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Simone Ghelli (La vita moltiplicata) intervistato da Gianluca Massimini su Lankenauta

Simone Ghelli (La vita moltiplicata) intervistato da Gianluca Massimini su Lankenauta

“Immobile dinanzi alla distruzione, come l’osservatore esterno nel Naufragio della speranza dipinto da Caspar David Friedrich, Iuri ebbe una visione nitida del quadro che aveva davanti: la realtà era lì a due passi, tumultuosa incandescente, fatta di banchi che si scontravano – proprio come le lastre di ghiaccio nell’opera del pittore tedesco – e che promettevano l’avvento di un mondo nuovo, finalmente libero (forse) dal dominio delle apparenze.” 

Abbiamo letto di recente, e con vero piacere, il nuovo libro di Simone Ghelli La vita moltiplicata, una raccolta di racconti edita da Miraggi Edizioni che ci ha colpito per la potenza data dall’autore all’onirico, allo psichico, alla vita interiore dei personaggi, che in questo moltiplicare la vita cercano una via di fuga dalla vita stessa, da una realtà che spesso li sconfessa, li disattende.

Abbiamo approfittato della sua disponibilità per porgli qualche domanda.

Innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro, di questa raccolta?

Le mie raccolte sono nate sempre a posteriori, nel senso che dopo un po’ mi sono reso conto di aver scritto dei racconti che avevano per così dire un’aria comune, un’atmosfera che li teneva insieme. Non sono mai partito dall’idea di una raccolta, da un filo conduttore da seguire. È qualcosa che realizzo soltanto dopo. Ovviamente, una volta deciso di metterli insieme, ci torno sopra. Èsuccesso così anche con questa.

Hai affermato in più occasioni che le tue due ultime raccolte di racconti (Non risponde mai nessuno e La vita moltiplicata) andrebbero lette insieme, che ci sono dei fili sottili che le uniscono. Puoi chiarirci meglio questo aspetto?

Le considero un po’ come i due lati di un disco. La raccolta Non risponde mai nessuno è arrivata dopo un lungo periodo di crisi in cui niente di quello che scrivevo mi piaceva. Quando ho realizzato che ero finito in un vicolo cieco, in cui la spasmodica ricerca di una lingua mi aveva fatto perdere del tutto il gusto per la storia, ho sentito il bisogno di rimettere per così dire i piedi per terra. E così sono venuti fuori dei racconti che qualcuno ha definito realisti, degli spaccati di vita in cui emergono delle figure che potremmo definire, con tutto il rispetto per Verga, dei vinti. Dopo quel libro sono riuscito a ripartire da dove ero arrivato; non a caso il primo racconto de La vita moltiplicata, cioè Oboe d’amore, era già uscito in una raccolta di autori vari (Toscani maledetti, a cura di Raoul Bruni) nel 2013. Quello era stato il punto in cui mi ero arenato e dal quale ho ripreso, ovvero l’esplorazione, per mezzo della lingua e dello stile, della dimensione più onirica e inconscia della vita. 

Si tratta perciò di due raccolte a specchio, dove il riflesso del realismo è il fantastico. A unirle c’è proprio questa polarità.

Quasi tutti i personaggi de La vita moltiplicata mettono in mostra un tentativo di fuga o di ribellione che prende forma attraverso l’onirico o lo psichico. Questo succede in Oboe d’amore, ne La somma dei secondi e dei sogni, in L’ultima vetrina… Ma la realtà è davvero cosi terribile come sembra?

La realtà sta diventando sempre più complessa, evolve a una velocità che supera le umane possibilità. Questo si traduce, dal mio punto di vista, in una sorta di vita fuori sincrono (a meno che non ci si accontenti di sopravvivere senza provare a capire), in cui gli strumenti a nostra disposizione sembrano sempre insufficienti a comprendere fino in fondo le cose, le connessioni tra i fatti e le persone. Inoltre questa velocità mi pare che tenda ad assottigliarci come esseri, costringendoci a vivere sempre più in superficie, senza avere il tempo di sentirci in profondità. La televisione e internet sembrano dirci che la nostra immaginazione sta già tutta là fuori e così il nostro inconscio (non è un’idea mia, lo diceva già Serge Daney a proposito della televisione), tutto a portata di clic o di telecomando, tracciabile e remunerabile. Messa così direi di sì, che la realtà un po’ terribile lo è.

Si potrebbe parlare, nel caso de La vita moltiplicata, di letteratura o di scrittura onirica? Saresti d’accordo con questa definizione?

In alcune parti direi di sì. Ci sono pagine in cui si potrebbe parlare addirittura di scrittura automatica, o qualcosa del genere. In altre è come se mi fossi messo davanti ai miei personaggi e li avessi psicanalizzati, in certi casi addirittura ipnotizzati.

Fa eccezione, mi è sembrato, il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie, va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con vero estro artistico. Si potrebbe leggere in questo suo modus vivendi la volontà di riscattare la realtà stessa? E potrebbe essere letta, questa sua predisposizione nei confronti della realtà, anche come una metafora dell’attività dello scrittore?

La figura di Giovanni è un po’ ambigua e in un certo senso leggendaria, perché nel racconto sono gli altri a parlare di lui. Esiste davvero? Chi può testimoniare della sua attività? Si potrebbe dire che Giovanni voglia salvare la realtà, che voglia risarcirla di una dimensione estetica. In questo senso sì, potrebbe essere letta come una metafora dello scrittore, o almeno di un certo tipo di scrittore. Credo che in effetti sia quello che cerco di fare io, anche se i tempi in cui viviamo sembrerebbero dirci che uno scrittore del genere, che creda nel compito di riscattare la realtà, sia destinato al fallimento. Eppure è proprio questo che mi spinge a insistere.

C’è un racconto di questa raccolta al quale sei particolarmente legato per motivi o vicende personali o perché ti ha dato particolari soddisfazioni?

Direi Vera, perché è quello in cui ho sperimentato di più, in cui mi sono veramente lasciato andare, in cui ho abbandonato il controllo per seguire il flusso, superando così il mio limite più grande come scrittore.

Se posso permettermi una domanda più personale, cosa c’è di Simone Ghelli nei personaggi del tuo libro, nelle vicende da loro vissute?

Come sempre c’è molto: ci sono ad esempio le esperienze lavorative (il postino, la fabbrica, la scuola, il call center). Io parto sempre dall’esperienza, anche quando si tratta di trasfigurarla. Credo che in fondo sia così un po’ per tutti, non s’inventa certo dal niente. Io sono la somma di quello che sento, di ciò che ho sperimentato con tutti i sensi, compreso tutto quello che non registro consapevolmente. Vedo ognuno di noi come un cinema ambulante: siamo pieni di immagini, di suoni e parole che dobbiamo soltanto trovare il modo di tirare fuori componendole in nuove forme.

Un aspetto che non è stato ancora messo in luce dei tuoi racconti è, a mio avviso, il legame che essi hanno con il cinema. In una mia lettura de La vita moltiplicata, già apparsa su Lankenauta, ho avanzato l’idea che si possa in fondo leggere la tua raccolta come una sorta di cronofotografia alla Muybridge, come quella evocata nel tuo L’ineluttabile, attraverso la quale, con l’ampio spazio che dai alla vita interiore dei personaggi, metti assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno di noi per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi. Cosa puoi dirci del legame tra la tua scrittura e il cinema?

Si tratta di un legame fortissimo e la lettura che tu dai della raccolta è assolutamente pertinente. D’altronde il cinema è l’arte su cui mi sono formato, almeno teoricamente. Quella dello scrittore la definisco la mia terza vita, ed arriva dopo quella di musicista prima e di critico cinematografico poi. Le due persone a cui è dedicato il racconto L’ineluttabile fanno infatti parte della mia vita universitaria, quando studiavo il cinema sui libri di Deleuze (e non solo, ma a Siena, alla fine degli anni Novanta, quella corrente di pensiero rappresentava un po’ lo spirito del tempo). 

Nel mio caso l’influenza del cinema riguarda sia l’immaginario che un certo modo di vedere – l’importanza dunque del punto di vista, ma anche del montaggio. Quasi sempre inizio a scrivere partendo da un’immagine e procedendo per immagini. Per me è molto importante che il lettore riesca a vedere attraverso le mie parole.

A cosa è dovuta la tua predilezione per il racconto? Qual è la tua idea su questa forma letteraria?

Il racconto è stato definito in tanti modi. Non saprei dire in che cosa consista veramente, se non che necessita di una scrittura in cui ogni riga deve sembrare necessaria. La differenza dal romanzo è essenzialmente questa. In un racconto non ci dovrebbe essere una singola parola superflua, nemmeno una virgola. È esattamente questo il motivo per cui trovo estremamente faticoso lavorare a un romanzo. Per quanto io continui a provarci, ormai da tempo, c’è sempre un momento in cui mi viene naturale isolare l’idea da cui sono partito e trasformarla in un racconto. E poi non riesco ad andare avanti se non sono convinto fino in fondo di quello che ho scritto prima. Non credo che sia possibile scrivere un romanzo a queste condizioni, senza concedersi la libertà di qualche sbavatura.

È opinione diffusa che il racconto sia un qualcosa di semplice, addirittura di occasionale, o peggio ancora il fratello minore del romanzo. Qual è la tua opinione in merito?

Che il racconto sia più semplice del romanzo è una sciocchezza, così come l’idea che possa essere un esercizio per avvicinarsi a quest’ultimo. Per molti scrittori e addetti ai lavori il racconto è anche un modo per farsi conoscere e arrivare alla pubblicazione con un editore; alcuni arrivano addirittura a paragonarlo alla palestra (e con esso le riviste e i siti letterari dove i racconti si pubblicano), dunque a un mezzo per allenarsi e farsi i muscoli. Questa è esattamente la visione che porta poi a considerare il racconto come il fratello minore del romanzo. L’ho già detto che è una stupidaggine? Ecco, lo ripeto, perché il racconto, così come qualsiasi altra forma letteraria, presenta delle difficoltà proprie. Anzi, a dirla tutta penso che sia più difficile scrivere un buon racconto che un buon romanzo, perché nel racconto i trucchi si svelano più facilmente (ok, questa l’ho presa da Carver). E questo è il motivo che mi fa un po’ imbestialire quando vedo che certe riviste di racconti chiedono di scriverne ai romanzieri solo per avere il nome di richiamo in copertina, come se fosse automatico che un romanziere sappia scrivere un buon racconto. Che stupidaggine!

Tu che hai praticato entrambe le forme: il racconto e il romanzo, in base a cosa decidi se usare l’una o l’altra quando hai un tema da proporre? Come cambia l’atteggiamento dell’autore quando si accinge a scrivere l’una o l’altra? E come lavora?

Ho scritto due romanzi, anche se in parte non li considero tali. Il primo (L’albero in catene, pubblicato da NonSoloParole nel 2003) è una specie di viaggio che ho intrapreso senza avere la minima idea di dove stessi andando a parare e, complice anche il fatto che ogni capitolo abbia un titolo, non sono pochi quelli che lo hanno letto come se fosse una raccolta di racconti. Il secondo (Voi, onesti farabutti, pubblicato da CaratteriMobili nel 2012) è stato definito romanzo, ma io lo considero piuttosto un’invettiva, un pamphlet in forma romanzata. Non credo insomma di aver mai scritto un vero e proprio romanzo e questo mi rende difficile rispondere alle domande successive. Immagino che scrivere un romanzo significhi avere ad esempio a che fare con degli schemi, delle schede coi personaggi, tutto un lavoro sulla struttura che mi fa annoiare al solo pensiero. Come ho già detto, per me il racconto parte da un’immagine, dal tentativo di mettere in risalto ogni dettaglio di quell’immagine e trovare il punto (quello che Roland Barthes definisce il punctum) verso cui la storia inizia a precipitare.

Dopo La vita moltiplicata cosa devono aspettarsi i lettori che amano Simone Ghelli? Quali sono i tuoi progetti futuri? A cosa stai lavorando?

In questo momento non sto lavorando a niente di preciso. Leggo, studio e metto da parte le idee. Il lavoro di insegnante, che amo, mi porta via la maggior parte del tempo. Sono fortunato perché è la parte più bella della scrittura: quella in cui s’immagina.

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Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

Se davvero volessimo provare a guardare il calcio con occhi diversi, imparare a sorriderne e a non prendere troppo sul serio questo sport che assurge molto spesso, nel nostro Paese, a condizione di credo religioso o ad unica ragion di vita, probabilmente a causa di un’allucinazione collettiva, allora i racconti di Angelo Orlando Meloni potrebbero fare al caso nostro.

Santi, poeti e commissari tecnici (Angelo Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici, Miraggi Editore, 2019, pp. 192), infatti, è un’agile, allegra raccolta che con uno sguardo ironico, leggero, ci parla di questo mondo variegato e di tutto l’universo che vi ruota attorno: dall’accesa rivalità tra tifosi che odiano per partito preso a chi vive solo di derby e di calciomercato, ai campioni veri o presunti, alle attese spasmodiche e alle notti insonni di coloro che ogni estate sognano la vittoria del campionato e s’illudono puntualmente di ottenerla, alla commistione di sacro e profano in cui il sacro è sempre a disposizione per proprio uso e consumo, fino ai tristi episodi in cui a far notizia e a finire sulle pagine dei giornali sono i genitori dei piccoli calciatori che si distinguono in “imprese” tutt’altro che esemplari e che, a quanto pare, poco o nulla hanno da insegnare ai propri figli circa i principi dello sport o il rispetto dell’avversario. Ne esce fuori un disegno perfetto, un affresco multiforme e vivo, in cui sono tante le pagine divertenti ma anche quelle che inducono ad una riflessione amara.

A volte Meloni ricorre a un tono parossistico, quasi iperbolico. Può succedere infatti che sia una santa a dispensare i dettagli tattici per vincere il campionato, tra commissari tecnici che non credono ai propri occhi e un prete disposto a tutto pur di fare proseliti (si scomoda addirittura anche il motto in hoc signo vinces per un titolo di giornale), e questo in un paese in cui solo un miracolo potrebbe disperdere i veleni del petrolchimico o spegnere le ciminiere, purificare le falde (Santi, poeti e commissari tecnici). Può accadere anche che sia il capriccio dell’ex moglie di un dirigente a mettere in pericolo il campionato più bello del mondo, dando vita a un esilarante effetto domino in cui presidenti e direttori sportivi si adoperano alacremente, con ricatti, combine e scambi di favore, pur di salvare capre e cavoli, salvo poi decidere di vendere tutto ai cinesi, gli unici che possono rimpinguare un’economia drogata (Il campionato più brutto del mondo). Riusciamo a sorridere persino delle rocambolesche vicissitudini di chi vive solo di espedienti, e che tra furti, calcio scommesse e situazioni fortunate, riesce a fare finalmente la vincita della svolta, quella che permette di volare via per sempre (L’aeroplano).

Meloni non esita a ironizzare anche sulle vicende di “el ratòn“, un non più giovane centravanti, eterna promessa pronta ad esplodere, sulla cui bravura e professionalità ci sarebbe tanto da discutere, ritrovatosi ad essere il nuovo colpo di mercato di una neopromossa in serie B alle prese con un campionato dai risultati altalenanti, un allenatore sempre in bilico e una tifoseria che non perdona (Precisi siamo). Un altro bel racconto (Perché no) è dedicato alla resa dei conti tra una vecchia stella del calcio e un suo marcatore, a cui il primo imputa la fine prematura della propria carriera, ad indicare come certi scontri sul campo non si dimenticano.

È comunque Ode al perfetto imbecille il racconto che ci lascia senza fiato perché combina in modo magistrale un tono intimo, quasi lirico, dedicato al ritratto di una vicenda personale e familiare, quella di un giovane calciatore troppe volte escluso dal campo perché non ha i genitori che contano, con il resoconto umoristico delle grandi e piccole meschinità di una umanità quasi sempre priva di coraggio, di decoro, che preferisce piegarsi ai favori, alle pressioni di un modesto mondo di provincia piuttosto che premiare e favorire i talenti. È, insomma, un racconto emblematico della società servile e ignobile in cui viviamo, che prospera troppe volte sull’ingiustizia e sul nepotismo.

Non si sbaglierebbe allora a voler scorgere nelle pagine di questo libro una grande metafora, forse la più adatta per descrivere un Paese sempre pronto ad accendersi per una partita o una coppa o per l’arrivo di un campione ma che riesce, incredibilmente, anche a fare un vanto della propria disaffezione alle regole comuni e a ritenere un qualcosa di “normale” l’assuefazione agli scandali e al malaffare. Santi, poeti e commissari tecnici, col suo umorismo vivo e pungente, può aiutarci sicuramente a tenere gli occhi aperti e a non prendere mai per vero ciò che spesso è solo fumo negli occhi.

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Maledetti francesi – recensione di Andrea Pedrinelli su Dasapere.it

Maledetti francesi – recensione di Andrea Pedrinelli su Dasapere.it

Saranno anche “maledetti”, questi francesi, però certo la loro cultura musicale è notevole: e la loro storia sul fronte cantautorale talmente densa e significativa che fa sempre bene, ripassarne i capisaldi, magari pure scoprendovi sfumature nel tempo un poco -ingiustamente- perdutesi. Dunque “benedetti” Monti e Marini: che con classe, cultura e garbo offrono a orecchie, cuore e cervello un magistrale viaggio dentro la storia della “chanson” più autorale -a tratti anche teatrale- d’Oltralpe; Monti fra l’altro non è nuovo a certi exploit cultural-musicali, e del resto il disco si collega a un suo bel libro, omonimo, edito nel 2018 da Miraggi, e lui nel tempo ha saputo costruirsi un solido e credibile repertorio da interprete-studioso-autore capace di spaziare in profondità tra cabaret, cantautorato e storia della canzone: non solo italiana. In “Maledetti francesi” Monti, qua e là accompagnandosi con la chitarra, ha scelto la cifra essenziale del piano (o poco più) e voce: e spalleggiato da un’eccellente Ottavia Marini, appunto al piano ma anche nel canto, effettua questo suo nuovo viaggio dalle radici della musica moderna transalpina al suo portato rock in modo raffinato, meditato, con gran gusto teatrale, non poco savoir faire (come notano in terza di copertina) e anche una cifra deliziosa dell’interpretazione, non solo sempre lontana dal già sentito e dal già abusato, ma spesso pure originalmente sarcastica o efficacemente disincantata.

Con questi ingredienti base, cui ovviamente s’aggiunge la scelta d’un repertorio spettacolare estrapolato dall’universo francese dell’intreccio delle arti con la musica nel secolo 1880/1980, “Maledetti francesi” è insieme gran disco e necessaria quanto riuscita operazione culturale: che non per nulla ha ricevuto -prima a ottenerlo- il patronage dell’Institut Français di Milano. E “Maledetti francesi” ha, come primo merito dei tanti, pure quello di farci scoprire o riscoprire angoli divenuti per varie ragioni “minori” della storia della chanson: dunque il primo cantautore, l’ideatore della “chanson canaille” Aristide Bruant; i testi senza censure di capolavori notissimi quali “Albergo a ore” tradotto per noi dal compianto Herbert Pagani; perle nascoste di geni quali Boris Vian o Serge Gainsbourg; l’arguta e puntutissima verve del rocker “maledetto” Renaud Séchan detto semplicemente Renaud, uno dei pochi grandi di Francia che non hanno avuto riscontro sul nostro territorio. E fra le righe delle scelte di Monti e della Marini ci sono anche, da riscoprire e magari andarsi a riascoltare (su vinile, perché no?), le mille contaminazioni Italia/Francia: qui ovviamente fotografate nel necessario recupero delle traduzioni fatte su classici d’Oltralpe da parte di Bruno LauziFabrizio De André, il già citato Pagani, Enrico Medail; per tacer di Monti stesso e di quella Andrea Mirò che seminascosta firma -e si sente, il suo taglio- la bella “Storia di Bonnie e Clyde” dall’originale “Bonnie & Clyde” di Gainsbourg.
Non ci si aspetti però una sequenza di “hit”: perché l’intento della coppia Monti/Marini era effettuare un viaggio potente, che sì sapesse passare da faccende finite spesso sotto i riflettori e però selezionate anche per le loro caratteristiche rivoluzionarie, anticonformiste o palesemente “maudit” (dunque Piaf, Brassens, Ferré…) ma per arrivare appunto a un’infilata di gioielli da rimettere in luce, fossero essi brani “minori” di Gainsbourg, le storie dietro le canzoni di Trenet o Bécaud, artisti sicuramente da conoscere come Renaud.
Il viaggio musicale di “Maledetti francesi” è dunque ricco, ampio ed emozionante; con qualche dubbio che punge soltanto per “Venite qua” che rispetto al resto pare pleonastica e per un passaggio didascalico-recitativo che sembra c’entri poco col disco ne “Il controllore del metrò” di Gainsbourg, peraltro riscoperta interessantissima di una “Le poinçonneur des Lilas” ben tradotta da Monti.

Il resto è eccellenza: l’inedito su Bruant “Allo Chat Noir” e lo struggimento bilingue di “Que reste-t-il de nos amours?”, il lavoro su “Albergo a ore” e la magnifica “Son venuto a dirti che vado via”, la strepitosa “Strani tipi” da “Les poètes” di Ferré e la lieve “Et maintenant” tenuta ben lontana da ogni ovvietà di rilettura pianistica. Con vette quali l’esilarante, ma anche inquietante, “Giava delle bombe atomiche” che Lauzi e Monti riprendono da Vian, il piglio maturo e dolente (lontanissimo da certe arroganze gridate sentite ormai troppo spesso) di “Egregio Presidente” ovvero “Il disertore” sempre di Vian, la sfaccettata e commossa “Paris canaille” di Ferré, i veri e propri capolavori di Renaud il quale, cantore del disagio e delle periferie, metteva in scena dialoghi padre-figlia capaci di indagare a fondo e con sferza tematiche forti dell’oggi, che andavano dalla violenza diffusa alla crisi della scuola.
Insomma, “Maledetti francesi” è un ripasso spettacolare d’un mondo che andrebbe insegnato a scuola: quel mondo inimitabile di canzoni allegre che raccontavano tristezze, melanconie e disperazioni, a volte pure denunciando con violenza le storture del mondo. Il mondo che la Francia ha donato alla storia della canzone d’autore, per farla breve: e che Monti e Marini, “benedetti” loro, ci riportano ben presente ad ascolto e anima.

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Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Massimiliano Viola su Modulazioni Temporali

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Massimiliano Viola su Modulazioni Temporali

L’autore di “Santi, poeti e commissari tecnici” (Miraggi Edizioni, Collana Golem,2019, pp. 192, euro 16) è Angelo Orlando Meloni che, nato a Catania, ambienta la sua raccolta di sei racconti nella sua Sicilia.

Con una scrittura molto divertente e dissacrante racconta la fine del mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo”. Il primo racconto è quello che dà il nome all’intera raccolta e al centro della storia troviamo la Vigor, squadra di Vezze Sul Mare, che fin dalla fondazione non ha mai vinto una partita e neanche è mai stata retrocessa, pur arrivando sempre ultima. L’allenatore inizia a essere contattato dal parroco del paese che gli dà dei consigli sulla formazione che gli arrivano dalla beata Serafina. Quando arriva il momento di giocare contro l’A. S. Marina, la squadra del comune gemello, Marina di Vezze, succederà di tutto e di più. Nel secondo racconto (“Precisi siamo”) un centravanti alcolizzato “el raton” e un’intera comunità si illudono di meritare “il calcio che conta”. Nel terzo racconto (“Ode al perfetto imbecille”) un ragazzino che, pur essendo bravissimo a giocare, non viene mai messo in campo perché figlio di un tizio stravagante, e a lui viene preferito un altro che l’allenatore e il presidente sono obbligati a far giocare perché “quando si arrabbia l’avvocato Cesari per noi sono cazzi amari”. Nel quarto racconto (“L’aeroplano”) un arbitro incorruttibile, durante l’ultima partita della sua vita, deve fare i conti con il suo passato e con i desideri di un ragazzo perduto. Nel quinto racconto (“Perché no”) una stella della serie A, ex divo del pallone, ordisce la sua vendetta contro chi, anni prima, l’ha fatto scendere dal piedistallo e cadere nel dimenticatoio. Nell’ultimo racconto (“Il campionato più brutto del mondo”) la Serie A rischia la catastrofe  a causa dell’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore, che pretende gli alimenti arretrati dal marito.

Il libro di Angelo Orlando Meloni ha un sapore tragicomico, dove l’umorismo non è fine a se stesso ma denuncia un mondo di ingiustizie e compromessi. Per l’autore “In Italia la vera religione è il calcio. I miei personaggi sono perdenti con un cuore grande”“Santi, poeti e commissari tecnici” si legge tutto di un fiato, è divertente e fa riflettere su un mondo che si è lasciato trascinare spesso in scandali e illegalità e che gli hanno tolto quel fascino irresistibile che aveva un tempo.

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La leggenda del Re Eremita – recensione di Isabella Moroni su Art a part of Culture

La leggenda del Re Eremita – recensione di Isabella Moroni su Art a part of Culture

A volte, quando le donne diventano protagoniste assolute di un racconto, si produce un senso di vertigine che apre alla conoscenza.

Succede anche questo nel romanzo di Cetta De Luca La leggenda del Re Eremita (Miraggi Edizioni), una storia dura, ma anche un thriller, ma anche una cronaca di donne, ma anche un dono alla Calabria, terra terribile e luminosa, radice profonda dell’autrice.

Tre donne, tre amiche d’infanzia sono al centro di questa narrazione: ognuna è e non è quello che sembra; come ciascuna di noi, ognuna è tante sfaccettature, tante emozioni, tanti segreti, tanta purezza, tanta rabbia, tanta ingiustizia, tanta ricerca.

Ognuna di loro conosce la leggenda del Re Eremita, antica quanto le terre della Magna Grecia che l’hanno originata; ognuna ha sperato di poterla vivere, ciascuna, infine, l’ha provata sulla sua pelle restandone segnata.
Perché il Re Eremita, o meglio, colui che, invisibile e sconosciuto, oggi lo incarna fra le campagne e le spiagge del paese senza speranza dove si svolge la storia, non è quello della leggenda, né quello che vorrebbe sembrare.

È la metafora di quel sistema patriarcale-criminale che è la malavita organizzata calabrese, è la violenza sulle donne, vittime designate, è il potere che si fa strumento di meschinità. È l’orrore puro che non si può cancellare, è la sozzura dell’anima che si riversa sulle sopravvissute e le rende vuote.

Cetta De Luca ha una scrittura diretta e, al contempo magica. Non descrive, apre porte. Guida fra pertugi e spazi nascosti dell’esistenza femminile, detiene le chiavi di questo mondo all’apparenza contemporaneo, ma dai sentimenti arcaici e potenti come quelli delle Grandi Madri.

E Grandi Madri sono le sue protagoniste. Ognuna a suo modo ha affrontato l’orrore, la paura, la vergogna, con la fuga, con la scrittura, con la negazione.
E quando, infine, si ritrovano davvero, diventano le artefici violente e sfolgoranti della giustizia e della loro liberazione. Anche a costo della vita.

Senza falso pudore, senza quella distorta correttezza che imporrebbe di consegnarci ad un finale onesto o equilibrato, Cetta De Luca sfida la sua stessa narrazione e capovolge il destino forte dell’appoggio della letteratura tragica e della tradizione del sud. Ci sorprende, ci spiazza, ci costringe a tenere gli occhi aperti e a chiedere di poterne leggere ancora. Troppo breve è stata l’esperienza così avvolgente.

Colei che ha ricevuto il male più oscuro e profondo, è la predestinata a proseguire la storia.
Ma vorrà cambiare quel mondo?

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione su Scribacchini per passione

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione su Scribacchini per passione

SANTI, POETI E COMMISSARI TECNICI

Stanchi di Sanremo? Avete voglia di una bella lettura per questo fine settimana?
Nessun problema, ho il libro giusto per voi.
Oggi infatti parliamo di “Santi, poeti e commissari tecnici” dello scrittore Angelo Orlando Meloni, edito da Miraggi.TRAMASanti, poeti e commissari tecnici è una raccolta che racconta con ironia e tenerezza e una scrittura scoppiettante il senso di una fine: il crollo del mito tutto italiano del “campionato più bello del mondo”, una bufala identitaria a cui abbiamo voluto credere per anni, una vera e propria religione di stato la cui dissacrazione ci renderà – si spera – un po’ più leggeri e meno tronfi, un po’ più umani, sopportabili e meno sfegatati.Santi, poeti e commissari tecnici è uno spaghetti-fantasy calcistico dai toni agrodolci che parla dritto al nostro cuore, al cuore di una nazione che sul calcio ha strepitato troppo e troppo a lungo perché, versata una lacrima, non fosse giunto il momento di riderci su.

Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi, dice un famoso proverbio.
Angelo Orlando Meloni però ha osato di più, ha infatti deciso di andare a toccare uno degli argomenti più “sacri” per il popolo italiano e non solo: il calcio.

“Santi, poeti e commissari tecnici” è infatti una raccolta di sei racconti tutti incentrati sul mondo del calcio ma, e qui si trova la novità, un mondo che viene raccontato con ironia, descrivendone gli aspetti peggiori, strizzando continuamente l’occhio al lettore che ride per tutto il tempo, ma non solo!

Meloni infatti costruisce dei racconti che, se da una parte fanno passare al lettore delle ore spensierate a ridacchiare sotto i baffi, dall’altra però lo spingono anche alla riflessione.
Sì, perché questi sei racconti sono agrodolci, non c’è solo l’aspetto comico a farli da padrone.

Penso che emblematico sia il racconto “Ode al perfetto imbecille” che, ammetto, è anche il mio preferito.

Un ragazzo, che non viene mai chiamato per nome, ma solo con un generico “tu”, bravissimo a calcio ma allontanato da tutti per via del padre e dei suoi tic e un ragazzo, Delfino, invece che è una schiappa ma che DEVE giocare, proprio per suo padre (o meglio per sua madre) e la sua “importanza”.
Non voglio svelarvi altro, posso solo dirvi che alla fine avevo gli occhi lucidi, perché Meloni è proprio bravo con le parole, anche quando descrive la miseria umana, e in questi racconti ne troviamo tanta, non scade mai nel ridicolo o nello scontato, il suo stile è leggero ma non per questo banale.

“Santi, poeti e commissari tecnici” è un libro che si legge con piacere, fa ridere e al tempo stesso riflettere e se siete appassionati di calcio non potete proprio perdervelo.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://scribacchiniperpassione.blogspot.com/2020/02/recensione-santi-poeti-e-commissari.html?fbclid=IwAR2zN4Lw2LSeYwsX1BN63hRquBXft4hG-7XxNR-MxG3SZD6sA7J7BqY5_s0

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Katia Fortunato su ThrillerNord

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Katia Fortunato su ThrillerNord

Sinossi. Santi, poeti e commissari tecnici è uno spaghetti-fantasy calcistico dai toni agrodolci che parla dritto al nostro cuore, al cuore di una nazione che sul calcio ha strepitato troppo e troppo a lungo perché, versata una lacrima, non fosse giunto il momento di riderci su. Un libro comico, commovente e liberatorio. Il libro comincia con il lungo racconto che dà il titolo al libro, una storia sul miracolo della statua votiva della beata Serafina, che all’improvviso suggerisce al parroco del paese la strategia per stravincere il campionato. E finisce con Il campionato più brutto del mondo, l’ultimo racconto, sull’effetto domino che porterà alla chiusura della serie A non appena l’ex moglie di un dirigente invischiato con il calcio minore avrà preteso gli alimenti arretrati. In mezzo, un centravanti alcolizzato e un’intera comunità si illudono di meritare “il calcio che conta”; il giovane calciatore più forte del mondo (o del suo quartiere) scopre quanto sia spiacevole scontentare i genitori VIP degli altri ragazzi; un arbitro incorruttibile durante l’ultima partita della sua vita deve fare i conti con il suo passato e con i desideri di un ragazzo perduto; una stella della serie A ordisce la sua vendetta contro il destino. Storie di calcio e storie d’amore, d’amori mancati e sogni infranti. I sogni dei tifosi, insomma.

Recensione

Molto carino questo libro. 

Una serie di racconti che hanno come tema centrale, raccontando il bello e il brutto, dello sport più amato e meraviglioso del mondo: il calcio.

Tra miracoli e suicidi, vittorie che non si capisce bene come, furti, tuffi al mare, ubriachi e storie d’amore e di convenienza, l’autore ha descritto il mondo del calcio alla maniera italiana. 

Il primo racconto apre il libro con ironia, e mentre, non puoi fare a meno di farti quattro risate, non puoi, allo stesso tempo, pensare ai limiti leciti e no, che qualcuno può trovarsi a superare per una vittoria.

Prerogativa, di tutto il libro, dal sapore dolce amaro, carino e divertente è quella di farti sorriderebuttando un occhio alla triste realtà che traspare.

Consigliato.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Stefano Peradotto su L’Indiependente

Santi, poeti e commissari tecnici – recensione di Stefano Peradotto su L’Indiependente

RACCONTI

Angelo Orlando Meloni, Santi, poeti e commissari tecnici, Miraggi edizioni

La bellezza del football, su cui già ci siamo soffermati su questi canali, trova in questa raccolta di sei racconti la sua espressione più pura, divertente ma al contempo amara e malinconica. Meloni si tiene sapientemente alla larga dalle grandi narrazioni della Serie A, preferendo concentrare il suo sguardo sulle realtà più piccole, e conseguentemente più intime e vere: il calcio di provincia delle leghe minori, i settori giovanili, i talenti inespressi o gli eterni sconfitti che, su uno sgangherato campetto, cercano di ritrovare un po’ di dignità. L’unico accenno ai grandi palcoscenici è nel racconto finale, Il campionato più brutto del mondo, parodistico rovesciamento della considerazione (esagerata) che si ha del calcio nel nostro paese. In uno spettacolo svuotato di autenticità da sponsor e affari, per ritrovare le emozioni vere bisogna guardare al gioco del calcio nella sua forma più sgangherata. Meloni lo fa con una scrittura insieme solidissima e mistica, ironica e triste, raccontandoci di superstizioni, aspettative e delusioni, invidie e cattiverie. E, in una moderna rivisitazione dell’odi et amo, riesce a farci ricordare perché, nonostante tutto, amiamo questo sport.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE: http://www.lindiependente.it/libri-nuovo-anno/?fbclid=IwAR3HnsCuvqxKjGXX6xHa4WA8Bse0ETcVFMeU92KRuBKz2HoSPeciYw-Yapk

LA VITA MOLTIPLICATA. “Dieci racconti uno più bello dell’altro” – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

LA VITA MOLTIPLICATA. “Dieci racconti uno più bello dell’altro” – recensione di Gabriele Ottaviani su Convenzionali

LA VITA MOLTIPLICATA

Chissà se era ancora un sogno, si chiese Ascanio…

La vita moltiplicata, Simone Ghelli, MiraggiOboe d’amore, Vera, Piano inclinato, La somma dei secondi e dei sogni, L’ultima vetrina, Compito di realtà, La grande divoratrice, La scatola nera, La sentinella di ferro, L’ineluttabile: dieci racconti uno più bello dell’altro, come del resto splendida è la copertina, per il tramite dei quali Simone Ghelli, con maestria, profondità, eleganza, raffinatezza, cura e delicata tenerezza per le fragilità delle anime che arrivano alla soglia della sua coscienza, presentandosi fra parole e righe, per raccontargli la propria vicenda, indaga, semplicemente, ma nessun sentiero è più impervio di quello che in apparenza appare senza ostacoli, l’esistenza, in tutte le sue forme. Eccellente.

 

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“La vita moltiplicata”

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Ippolita Luzzo su Ippolita – La regina della Litweb

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Ippolita Luzzo su Ippolita – La regina della Litweb

LA VITA MOLTIPLICATA

La vita moltiplicata di Simone Ghelli è una raccolta di dieci racconti declinati fra realtà e sogno, racconti che si svolgono in un tempo che è fatto di tre tempi.
Trovo di grande interesse ciò che fa Simone Ghelli, una resistenza letteraria allo spirito del tempo attuale, una resistenza al raccontare i fatti col piattume del presente, una resistenza che ci regala la complessità del nostro vivere, così umiliato da tanti romanzi scialbi e da tanta pubblicità ignobile.
Con Simone riflettiamo: “ Due persone si conoscono, ma si conoscevano già e non si conoscevano ancora” così nel L’Ineluttabile, il racconto di un incontro che ho imparato a memoria.
Giorgio, il protagonista, si trova a Siena, deve partecipare ad una “Procedura di valutazione comparativa per la copertura di un posto di ruolo di ricercatore universitario L-Art/06” dopo aver preso la laurea, sempre a Siena anni prima, dieci anni prima.
Incontra al Civico 90 di via Pantaneto un uomo sui cinquanta anni o più e tramite il libro, un libro, quel libro, e su una sciarpa regalata, in un locale che non è più il Pozzo, si svolge il dialogo sul cinema e sulla vita.
La nostra vita.
Tutto ciò che va dove non deve andare, tutto ciò che avviene senza il nostro volere, tutto ciò che noi siamo senza saperlo.
L’immagine- movimento di Gilles Deleuze è il libro che Giorgio ha in mano, un libro sul cinema, su “l’eterno ritorno come resurrezione, nuovo dono del nuovo, del possibile” di Bunuel e poi andiamo indietro nel 1996 l’anno in cui Giorgio inizia a seguire storia e critica del cinema.
Si era poi laureato nel 1999.
Negli anni la città è cambiata, Siena è cambiata ed anche l’ex Ospedale Psichiatrico è stato trasformato in una sede universitaria.  Mi immergo nel racconto, vedo gli occhi verde smeraldo dell’altro uomo, lo sento dire con me, con Artaud, che si scrive per uscire dall’inferno.
Chi è l’interlocutore di Giorgio? Un professore universitario?
Così parrebbe visto che conosce bene il professore di filosofia politica di Giorgio.
Giorgio non lo saprà mai e terrà in regalo quella sciarpa.  Non lo incontrerà più malgrado lui ritorni, speranzoso, più volte in quel locale.
Nemmeno noi lo sappiamo ma io lo conosco, lui è diventato una mia presenza in casa, perché esiste “un tempo interno all’avvenimento, che è fatto della simultaneità di tre presenti“:    < Secondo la formula di Sant’Agostino, esiste un presente del futuro, un presente del presente, un presente del passato, tutti implicati nell’avvenimento, simultanei> ed è per questo che nulla è come sembra.
La realtà poi è implacabile.
Ci prova, in un’altro racconto, il professore Iuri Bettalli a far scrivere ai suoi alunni cosa sia la realtà e la realtà sarà terribile, contro di lui nemica.
Compito di realtà.
Leggiamo i racconti di Simone Ghelli, con l’emozione di aver a che fare con uno scrittore vero, con un autore che rispetta la straordinaria storia che è la vita, un autore che ci regala con Lucrezio, la forza vivida dell’animo.
Leggiamolo e conserveremo ancora con noi la bellezza della letteratura.

Ippolita Luzzo

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

http://trollipp.blogspot.com/2019/12/simone-ghelli-la-vita-moltiplicata.html

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

LA VITA MOLTIPLICATA – recensione di Gianluca Massimini su Lankenauta

LA VITA MOLTIPLICATA

Se l’opera precedente di Simone Ghelli (Non risponde mai nessuno, Miraggi edizioni, 2017) ci aveva proposto delle piccole e grandi vicende del quotidiano narrate con un alto grado di realtà, in cui spesso i protagonisti, con le loro insicurezze e fragilità, stentavano a trovare una relazione empatica, motivo esemplificato dalle loro “chiamate mai risposte”, questa nuova raccolta di racconti dal titolo La vita moltiplicata (Miraggi edizioni, 2019, pp. 128) sembra costituirne allora il giusto complemento, il degno contraltare, poiché esibisce al suo interno, con la perizia ormai consueta all’autore, dieci titoli nei quali la potenza dell’onirico e dello psichico è declinata ed esaltata al massimo grado.

Se c’è infatti un tema ricorrente che accomuna la maggior parte dei personaggi del libro, a fronte di un vita che li nega o che non corrisponde alle loro attese, è proprio il moltiplicarsi delle immagini, dei quadri e delle scene della loro vita interiore, che si succedono, si sovrappongono, scorrono come davanti allo schermo di un cinematografo, restituendoci in modo chiaro il bisogno che questi sentono di rifugiarsi nel sogno ad occhi aperti o in mondi più pensati che vissuti, quasi sempre nel tentativo di salvarsi da coloro che li circondano e che non li comprendono, da una realtà misera e triste che non amano, con cui non sono in sintonia, e che pertanto li delude, li nausea (come ne L’ultima vetrina o in Compito di realtà), realtà che nel corso delle pagine può incarnarsi esemplarmente nella città de La grande divoratrice, in cui si dissolve ogni possibile segno di umanità, di gioia, col suo livellare gli uomini a pure macchine la cui vita è regolata dalla fretta e dall’alienazione (“Tutto intorno la città gorgogliava, era un intricato apparato digerente all’interno del quale si stava estinguendo un’altra infinitesima parte della loro vita.“) o che assurge addirittura a mostro orrifico in La sentinella di ferro, probabilmente il più bel racconto dalla raccolta (assieme a Oboe d’amore), in cui apprendiamo del povero Ermete che ha passato diciannove lunghi anni “fra gli ingranaggi della grande macchina, che inghiottiva carbon fossile e sputava ghisa, e lanciava fiamme e sbuffava fumo e si mangiava anche le persone, non solo i loro corpi, ma anche le loro vite.

Protagonista di Oboe d’amore, per esempio, è un giovane perso dietro le proprie fantasie (le sue tre muse, le chiama lui), che rincorre affannosamente, con slanci eroici più pensati che fattivi, a cui si oppone una madre poco comprensiva che vorrebbe riportarlo coi piedi per terra. Più che l’elemento diegetico, che lascerebbe credere inizialmente in un piccolo racconto di formazione (quanto pure al resoconto di una dolce alterità dal sapore schizoide), qui (come altrove, nella raccolta) l’aspetto che più colpisce è il ritmo, vero cardine che regge il tutto (il tema del racconto del resto è la musica), frutto di un lavoro egregio condotto sulla lingua e sulla sintassi, sulla musicalità della frase, sull’alto valore timbrico della parola che ne viene così esaltata mediante una modulazione non comune affinché riverberi come uno strumento.

Ma è in Vera che afferriamo ancor meglio la valenza dei versi di Lucrezio posti in epigrafe (tratti dal primo elogio di Epicuro, l’eroe “incivilitore” che per primo si oppose a un mondo chiuso dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, di cui apprendiamo il viaggio oltre i confini del mondo per portare la verità agli uomini), quando l’evasione dai limiti tangibili e razionali del quotidiano è tradotta da una prosa plastica e ardita, che straborda dall’ordinario, che si presta a soluzioni inusuali, nella quale il confine tra lo psichico e l’onirico è molto labile, e che esibisce a tal motivo un’aura che sfiora il poetico.

Sempre il sogno pare essere l’ultima via d’uscita che può salvare il Marcello de L’ultima vetrina dall’incomprensione generale, da una delusione profonda che pare avere ereditato dal padre, con il quale condivide anche la necessità di sprofondare nelle vite inventate dei libri, che contengono più verità delle vite vere (“entrambi avevano passato la vita a pretendere troppo, ad aspettarsi che gli altri sentissero quella stessa necessità di sprofondare nelle vite inventate, che capissero quanta più verità contenessero quelle che non le vite vere da cui prendevano spunto“), situazione molto simile a quella proposta in La somma dei secondi e dei sogni, in cui il protagonista evapora totalmente dietro ai manoscritti che giungono alla casa editrice per la quale lavora, fermamente convinto che la realtà dell’arte sia più vera del reale, e a quella di Piano inclinato, in cui solo col sogno ad occhi aperti Ascanio Ascarelli riesce a sottrarsi ad una vita monotona e ripetitiva.

Anche Compito di realtà, in una sorta di continuità ideale, ci propone un contesto ostile nel quale il protagonista stenta a trovare il proprio posto, ancor più quando si tratta di scendere a patti con l’ipocrisia generale, cosa che in fondo potrebbe anche giovargli, situazione che spinge il lettore, alla fine, a chiedersi se non siano proprio gli adulti, gli insegnanti, a sbagliare quando vorrebbero sentirsi dire dagli alunni solo quello che essi stessi pensano, rinunciando ad indagare il vero.

In questa molteplicità di fughe o di ribellioni tentate, fa eccezione però il Giovanni de La scatola nera che, di fronte al futuro funesto che sembra attendere la nostra specie (“Per me è tutto un caos indistinguibile. Ho disimparato persino a vedere, figuriamoci ad ascoltare.“), va in giro a far campionamenti, registrando suoni e rumori per poi rimodularli a piacimento, con grande estro artistico, per farne sinfonie, un modus vivendi in cui si potrebbe leggere la volontà di riscattare la realtà stessa.

Si rimane pertanto, a lettura conclusa, con la sensazione di avere tra le mani un libro ben pensato, che si propone come un’idea compiuta, con un’identità di stile, in cui Ghelli esibisce senza dubbio una valida padronanza dei mezzi e un’alta consapevolezza di quello che sta facendo (a dispetto di tante scritture banali odierne, tutte uguali) e in cui, come nella cronofotografia di Muybridge evocata ne L’ineluttabile, attraverso la scrittura e l’ampio spazio dato alla vita interiore dei suoi personaggi, mette assieme più momenti, più immagini delle storie di ognuno per cogliere la vita umana nel suo movimento, nel suo farsi, cercando con questo di aiutarci a trovare un senso, una direzione, quanto meno ad arrivare ad una presa di coscienza.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

La vita moltiplicata

NON SERVE NASCONDERSI. “La diversità è un valore e non un limite discriminante” – recensione di Marco Valenti su LibroGuerriero

NON SERVE NASCONDERSI. “La diversità è un valore e non un limite discriminante” – recensione di Marco Valenti su LibroGuerriero

GRANDANGOLO: “NON SERVE NASCONDERSI” DI MARCO PROIETTI MANCINI

Marco Proietti Mancini chiarisce tutto sin da subito. Non usa mezze misure nè sotterfugi per farci capire che cosa ci aspetterà non appena ci addentreremo tra le sue parole. Il titolo è il primo passo per mettere in chiaro il suo intendimento. “Non serve nascondersi” è fin troppo chiaro come incipit. E se non bastasse la sua dedica che apre la sua raccolta di racconti ribadisce il concetto. “Ai miei figli, che sono le mie nuvole più belle, anche quando portano le lacrime della pioggia.” Il libro è dedicato a loro, ai ragazzi di domani che oggi cresciamo in un mondo in cui non ci riconosciamo più. È per loro che le parole di Proietti Mancini assumono un’importanza fondamentale. Deve essere infatti il nostro insegnamento a dare loro un esempio per potergli permettere di affrontare il domani senza i nostri errori di oggi. Non ultimo appunto quelo di “nasconderci”, mascherando quelle che sono le nostre reali esistenze, emozioni e paure.

Non è più tempo di fingere, soprattutto con noi stessi. Accettiamoci per quello che siamo e il mondo saprà fare altrettanto. Non ha senso modellare le nostre vite su standard comportamentali o etici imposti dalla società. Il tempo prima o poi ci porterà il conto. Basta solo aspettare e il giorno del giudizio arriva. Per tutti.

È un libro che ci mette in chiaro un concetto che troppo spesso dimentichiamo, dandolo per scontato. La diversità è un valore e non un limite discriminante. È nella diversità che troviamo il modo per crescere. Concetto semplice e vecchio come il mondo, ma a quanto pare, visto ciò che succede ancora non del tutto chiaro. Rivolgendoci agli “uomini” di domani come fa Proietti Mancini in questo suo ultimo volume non possiamo che riporre in loro la speranza di cambiamento. Quel cambiamento, per tornare al titolo del libro, che deve partire dall’accettazione di noi stessi in primis per poi passare a quella degli altri.

Sono quattordici i racconti che la Miraggi Edizioni ha selezionato insieme all’autore. Quattordici episodi che scorrono velocemente raccontandoci momenti di vita quotidiana in cui non possiamo non ritrovarci. Quattordici istantanee che parlano di malattia, emarginazione, speranza, diversità più o meno manifeste. Ma anche di intolleranza, di dolore, solitudine e morte. Non ci sono vincitori o vinti. Non c’è competizione o ricerca di un finale che possa conciliare con la speranza. C’è solo la descrizione di un attimo e tutte le conseguenze che si ripercuotono nel nostro io più profondo alle prese con la presa di coscienza che stiamo inziando un percorso che ci porterà a poterci guardare senza dover abbassare lo sguardo.

Sono storie che sembrano incanalarsi perfettamente nelle cicatrici che solcano la nostra pelle sempre meno resistente agli acciacchi della vita. Storie che potremmo recitare a memoria ogni volta che passando davanti ad uno specchio ci fermiamo per un istante a controllare che sia tutto in ordine, tutto come deve essere, tutto come ci viene imposto da questa società che vorremmo cambiare ma che non abbiamo il coraggio di scalfire. È per questo che ci limitiamo a capire ed accettare i nostri errori in modo da preservare i nostri figli da quegli sbagli che continuiamo a ripetere.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

GRANDANGOLO: “NON SERVE NASCONDERSI” di MARCO PROIETTI MANCINI (MIRAGGI EDIZIONI)