Negli anni 90 Seattle non era poi così lontana da Torino: questa è l’impressione che si ha al termine della lettura dell’ultimo libro di Domenico Mungo che si è occupato in più occasioni di musica, sia sulle pagine della rivista Rumore, sia in vari racconti. Il sottotitolo di With Love è Epifanie di Kurt Cobain e di me nella Torino sociale e musicale degli anni Novanta, e rende l’idea dello sviluppo del volume: il racconto degli inizi e dell’ascesa dei Nirvana a partire dagli ultimi anni 80, con una particolare attenzione verso i concerti e le apparizioni del gruppo in Europa, con digressioni sulla scena musicale rock/punk torinese e aneddoti autobiografici sullo sfondo della trasformazione di Torino in città postindustriale. Il leader dei Nirvana viene presentato da Mungo come colui che ha resuscitato il rock che a cavallo tra i decenni 80 e 90 era se non morto, moribondo; e il suo suicidio viene accostato, per rimanere a Torino, a quello di Pavese e non alle morti del “club dei 27”. Lo stile di scrittura è scorrevole, in totale sintonia con il racconto.
Pino alla soglia dei 40 anni è in momento di grande crisi, “un vuoto cosmico “. Rimasto senza lavoro, abbandonata dalla compagna, abbandonato il percorso terapeutico intrapreso , senza amici e dipendente da alcol e marijuana. Dall’Abruzzo a Torino per lavoro e con una ferita ancora aperta lasciata dal suo primo e grande amore da cui è stato tradito.È un percorso faticoso il suo, tra momenti di lucidità razionale, che lo portano a pensare di essere forte ed in grado di superare le difficoltà soprattutto la dipendenza e momenti in cui tra i fumi dell’erba e dell’alcol si perde in solitario sgomento. Capta per caso un discorso : “ho smesso per sempre di fumare quando sono tornato dove ho cominciato la prima volta “ , e con questo pensiero che frulla nella sua testa , come un messaggio mandato a lui, si fa forza.In un percorso difficile ognuno ha i suoi tempi e la razionalità non basta. Pino se lo ripete come un mantra, “ devo cambiare a cominciare da quello che mangio “, ma continua a bere e fumare, tentando qualche goffo approccio con qualche donna, storie che non durano, sesso e non sempre, senza neanche affetto. Ha un amico con cui si confida un omino dei Lego (i mattoncini colorati) , con lui sì ,a volte se lo porta in tasca, e con lui, parte per ritornare al punto in cui ha iniziato a fumare. Amsterdam, e in quei tre giorni che trascorre lì non si fa mancare niente, pensando che sarà l’ultima volta. Tre giorni in preda ad annebbiamenti, visioni e sbandamento. Per poi fare ritorno a Torino. Un fatto di cronaca successo al suo paese d’origine ad una compagna di liceo, pare per mano dell’uomo con cui è stato tradito dalla sua prima fidanzata, minano il precario equilibrio in cui si trova. Forse anche per sanare la ferita d’amore bisogna tornare dove è iniziata? Si sente pronto e parte verso il suo paese d’origine, quello stesso dove si dice essere nato Ponzio Pilato. Lì c’è la sua famiglia e c’è Isabella la donna che non ha mai dimenticato.Isabella sembra che lo aspetti e gli porge le braccia. Pino è di nuovo preda della razionalità e dell’istinto, senza alcol e erba questa volta. Potrà un lavaggio di mani essere salvifico in una situazione che non è quella che aveva immaginato? Potrà guarire la sua ferita d’amore? Un libro che lascia spazio a riflessioni, a fare i propri conti, ad interrogarsi con quello che ci manca ( ognuno il suo) È scritto in seconda persona, come ci fosse un occhio sempre attento su Pino, un libro pieno di sorprese che a volte lasciano col fiato un po’ sospeso. Una lettura interessante e scorrevole.
“Vit(amor)te” è una raccolta di poesie di Valeria Bianchi Mian, illustrata con le carte degli arcani maggiori (in versione monocromatica) disegnate dall’autrice stessa, edita da Miraggi Edizioni nel 2020. Il mazzo di carte a colori è disponibile a parte.
Psicologa e psicoterapeuta junghiana nonché autrice poliedrica e appassionata, Valeria Bianchi Mian nella sua raccolta “Vit(amor)te” coniuga poesia e illustrazione.
La realtà terrena dell’esistenza nel suo svolgersi si sposa con l’astrazione simbolica degli arcani maggiori dei tarocchi, che regalano sfaccettate possibilità di interpretazione.
“[…] Stiamo qui nel mosaico
stabile instabile
nel puzzle d’erranza
in errore di base
ché prima di conoscerci
abbiamo scoperto l’uno
nell’altra la polpa
sotto gli aculei del riccio
ma non ci siamo divorati.”
(‘Finché morte’ da IL CARRO)
Una poesia alchemica che si trasforma, attraversa tutti i colori, tutti i mondi, tutte le vite possibili, tutti gli incontri passati e quelli futuri, forse soltanto immaginati. Ma non è detto.
Figure del mito intrecciano danze con le multiformi parti del sé, si scambiano i ruoli, si nascondono per riapparire diverse, eppure sono sempre uguali. Ma non è detto.
“[…] Sapevo di andare a morire
dopo il primo fiore.
Un figlio, e via.
Scopro con particolare orrore
e assurdo piacere
che al sale
si accompagna l’acqua
che la maturità
non è un esame.
È senso della terra. […]”
(‘Agave’ da LA FORZA)
Gli arcani si rivelano nel mutamento: il cerchio della vita che nasce e passa attraverso l’amore – l’unica possibilità di dare un senso alla presenza – per tornare alla morte, eterno ciclo continuo, breve attimo privo di consolazione, spazio rubato al Tempo.
Tra i versi sono incastonate ad arte alcune citazioni da poemi classici e letture altre, che scrivono una storia parallela di profonda conoscenza e talvolta strappano un sorriso per la fine arguzia e la blanda irriverenza.
“Mando avanti me
le zone fertili
dell’animo umano
un giardino, la cura
la cultura delle stagioni.
L’attesa, l’intesa
la pretesa (non funziona
mai abbastanza).
La stanza al centro
le vie, i percorsi
i sentieri, i sentimenti.
La lista della spesa
l’essere qui e ora
nell’ora quotidiana:
il mio corpo quaderno
per lo spirito penna.”
(‘Mandala’ da IL MONDO)
Valeria Bianchi Mian pesca a piene mani dall’inconscio, indaga con audacia l’umano sentire, ci sorprende mettendo a nudo e a fuoco gli innumerevoli stati dell’essere.
Abile giocoliera di parole, la poeta ci conduce tra i versi del suo cerchio infinito vita-amore-morte accompagnata da Kitsune, la saggia volpe rossa ritratta nell’arcano della Forza.
Qui niente è impossibile, tutto è memoria e rigenerazione, ma bisogna porre attenzione, come scrive l’autrice nell’introduzione al libro: “Verso Dove, / fino a Quando”.
Sinossi
Quarantaquattro poesie per ventidue originalissimi arcani maggiori: parole e immagini come gemelle in danza. Scrivere e illustrare poesie è per l’autrice un operare quotidiano, attività ormai consolidata di sperimentazione e strumento nel suo lavoro di psicoterapeuta. Dopo le poesie e le filastrocche del libro “Favolesvelte” (Golem Edizioni, 2015), Valeria Bianchi Mian ha pubblicato racconti, ha curato e illustrato un’antologia sul tema della ‘dimora’, ha scritto e fatto nascere il suo primo romanzo (“Non è colpa mia”, Golem Edizioni, 2017), ha partecipato alla stesura di tre saggi di psicologia in collaborazione con altri colleghi. In questa silloge raccoglie le poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019; le fa procedere insieme alle figure dei tarocchi. È una Totentanz che passa dalla nigredo, l’Opera al Nero, e punta alla rinascita, è un cerchio di versi che si fa spirale attraverso i disegni. Il filo conduttore di “Vit(amor)te” è l’idea della natura viva: è una bozza di verde, lo spunto generativo, il germoglio rigoglioso o la foglia secca, il respiro della terra sopra la quale camminiamo, natura che matura nella nostra psiche. La storia del diventar se stessi comincia dal Matto incompiuto, un germe, il seme ritrovato; lo sviluppo per concludere con il ricominciar da capo.
Lo scrittore Marco Giacosa, autore de Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia, Miraggi, 2017, il saggio L’Italia dei sindaci add, 2015, la serie DisasterChef , Miraggi, 2014, e la raccolta di racconti L’occhio della mucca, MarcoValerio, 2014, ritorna in libreria sempre per la casa editrice piemontese Miraggi, con un memoir dedicato a suo padre, una storia di paesi e di colline, e a suo nonno con il quale ha vissuto l’infanzia in campagna giocando con gli animali, studiando i nidi delle formiche e cercando il muschio.
Marco Giacosa ripercorre i sentieri dei suoi ricordi nelle Langhe Inquiete, una biografia dedicata alla sua famiglia, ai suoi affetti, tra partite di pallone, i primi amori, ma soprattutto ripercorrendo la vita dei suoi genitori, il padre veterinario che ha sempre mantenuto i suoi principi onesti della professione, non si è mai arricchito a spese degli indifesi nella lotta del potere, e Marco si scopre essere identico a lui “perché sono come te, perché io me ne frego se i professionisti come te si sono arricchiti e tu no. Piango come un bovino perché ti sei sentito di questo colpevolmente incapace, io che invece per questo ti ho amato, padre.”
Un passaggio delicato, profondamente intenso che racchiude la storia di un uomo che curava anche i cani dei sinti piemontesi, senza alcuna remora, senza alcun pregiudizio.
Nei suoi racconti di bambino che diventano sempre più maturi, il rapporto genitoriale che assume spesso – come in qualsiasi famiglia – i tratti della conflittualità e della ribellione, ma sempre con pacatezza e condivisione. Sono frammenti, ritagli di immagine di un passato vissuto in una cultura che ostenta una pervicace devozione religiosa, ma anche l’impronta di un luogo ancora intimidito dalle superstizioni dove si narra del canto della civetta, un canto che agli occhi di un bambino può incutere paura, la paura della morte.
“Sei una roccia che si sbriciola, occhi dolcissimi che guardano lontano, seppure l’infinito sia ora il corridoio, sei bellissima perché il male non riesce a spegnere il tuo sguardo. Quando sorridi incanti.”
In queste bellissime parole, Marco affida il ricordo della sua amata madre, della sua malattia e del suo lavoro alla Ferrero e di come siano cambiati i tempi, da una piccola comunità di lavoratori, alle grandi realtà moderne.
“Reinventarsi è la parola che accompagna delocalizzazione. Per una persona che in un posto si reinventa, ce n’è una che altrove migliora la qualità della vita.”
Una realtà – oggi – ben diversa da quella degli anni settanta, che si affacciava al nuovo decennio, cosa sia meglio o peggio rispetto ad allora non è facile a dirsi, resta sempre e comunque la memoria di un vissuto cementato nel profondo e di una idea di casa mai abbandonata sempre e comunque viva nel ricordo
Sono flashback di langhe, si inquieta, perché racchiudono una inquietudine interiore, ma anche forse il ritratto di un luogo in bianco e nero che narra le storie dei suoi protagonisti, e di un bambino che giocava a pallone elastico.
“Sciolgo la barca e ti faccio salire, il mare si calma, ti sospingo via, lontana, è ora che il male vada, che rimanga tutto ciò che sei libera dal male, dalla morte, è ora che tu vada, ti faccio morire, mamma, è il più bel regalo che possiamo farci.”
“Mio nonno è un uomo giovane e forte e su quella piazza gioca alla palla. La palla si batte col pugno, la palla è grande quanto un’arancia ma pesa come un melone, e mio nonno e gli altri uomini sono a messa e dal fondo, quando il parroco si dilunga, fanno vedere la palla e il parroco si sbriga, conclude in fretta, un pater e un’ ave veloci, poi tutti sulla piazza per la sfida degli uomini giovani e forti.”
Marco Giacosa – Langhe inquiete
“Ma se noi ogni estate continuiamo a mandarlo sulle langhe, per forza finirà col farsi un’anima Fenoglio, anche se alla nascita non ce l’aveva. Quanto a me debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia, nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, quando a scuola ci accostavamo a parole come “atavismo” e “ancestrale” il cuore e la memoria mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe.”
Quando a Barolo il vino si beveva dai pintoni, non nei calici alla moda
Marco Giacosa è uno scrittore che parte dalle cose piccole per raccontare la grandezza della vita. Lo aveva già fatto anni fa con «L’occhio della mucca» o con la rubrica «Cose che ho visto oggi», prima su Facebook e poi sull’edizione torinese della «Stampa». Piccole storie quotidiane capaci di diventare «narrativa» solo nel momento in cui il narratore sapeva riconoscerle come storie da raccontare. Con «Langhe inquiete» (Miraggi Edizioni), Giacosa compie la stessa operazione su se stesso. Ha recuperato una serie di post usciti sui blog e sui social, li ha cuciti insieme, ne ha fatto un libro che nel sottotitolo definisce «appunti per un romanzo». Una sorta di autobiografia che, attraverso le memorie personali e familiari, diventa anche uno specchio delle Langhe «di prima». Prima del turismo, della moda, delle colline cool e patinate.
Giacosa, attraverso i ricordi della sua famiglia, lei ci riporta alle campagne piemontesi del primo Novecento, quando i bambini andavano a lavorare dopo due-tre anni di elementari, quando la religione era più dei bigotti che dei credenti. Una vita scandita da tradizioni che lasciano tracce ancora oggi. Che cosa è rimasto in lei in tutto questo?
«Molto. A quelle tradizioni sono stato legato in modo quasi malato per molto tempo. Sono cresciuto con il codice del “si fa così” e del “non si fa”, l’ho suburra per anni senza neppure chiedermi se mi piacesse o no. Ci ho sofferto parecchio finché c’ero dentro. Poi me ne sono staccato, e a quel punto ne ho riconosciuto il fascino. Adesso che non ci vivo più sono davvero libero di sentirmi figlio delle Langhe».
Le sue pagine raccontano un rapporto stretto, ma a volte conflittuale con la famiglia. Specie con suo padre, a cui ha dedicato il libro e di cui parla spesso su Facebook. Rimpianti?
«È una cosa che succede a molti: cresci nella convinzione di essere molto diverso da tuo padre, e poi con il passare del tempo ti accorgi di assomigliargli sempre di più: te lo fanno notare, i gesti, gli atteggiamenti, il modo di camminare sono uguali ai suoi. Mio padre aveva la mania di tenere diari, scriveva, raccoglieva fotografie. È come se facesse Facebook prima di Facebook: nei suoi album non ci sono solo le foto, ci sono ritagli di giornale, commenti, poesie che aveva scritto per qualche ricorrenza, appunti dei discorsi che teneva ai matrimoni».
Lei ha scritto che l’anno passato nell’Alessandrino a fare il carabiniere di leva è stato il «migliore della sua vita». Perché?
«Perché per la prima volta ero e mi sentivo legittimato a stare lontano da casa. Mio nonno aveva fatto la guerra negli Alpini, mio padre era veterinario ma era stato ufficiale di complemento. In famiglia c’era l’idea del cittadino che deve rispondere quando lo Stato chiama».
Lei però ha studiato a Torino. Non bastava l’Università per sancire il «distacco»?
«Nel weekend rientravo ad Alessandria, mia mamma mi preparava il cibo e mi stirava i vestiti. C’era sempre l’idea, anche metaforica, del “tornare a casa”».
Lei si descrive come un bambino solitario. Era così?
«Io ho avuto la fortuna di crescere con mio nonno, in una piccola borgata come Pela, a sette chilometri da Alba. Quando da piccolo giochi in un cortile di campagna la tua socialità è data dalle persone che passano in quel cortile. E di bambini, in genere, ne passano pochissimi. Così il mondo lo scoprivo da solo: il muschio, l’uva, gli animali. A volte i contadini pagavano mio padre veterinario in natura, con un cambio-merce: ricordo che un giorno arrivò con un asino. La mia infanzia ha avuto un senso di avventura».
Non le mancava qualcuno con cui giocare?
«No. In fondo io non ho perso qualcosa, non l’ho mai avuta».
Nel libro, però, racconta di una vacanza con altri bambini in cui si sentiva isolato perché lei «non era di Alba, ma di un paese vicino». Bastavano i 7 chilometri tra Pela e la città per sentirsi diverso?
«Era come essere la provincia della provincia. Ad Alba c’erano i figli dei professionisti: a casa parlavamo in italiano, mentre noi usavamo il dialetto. La differenza era evidente, specie più avanti, al liceo: io avevo amici che lavoravano da idraulici o da muratori, molti studiavano negli istituti professionali. Erano i tempi in cui andare a bere il vino non faceva ancora figo: c’erano i pintoni, non i calici».
Le sue Langhe «inquiete» oggi sono diventate un’altra cosa. Viste da Torino, dove vive da anni, che effetto le fanno?
«Da ragazzo andavo a Barolo con i miei amici, in motorino. Ci fermavamo in piazza a parlare, compravamo la focaccia, qualche birra di nascosto al bar. Ci sono passato qualche tempo fa: ogni dieci metri un negozio che vende vino, cantine, qualcosa di turistico».
Meglio allora?
«No, no. Mi fa piacere che ci siano dei piccoli imprenditori, che non siano solo Ferrero e Miroglio ad aver trasformato le terre della Malora di Fenoglio. Però lasciatemi un po’ di orgoglio: io ho visto l’anima di questi luoghi, chi ci passa un weekend e se ne va non la vedrà mai».
“Langhe inquiete”, prima vera prova di narrativa pura per Marco Giacosa
Lo scrittore Marco Giacosa (foto a destra), che ci piace considerare “un albese in prestito alla città di Torino”, ha appena pubblicato, con Miraggi edizioni, Langhe inquiete (foto sotto), sua prima vera prova di narrativa pura, dopo alcuni racconti usciti nel 2014, che si aggiunge a “L’Italia dei sindaci”, un saggio d’attualità, scritto come fosse un lungo reportage, “Disasterchef” e “Il pranzo di nozze di Renzo e Lucia” che sono libri atipici: il primo è composto da micronarrazioni, racconti brevissimi con i medesimi protagonisti dall’inizio alla fine: i giudici del famoso programma Tv Masterchef e l’io narrante; il secondo è la riscrittura, scena per scena, dei Promessi sposi, con una lingua della strada, contemporanea, «diciamo che al “plot” lì ci ha pensato Alessandro Manzoni», ironizza lo stesso Giacosa. Langhe inquiete è una collezione di racconti autobiografici, dall’infanzia ai giorni nostri o quasi. Episodi minimi o enormi (come la malattia della madre e la morte dei genitori), mai marginali, sempre personali, in cui però, chiunque può trovare un qualcosa di sé. Con la particolarità che, pagina dopo pagina, la scrittura adotta uno stile più articolato, avanzando di pari passo con l’età del protagonista dei brani narrati. «La maggior parte del libro è costituita da parole scritte nel corso di un tempo che ha un inizio e una fine, dal 2010 al 2012», ci spiega l’autore «quando avevo molto da dire, mi esplodevano dentro le cose, e le ho dette con la scrittura di quel tempo, con gli strumenti che avevo allora. Quelle parole sono rimaste lì per qualche anno, poi le ho riprese e le ho riviste (diciamo “risuonate”?) con gli strumenti che ho adesso, però non le ho toccate molto, non ho riscritto niente, per non togliere loro, appunto, l’anima. Diciamo che ho tolto qualche ingenuità». Sul perché dell’inquietudine del titolo, Giacosa precisa: «Diciamo che sono inquiete le Langhe che io proietto nella mia mente: quindi ero forse io, inquieto, ma perché erano loro, le Langhe, che mi inquietavano, nella mia condizione di figlio di quella terra». E il suo essere figlio di questa terra torna anche nei ringraziamenti con cui si chiude il libro: Beppe Fenoglio e Michele Ferrero (di cui si parla più volte nel testo) in cima a tutti. Sull’ordine scelto, lo scrittore chiosa: «Sono andato dal grande al piccolo, che però, essendo mio, è per me più rilevante. Fenoglio è generico, è un’opera; Ferrero è una filosofia, quella filosofia ha fatto molto per le Langhe e per la mia famiglia (parlo di welfare, non di stipendio). Passo poi a persone che nessuno conosce, che per me sono importantissime, fino a mia moglie».
La luna viola, la fiaba filosofica di Andrea Serra
Storie ammalianti imperniate di saggezza e magia si mescolano, in modo inaspettato, con il racconto di esperienze di vita vissuta per originare una fiaba filosofica che non necessariamente offre una morale preconfezionata, ma in fin dei conti mette a disposizione tutti gli strumenti per far sì che ognuno trovi quella gli appartiene. Tutto questo è “La Luna Viola” (Miraggi Edizioni), il nuovo libro di Andrea Serra che, dopo “Frigorifero mon amour”, compie un salto di qualità mettendo a frutto le sue conoscenze filosofiche per trasportare nel prodigioso mondo della Luna Viola, il femminile originario che col suo colore tra l’umano e il divino riunisce due nature e ricongiunge gli opposto del maschile e del femminile. Detto così può sembrare una cosa complicatissima; in realtà, come spiega l’autore, “quando si incontra la Luna Viola si può rinascere. La Luna Viola è inaspettata e improvvisa, stravolge e rigenera. È l’incontro che ci fa abbandonare i vestiti vecchi, le abitudini obsolete, gli sguardi stanchi. È la parte originaria di noi stessi, quella che vuole sempre giocare, sperimentare, scoprire, vedere”. Andrea Serra dunque ci prende per mano e ci accompagna a conoscere alcuni tra i più grandi filosofi della storia, ciascuno coi propri insegnamenti (Socrate, Platone, Leopardi, Nietzsche, Jung, Kafka, Novalis, Giordano Bruno…), ritratti in modo molto inusuale grazie ad una prosa brillante e a dialoghi decisamente impensabili.
Muovendosi con leggerezza e poesia, fra autoironia e profondità, l’autore racconta la sua vita di marito e padre del XX secolo, alle prese con la moglie “Croccola” (chi segue Andrea Serra sui social ha imparato a conoscerla in qualità di Generale romano) e le due figlie che, per ovvie ragioni, si chiamano proprio Viola e L’una. Nella dedica al libro l’autore mi augura buon viaggio “nella landa desolata e temibile della Luna Viola”. Ebbene la landa è tutt’altro che desolata, è anzi popolata di personaggi incredibili che hanno tanto da dire (anche in disaccordo tra loro). Forse però è davvero temibile, se pensiamo che un libro come questo sprona a guardarsi dentro e invita a cambiare punto di vista, variare la prospettiva. Perché alla fine, il più delle volte, “quello che cerchiamo non è così lontano. Forse basta prestare attenzione alle tasche laterali, al fondo dei cassetti, al sorriso di chi è accanto, al silenzio delle persone che non sono più con noi. Forse si nasconde tutto lì, nelle illusioni, negli anfratti, nelle ombre…”. Chiude il libro il Dizionario lunatico dei nomi e degli incantesimi dedicato a tutti gli apprendisti filosofi della Luna Viola, cui è richiesta una conditio sine qua non per poter accedere all’esame finale: portarsi dietro il cuore. Un po’ quello che serve per buttarsi nella lettura di questa fiaba speciale, la cui fine altro che non è che l’inizio.
Quarantaquattro poesie per ventidue arcani maggiori: parole e immagini come gemelle in danza. Scrivere e illustrare poesie è per l’autrice un operare quotidiano, attività ormai consolidata di sperimentazione e strumento nel suo lavoro di psicoterapeuta. Dopo le poesie e le filastrocche del libro “Favolesvelte” (Golem Edizioni, 2015), Valeria Bianchi Mian ha pubblicato racconti, ha curato e illustrato un’antologia sul tema della ‘dimora’, ha scritto e fatto nascere il suo primo romanzo (“Non è colpa mia”, Golem Edizioni, 2017), ha partecipato alla stesura di tre saggi di psicologia in collaborazione con altri colleghi. In questa silloge raccoglie le poesie giovanili e quelle scritte tra il 2014 e il 2019; le fa procedere insieme alle figure dei tarocchi. È una Totentanz che passa dalla nigredo, l’Opera al Nero, e punta alla rinascita, è un cerchio di versi che si fa spirale attraverso i disegni. Il filo conduttore di “Vit[amor}te” è l’idea della natura viva: è una bozza di verde, lo spunto generativo, il germoglio rigoglioso o la foglia secca, il respiro della terra sopra la quale camminiamo, natura che matura nella nostra psiche. La storia del diventar se stessi comincia dal Matto incompiuto, un germe, il seme ritrovato; lo sviluppo per concludere con il ricominciar da capo.
I. Tra me e tre
L’ora persa tra le due e le tre pensando di vivere a lungo sommando altre ore e ore al tempo meno le sigarette già fumate prima di smettere più gli anni bisestili meno il gran timore
del tumore è forse disuguale moltiplicazione o è la radice quadrata delle ipotesi di allora: me bambina + me adolescente + me adulta = lo spazio illegale del Sé?
Un giorno avrò caviglie gonfie di umori lunari e gambe stanche le borse della spesa agli occhi trascinerò il mondo al futuro contando i minuti nelle tasche. Un giorno avrò rughe spesse quanto un calendario solare e malattie comuni a tutti prima del morire – ora pro nobis.
L’ora dei fantasmi tra le due e le tre segna i sogni canta i santi.
“Solo quando s’incontra la luna viola si può rinascere“ È una favola questo romanzo, con cui un padre racconta alle sue figlie: Viola e Luna, la filosofia. Lui è un filosofo molto filosofo e poco concreto e ce la mette tutta per essere “qui e ora “ soprattutto dopo la nascita delle figlie di cui alternandosi con la compagna si prende cura. Entrambe le bimbe dormono molto poco e lui per farle addormentare racconta favole i personaggi sono filosofi che a vario modo gli si presentano nella vita quotidiana e che riconducono alla luna. Perché la luna a seconda di come la si guarda insegna sempre qualcosa.
E come se fossero semplici personaggi, racconta i suoi incontri con Socrate, Giordano Bruno, Nietzsche e Platone, attingendo dalle loro teorie per raccontare come una favola appunto le loro storie. Ad ogni problema della vita pratica corre sempre in soccorso una possibilità di soluzione di un filosofo o uno studioso perfino Jung in un momento di impasse particolare gli indica una ipotesi di svolta: “Là dove c’è il pericolo c’è la soluzione “ E lo stesso Leopardi che ai giorni nostri scopre e ama il panettone, “vita amara e noia“ “fango il mondo?”, gli offre spunti che lo allontanano da quel pessimismo cosmico in cui è stato relegato dai libri scolastici.
La luna viola è un racconto di saggezza che usa un linguaggio semplice ed ironico per affrontare temi di grande spessore. L’autore usa l’ironia e l’autoironia per descrivere la vita quotidiana della sua famiglia “un po’ strampalata“, a cominciare proprio da lui, ma che alla fine, presa con filosofia appunto non è poi così male. Potrebbe essere un consiglio, sdrammatizzare e riuscire a vedere la luna viola, è un bel modo di affrontare una vita a volte troppo razionale. È una lettura piacevole e piena di spunti di riflessione.
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