Torino, si sa, è una città di libri e di librerie. E anche di scrittori, locali e adottati, capaci di raccontare luoghi e figure tipicamente cittadine. Sullo sfondo, troneggiano (sempre e per sempre) due inarrivabili giganti come Fruttero & Lucentini, con il loro sguardo sapiente su tic e cliché sabaudi. Era dai tempi dei primi romanzi di Enrico Remmert e di Giuseppe Culicchia che non si leggevano pagine così specificamente dedicate a una gioventù borghese e peculiarmente torinese come quelle de L’EDOnista, scritto a quattro mani da Francesca Algeleri del Corriere della Sera e Alessandra Contin, pubblicato da Miraggi. Edo, il protagonista, è il giovane rampollo di una famiglia agiata (molto), con villa in collina (di rigore) e un’ossessione: il sesso con le ragazze magre. Pare aver avuto tutto dalla vita, e certo non si fa mancare nulla. È bello e intelligente, lo descrivono le autrici, e ha una vita apparentemente perfetta, che però perfetta non è. Tra sogni e ambizioni messe da parte, droghe e locali esclusivi, Edo e i suoi amici vivono tutti i possibili scarti tra convenzioni sociali e pulsioni estreme. Ma anche molto casalinghe, come suggerisce l’incipit del romanzo: «Sono qui, in mutande, seduto sulla mia poltrona Frau con il telecomando che punta al sessanta pollici, dove mi imbatto in una replica urlata di Uomini e donne». Fin dalle prime pagine, ambienti tratteggiati con arguzia («A casa mia si fa colazione, rito che sopravvive solo da noi e nelle pubblicità del Mulino Bianco. Ma casa mia è il Mulino Bianco, infatti mia mamma ha assunto un giardiniere peruviano che assomiglia a Banderas») si alternano ad analisi disinvoltamente autoriferite: «Chi ti ha detto che potevi farcela, ti ha ingannato, perché nella vita contano i soldi e quelli fatti in una sola generazione non sono sufficienti». E ancora: «Bellezza, ricchezza e potere sono gli unici ingredienti per un successo duraturo e questi elementi non sono dovuti a capacità individuali, sono un diritto di nascita e non importa quanto ti prodighi a essere un degenerato». Secondo il modello del romanzo di formazione e «educazione sentimentale», L’EDOnista racconta, con il protagonista come io narrante, un percorso di perdita di sé e (forse) di redenzione. Con alcuni riferimenti letterari assai ambiziosi: a che cosa mirare, con un protagonista bello, ricco e dannato, se non a un capolavoro del minimalismo americano come Meno di zero, il primo, impareggiabile e indimenticato romanzo di Bret Easton Ellis? Da leggeremo la musica dei Radiohead e dei Clash nelle orecchie: Should I stay or Should I go?
“Cara catastrofe” di Felicia Buonomo, “diario in progressione di un amore violento”
Cara catastrofe è una raccolta che merita un’attenzione su più livelli. Edita da Miraggi Edizioni, marzo 2020, nella collana Golem, in cui spiccano autori cult come Guido Catalano e Gio Evan, Cara catastrofe è quello che non ti aspetti. L’autrice, intanto, è, una giornalista che si occupa principalmente di diritti umani, con video-reportage esteri trasmessi da Rai 3 e RaiNews24, video giornalista a Mediaset, presente nella redazione di Osservatorio Diritti, già apparsa in riviste e blog letterari, e Cara catastrofe è una sorta di diario in progressione di un amore violento. Un’analisi a posteriori.
Sembra facile, ma non lo è. A una prima lettura Cara catastrofe riporta, per la delicatezza dei suoni, a Chandra Candiani, citata in epigrafe insieme a Vasco Brondi ed Amelia Rosselli, e a Rupi Kaur, ma è un’associazione quasi scontata. Rimbombano le stanze vuote tra le pagine, un tentare di toccare, dove anche i contrasti violenti sono sfumati, quasi si avesse paura a nominarli.
Nell’affrontarla ho voluto mantenere la progressione della raccolta, che è divisa in tre sezioni, Cara catastrofe, Corpo e Sinceramente tua, a rappresentare l’evolversi del rapporto disfunzionale, l’inconsapevolezza di ciò che accadrà, la violenza vera e propria e il passaggio di riappropriazione di se stessi, con una sorta di dialogo in divenire con Felicia, perché da subito l’impressione è stata quella di aver percepito ma non del tutto compreso la meccanica di un rapporto violento. Proprio come una vittima, avevo bisogno di una guida che mi aiutasse a superare il livello di comprensione di una scrittura lineare, delicata, che scende come pioggia salvifica a tratti, ma che nasconde in questa sua estrema chiarezza una complessità da non trascurare. Per questo consiglio di leggere Cara catastrofe a più livelli e di rispettare la lentezza con cui la vittima di un rapporto disfunzionale arriva a liberarsi dal senso di colpa e di vergogna e per questo non ho voluto sintetizzare quello che è un percorso che non può essere abbreviato.
EA: Catastrofe-incantesimi, l’associazione presente nella prima poesia: è un ossimoro. L’incantesimo del malessere?
Cara Catastrofe, m’innamori come il gelo sul lungolago di Mantova, le luci dei lampioni di Milano, le onde sul porto di Genova e la strada oscura dei vicoli di Napoli. Trova nuovi colori e tratti che m’incantino. Dipingi la geografia del mio sentire. Io credo solo agli incantesimi.
FB: Sì, risponde in pieno alla dinamica che avvia il ciclo della violenza e che ho tentato di riportare (anche) in poesia. Ogni tipo di rapporto, che poi si rivela disfunzionale, nasce dalla magia di un amore che si presenta diverso dagli altri. La persona maltrattante, solitamente, si presenta come il principe azzurro delle favole, la persona che da tempo si aspettava. E questo schema viene riproposto anche quando le carte sono ormai scoperte sul tavolo. Ciò che avviluppa la persona (la donna, nel caso di specie) nella spirale della violenza, è proprio questa ciclicità: accumulo della tensione – violenza vera e propria – false rappacificazioni. Sono proprio queste ultime a portare la donna maltrattata (e ormai dipendente affettivamente) a ricominciare da capo, perché in quelle false rappacificazioni ricompare l’uomo dell’amore magico degli esordi.
EA: Un ossimoro richiamato dal frequente uso della [n]/[ɲ]/[m] in contrapposizione agli incantesimi delle [p]/[d͡ʒ]. Cara Catastrofe,/non chiedermi cosa penso/se ho un ramo di mano sulla fronte/Reggo le foglie dei miei tormenti/su cui ti adagi leggera.
FB: Ho lavorato sulla scelta delle parole da associare alle immagini metaforiche, con un forte ricorso alla figura divino-religiosa, anche se in termini quasi iconoclasti; mi sembrava riuscisse a restituire il processo di affidamento-delusione-rinata fede, di fronte ai differenti episodi violenti. Volevo che la voce fosse viscerale: quasi urlata in alcuni punti, estremamente delicata in altri (esattamente come accade nella convivenza con una persona maltrattante), in ogni caso sempre abissale.
EA: Ammetto che però, leggendolo, mi sono annotata: diario di un agognato malessere. Soffrire per sentire.
FB: Non è un voler soffrire. Uno degli stereotipi che anima questo macro tema che è la violenza sulle donne, è credere che la donna in qualche modo scelga quel tipo di sofferenza, pensare che se rimane è perché vuole vivere quel tipo di agonia. Ma la realtà è ben più articolata: la donna impara a vedersi con gli occhi del maltrattante e sente su di sé la colpa (ho dedicato al concetto di colpa della vittima numerosi testi all’interno della seconda sezione del libro) di ciò che accade, pensa che rispettando il volere del carnefice, lui possa in qualche modo non farle più del male. Dire a una donna “perché non lo lasci?” significa darle indirettamente la colpa, in gergo si chiama “vittimizzazione secondaria”, frequente – purtroppo – anche nelle aule di tribunale, ogni volta che una donna con figli, ad esempio, che ha deciso di denunciare dopo anni di maltrattamenti, viene considerata una madre alienante e privata dei suoi figli per non aver denunciato prima (figli spesso poi affidati al padre maltrattante). È così frequente questo giudizio che porta a non considerare la denuncia come unica possibilità (altro stereotipo). Un conto è farsi aiutare (quello sempre), un altro è procedere con una denuncia legale (a molte delle quali sono seguiti atti irrimediabili di natura vendicativa e di cui si legge purtroppo su molti giornali); ogni persona ha un suo percorso di uscita, che decide insieme alle esperte dei centri antiviolenza, e in ogni caso non sarà mai forzata a fare nulla che non voglia, nemmeno denunciare in termini legali, se non vuole. La stessa scelta del titolo (mutuato da un brano di un artista musicale che amo molto, ovvero Vasco Brondi) per quanto fuorviante, in realtà risponde alla dinamica sottesa: la donna comprende solo dopo la propria condizione di sottomissione alla violenza, ma quella catastrofe la rifiuta, cambia continuamente idea, anche quando inizia il percorso di fuoriuscita all’interno dei centri antiviolenza. Al primo approccio viene fatto alla donna un test di valutazione del rischio (che corre); quando si arriva in un centro antiviolenza, significa che la condizione di violenza è già in stato avanzato, solitamente il risultato del test è tra il medio-alto e l’alto, quasi sempre tuttavia la donna tende a giustificare il suo carnefice, da una parte perché sente la colpa (l’ho fatto arrabbiare, non dovevo parlare con quell’uomo, non dovevo vestirmi in quel modo, devo imparare a stare zitta; pensieri instillati dal maltrattante nell’abusata), dall’altra perché prova senso di vergogna. C’è una poesia, in particolare, che racconta questo momento e dinamica: quella del rifiuto della catastrofe, che di conseguenza – e per paradosso – diventa cara:
Ho detto a Jessica che non mi interessa più il caffè del risveglio, la certezza dell’amore, la tortura del suo strangolare per poi fermarsi a un passo dal saluto finale. Poi ho cambiato idea. Ho detto a Jessica che quel test di valutazione del rischio ha una falla. E che il modo in cui accarezzo il mio martirio è la prova dell’errore. Non si può portare una donna fuori dalla sua colpa.
In chiusura ricorre la parola colpa, che ripeto a più riprese nei testi. È un tema centrale. Ogni donna vittima di violenza sente la colpa di ciò che gli accade, nessuna esclusa. Perché il maltrattante, che nella lucidità comprende il proprio stato di maltrattante, rinnega la pesante realtà e la trasla sull’altro. E il maltrattato crede al suo carnefice, perché lo ama. Una donna vittima di violenza non è quasi mai animata da spirito di vendetta, tutt’altro: in realtà ciò che più desidera è continuare ad amare, che quell’uomo torni l’uomo degli esordi.
EA: È complicato arrivarci. Ho lavorato sulle questioni di genere, ma con più attenzione alle macro questioni culturali e sociologiche, questi aspetti, invece, che riguardano i micro meccanismi che si vanno a creare in un rapporto violento mi erano ancora estranei.
FB: Io sono riuscita a comprendere il concetto di colpa della vittima dopo aver parlato con numerose donne, tra le quali c’era Celestine. Una ragazza africana, vittima di un matrimonio forzato, scappata per non soccombere a quella realtà. Ero in Africa per girare un video-reportage. Celestine mi raccontava che con quell’uomo che era stata costretta a sposare (25 anni più grande di lei, quando lei aveva solo 15 anni) aveva concepito tre figli, tutti e tre con la forza fisica, carnale; mentre parlava stringeva tra le mani il crocifisso che aveva al collo. Quando le ho chiesto se si sentisse in colpa, lei non ha esitato un istante a rispondermi di sì.
Jessica dice che mi aiuterà e che non sono sola. Quando vado a farle visita non la guardo mai negli occhi. Ogni visita la concludo così: «Jessica, è colpa mia?».
EA: È una Catastrofe, quindi, che non attendo in quanto Catastrofe auspicata, ma che riconosco come tale solo a posteriori. In senso di attesa religiosa si percepisce, quasi un allargare le braccia e poi farsi coprire di bende, salvifiche. Niente a che fare con il linguaggio mistico, però, perché leggo una totalizzazione differente nei tuoi versi, paradossalmente non compare il desiderio, il corpo, anche nella seconda sezione che ne porta il titolo, sostituito dalla parola, dall’afonia, dai polpastrelli, dalle preghiere e dalle catene. È un corpo accennato, quello che ho percepito. Forse un corpo che è sparito, annullato.
FB: È vero, il corpo è onnipresente nella filigrana delle parole, ma scompare perché è il segno del passaggio della violenza, quella fisica, ma anche quella psicologica, i cui effetti si manifestano proprio lì (con vari disturbi psicosomatici, provocati dal cosiddetto disturbo da stress traumatico o post-traumatico).
EA: Uscire da un rapporto di violenza è uscire da una dipendenza (psicologica)? È uno ‘smettere di’? Perché anche in questo caso mi pare ci sia una sorta di individuazione della ‘colpa’, allo stesso tempo il ‘gioco’ perverso che descrivi della tensione, del culmine, della riappacificazione mi pare non così lontano dalle bolle di alcuni rapporti amorosi, in cui, pur in mancanza di violenza sia fisica sia verbale, si finisce spesso per incappare. Finché un giorno ne esci e respiri.
FB: Uscire da un rapporto di violenza è uscire da una dipendenza affettiva, che ha le stesse dinamiche della dipendenza da sostanze stupefacenti. È difficile, un trauma nel trauma. Da sola non riesci. Il gioco perverso che tu credi non molto lontano da alcuni rapporti amorosi in realtà credo sia profondamente diverso. Una cosa che è importante capire e che molti confondono è la differenza tra conflitto e violenza. Ciò che fa di un rapporto un rapporto violento e l’assoluto assoggettamento psicologico della vittima al proprio carnefice. La vittima non reagisce, mai, subisce, e sente persino giusto così. Nel conflitto esiste un rapporto di parità tra le parti, nella violenza è sempre impari.
Mi parli del tempo che distrugge, della ribellione che non c’è, della dignità frantumata sotto il peso di parole rabbiose. Fai l’elenco delle mie colpe con la stessa voce di chi urlava “Barabba!”. Mi ricordi che anche il figlio di Dio è fatto di carne che sanguina e muore. E che nessuno aspetterà, per me, il terzo giorno.
EA: All’inizio della seconda sezione Sono una giornalista è quasi un aprire le finestre sulla strada, un cambio, per poi tornare all’analisi, alle stanze deserte. L’ho trovata una presenza singolare, nel libro. Uno spiraglio di quotidianità, afona anche questa, perché portata avanti quasi per inerzia, riempiendo caselle:
Sono una giornalista e nel mio nome c’è una promessa, che mi insemina la colpa. Ieri gli italiani sono andati a votare. Ho fatto una diretta televisiva. Penso al modo in cui rincorro le persone, come se fossero qualcuno, e non un ammasso di parole semanticamente ordinate secondo l’alfabeto della mia indifferenza emotiva. Sfrutto le loro storie per guadagnarmi il pane, e non ho neanche fame di vita.
FB: È quella che io ho voluto definire una sorta di dichiarazione di intenti, dico al lettore: vi racconto ciò che è altro da me, ma c’è anche la mia comprensione ed empatia, quelle che tutti noi possiamo avere, senza nemmeno grandi sforzi.
EA: Com’è andata la scrittura della raccolta? È stata una costruzione a posteriori? Ho immaginato reale l’esperienza dell’io poetico, solo trasposta sul piano lirico.
FB: Sì, volevo che ci fosse l’io poetico, perché tutti potessero calarsi nella parte, provare a comprenderla. Molti poeti/autori hanno un’ossessione tematica, che portano avanti con diverse modalità, ma in senso circolare; un movimento, dunque, con cui si torna sempre al punto di partenza, capace però ad ogni passo di allargare lo sguardo percettivo, tanto dell’autore, quanto del lettore. La mia ossessione è rappresentata dai rapporti umani disfunzionali, fatti di mancanza di cura, malattia, disperazione, solitudine. Nella mia professione di giornalista, anche narrativa, racconto storie, entro nella vita delle persone, servendomi del sentimento dell’empatia. L’Altro è un concetto fondante per me. “Racconto” in versi quello che vedo, oltre a quello che vivo e sento. E la disfunzione relazionale è più frequente di quanto si immagini.
Non ho l’abitudine di praticare la dimenticanza. Provo a educarmi, tento di farti ricordo. Indosso la divisa dei sentimenti passati. Timbro il cartellino dei futuri negati. Pratico il mestiere della sostituzione. Avvio la meccanica della negazione. Ma non riparte il timer di questa catena di montaggio emozionale. La classe operaia va in paradiso, dicono.
Se non fosse stato per il supplente con le guance butterate, Andrea non l’avrebbe mai studiata all’università. Fu lui infatti a fargli capire che l’unico modo per evadere dal carcere dell’ignoranza era lo studio della filosofia. Così dopo la laurea, consegue un dottorato di ricerca e ottiene un assegno di ricerca. Poi conosce Croccola, così chiama Roberta, e la sua vita sentimentale cambia. Andrea riesce a conquistarla con l’aiuto di Platone, che lo esorta a pensare all’Idea di Prospettiva, utilizzando la periagoghè di Socrate, e all’Idea di Bellezza. E le racconta la storia dei figli della Luna Viola e della morte di bacio di Atteone, uno degli Eroici Furori di Giordano Bruno. Dopo il primo bacio arrivano le difficoltà con Croccola, perfino la separazione, ma poi nasce Viola. La situazione è complessa, non hanno una casa, c’è un mutuo, lui è senza stipendio. È grazie ai consigli di Gustav Jung (sempre così pieno di dubbi e amante di Kant), che gli suggerisce di continuare con il processo di individuazione e di integrazione dell’Ombra, che Andrea continua a volare in un cielo infinito, a rigenerarsi dal Ventre Vuoto della Luna Viola. Quando nasce Luna i problemi aumentano, e la vita si trasforma tutta in un dovere, finché Friedrich Nietzsche non gli ricorda la magia della “metamorfosi dello spirito” e la storia del cammello che porta il peso della vita sulla schiena. Trascorrono gli anni, e Andrea cerca di seguire il monito di Philipp Freiherr von Hardenberg che ne I discepoli di Sais, spiega che solo quando ci si sveglia dal sonno e ci si volta, inizia il viaggio verso l’unione degli opposti. E alla fine le bambine crescono, e non sono più bambine. Andrea non sa come concludere la fiaba che sta raccontando alle figlie, e per questo si azzuffano, Socrate, Platone, Nietzsche, il dott. Novalis, Giordano Bruno, Giacomo Leopardi, finché Jung gli ricorda la storia della piuma, che Andrea aveva scritto quando Viola e Luna erano piccole…
“La filosofia inizia quando la terra ti frana sotto i piedi. Quando intuisci il lato nascosto di un problema. Quando dopo un viaggio osservi una persona in un altro modo. Quando un dubbio ti divide in due”. In fondo è questa la morale della fiaba filosofica di Andrea Serra. La storia di una vita, anzi di quattro, insieme a Croccola, Viola e Luna, in cui Andrea, novello padre, immagina di dialogare con i maggiori filosofi della storia. Sono loro che dispensano consigli per affrontare alcuni snodi problematici affrontati nel corso degli anni, servendosi dei concetti e delle teorie che essi hanno elaborato. C’è dunque grande concretezza nella filosofia, non è solo amore (filos) per il sapere (sophia), ma “un percorso interiore, un viaggio dell’anima”. Lo stile semplice e molto ironico predispone ad un approccio ricettivo verso concetti e nozioni che forse non si ricordano, o che sono sommersi di polvere dopo gli anni della scuola. L’Idea di Prospettiva e l’uso della periagoghé, per vedere le cose in modo diverso e avvicinarsi alla verità, ma anche la storia dei figli della Luna, di cui scrive Platone nel Simposio, pulsano in tutto il loro fascino e la loro attualità. Così come la realizzazione del Sé, la “metamorfosi dello spirito” di Nietzsche e soprattutto l’unione degli opposti. E il viaggio fiabesco ci avvicina alla Luna Viola, che partecipa del fuoco del Sole e dell’acqua della Terra (ricorda Platone), così come il viola rappresenta l’unione della natura divina e umana (rammenta Gustav Jung). Non serve sfogliare alcun manuale di filosofia per leggere questa fiaba avvincente, per arricchirsi delle storie raccontate da Andrea Serra, ma essere disposti a incontrare la Luna Viola, per rinascere. Perché “i sentieri si costruiscono viaggiando”, come scriveva Franz Kafka.
Sessantacinque racconti brevi, lampi concentrati di senso: una serie di schegge apparentemente slacciate tra di loro, unite da un filo della memoria, quella di un’intera generazione che oggi tira qualche conto e alle volte vince, alle volte perde.
Si presentano così gli Endecascivoli di Patrizio Zurru (per Miraggi), come esercizi del e sul ricordo, pagine rapide che si aprono in medias res e raccontano di un’infanzia anni Settanta, tra battaglie tra bambini, di un confine labile tra il gioco e il lavoro adulto, di madri al centralino a manovrare fili e spinotti che accendevano, intrecciavano e interrompevano amori, dell’obbligo -felice- di girare con il padre a controllare che le cabine dell’Enel del circondario funzionino ancora dopo ogni temporale, di un mondo (la Sardegna nel caso, ma riferibile a tutta l’Italia) che pare lontanissimo e che Zurru riporta alla luce vivido e vitale.
Quasi in un sogno a occhi aperti, il dichiaratamente autobiografico protagonista del secondo libro di Patrizio Zurru – già libraio, editore, ora agente letterario – attraversa momenti e spazi irrelati e porta il lettore con sé in un’infanzia scandita da riti e immagini di vera poesia, come nel racconto dedicato al pranzo con i parenti lavoratori in miniera che su, in superficie, sono finalmente liberi di mangiare anche l’aria.
E ancora quello sul trasferimento in un surreale palazzo di cento appartamenti, tutti vuoti fuorché quello di fronte al suo, che verrà occupato dal parroco del paese. Sarà vero o verosimile?
Sarà una piega del ricordo come gli amori perduti, più che altro immaginati, o reale come i primi viaggi in treno coi coetanei, colmi di una gioia irripetibile?
Dall’adolescenza ripassa senza continuità apparente – ed è voluto – all’infanzia, alle sue paure, alle unghie tagliate che chissà se ricresceranno, alla presenza di uno zio Peppino che decreta a modo suo, con un gesto plateale, la vittoria del vino locale sullo champagne.
È un mondo poetico e visionario questo di Endecascivoli, in cui si muovono personaggi affatto comprimari, bruschi, irriverenti, dolci.
I suoi racconti potrebbero essere romanzi in potenza o rimanere conchiusi cosi, sospesi, e passare via leggeri con un plot twist che apre ogni finale: Patrizio Zurru dichiara di muoversi nella dimensione dello scherzo letterario, definisce il libro un divertissement (scrivo su commissione non dichiarata, ma passata da sguardi che ho visto), una dimensione di scherzo su cuiperò è lecito dissentire, perché nell’estrema cura della parola si percepisce un sostrato di letture importanti e di impegno. Se carattere di gioco c’è, questo rimane confinato nell’invito al lettore a una non obbligata presa di posizione, con l’escamotage di un’aggiunta grafica: la presenza di un riquadro bianco a aprire ogni racconto. Qui, volendo, chi legge il libro può disegnare o scrivere ciò che la lettura della narrazione stessa gli ha suscitato: gli spazi non più bianchi verranno poi pubblicati sul sito dell’editore. È un appello a prendersi il tempo, il desiderio di riflettere sulla parola, a reagirle, a interagire con l’autore e a lasciare infine il proprio, di segno, come lettore, perciò sempre parte in causa.
PATRIZIO ZURRU: “MOLTO DELLA FORMA RACCONTO LA DEVO AL MIO DISORDINE, CON LA FORMA LUNGA RISCHIEREI DI PERDERMI”
Patrizio Zurru ha appena pubblicato per la casa editrice Miraggi un libro di racconti di una pagina o poco più (sono 65 come il suo anno di nascita, precisa lui) dal titolo Endecascivoli, che con la sua carica ironica e surreale sembra già un racconto in sé e per sé. Io ho sempre trovato molto interessanti le storie brevi e ne scovo poche in giro tra gli autori di casa nostra (pure se sono una tradizione antica e ricca della letteratura italiana). In più mi piacciono i calembour venati di nostalgica malinconia. Inoltre l’ironia di Zurru non gli impedisce di scambiare con il lettore sguardi che vanno oltre una lettura superficiale e anzi riesce a portarlo dallo stupore al dramma e dal divertimento sottile all’apertura di impreviste finestre da cui scivolare in nuovi universi che potrebbero aprirsi appena oltre quello della nostra vita quotidiana. L’autore stesso sembra scivolare come i suoi racconti sulle onde del mare agitato dell’editoria, visto che oltre a scrivere è stato editore, libraio, agente letterario, ufficio stampa e ora si occupa della comunicazione della casa editrice Arkadia, dove cura la collana SideKar insieme a Mariela e Ivana Peritore. Così mi è sembrato giusto scambiare con lui le solite due chiacchiere domenicali (in genere sono quattro le chiacchiere, ma qui parliamo di racconti brevi e non di romanzi…).
Il lettore incontra subito una citazione da Augusto Monterroso, che fu citato da Calvino nelle sue Lezioni americane. Ti trovi a tuo agio lì, tra la rapidità e la narrazione fantastica? Questo racconto di Monterroso apre dei mondi con poche parole, mi piacerebbe pensare fosse così anche per i miei, in realtà molto della forma racconto la devo al mio disordine, con la forma lunga rischierei di perdermi.
Il titolo invece è un calembour che richiama il verso poetico, un verso che però sembra non riuscire a contenere tutto quello che vuoi dire e lo lascia scivolare giù. Questo ho pensato, è un po’ folle come lettura? È la giusta interpretazione, fatto salvo il fatto che più che di poesia lo chiamerei ritmo (o Ritmo, come l’auto Fiat che tutto era tranne auto e tranne ritmo).
Insieme ai racconti il libro contiene delle cornicette che invitano i lettori a disegnare, a scarabocchiare, come si faceva durante le telefonate di una volta (scrivi tu), mi pare un chiaro invito alla creatività del lettore, no? È pensata come forma di lettura interattiva, ero curioso di sapere cosa può ispirare la lettura, quindi la cornice col bianco lascia la possibilità di sfogarsi, nel bene e nel male.
La leggerezza che insegui però non esclude la malinconia e nemmeno il dramma. Si può dire proprio tutto in poche parole? Abbiamo uno dei migliori vocabolari al mondo, per quantità di termini. Io credo che incastrati bene, come nel Tetris, ci sia la possibilità di dare densità a piccoli spazi, o almeno ci provo. La risposta è Si può, sì, volendo si può.
Carbone, miniera, pioggia, terra e odori, che spazio ha nella tua immaginazione la materialità delle cose? Una presenza predominante, un riappropriarsi di tutto quello che la velocità e i nuovi mezzi ci fanno trascurare, perché ritenuti pesanti o superflui. L’idea di scrivere per odori, colori, sensazioni epidermiche mi ha sempre attirato.
E la nostalgia? La nostalgia c’è, ma non solo la mia. Racconto la nostalgia dei miei familiari, genitori, fratelli, zii e cugini, per quello che poteva essere perduto. Molti dei racconti sono scritti quasi su commissione, non esplicita ma dettata da mezze frasi riferite a episodi di quei tempi.
Mi ha colpito in uno dei racconti l’apparizione/sparizione di Gigi Riva. Ti appassiona l’epica del quotidiano? Mi appassiona moltissimo. In quel caso si trattava di un personaggio noto a tutti, e qui si gioca facile, mi interessa come facente parte dell’epica molto di più il tipo in bicicletta con la molletta a tenere il pantalone, la brillantina e la Nazionale senza filtro, un personaggio così ho scoperto essere ben più condiviso nella memoria collettiva, (Almeno, da chi ha più o meno i miei anni).
I racconti sono in prima persona ma, insomma, quanto è vero quello che racconti? Sei sempre tu il protagonista? Si parte da una base sì vero, ci sono sempre io, più o meno, o qualcuno a cui sono stato particolarmente legato, anche nei racconti “inventati” e alla Big Fish, come la storia del tipo che legava gli spaghi e l’uomo sui trampoli, ci sono nella misura in cui ho raccontato la verosimilità di personaggi realmente esistiti.
Hai mai immaginato un Patrizio Zurru nato in un’altra parte del mondo? Come sarebbe uno Zurru non sardo? Ho pensato a un Zurru non sardo, e mi è mancata l’isola intorno, come sentirsi nudo senza questo vestito fatto di doppie consonanti, vento e spruzzi di acqua salata.
Lavori da anni nell’editoria, con libri e autori, come la vedi oggi? C’è una voglia assurda di vedere il proprio libro pubblicato, come se questo potesse contribuire a renderci immortali, non considerando che invece questa quantità enorme di libri che entra in circolo non fa altro che renderci tutti più invisibili, uno sputo nel mare.
Patrizio Zurru ha lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario, e a ventinove anni dalla sua prima pubblicazione (13 racconti, 3B+Z), torna con Endecascivoli (Miraggi Edizioni, collana Golem), una raccolta di sessantacinque piccoli racconti in endecasillabi.
Endecascivoli perché spiega come lo stesso autore dopo aver salito gli scalini si butta(no) in discesa liberamente. E mentre cadono e si imprimono sulla carta, sprigionano odori e afrori di un mondo che appare lontano; il latte bollito e scremato dalla nonna per fare il burro, e la polvere di carbone sottile sulla pelle del padre minatore. Un mondo in bianco e nero che sembra lontano, e invece non sono passati più di cinquant’anni. Archeologia dei sentimenti, conservazione dei beni relazionali.
Endecascivoli o della vita scandita dalla famiglia, dai parenti, dalla scuola, dagli amici, e dalle cose concrete. Dalle voci, dai gesti, dai viaggi con lo zaino in spalla, dai corpi che si spostano nello spazio, fendendolo e modellandolo per favorire naturalmente l’arte dell’incontro. Dalle foto non fatte, fatte e mai sviluppate, sviluppate e mai trovate, eppure non dimenticate. E forse non è un caso che ogni racconto sia aperto da uno spazio vuoto delimitato da una sottile cornice quadrata dove l’autore ha apposto l’immagine trasparente di quel ricordo. E donato a chi legge lo spazio per un disegno o un appunto.
Gli Endecascivoli di Patrizio Zurru sono frammenti di prosa poetica densi come la vita, che lasciano spazio alla nostalgia felice di tempi vissuti, custoditi, e ora generosamente condivisi.
Il frammento numero 52 è un omaggio al maschile della famiglia, ci sono suo nonno, suo padre, i suoi zii e parla della miniera, un intreccio di cunicoli che a suo padre faceva mancare l’aria da masticare. […]Rivedo mio padre, i suoi fratelli. In campagna riuniti nei giorni di festa. Parlavano poco […] Mangiavano l’aria che avevano intorno. Mangiavano l’aria almeno quel giorno, invece il n. 59 è la storia di un viaggio con suo padre e contiene passaggi tratti da I quarantanove racconti (Mondadori, Traduzione di Vincenzo Mantovani) di Ernest Hemingway, maestro assoluto della prosa breve. Ha voluto far incontrare il padre biologico con quello letterario?
P.Z.: In questo racconto parlo della prima volta che ho veramente trascorso del tempo con mio padre, per molto tempo assente ma per il nostro bene, e il caso ha voluto che ci siamo incontrati anche attraverso le pagine di Hemingway, quindi ho avuto questo privilegio.
Nella prefazione a I quarantanove racconti, l’autore americano scrive: «Andando dove devi andare, e facendo quello che devi fare, e vedendo quello che devi vedere, smussi e ottundi lo strumento con cui scrivi. Ma io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire […]» Qual è la sua modalità di scrittura?
P.Z.: Scrivo mentre cucino, solitamente, quindi non è un caso se qualcuno dice che si sentono gli odori, il richiamo forte c’è. Il racconto finisce quando il piatto è pronto. Poi magari smusso, ma è come quando in cucina si corregge il sale e si aggiungono degli aromi.
Per concludere, nella lista dei suoi classici preferiti quale occupa il primo posto?Ce lo racconta in un tweet?
P.Z.: Opere complete e altri racconti di Augusto Monterroso (Zanzibar editore); un concentrato di sintesi e colpi di scena in racconti che quasi prevedevano i tweet. Il suo “Al suo risveglio il dinosauro era ancora lì” ti apre un mondo, anzi, parecchi.
Sessantacinque racconti come messaggi in bottiglia lanciati nello splendido mare della Sardegna in balìa delle onde, messaggi che arriveranno a qualcuno e saprà farne buon uso. Qualcuno? Chi? Saranno i lettori appassionati che scopriranno i volti, i sorrisi, i paesaggi di una Sardegna magica e anche di una Sardegna che si porta addosso la croce di quella sofferenza con una dignità che non ha eguali, aspra e vera come la sua terra. Un libro di piccoli frammenti con una metrica perfetta come una partitura di Alban Berg, un album di ricordi che hanno rifugio nell’anima e trovano spazio sulla pagina. Ogni frammento è un bozzetto con una prosa poetica che lascia spazio a finali, a volte anche a discrezione del lettore, come in un gioco di scatole cinesi. All’apparenza malinconici ma con toni forti, con una scrittura che è un fendente in diagonale come un rasoterra di Gigi Riva.
C’è un filo rosso che tiene insieme questi racconti, queste piccole gemme incastonate: la memoria. Perché i ricordi sono quelli dell’infanzia e della gioventù, relazioni familiari forti, quelle che riempiono la vita, sacrifici, sofferenze, la felicità di stare insieme, esistenze fatte di piccoli gesti e di grandi valori, felicità, anche tragedie.
L’appartenenza a questa terra che soltanto chi è nato può comprendere nei suoi aspetti più intimi, accarezzare le croste delle sue ferite, amarle, eppure ci sono momenti in cui bisogna renderle visibili per farne capire il valore e soltanto la dignità e la grandezza della letteratura può rivelare. Diverse volte è capitato di vederlo arrivare ancora sporco e con il carbone attaccato addosso, non c’era stato tempo per una doccia, non c’era stato perché c’era qualcuno da tirare fuori dai pozzi crollati, qualcuno vivo, altri no.
Questo libro non l’ho trovato soltanto originale nella sua composizione. L’ho trovato straordinario perché sovvertiva tutti quelli che sono i canoni della narrativa tradizionale, dando un ritmo e un linguaggio nuovo, quello di una narrazione dell’anima, una scrittura ribollente fino all’inverosimile. Racconti che paiono oscuri e che sono illuminati sulla pagina da uno spirito vero.
Si sa che c’è una grande tradizione sarda nella letteratura, mi par opportuno citare scrittori del calibro di Sergio Atzeni e Salvatore Niffoi, senza dimenticare altri importantissimi, legati a una realtà culturale che non ha bisogno di lente di ingrandimento. Ecco: Patrizio Zurru è legato a questa cultura, ha radici forti. Con poche righe, essenziali, ci racconta una Sardegna fuori dal folklore, quella più amata, dai sardi e dai suoi lettori nel “Continente” che non sono soltanto i sardi trapiantati in altre realtà. L’ebbrezza linguistica è una grande avventura che sa inerpicarsi per quelle strade scoscese dell’isola tenendo salde le redini, stando dentro un reale e vissuto che si protrae nel ricordo.
Racconti brevi, come un flash istantaneo che vengono dalle radici più profonde di questa terra con una lingua capace di avvolgere gli oggetti e di aspirarne l’essenza, una sintassi sempre lucida con concessioni ad immagini di una poetica intensa. Piccoli bozzetti di vincenti e di perdenti già passati o forse che saranno anche in futuro. Storie senza paraventi, ammiccamenti, a tratti con una sottile ironia, quella che non fa ridere ma sorridere, emblema di una felicità nascosta.
Dire che sono soltanto bozzetti è una bestemmia. È Letteratura. E con tutte le carte in regola. Poi c’è il fascino della scrittura. Una voce dell’anima. Credo che sia una prerogativa o, lasciatemelo dire, un dono, che ogni autore dovrebbe avere. Ma anche in una società consumistica, dove le regole del libro sono soggette al mercato, questo è appunto un dono e non è dato per scontato.
Bene. Qui, con passo felpato, attento a non fare rumore, Patrizio Zurru ci svela il suo volto in ombra, quello di un poeta autentico. Per questo è impegnativo e bellissimo nello stesso tempo affrontare la lettura di questo libro, proprio perché non è semplice imbattersi in un narratore con questa potenzialità così profonda dell’anima e con la capacità di trasmetterla.
Non ho mai visto di persona Patrizio Zurru. Ho parlato con lui qualche volta al telefono. Quei pochi dialoghi, rapidi, essenziali, me lo hanno presentato nello stesso modo in cui ho affrontato la lettura del suo libro. Nell’attesa di incontrarlo e di stringergli la mano ve lo presento così. Credo di non sbagliare. Io ormai lo conosco. Lui forse conosceva me.
n’inchiesta in versi per raccontare l’amore malato, la violenza di genere e l’abbandono: temi che purtroppo accompagnano la quotidianità e le notizie di cronaca
Sono 112 le vittime di femminicidio nel 2020. E nel 2021, in meno di tre mesi, sono già 15 le donne uccise per mano di chi diceva di amarle. Il bilancio sembra un fluire di sangue inarrestabile: un problema sociale e antropologico enorme. Felicia Buonomo, da brava giornalista d’inchiesta,si è sempre occupata di temi delicati legati ai minori e al mondo femminile.Questa volta, però, ha scelto di compiere un lavoro di analisi del drammatico fenomeno, attraverso un genere di scrittura che ama particolarmente: la poesia. E infatti, ‘Cara catastrofe’ edita da Miraggi Edizioni segna il suo esordio nel mondo editoriale della poesia. E’ una raccolta ben strutturata, coraggiosa, senza censure, come riportato da Valerio Di Benedetto nella nota di commento al libro. Il progetto si divide in tre parti: nella prima, c’è una sorta di carteggio e tutte le poesie iniziano con ‘Cara catastrofe’:“Cara Catastrofe, non chiedermi cosa penso/se ho un ramo di mano sulla fronte./Reggo le foglie dei miei tormenti su cui ti adagi leggero”. L’autrice tenta un dialogo con il dolore e rende partecipe il lettore. Inizialmente, l’amore ha tutte le caratteristiche di qualcosa di magico, speciale; poi, quando inizia a prendere un’altra forma, cambiano il lessico, le sonorità, le metafore. Felicia Buonomo sceglie una poesia prevalentemente breve, asciutta, ma diretta e mirata; nella seconda par
te, si entra nel vivo della violenza attraverso la fisicità. Non a caso, tra i versi troviamo ‘clavicole’, ‘braccia molli’, ‘carne debole’, ‘segni rossi sul collo’. Le immagini, potentissime, riconducono a situazioni di profonda e amara verità, in cui chiunque si trova a dover riflettere e molti sono i simboli che incidono nel ritmo e nel linguaggio; la terza e ultima parte apre a una consapevolezza dell’amore malato, che invade anima e corpo a un dopo possibile: si può uscire dal tunnel della sofferenza. L’autrice attinge a storie vere di donne che ha incontrato. E le traduce in poesia autentica, attraverso una scelta chirurgica delle espressioni comunicative. Le ferite nella pelle e nell’anima restano indelebili, ma è possibile recuperare, lentamente rimarginare pesanti cicatrici. Felicia Buonomo compie un lavoro necessario per tutte le donne, vittime che spesso si sentono colpevoli di ciò che vivono. Una raccolta di valore,che serve a sensibilizzare, a scuotere le coscienze. Ognuno può fare la propria parte. E la poesia è un ottimo strumento per affrontare tematiche così complesse, che toccano l’umanità.
Le memorie di un padre (minatore poi laureato) accendono le narrazioni di Patrizio Zurru
Se al termine della lettura di ciascuno dei 65 racconti arriva l’impulso di cercare il pollicesù per mettere un mi piace, non c’è da preoccuparsi. È solo uno dei sani effetti collaterali di “Endecascivoli” scritto da Patrizio Zurru e pubblicato per Miraggi edizioni. Storie ritmate e brevi, come dentro un social network, da leggere con la libertà di non seguire l’ordine proposto nel libro.
Vita social
Il nostro tempo, pesante di preoccupazioni, con questi racconti sembra prendersi una tregua, e così si fa largo un’oasi di leggerezza e giocosità che offre riparo soprattutto in ciascuna pagina dispari del libro dove è presente un riquadro bianco concepito per raccogliere pensierini, appunti o disegni. Anzi, scarabocchi come succedeva ai tempi del telefono grigio a rotella della Sip. L’evoluzione di quei ghirigori diventa la vita social del volume: è stato infatti creato un hashtag, #endecascivoli, per interagire con l’autore e magari esprimere un giudizio.
Istruzioni per l’uso
In apertura un bugiardino offre qualche spiegazione sul testo e sul senso della narrazione. «Tutto nasce», spiega l’autore, «dalle storie raccontate da mio padre e dalla successiva richiesta al sottoscritto di mia madre: mettile in bella, come sai scrivere tu. In particolare gli aneddoti sulla miniera». Non hanno titoli i racconti-post, quindi il riferimento è la pagina. Alla 29 si legge: «15 anni di sottosuolo a spalare carbone, e a un certo punto ha deciso che poteva esserci un’altra possibilità, si è messo a studiare per laurearsi, facendo registrare a mia madre le lezioni su un Geloso, che ascoltava nella strada che da casa ogni notte lo pottava in miniera. Avanti e indietro. Play, stop, rewind. Play again, stop, rewind, return home».
Il viaggio
Lo spunto per ciascun brano è reale, spesso sono le memorie a dettare il viaggio alla fantasia per spaziare tra nonsense, sarcasmo, realismo liberatorio. Ovunque si ritrova musicalità, che come brezza di parole investe il lettore per poi scivolare via e lasciare sensazioni rarefatte che sono già ricordi. Pagina 70: «Mio padre, che si faceva i chilometri a piedi per incontrare mia madre, un amore scavato con scarpe coi chiodi sotto, per non consumarsi, arrivare ad Iglesias per un sorriso». Difficile scegliere il passo più divertente, specie quando la narrazione attinge alla memoria collettiva di chi negli anni Sessanta ci è nato. A pagina 25 c’è un viaggio in treno per raggiungere Parigi, alla frontiera il controllo dei documenti, delle borse, delle valigie… e le Superga di tela o le espradillas usate come «potenziale bellico non indifferente» per non condividere lo scompartimento con nessuno. E come non citare Eros Ramazzotti suonato all’infinito da un sopravvissuto jukebox in un pub belga non appena il gestore, troppo ospitale, capisce che Zurru arriva dall’Italia. “Endecascivoli” è questo. È parola che non esiste ma che parla di racconti, scritti perfino durante il tempo di cottura di un minestrone.
Lo scrittore
Nome noto nel panorama editoriale per essere stato prima libraio e ora ufficio stampa, agente letterario, direttore di collana, Zurru è passato per un attimo dall’altra parte, quella degli autori, quasi non per scelta. «Non ho ansie da scrittore», dice a tal proposito, “il libro è un divertissement, niente di più. Determinante è stata la spinta forte delle gemelle Ivana e Mariela Peritore, con le quali lavoro per la collana SideKar, altrimenti chissà… ».
Aveva permesso che il tempo si annullasse, che quei baci lontani arrivassero prima.
Endecascivoli, Patrizio Zurru, Miraggi. Icastici, brillanti, intelligenti, vividi, schietti, i racconti di Patrizio Zurru sono gemme liriche che indagano senza retorica e con freschezza impareggiabile la condizione umana in tutta la sua gamma di colori, dalle tinte più tenui a quelle più fosche, tra le fragilità più inconfessabili e gli improvvisi e irresistibili slanci di forza, vitalità e resilienza, facendo conoscere, tra realismo e magia, un festoso assembramento di caratteri al lettore, che in loro riconosce e il sé, e non si sente più solo. Un gioiello.
Patrizio Zurru in libreria con una raccolta di 65 scritti, dal titolo “Endecascivoli”, sospesi tra ricordi di famiglia e fatti quotidiani, talvolta surreali. «In endecasillabi, più o meno»
Ventinove anni esatti dalla precedente opera, per assaporare la maturità dello scrittore Patrizio Zurru. Nel 1992, con “13 racconti”, pubblicato dalla 3B+Z, il natio di Iglesias si districava con emozioni in parola scritta, che ebbero un ottimo riscontro. Prima d’approdare al “libro”, organizzava concerti jazz fino a che: «Sono passati oltre 30 anni (da quell’approdo, n.d.c.) e non ho ancora trovato come uscirne». Ci preme ricordare e lo facciamo senza alcuna piaggeria, che non stiamo parlando soltanto con lo scrittore, bensì con un talent scout tra i maggiori che l’Italia può annoverare: «Ho lavorato come libraio (riconoscimento miglior libraio d’Italia nel 2012, n.d.c.), editore, scrittore, ufficio stampa, curatore di collana, consulente editoriale e agente letterario».
Stakanovismo?
«È la passione, che chiami stakanovismo, per le cose che si fanno, l’idea di raggiungere un obiettivo o di crearne di nuovi. Poi il valore lo stabiliscono gli altri». La poliedricità non è dunque casuale, così come casuali non sono i 65 racconti dell’antologia “Endecascivoli”, edito da Miraggi Edizioni, in libreria da ieri, 23 marzo, tant’è che Patrizio Zurru, che ad oggi cura anche la collana “SideKar” di Arkadia Editore di Cagliari, insieme alle gemelle palermitane Ivana e Mariela Peritore «una collana di isole gemelle» come ama ricordare, pubblica per le edizioni torinesi perché «doveroso ricordare che siamo amici dall’anno della loro fondazione. Ho seguito tutto il loro percorso, così, quando mi hanno chiesto di pubblicare le mie storie con loro mi è sembrata la cosa più naturale, oltre che più bella». Sincero nelle emozioni come i contenuti della nuova opera, gli chiediamo se c’è un filo conduttore tra il dato reale e quello della potenziale fiction: «Sicuramente la liaison è la ricerca della memoria, soprattutto passata, ma anche presente e futura. Si va dalla parte che più mi appartiene, le storie di miniera di mio padre, a quelle che coinvolgono una famiglia numerosa per cuginanza, sparsa per l’Europa, a semplici fatti quotidiani; non mancano i racconti surreali, a intervallare il vero con un po’ di verosimile. Il tutto in endecasillabi, più o meno».
Cosa l’ha ispirata?
«Niente! Scrivo mentre cucino, impiego il tempo di cottura, quando il piatto è pronto il racconto si chiude. Quanto alla pubblicazione, già ti ho detto come avvenuta».
I racconti sono narrati in prima persona: parla di se stesso o presta la sua penna ad altri personaggi?
«In quasi tutti, cerco di riportare storie che ho sentito dai miei, arricchendoli con dettagli inventati».
Cosa pensa dei premi letterari, noti e meno noti? Ambisce a parteciparvi? E se si: per vincere, concorrere o per diffondere il suo libro?
«I premi servono, ancora, a dare un brivido a chi partecipa, come scrittore o lavorante nell’editoria. Per me non so, non credo di averne diritto».
L’endecascivolo cos’è?
«Un piccolo racconto che dopo aver salito gli scalini si butta in discesa liberamente».
Non è un caso allora che proprio col suo libro Miraggi battezza la nuova veste grafica nella collana Garamond: sorpreso, emozionato o cos’altro?
«Sorpreso all’inizio, emozionato sicuramente e incuriosito, felice di partecipare e, a mio modo, collaborare a questo nuovo progetto».
Per chi e perché lo ha scritto, Zurru lo ha detto minimamente in parte e sorridendo di gusto, così si è congedato dalla simpaticissima chiacchierata: «Lo dico nell’ultimo racconto, il 65°. Non vi resta che comprare il libro».
Libro copertina della settimana è quello di Patrizio Zurru, Endecascivoli, Miraggi.
Endecascivoli è una serie di racconti legati dal ritmo, con le parole smosse dal vento dei ricordi e di storie che partono dalle realtà per arrivare sul bagnasciuga come legni trasportati e trasformati dalle maree. Sono piccoli camei che in parte raccontano ricordi, in parte hanno il fascino surreale dell’inconscio. Ogni frammento è una partitura la cui metrica perfetta ricorda orchestrina e ottavini sommersi. La prosa è poetica, malinconica e lascia sempre spazio a finali possibili, ad altre storie come in un gioco di scatole cinesi. La particolarità. Con Endecascivoli di Patrizio Zurru, Miraggi edizioni inaugura la nuova veste grafica della collana “Golem Narrativa” L’autore Patrizio Zurru, classe ’65, come i racconti contenuti nel suo libro d’esordio, ha dedicato la sua vita per il libro. Nel 2012 fu votato come miglior libraio d’Italia, ha attraversato tutta la filiera, iniziando come editore nella 3B+Z edizioni, dove nel 1993 pubblica 13 racconti, poi come libraio per 26 anni, ufficio eventi e consulente per case editrici, agente letterario, attualmente svolge il ruolo di Ufficio Stampa, Comunicazione ed eventi in Arkadia Editore, dove cura la collana SideKar insieme a Mariela e Ivana Peritore.
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