Due romanzi pubblicati di recente – Un sogno cosi di Paolo Colombo (Feltrinelli) e Il cimitero delle macchine di Sergio La Chiusa (Miraggi, pagg. 392, € 26) – forniscono l’occasione per comprendere fino a che punto la città di Milano continui a trovarsi al centro del dibattito sulla modernità nella sue forme utopiche e distopiche. Sara certo un caso, ma in entrambi la vicenda narrata comincia dal Giambellino, un quartiere già raccontato dalla penna trasognata e dialettale di Giovanni Testori e dove negli anni 50 sarebbe stato facile incontrare il Cerutti Gino, l’inconsapevole eroe della canzone di Gaber, un po’ ganzo e un po’ tonto, sicuramente dentro il clima di un’epoca che faceva delle periferie il luogo di maggiore impatto antropologico.
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Ogni medaglia però ha sempre due facce e qualcosa ci dice che anche il romanzo di Sergio La Chiusa contiene una profonda verità, tanto più necessaria se si considera che con il suo libro siamo arrivati ai titoli di coda del Novecento e quelle stesse macchine, intorno alle quali era stata costruita la nuova, indistruttibile civiltà, adesso sono finite nel grande cimitero del postmoderno, corrose dalla ruggine, simili a oggetti di un sogno infranto perché maldestro. È questa l’impressione che si ricava seguendo l’itinerario allucinato di un personaggio che si fa chiamare Ulisse (mai nome poteva calzare meglio) strizzando l’occhio a quell’altro Ulisse che aveva inaugurato il precedente secolo percorrendo le strade di Dublino), sicché balza subito evidente che la corrosività con cui l’autore affronta la stagione del disincanto, diciamo anche l’approccio apocalittico della sua prosa labirintica e canzonatoria provoca un segnale di sfiducia nei confronti di quel modo d’essere occidentali senza regole e senza morale, il capitalismo darwiniano (e non quello vegetale, come invece scriverebbe Luigino Bruni), dove le società sono rimaste intrappolate da ciò che appariva sogno e invece si è poi tradotto in incubo. Siamo già nel post-occidente. Seguire le orme di questo
Ulisse nella città che si fregiava d’essere capitale del Paese, frenetica e produttiva ma pur sempre capitale morale, equivale a compiere una specie di via Crucis nella disperazione degli ultimi, degli invisibili, dei rimossi, quelli che sperimentano il risveglio senza futuro all’alba del day after, quando Milano ha perduto l’immagine scintillante della moda e, guardandosi allo specchio, si e scoperta somigliante a un immenso cantiere, dove però non si costruisce più niente. A un certo punto del suo vagare questo Ulisse si imbatte nella statua malridotta di un angelo e si chiede che senso ha il suo apparire in un angolo remoto del Cimitero Monumentale, tra le tombe delle grandi famiglie imprenditoriali, i Falck, i Pirelli, i Campari, quelle del boom. E si chiede: «L’angelo della storia, non più in volo, ma esautorato, chiuso in un ripostiglio e decollato, così che non registri nemmeno le rovine che produce e s’accumulano al suo passaggio?» Chissà quale commento avrebbe fatto Walter Benjamin sentendosi tirato in causa.
Donne di mafia racconta il tumulto provocato o subìto dalle donne all’interno di Cosa Nostra: le più giovani e le più anziane; quelle che si pentono, che se ne vanno, che si suicidano.
Quelle che incoraggiano mariti, fratelli, figli a uscire dal circuito mafioso in cui sono immersi; quelle che invece scelgono la strada della denuncia, perdendo perdendo la loro libertà e passando da un rifugio all’altro; infine quelle che si chiudono in casa, sopravvivendo a se stesse nella rete della cosca.
L’invenzione degli apparecchi per la riproduzione del suono sarà anche di quattro secoli successiva a quella della stampa, ma la storia dell’industria discografica ha più di un punto in comune con quella dell’editoria. Tanto per cominciare, in entrambi i casi abbiamo a che fare con un’attività economica che vende contenuti. Alti o bassi, che si tratti di opere d’arte o lavori di mero intrattenimento, di esperimenti o materiali divulgativi. E la parabola tra le due “industrie” presenta numerosissime analogie: c’è un’età pionieristica a dimensione artigianale, poi crescono i consumi e. parallelamente, si evolve la tecnologia, dall’artigianato passiamo alla dimensione industriale. Alla fine si arriva a uno scenario di concentrazioni: pochi player di grandi dimensioni che danno le carte, mentre fuori dalla porta si muove un panorama felicemente disordinato di piccoli soggetti che, per comodità, chiamiamo indipendenti.
Riflessioni che arrivano puntuali dopo la lettura di Musica solida – Storia dell’industria del vinile in Italia, voluminoso saggio scritto da Vito Vita. Il titolo è come se contenesse una polemica implicita nei confronti di quello che, quando adesso parliamo di music business, è lo spirito dei tempi: la cosiddetta musica liquida, una specie di precipitazione dei principi teorizzati da Zygmut Bauman in un universo nel quale, fino a ieri, comandavano le major ma oggi abbiamo le piattaforme di streaming come Spotify e Apple Music a capotavola. Vagli a spiegare a un millennial cresciuto a pane e visualizzazioni YouTube che c’è stato un tempo in cui i “padroni delle ferriere” erano quelli che avevano il potere di imprimere la tua voce su un microsolco, promuoverti attraverso un festival e distribuirti in tutto il Paese. Storie dell’altro ieri, prima che la crisi di Napster mettesse in ginocchio il settore. Storie che Vita dimostra di conoscere benissimo: dai primi esperimenti di voce registrata su fonografo e grammofono, dalle intuizioni di Thomas Edison ed Emile Berliner e dai cilindri e dalla gommalacca. L’approccio è, in prima battuta, quello di raccontare il fenomeno a livello internazionale, per scendere quindi a livello dell’Italia: eccoti l’ingegner Joseph Nigra, rappresentante per l’Italia di Edison che, alla fine dell’Ottocento, gira il Paese per illustrare la stravagante invenzione della macchina che riproduce il suono.
L’ordigno ci mette poco a trovare terreno fertile nel Paese del Bel Canto che, nell’epoca della Belle Époque, ha due capitali musicali: Milano e Napoli, la città della Scala e quella della Piedigrotta. La musica, prima di venire incisa, circola essenzialmente scritta e a queste latitudini prosperano le case editrici specializzate in repertori musicali: a Milano c’è Casa Ricordi, a Napoli i vari Curci, Bideri, La Canzonetta, quasi in tutti i casi imprese a gestione familiare. Se la Ricordi dovrà aspettare fino al 1958 per avere un’etichetta discografica, ai piedi del Vesuvio apre subito i battenti la Società Fonografica Napoletana destinata a diventare Phonotype, label indipendente specializzata in canzone tradizionale. Per il resto, il potenziale del mercato italiano è un’occasione colta soprattutto da aziende e imprenditori stranieri. A Milano ne arrivano in tanti, nel primo e nel secondo dopoguerra: la francese Pathé, le tedesche Parlophon e Odeon, la inglese His Master’s Voice che qui da noi si chiamerà Vcm (1931), prima di diventare Emi Italiana (1967), ma anche lo scaltro impresario ungherese Ladislao Sugar che, con Messaggerie Musicali, diventerà punto di riferimento per la distribuzione, prima di allargare il proprio business alla incisioni con la Cgd comprata da Teddy Reno, e le famiglie svizzere Carisch e Gürtler, quest’ultima destinata a scoprire un certo Adriano Celentano con le etichette Music e Jolly. Gli anni del boom economico e della relativa esplosione dei consumi musicali sono quelli del dualismo tra 33 giri e 45 giri che, qui da noi, si consumano nel derby tra Fonit Cetra, partecipata dalla Rai, e Rca Italiana, costola tricolore della multinazionale americana partecipata dall’Ior del Vaticano. Ma è un coro a più voci, nel quale ai soggetti indipendenti toccano spesso parti di primo piano. In specie se si tratta di etichette fondate da artisti, come il Clan Celentano o la Pdu di Mina.
La storia della discografia italiana è un’antologia di vicende umane avventurose, come quella di Nanni Ricordi, rampollo di cotanta famiglia che nell’estate del 1961, per dissidi con i nuovi azionisti della Casa, passa alla Rca Italiana portando con sé Sergio Endrigo e Gino Paoli. Lo scopre Vincenzo Micocci, leggendario direttore artistico di Rca Italiana, e decide di fare il medesimo percorso Milano-Roma in senso inverso, trasferendosi alla Ricordi. Ci sono Gianni Sassi e Sergio Albergoni che, nei primi anni Settanta, fondano la Cramps offrendo campo libero a rivoluzionari delle sette note come gli Area, punta di diamante della stagione progressive. Quante avventure in una storia sola. Quanta sostanza nella musica solida.
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