Si pensa che gli editori stiano talmente tanto tempo in mezzo ai libri, alle novità, ai libri che non hanno avuto fortuna, che quando chiudono la porta di casa, l’ultima cosa che fanno sia guardare la libreria, perché sentono ancora la polvere sulle mani, anche se sono lavate con fin troppa cura. Credo sia l’abitudine. Quindi un editore divenuto scrittore per un’altra casa editrice sembrerebbe essere una “goliardata”.
Invece Patrizio Zurru, editore di Arkadia, diventa scrittore e centra l’obiettivo: è bravo non solo a scrivere, ma anche a dispensare emozioni. La sua opera Endecascivoli (Miraggi edizioni, 2021) comprende ben sessantacinque racconti. Tra un racconto e l’altro viene lasciato mezzo foglio in bianco per il lettore, per dipingere o scrivere i vocaboli che hanno emozionato lo scrittore e dunque anche noi lettori.
C’è una grande purezza in questi racconti, di un adulto che guarda al passato con emozione, certo, ma anche con il sollievo di essere grande ora e qui. A fare l’editore nella sua terra. Poteva capitare, invece, che un bambino nato in Sardegna a metà degli anni Sessanta, dopo l’adolescenza andasse in miniera come gli altri uomini e padri di famiglia, oppure trasferirsi sul “continente” o addirittura all’estero per trovare opportunità lavorative.
I passaggi per una vita in cui non hai gli occhi rossi e dove respiri aria e non terra lo capiamo abbastanza presto, con la testimonianza fin dall’inizio di una giovinezza attraversata da viaggi, avventure in spiaggia e anche prima, con Patrizio più piccolo a giocare a pallone con urla della madre e delle sorelle maggiori a fare da sfondo, fino all’arrivo del padre che poteva anche picchiare i figli maschi con la cinghia. Ma poi bastava solo la voce paterna per trovare la quiete familiare, perché la terra nei polmoni era già uno scandalo tutti i santi giorni. Picchiare i figli sarebbe stata una resa, aver avuto proprio una giornataccia.
Nella collana Golem di Miraggi c’è sia narrativa che poesia e quindi Patrizio Zurru ci si inserisce di incanto, con questi brevi racconti poetici, dei magnifici “tableaux vivants“. Ricordi o epifanie? Tutta vita vissuta? Ma come ormai chi scrive lo dice fino alla noia la Letteratura è trascrizione di un evento che ha perso per strada l’oggettività, perché il ricordo scritto è mendace, pieno di buchi neri.
La letteratura è il tempio dell’impostore, che racconta quello che ha vissuto o non ha vissuto in forma nuova. Pensate a tutti i ricevimenti, le passeggiate e le parole dette in un salotto scritte da Proust ne La Recherche mentre lui, invece, scriveva a letto, pieno di malanni, senza vedere nessuno. L’eccezione che conferma la regola? Giammai. Nelle cose scritte con l’immaginazione non ci sono regole prefissate, sennò sarebbe cronaca. Invece ci troviamo in un vero e proprio libro col titolo da “calembour“. Quindi il Patrizio letterario gira per l’Europa, torna in Sardegna, sa già quello che non vuole fare, mentre il resto rimane nelle possibilità: non vuole andare in miniera ma non lo vorrebbe neanche per i suoi parenti di sesso maschile, perché non ci si abitua mai.
Vi riporto un estratto del racconto della miniera, o meglio dei racconti della miniera che da soli valgono il prezzo del libro:
Torna anche oggi. Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e col carbone attaccato addosso, non c’è stato il tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirar fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.
L’autore sente nei ricordi la stanchezza e “il mestiere di vivere“, attraversati come sono non tutti, ma alcuni, da un sentimento doloroso e umbratile tipico dello scrittore Cesare Pavese. Ma queste ondate di emozione non sono tutto il libro; anzi, la goliardia, lo scherzo, il cameratismo maschile, gli approcci amorosi sono tutte tappe per un uomo fatto, ora, mediamente tranquillo, con due figli, una moglie, un gatto e la sua professione.
Ovviamente lo spazio dedicato ai disegni il lettore non lo deve compilare per forza; lo si può vedere anche come semplice parentesi tra un racconto e l’altro. Chiaramente in certi passaggi sono chiamati in causa più i lettori che sono stati adolescenti o giovani negli anni Ottanta, dove bisognava fare la fila ai telefoni pubblici e, se ci si trovava all’estero, i gettoni erano conservati in una capace busta di plastica. Senza Unione Europea l’estero era già Mentone dove accettavano i franchi, a Parigi, manco a ripeterlo. A Berlino si pagava in marchi.
La scrittura di Patrizio Zurru è poetica ma con moderazione, ha spunti di umorismo che si ricordano con piacere, è spaziosa e quindi si può iniziare da un racconto che sta in mezzo al libro; ma se hanno deciso di metterlo in quel modo e inserirlo proprio in quello spazio un motivo ci sarà.
Sinceramente, non è la prima volta che mi càpita di occuparmi di artisti poliedrici che legano, in contemporanea, l’uscita editorial-musicale di un progetto, ed ammetto che l’operazione nasconde sempre una certa attrazione. Infatti, “Torno per dirvi tutto”, oltre ad essere il titolo del libro del musicista, scrittore e regista Lory Muratti, è anche quello del suo nuovo album, che ingloba (parimenti) 8 capitoli che affrontano la tematica del suicidio, vista sotto la lente d’ingrandimento di un autore delicato, finissimo ma decisamente eclettico, capace di estrapolarne il significato più intimo e indecifrato.
Certo, non so quanto possa essere d’interesse un argomento, per certi aspetti tabù, cosi toccante, spiazzante e, nella maggior parte, irrisolto ed incomprensibile nel gesto estremo. Chi, invece (spero tanti), troverà interessante sviscerarne gli aspetti reconditi, potrà calarsi nel tappeto sonoro allestito da Muratti, che ha voluto darne risalto tentando un ensemble in modalità orchestra anche in assenza di essa e, tuttavia, riuscendo nell’intento, sovrapponendo soluzioni e suggestioni a go-go.
Infatti, l’ampia durata dei brani, conditi da excursus affascinanti, danno all’ascoltatore la pienezza di una fantasia sospesa tra presente e futuro, in un mèlange tra indie, pop-wave, ambient e cantautorato intellettivo.
Tra libro e disco, il Nostro ci conduce in luoghi come Vienna, Praga, Parigi, il lago di Bled, in cui il viaggio è inteso come imprescindibile compagno per alimentare ispirazioni e ricchezza d’anima: e questa ideologia Lory la condivide col feat. di Cristiano Godano (Marlene Kuntz) nella splendida “Invisibile”, che vuol dar risalto non solo alle persone ignorate e dimenticate sui marciapiedi, ma anche agli artisti in generale, che devono impegnarsi non poco per non passare inosservati.
Invece “Stanotte a Vienna” dipana un’atmosfera notturna e lucente con tante variabili: un via di mezzo tra Baustelle e Perturbazione, capito che roba forte? Chi, viceversa, predilige oscuri meandri riflessivi, potrà sfogliare la “Viola” o tendere verso “Il silenzio delle parole” (o, ancor meglio, nel “Notturno di una mente malinconica”), e sarà pienamente appagato.
Per scovare l’atto più stravagante, si può passare a “Un disegno con molta acqua dentro”, e si capirà la fervida capacità visionaria che incorpora Muratti nella sua (doppia) vena autoriale. In termini di immaginario ed esperienza, “Torno per dirvi tutto” (che sia libro o disco) dà l’esatta idea di come la sua narrazione renda chiara la ricchezza ispirativa man mano che il viaggio prende forma.
Di certo, far proprie entrambe le opere sarebbe l’ideale, con il protagonista (che non sveleremo…) in perenne lotta tra luci ed ombre. Ignorare libro e disco sarebbe invece, questo sì, un “suicidio” culturale. (Max Casali)
È appena uscito un romanzo di Daniela Cicchetta che vuole essere, nello stesso tempo, un monito contro la dissipazione che la specie umana sta facendo del pianeta che abita e la visione di una realtà che vada oltre il mondo apparente che tutti conosciamo. Sono innumerevoli i riferimenti nell’immaginario che possono venire in mente al lettore di questo libro, dal Vagabondo delle stelle di Jack London a film come Interstellar e Matrix. S’intitola L’ultima lettera di Einstein (Miraggi 2022) e quindi chiama come testimone anche quello che è stato il più noto scienziato del Novecento, del quale racconta dei documenti inediti riscoperti in un futuro distopico. Il romanzo, infatti, racconta tre storie che si svolgono nel passato, nel presente e nel futuro, ma che nella realtà di questa storia avvengono in uno spazio temporale unico. Le tre protagoniste sono Dunia (una donna di oggi dalla sensibilità particolare), Dymfna (una sacerdotessa druida che vive nel 54 a.C. durante lo sbarco di Giulio Cesare in Britannia) e Deena (una ricercatrice del 2190), legate tra loro da un legame misterioso e astrale. I temi del romanzo sono così interessanti e la storia così coinvolgente che non poteva mancare un’intervista all’autrice, no?
Come nasce l’idea di questo romanzo?
Probabilmente questo romanzo nasce con me per poi prendere voce quando ho cominciato a percepire quello che le mie protagoniste chiamano “il dolore del mondo”. Sono anni che ci lavoro, ma era rimasto sospeso in attesa di un messaggio d’inizio, così come la narrazione dei viaggi astrali che Dymfna, Dunia e Deena fanno continuamente. Fogli su fogli scritti a penna che attendevano di essere inseriti in una storia che è arrivata nel 2019, durante un viaggio a Stonehenge. Citando Dunia, la donna del presente: “Come in un puzzle senza un’immagine di riferimento, vidi ogni più piccolo tassello adattarsi alla perfezione a un disegno che non avevo ancora compreso e che era sempre stato lì, sotto i miei occhi”
C’è molto della tua vita in questa storia?
La voce narrante è Dunia, una donna della nostra epoca, e sì, mi somiglia molto per esperienze di vita e pensiero filosofico. In sanscrito Dunia significa Terra, era anche a lei che volevo dar voce. Il romanzo è pieno di riferimenti simbolici che raccontano quello che a parole non può essere spiegato, il continuum passato/presente/futuro, gli elementi di acqua terra e aria, la triplice divinità femminile fanciulla madre e anziana o gioia pace e amore, l’identità collettiva e la fusione con la Natura. C’è anche un’araba fenice come buon auspicio, mi auguro che assolva il suo compito grazie a un risveglio generale.
Il tuo sembra quasi un messaggio che riguarda la possibile distruzione climatica del nostro pianeta, secondo te gli scrittori possono avere un ruolo attivo nel denunciare i drammi contemporanei, oppure la loro parola cade nel vuoto?
Dipende, se siamo arrivati a questo punto di sicuro il problema è nell’indolenza, nel procrastinare decisioni e azioni. Nella storia si parla di ben due allarmi, reali, lanciati dagli scienziati di tutto il mondo, ti rispondo con le parole di Deena, la donna del futuro:
Era il 1992 e diversi scienziati, premi Nobel e altri millesettecento firmatari allertarono che l’impatto delle attività umane sull’ambiente avrebbe danneggiato il pianeta in modo irrimediabile, definendo il riscaldamento globale una delle minacce più gravi per il futuro.Venticinque anni dopo ci fu un nuovo allarme, questa volta lanciato da oltre quindicimila scienziati!
Il mio romanzo è una goccia nel mare (inquinato) delle denunce a tutela dell’ambiente, trascurato per ragioni politiche ed economiche, non abbiamo mai teso l’orecchio con vero interesse. Siamo il capitolo più distruttivo della storia dell’Umanità; narro anche di rivolte neonaziste contro la globalizzazione iniziate in Eurasia e delle guerre per il predominio, del fatto che depauperiamo dove viviamo e che siamo naturalmente autodistruttivi, egoriferiti. Non ti nego che sono rimasta scossa quando molte delle cose che avevo scritto hanno cominciato a verificarsi. Comunque dobbiamo continuare a parlarne e a scriverne, non smettere mai, anche una piccola goccia di consapevolezza può fare la differenza.
Hai narrato tre donne, pensi che ci sia una sensibilità femminile più attenta di quella maschile per questi temi?
Non amo fare differenza di genere per la sensibilità, ho narrato di tre donne perchè questa è la storia che mi è arrivata, la quarta protagonista è la Dea Madre che ascolta, subisce e reagisce.
I personaggi maschili del passato e del futuro vivono retaggi egotici che non riescono a superare, forse qui si potrebbe trovare un clichè, però ti assicuro che non è legato al loro sesso ma al tipo di ruolo che ricoprono nelle due società. Flavio Aurelio è un centurione romano che fa della conquista una filosofia di vita e Dymfna, la donna del passato, cerca di risvegliare in lui una conoscenza animica sopita forzando la naturale evoluzione degli eventi. Marcel è uno scienziato del futuro, legato all’indottrinamento di una società che decide della sua vita sociale e sentimentale, ma anche una persona estremamente rigida, di quelli che non ho mai compreso, che rinunciano a situazioni o persone facendosi del male ora per non soffrire successivamente. Con Flavio Aurelio e Marcel volevo proprio identificare una sorta di autolesionismo di chi segue troppo la ragione accantonando il cuore o di chi non si ritiene mai responsabile delle sue azioni. La società di oggi, se vogliamo: i due uomini rappresentano quello che siamo diventati, autoriferiti e disposti anche a fare del male pur di non accogliere l’ignoto che ci destabilizzerebbe.
Chi è per te Einstein?
Un uomo estremamente curioso, in buona fede, intrappolato nella folle corsa dell’esplorazione scientica, che ha sofferto del genìo e della speculazione fatta sulle sue scoperte. Un uomo solo, un sognatore sicuramente, un difensore della libertà, con grandi difficoltà ad amare e a lasciarsi andare, conscio e pentito di aver confinato il figlio in un ospedale psichiatrico.
Un uomo di coscienza, addolorato dall’utilizzo nefasto della bomba atomica, uno scienziato che ha cercato di avvertire il mondo di quello a cui stava andando incontro. Sua la citazione: “Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta sì: con bastoni e pietre”. All’interno del romanzo è citato il Manifesto Russell-Einstein con il quale, poco prima di morire, insieme al filosofo e matematico, si fa promotore di una dichiarazione a favore del disarmo nucleare in nome della pace. Ci ha visto lungo, non credi?
Quanto c’è di vero e di Einstein in questa “Lettera”?
Ci sono due citazioni nella lunga lettera che Albert Einstein scrive al figlio Eduard: “Tutto è energia e questo è tutto quel che esiste” e “Credo di aver capito che uno stile di vita vegetariano, per il suo effetto puramente fisico sul temperamento umano, avrebbe la più benefica influenza sulle sorti dell’umanità”. Il resto mi è arrivato, e non mi chiedere come, sotto dettatura di un inconscio che spesso muove le mie mani sulla tastiera. È una lettera piena d’amore per il figlio e l’Universo, che si chiude con la consapevolezza di un qualcosa che va oltre la ragione scientifica della quale si era sempre fatto paladino. Una coscienza che gli arriva attraverso una “nota stonata”, ma solo quando permetterà al suo sentire di allinearsi al suo sapere, per scoprire che il vero “orizzonte degli eventi” è dentro di noi.
Come hai lavorato per raccontare la parte storica del romanzo?
Nel 2019 ho atteso l’alba del solstizio d’estate a Stonehenge, all’interno del cerchio di Pietre, è lì che la storia si è chiusa, diventando chiara nella mia mente. Fortissimo il messaggio, ho capito che non potevo più rimandare quello che sentivo di dover scrivere. Ricostruire i colori e i profumi della Britannia non è stato difficile, da sempre sono attratta da quei luoghi e dalla cultura druida, i tempi coincidevano con le prime guerre di conquista in Gallia, e avevo studiato che alcuni contingenti si erano spinti in Britannia per una fase esplorativa, dove rimasero solo qualche giorno per tornare successivamente. Lì nasce la storia d’amore tra Flavio Aurelio, centurione romano, e Dymfna, sacerdotessa druida.
Nell’immaginare il futuro, ti sei servita di qualche studio scientifico?
Per quello ho usato l’immaginazione, almeno credo, perché le informazioni sono arrivate fluidamente, “vedevo” ciò che scrivevo e ne ero immensamente dispiaciuta. Deena è una ricercatrice e abita il futuro distopico del 2190, dove la comunicazione è cerebrale, si vive sottoterra al riparo dal sole malato e l’alimentazione di sintesi poiché nulla nasce più sul Pianeta, depauperato dalle generazioni precedenti. Ha un compagno obbligatoriamente a lei abbinato in base alla compatibilità del DNA, ma viene coinvolta nel Progetto Connaissance, ultima possibilità di salvare la Terra, da Marcel, l’uomo che ha amato e dal quale si è dovuta allontanare per rispettare le regole della società nella quale vive. Qualche anticipazione c’era già nella mia antologia di racconti Doppio Legame: abbinamento sul Dna, teoria delle stringhe e buco spazio temporale. Avevo dato una prima voce a questi argomenti che mi hanno sempre affascinato.
A un certo punto nel romanzo si parla di una lingua perduta, pensi che in futuro molto di quello che siamo si perderà?
Di certo non mi preoccupa la perdita di una lingua, nel futuro che ho dipinto si comunica attraverso quella ausiliaria, la stessa in tutto il pianeta. Stiamo già perdendo molto di quello che avevamo conquistato con millenni di evoluzione, siamo tornati selvaggi, ci siamo anestetizzati emotivamente.
Vorrei tanto si abbandonassero le guerre, questo folle accanimento per il predominio, il sacrificio di vite per interessi economici e politici, l’arroganza verso il nostro pianeta che ci porta a saccheggiare dove viviamo. Il dolore del mondo, lo senti anche tu?
Hai raccontato tre epoche, oltre alla nostra anche quella storica degli antichi druidi e quella fantascientifica della società futura. In quale ti sarebbe piaciuto di più vivere?
Non importa se passato presente o futuro, vorrei vivere in una società forse utopica, che non conosce violenza o imposizioni, dove l’interscambio del dare e avere sia spontaneo, le persone in armonia e l’interesse per l’anima sia almeno pari a quello per la mente e il benessere economico.
Una società dove non ci sia bisogno di sgomitare e ognuno possa esprimersi in quello che gli viene meglio. Una collettività che si sostiene e che guarda al futuro delle generazioni successive, con l’orgoglio di essersi meritata un posto in questa dimensione per migliorarsi.
Sono una sognatrice, lo so, ma se in uno dei prossimi viaggi astrali dovessi trovarla, mio caro Paolo, verresti con me?
Troppe volte non conosciamo un libro perché un giornale per partito preso o per campanilismo non lo segnala. Non è il caso de ‘L’EDOnista’ (Miraggi, pp. 172, €15), di Alessandra Contin (collaboratrice de La Stampa) e Francesca Angeleri (collabora con una infinità di testate: Il Manifesto, Corriere et alii). Due ‘penne’ che leggendole con l’occhio giornalistico appaiono diverse, ma che in questo bel romanzo che richiama la collina torinese dove vive il benestante Edo, rivoluzionano il parere che si può avere sui loro articoli: parere positivo/plus. Possiamo affermare e lo facciamo a gran voce, che il volume si presta a una narrativa sgargiante e pedagogica: sino a che punto si può vivere del pseudo godimento del protagonista Edo? E sino a che punto pensare che la bellezza della vita si riduce a sesso, locali e droga? Sappiamo che Turin è il Toro, la coca, i black bloc, la piazza (Vittorio) più grande d’Europa, eccellenza rivoluzionaria quando qualcosa non va bene: nascono sempre lì le primissime obiezioni alle restrizioni politiche sul cittadino. Ciò che fanno le due autrici altro non è che rappresentare l’altra Torino, quella che se non ci vivi non puoi sapere che è così, anche se paradossalmente si potrebbe affermare che ovunque succede il rendicontare di certi background delle metropoli. Narrano il vero, anche se il forestiero direbbe: ‘torinesi, falsi e cortesi’! Per nulla: ‘torinesi ardite e coraggiose’, anche nella scommessa di unirsi per scrivere un romanzo che spara forte e vibra dentro come suono di mitraglia che ad un certo punto stordisce per poi darti risposte: tante! Quelle cercate da Edo nonché da tutti: chi le trova, grazie all’approdo dalla zia e chi si fa fuori perché denaro e benessere non ce l’hanno. Libro intinto di ‘brillori’ e incipit riflessivi!
Che spettacolo Endecascivoli di Patrizio Zurru!!! Mentre si sfogliano i “sessantacinque” racconti non si può fare altro che ammirarne la genialità travestita da semplicità.
Una finestra sul passato, un passato che potrebbe essere il mio; tanto è bella la scrittura di Patrizio Zurru, tanto è vera che vi sembrerà di leggere i vostri ricordi. Siete lì, tra bottiglie di latte dimenticate, la miniera, la terra rossa. Una terra rossa che avrete come l’impressione di calpestare in quel momento. Endecascivolisono dei ricordi che non mi appartengono ma che faccio miei.
“15 anni di sottosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possibilità, si è messo a studiare per laurearsi, facendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da casa ogni notte lo portava in miniera. Avanti e indietro. Play, stop, rewind. Play again, sto, rewind, return home. Ha fatto la strada quasi dormendo, ascoltando la voce di mamma che invece di dirgli “ti amo” gli diceva Scisti, Concrezioni, formule chimiche, Carote, che non erano da mangiare ma da esaminare per verificare strati e stratificazioni. Eppure, anche se lei diceva Quarzi, Quarzite, Falde, Cristalli, lui ha sempre sentito lei che gli diceva Sono Qui, Amore, Tieni Duro, Arriva Alla Miniera Anche Oggi. Torna anche oggi.”
Difficile scegliere un estratto, se volessi riportare ogni frase che mi ha colpito mi toccherebbe ricopiare l’intero libro, e credetemi non esagero. La scrittura di Patrizio Zurru è un fluire continuo; un mare di storie in cui immergersi viene naturale. Endecascivoli è la storia di una famiglia, di un’isola, la Sardegna, che fa da sfondo ma è anche essa protagonista.
Racconti con echi lontani, una magia unica che si percepisce dalla prima all’ultima pagina.
Patrizio Zurru ci fa assaporare l’affetto della famiglia, le gioie della giovinezza e le avventure che ne seguono. Una lettura come questa serve a viaggiare nel tempo e nell’anima, una lettura come questa aiuta a ritrovare le proprie radici e farne un vanto.
Se avete voglia di leggere qualcosa di profondamente bello ma allo stesso tempo maledettamente malinconico, questo è il libro che fa al caso vostro… attenzione, perché la malinconia che Patrizio Zurru vi trasmetterà è una malinconia che tocca il cuore e fa sorridere. In Endecascivoli c’è una magia che ormai sembra estinta, distrutta e uccisa dal dio progresso. C’è una frase che a mio parere si associa perfettamente all’autore “Spacciatore di colori” perché è questo che fa Patrizio Zurru, spaccia colori e voglia di vivere con i suoi racconti. Inutile dire che ne consiglio la lettura, ho già detto abbastanza.
Il richiamo del dirupo di Mìcol Mei è un libro breve, particolare e intenso. Difficile collocare in un genere un racconto così, composto da frammenti, suggestioni, emozioni e ricordi.
L’atmosfera è ammantata di mistero e io ho pensato subito, lo so anche se non c’entra quasi nulla, a Shirley Jackson e al suo L’incubo di Hill House. Anche ne Il richiamo del dirupo infatti la protagonista sembra essere una casa assai particolare, una casa che inghiotte e trasforma i suoi personaggi.
Raccontare Il richiamo del dirupo è difficilissimo perché il pericolo “spoiler” è sempre dietro l’angolo e io ovviamente non voglio rovinare la sorpresa a nessuno. Degno di nota è il modo di raccontare la storia. Il lettore si trova sempre di fronte a un registro diverso: ci sono descrizioni tradizionali, canzoni, diari… Il richiamo del dirupo è un racconto in costante movimento.
Se all’inizio crediamo di trovarci di fronte a un horror, con l’andare avanti delle pagine scopriamo che non è proprio così. La seconda metà del libro esplode e si trasforma in qualcosa di completamente diverso.
Il richiamo del dirupo racconta la storia di una casa in stile vittoriano a picco sul mare. Un giorno il proprietario, Felice Hernandez, decide di ingaggiare un agente immobiliare per affittare la casa. E fin qui direte: cosa c’è di strano? Gli inquilini dovranno avere particolari caratteristiche e infatti gli ospiti della casa di Hernandez saranno quattro persone diversissime e soprattutto tormentate da qualcosa.
Nell’inquietante casa prenderanno posto una donna che ha perso la figlia, uno scultore, un’ ex tennista e un ragazzo affetto da una rara malattia. Ed è qui che comincerà per loro un percorso attraverso ossessioni, vendette e ripicche.
(…) ciò che colpì maggiormente il giovane furono però delle vecchie foto appese con cornici d’epoca. Ritraevano quelli che avevano tutta l’apparenza d’essere vecchi attori d’inizio secolo, quando tradizionalmente ci si aspetterebbe di trovare fotografie di parenti e famigliari.
In questa casa nulla è lasciato al caso: le stanze degli ospiti sono arredate secondo un’intenzione precisa. Nessuna è uguale ad un altra, proprio come nessun dramma assomiglia a un altro.
Se ho imparato una cosa buona da lei, è che la tragedia col passare del tempo diventa farsa, perciò tocca sorridere quando grandina.
Il richiamo del dirupo è…
Frammenti. Mei compone un puzzle avvincente e spiazzante. All’inizio si può fare un pochino di fatica perché la narrazione non è tradizionale. Questo è sicuramente l’aspetto che ho apprezzato di più. Mi è piaciuta la tensione crescente quando entrano in scena i personaggi e l’idea di immergerli, come se fosse in un esperimento, in un ambiente pronto a far emergere le loro fragilità e addirittura di ribaltare le convinzioni che avevamo su di loro.
Quello che mi è piaciuto meno è stata la brevità. Avrei voluto rimanere ancora un po’ in loro compagnia e magari aggiungere qualche pagina mi avrebbe fatto innamorare di più. Ma lo sapete, io amo i mattoni e non faccio testo. Ringrazio AldoStefano Marino e l’autrice per avermi mandato la copia. Miraggi ancora una volta si è distinta pubblicando un romanzo nuovo, insolito e godibilissimo.
Consigliato per gli amanti delle storie inclassificabili, per quelli che sono in cerca di storie particolari e mai banali, per chi non si accontenta e vuole essere stupito.
Mi approccio a questa lettura con colpevole ritardo. Libri e libri che si accumulano sulle mensole e che continuo a rimandare, nel frattempo, come tutti aggiungo e impilo, appunto altre letture che andranno a rimpinguare quello spazio sempre più ridotto ma che resta lì e in qualche modo mi da sicurezza. Il porto sicuro in cui so che potrò attingere ogni volta che ne sentirò il bisogno. Un po’ come i frammenti letterari presenti in questa raccolta, gli “Endecascivoli”, appunto. Memorie luminose e impalpabili che affiorano incontrollate alla superficie, come la marea che torna a bagnare la punta dei piedi, come quelle immagini che ci appaiono davanti agli occhi se li stringiamo forte, con il sole piantato dritto negli occhi.
E allora via di frasi e paragrafi che sono particelle, luminose e sfolgoranti, fragori che si consumano nel tempo di un respiro o, come ci suggerisce l’autore stesso, nell’istante di un vuoto d’aria, come quelli che ci colgono alla sprovvista, dopo aver salito decine di scalini, prima di un salto nel vuoto.
Sessantacinque (come l’anno di nascita dell’autore) sono i racconti presenti in questo pregiato volume edito da Miraggi, editore che da sempre confeziona le sue uscite con una cura a tratti artigianale. La copertina piacevolmente ruvida, con quella carta di un bianco che tende verso il seppia e l’immagine di una manica a vento che emerge da un paio di buffe nuvolette stilizzate, è già la conferma che qui siamo lontani dal territorio delle letture convenzionali.
Racconti brevi, a tratti brevissimi. Schegge di memoria intagliate nella corteccia di una vita policroma di esperienze. Non importa quando ci sia di realmente biografico e quanto sia fiction, o citazione, il focus è tutto spostato verso il substrato emotivo dell’autore: il rapporto con la sua famiglia, le giornate trascorse con il padre, il nonno, gli zii, il alla miniera, il carbone sulla pelle, i cunicoli che toglievano il respiro, le cui pareti d’ombra sono rimaste impresse negli occhi lungo gli anni. E poi i pomeriggi a turno sul muretto con gli amici, indossando i primi Lewis da portare rigorosamente senza giaccone, per sfoggiare l’etichetta. Il ricordo del primo viaggio a Cagliari, in una trattoria che ancora esiste, con Gigi Riva seduto nel tavolo alle spalle. Le distese di sabbie rosse che portano fino al mare, le camminate senza meta, con l’erba nascosta sotto i vestiti e uno zaino sfilacciato sulla spalla, sotto un sole carico di promesse e i confini tutti sbiaditi. Un’epopea onirica in cui la dimensione del sogno non dimentica la crudeltà di una realtà beffarda. Lo capiamo subito, dal primo, brevissimo racconto, deflagrante in tutta la sua spietata lucidità. All’autore bastano poche frasi, una manciata di descrizioni e già siamo lì, al centro della tragedia, sfiniti dal peso di quel corpo dilaniato che a stento riusciamo a reggere. In mezzo al fumo, alle grida, impregnati di quella stessa fuliggine che ritornerà ancora e ancora, lungo tutto l’arco narrativo, come lo spettro di una macchia indelebile. Poi il ritmo rallenta e subito mi torna alla mente quel concetto a me tanto caro di “anemoia”. Il retrogusto nostalgico per una un’epoca mai vissuta ma che in qualche modo mi appartiene, ci appartiene, rendendoci complici inconsapevoli di una grande memoria collettiva.
Patrizio Zurru è bravo a giocare con un ritmo narrativo che mette a suo agio il lettore. Come se sfogliando questi racconti, l’autore ci sussurrasse all’orecchio di non avere fretta, prenderci i nostri tempi, centellinare la scoperta di questi fotogrammi sospesi tra l’ironia dell’attimo (il reportage ambientato durante il festival letterario Una marina di libri è una chicca per chiunque abbia a che fare con il mondo editoriale) e l’agrodolce malinconia del ricordo.
Il tutto tratteggiato con grande padronanza linguistica e un’umiltà che traspare anche quando l’autore si concede dei piccoli guizzi stilistici (alcuni paragrafi in rima, qualche indovinello sparso). Le immagini si sovrappongono, gli odori si mescolano (la passione per la cucina è evidente) e proprio come la cadenzata costanza di una mareggiata, senza nemmeno accorgercene stiamo scorrendo assieme all’autore quell’immenso album fotografico. Istantanee dai tratti nitidi che sbiadiscono gradualmente fino a dissolversi in un riverbero fuori fuoco. L’aroma del latte bollito, il bruciore del carbone sciolto sulla pelle, l’ebbrezza di una serata trascorsa con i migliori amici, il viaggio e il bisogno di riconoscersi nomade, seppur ancorato a quell’isola preziosa dove la vita è scandita da un tempo diverso.
“Cacciatori di Frodo”, finalista al Calvino e candidato allo Strega nel 2013, è il libro d’esordio di Alessandro Cinquegrani. Non ha vinto nessuno dei due premi, ma la sola candidatura mi riempie di speranza per il destino della letteratura nazionale; encomiabile il coraggio di Miraggi Edizioni nella scelta di pubblicarlo.
Sì perché “Cacciatori di frodo” è certo un libro notevole, ma ha una particolarità: è scritto con la tecnica del flusso di coscienza; James Joyce, William Faulkner, Virginia Woolf, per intenderci. A volerla dire tutta, ultimamente Remo Rapino con il suo “Vita morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” ha usato la stessa tecnica e ci ha vinto il Campiello 2020, ottenendo un successo molto maggiore di quello di Cinquegrani, ma questa è un’altra storia e a me “Cacciatori di frodo” è piaciuto di più.
Protagonista è un uomo del nordest italiano, Augusto, benestante proprietario di un inceneritore per lo smaltimento di pneumatici. Tutti i giorni sua moglie cerca di ammazzarsi aspettando il treno che le faccia rotolare la testa giù dagli argini e nel fiume. E tutti i giorni lui percorre dodici chilometri suppergiù di binario morto per andare a recuperarla. Tutti i giorni, da quando il loro piccolo di diciotto mesi è caduto dalla finestra. Dodici chilometri di pensieri e ricordi, considerazioni e scoperte di verità nascoste. Che lui stesso, che la sua stessa mente gli ha finora nascosto.
Un flusso di coscienza a un tempo esiziale e catartico di poco più di cento pagine. Pagine fitte, piene. Non solo perché gli a capo si contano in tutto il libro sulla punta delle dita, e non solo perché i periodi possono durare pagine intere. Ma anche e soprattutto perché ogni pagina contiene una cifra, un barlume, un’espiazione, un rimorso, un contrasto, un rifugio, una rabbia, un motivo per cui il protagonista è adesso l’individuo che è.
Con uno stile consapevole e apprezzabile, Alessandro Cinquegrani, oggi professore di critica letteraria all’Università Ca’ Foscari, dà vita a un fiume, ordinato e musicale, di parole che gridano per le ingiustizie di cui il protagonista si sente vittima, che ha visto perpetrare attorno a lui, che lo hanno da sempre circondato. Un fiume, come quel Piave dei fanti il 24 maggio, che scorre nei suoi pensieri e li accompagna nel loro fluire ininterrotto scandendone corso e velocità.
Flusso di coscienza? Oddio, no. Calma. Non c’è da spaventarsi. Il James Joyce di “Ulysses” e delle decine di pagine senza segni di interpunzione è molto lontano. Qui tutto è comprensibile. Come già detto nel post sul flusso di coscienza, all’epoca (si parla degli inizi del Novecento) gli autori erano visti dalla gente con rispetto, deferenza. L’autore dal suo piedistallo elargiva capolavori che, nella loro forma contorta, stava poi al lettore decifrare. Ora i tempi sono cambiati, il lettore cerca l’immediatezza, la facile fruizione. Così, nel corso degli anni, anche il flusso di coscienza è cambiato. Valutate voi.
…ma io non conto i passi mentre percorro i binari della ferrovia, penso mentre percorro i binari della ferrovia, io mi porto al guinzaglio la mia nuvola, una manciata di metri cubi di acerbe espiazioni prese al guinzaglio e percorro i binari della ferrovia, dodici chilometri ho sentito dire, dodici chilometri suppergiù che devo percorrere per raggiungere la curva troppo stretta e dietro la curva trovare mia moglie sdraiata sui binari che aspetta che il treno venga a farle rotolare la testa giù dagli argini e nel fiume.
“Cacciatori di frodo” è un gran bel libro, complesso e aspro, che vi invito a leggere, senza preconcetti, senza difese. Per goderne appieno dovrete lasciarvi trascinare. Non ve ne pentirete.
Due anni dopo Paris Canaille, dedicato alla canzone francese, ritroviamo Giangilberto Monti con un libro su un’icona della cultura popolare francese: Coluche.
Si intitola Coluche, il comico politico il nuovo libro di Giangilberto Monti, scrittore, chansonnier, autore per radio e televisione, studioso della canzone francese e di cabaret. Dopo il successo di Boris Vian. Il principe delle notti di Saint-Germain-des-Prés, Monti ha scelto di raccontare Michele Colucci, in arte Coluche, il più geniale e popolare comico di Francia, che all’apice del successo decise di candidarsi alle Presidenziali del 1981. Il suo manifesto elettorale diventò un violento j’accuse contro la corruzione e l’insipienza dei politici: “Prima di me la Francia era divisa in due, con me sarà piegata in quattro dal ridere”. Tra lo stupore generale, i sondaggi andarono alle stelle, ma Coluche all’improvviso si ritirò dalla competizione ed entrò in depressione. Dopo un periodo difficile tornò a recitare e nel 1983 vinse il Premio César come migliore attore per la sua interpretazione nel film Ciao amico (Tchao pantin); seguirono due film di Dino Risi, tra cui Scemo di guerra (1985), i cui protagonisti erano lo stesso Coluche e il comico italiano Beppe Grillo. Nel 1985 lanciò una campagna nazionale contro la povertà e la dissipazione delle risorse, inventando i “Ristoranti del Cuore”. Morì ad appena 41 anni, nel 1986, in un incidente automobilistico mai del tutto chiarito.
«Questo libro – avverte Monti – non è un saggio storico o un pamphlet politico, ma una biografia romanzata e divertita del buffone più amato di Francia, perché la storia di Coluche ci aiuta a capire quello che ha attraversato anche il nostro paese. Se la comicità diventa una branca della politica, allora la politica è solo una delle tante industrie dello spettacolo? O forse la satira è un ingrediente necessario alla democrazia e allora, nell’eterna lotta tra il re e il buffone, poiché l’orrore è umano, riderci sopra ci aiuta a vivere”.
Alla sua terza raccolta di racconti dopo L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011) e Non risponde mai nessuno (Miraggi, 2017), Simone Ghelli raccoglie qui una teoria di narrazioni brevi collegate tra loro dall’atmosfera rarefatta e onirica, in cui i protagonisti si muovono galleggiando a metà tra le trasfigurazioni di cui è capace l’inconscio e una realtà talvolta amara da digerire.
I dieci racconti di La vita moltiplicata (Miraggi, 2019) ci proiettano in un universo in cui la nota di fondo è malinconica, fin dai titoli, che risuonano di un’eco sognante e ineluttabile – “L’ineluttabile” è tra l’altro il titolo dell’ultimo racconto, tra i più belli, dedicato a un ex studente di Siena che vi ritorna per un posto da ricercatore e, in un locale di via Pantaneto che ha ormai cambiato gestione, ha una intensa conversazione notturna con un bizzarro personaggio che si intende di cinema e filosofia.
Il titolo della raccolta sembra volerci introdurre, in maniera sintetica quanto incisiva, alla materia che troveremo affrontata nella raccolta: spezzoni, frammenti in perenne mutamento, stati di transizione, momenti clue – o meglio, epifanie –, una vibratile costellazione di esistenze sempre sul punto di “spiccare il volo”, come la figuretta in copertina, da una fase all’altra della vita o da un piano all’altro della propria essenza profonda.
Vi è, in questi racconti, un senso dell’attesa, dello stare a guardare, come nel primo, “Oboe d’amore”, che parla del difficile rapporto con la musica e con la madre di un bambino e poi adulto invaso dalle proprie personalissime muse.
«Accadeva che io fossi un’ombra, e che perciò strisciassi silenzioso tra i tappeti di foglie autunnali; e che ricoperto in testa d’un cappuccio di pelliccia, restassi a fiutarla tra i folti cespugli, a respirarla di lontano».
Ci sono situazioni allucinate, come nel caso di Vera, dove dai ricordi, dalle fotografie, dalle memorie di vita di coppia lei scompare, lasciando al compagno il dubbio che non sia mai esistita («Vera divenne ben presto Era, terza persona singolare del verbo essere, passato imperfetto»), sullo sfondo di una città post-apocalittica in cui stuoli di uccelli imperversano sull’orizzonte «gravido di antenne».
Molto emblematici sono i personaggi di “La somma dei secondi e dei sogni” e “L’ultima vetrina”, rispettivamente uno stagista di casa editrice e un libraio indipendente. Il primo, seppur consapevole che sarebbe stato più saggio imparare, fare esperienza, è irrimediabilmente attratto solo dai manoscritti che continuano a fioccare in casa editrice nella speranza di esser valutati (metafora delle aspirazioni di sconosciuti e velleitari scrittori), il secondo, che ha ereditato carattere fumantino e piccola libreria dal genitore, è colto nel terribile momento in cui decide di chiudere per sempre, facendo calare per l’ultima volta la saracinesca sulla vetrina del suo eroico negozietto.
Vi sono poi i postini anti-Internet, il professore di provincia triturato dai social per aver voluto lasciare i suoi pestiferi ragazzi liberi di esprimersi aggirando le disposizioni ministeriali, ragazzi spenti a casa ma indisciplinati a scuola, risucchiati dai loro telefonini in un’illusione di vitalità. «E come dargli torto?», osserva questo professore. «Per loro la scuola dev’essere una specie di mondo in bassa definizione».
In “La grande divoratrice” e “La sentinella di ferro” troviamo invece la critica sociale, uno sguardo più lucido su alcune realtà scomode del nostro tempo, il lavoro spersonalizzante dei call center – in generale dei servizi di assistenza/vendita ai clienti, con i loro annessi e connessi di postazione pc, credenziali di accesso, team leader e piani produzione – e le vecchie fabbriche che mangiano sia il paesaggio sia gli operai che ci lavorano.
Nel primo il protagonista «prendeva appunti sul portatile e provava a scrivere qualcosa che non sapeva se sarebbe diventato mai un libro o se sarebbe rimasto soltanto un lamento in prosa, il tracciato emotivo di un soggetto defraudato di qualcosa». Nel secondo un vecchio operaio osservando la ex fabbrica si rammenta «del tempo in cui contava soltanto produrre, e poi di quello in cui se n’erano vergognati, ma in cui era comunque necessario continuare».
I personaggi che Simone Ghelli sceglie sono tutti specchi di qualcos’altro, emblemi e maschere utilizzati per proiettare momenti e sentimenti stratificati nel tempo. Sono sentinelle costantemente in bilico tra l’infanzia e l’età adulta, tra quel che volevano fare e quel che invece fanno, tra l’incredibile qui e ora in cui l’azione sembra possibile e il successivo attimo di dispersione.
Queste figure, il postino, il professore, lo stagista, l’operaio, l’impiegato, il libraio, il pianista coatto, appaiono nello stesso tempo molto reali e assolutamente avulse. Nell’economia della raccolta, servono però a veicolare pensieri e significati che convergono tutti in una stessa direzione, quella di una velata critica al vivere contemporaneo, una sensazione di “fuori sincrono”, di spaesamento. Che senso ha farsi fotografie da soli? Per testimoniare cosa? Non sarà che questo grande universo di dati e informazioni in cui tutti sono immersi è una grande illusione, il miraggio di una vita piena? Non sarà che alle persone ora basta un’idea, la possibilità di questa libertà illimitata? Perché nessuno scrive più lettere e riceviamo solo estratti conto e pubblicità, sarà che non abbiamo più niente da dirci? Perché dobbiamo farci venire delle crisi di rabbia guidando per strada dietro a una persona lenta, e arrivare in ritardo a un lavoro da automi in cui non conosciamo neanche tutti i nomi degli altri dipendenti?
Allora può essere che un personaggio, stufo di tutto, per reazione, non desideri altro che «vivere in mezzo ai boschi […] diventando semplicemente terriccio per i funghi».
Che pace. Che pensiero vitale anche se raccoglie un’idea di scomparsa. Soprattutto se a fare da contraltare vi è una città del genere (è Roma): «Si era a tal punto elevata sul proprio passato da assomigliare a una millefoglie: strati e strati di asfalto, di laterizi poggiati l’uno sull’altro, di fondamenta accavallate tra loro. E ogni volta che si apriva una voragine sulla strada, lui si affacciava di sotto con la speranza di vedere l’inferno, o almeno un antico centurione sulla biga, mentre invece non c’era che qualche centimetro di nulla in cui si sentiva l’odore del catrame bruciato».
Lo stile di Ghelli è ben calibrato, piano ma con aperture al ricercato, e nel tessuto della narrazione sono frequenti le incursioni di sensazioni e stati d’animo. Talvolta si accumulano passaggi disorientanti in cui il filo si aggroviglia, strati di parole che conducono a una stanza sempre diversa del labirinto. La forma preferita è quella della brevità senza troppo indulgere al dialogo, che è invece protagonista nel già citato ultimo racconto, quello che accoglie anche, nelle parole dell’uomo misterioso incontrato dall’ex studente, il pensiero che pervade e attraversa l’intero libro:
«È difficile aderire all’immagine che gli altri pretendono da noi. È il piccolo o grande dramma dell’adattamento dell’individuo ai canoni sociali. La forma comica sancisce l’appartenenza alla società, così come la forma tragica ne sancisce l’esclusione».
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