio uggioso è ambientato in una birreria, alla domenica,: quasi tutti se ne vanno a vedere la partita, un ragazzo silenzioso non fa altro che leggere il suo libro attirandosi l’antipatia degli avventori e i pochi che restano litigano raccontandosi le imprese delle vecchie glorie nazionali. E così via…
Storielle da birreria, si dice. Ma con tutta l’atroce, insopportabile, irresistibile, drammatica, ironica, grottesca realtà che resta, così è la vita, sul fondo del boccale.
Le esperienze che ha collezionato diventano figurine di un album. I tanti lavori che ha svolto la materia grezza che la scrittura può plasmare
Finalmente la traduzione in italiano del primo libro di racconti di un autore tanto geniale quanto poco conosciuto. Esce ora per i tipi di Miraggi Edizioni il volume di Bohumil Hrabal “La perlina sul fondo”. L’autore ceco è stato un personaggio camaleontico, un clown della vita, un artista capace di calarsi nei bassifondi dell’esistenza con leggerezza e ironia. Per scrivere ha attinto proprio alla quotidianità, alle esperienze che ha collezionato come fossero figurine di un album, ai tanti lavori che ha fatto e che gli hanno permesso di conoscere storie esistenziali più ricche della stessa fantasia di qualsiasi romanziere.
“Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale”, diceva di sé. Uno scrittore ingordo d’una antropologia fatta carne, di esistenze colte nell’attimo stesso in cui sono vissute e tradotte mirabilmente in questi racconti dallo stile indefinibile: “Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente riscorgere la perla sul fondo dell’essere umano”. Se quest’ultima frase spiega le ragioni del titolo di questa preziosa antologia di racconti, non dice però dell’originalità di Bohumil Hrabal, capace come pochi di proiettare su carta le pellicole che le persone comuni girano di giorno in giorno. Nemo profeta in patria vale per un autore del quale, in una lettera anonima a lui indirizzata, si chiedeva la forca. “Con i racconti di Hrabal, nel 1963 – scrive il curatore del volume Alessandro Catalano – fanno prepotentemente ingresso nella letteratura ceca i discorsi della gente, l’inventiva linguistica e la creatività popolare di operai delle acciaierie, commessi viaggiatori, ferrovieri, assicuratori, notai, impiegati del macero della carta, macchinisti teatrali, che, attraverso un lessico colorito, espressioni dialettali e slang professionali, restituivano alle pagine dei libri la vivacità dell’osteria e lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi”. Nell’ottima traduzione dal ceco di Laura Angeloni si coglie al meglio le potenzialità di una scrittura sempre sul confine tra reale e irreale, comico e grottesco, di una tale naturalezza da sembrare surreale. Il lettore se ne accorge sin dalle prime battute del primo racconto “Corso serale”, dove le lezioni di scuola guida per motocicletta si trasformano in un pretesto per produrre una narrazione orale, di spaccati esistenziali. Mentre si legge la scena si staglia nel palcoscenico degli occhi tanto da far dimenticare in maniera così forte che sia soltanto un racconto breve e non un romanzo. Lo stesso avviene con “Un pomeriggio uggioso”, dove la vita si beve come uno dei freschi boccali della birreria dove è ambientato. Qualcuno si ricorderà di Hrabal indirettamente, forse per aver visto la versione cinematografica del suo romanzo “Treni strettamente sorvegliati”, una pellicola del 1965 in bianco e nero, passata alla storia per la scena del capostazione che trascorre una notte a stampare timbri ferroviari sul fondoschiena della fidanzata. Altri romanzi celebri di Hrabal sono: “Ho servito il re d’Inghilterra”, “Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare”, “La cittadina dove il tempo si è fermato”, “Spazi vuoti” e “Uno solitudine troppo rumorosa”.
Usiamo cookie per garantirti un servizio migliore.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.