Un libro composito, questo Penultimidi Francesco Forlani, fatto di versi stampati in tondo e in corsivo, di prosa e interstizi meditativi, di haiku; intervallato da fotografie scattate con il cellulare dallo stesso autore, presumibilmente dalla metropolitana (interrata e sopraelevata) che è l’ambiente da cui, su cui e per cui il testo è stato pensato e scritto. “Pensato” come omaggio ai Penultimi, suoi inconsapevoli e meritevoli protagonisti: un omaggio malinconico, grato e rimordente. “Scritto” in un italiano colto, ma nello stesso tempo popolare, striato di francese e di napoletano: le tre lingue e le tre anime dell’autore.
Francesco Forlani è infatti nato a Caserta, si è laureato in filosofia a Napoli, ha insegnato a Torino, è emigrato a Parigi dove tuttora risiede, professore in una scuola della banlieue. Poeta, narratore, saggista, consulente editoriale, traduttore, redattore di blog letterari, vulcanico performer e cabarettista, in questo volume si è ritagliato un suo spazio di riflessione, amara e insieme indignata, sulle vite degli altri, sulla sua che li osserva, sul mondo in cui è inserito pur con dignitosa estraneità. Da due anni si imbarca ogni mattina alle 5,40 sulla linea 6 della metro parigina, «nella tratta che da Nation va a Montparnasse» per raggiungere l’istituto in cui insegna: con lui una massa indistinta di persone, presenze assenti e intercambiabili: i penultimi, appunto, non proprio gli ultimi nella scala sociale. Un lavoro ce l’hanno e lo raggiungono all’alba di ogni giorno feriale, rassegnati a una routine malpagata, ripetitiva, spersonalizzante:
Se ne stanno seduti i penultimi / alle cinque e mezza del mattino / tutti occupati i sedili sulla banchina / prima che il primo treno del giorno / salpi e porti per mari di moquettes / e vetri negli uffici le donne delle pulizie / o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani / senza più nulla chiedere né altro domandare.
Il poeta li osserva, nei copricapi di lana degli uomini, nei foulard delle donne, negli occhi socchiusi per il sonno interrotto e nelle labbra che si muovono in cantilene o preghiere: appartengono a razze e religioni diverse, sono esseri umani come lui, compagni di ventura e sventura, ma forse non altrettanto capaci di introspezione e di valutazione sul destino che altri hanno confezionato per loro:
E ce ne stiamo attaccati studenti ed operai / come le lancette / di un orologio che segni / l’esatta metà del giorno / (e della notte) / c’est l’heure! c’est l’heure!
La Parigi della democrazia e dell’insurrezione ‒ Liberté, Égalité, Fraternité ‒, si offre nel suo squallore quotidiano al giudizio sconfortato e agro dell’intellettuale, che sa comunque più e meglio dei suoi compagni di viaggio cercare scampo nella bellezza residua della luna seminascosta tra le nubi, del cielo ancora grigio, di una ragazza-runner ansante sul marciapiede, o nel profumo di colonia che improvviso invade lo scompartimento, riaccendendo memorie familiari. In una posizione di privilegio, l’autore possiede gli strumenti culturali per interrogarsi su cosa sia diventato il vivere in comunità, oggi, nelle metropoli di tutto il mondo, pagando uno scampolo di welfare con la mancanza di rapporti umani e di felicità individuale. Lo fa in uno degli inserti in prosa del libro («Quando è cominciato tutto questo? Quando è iniziato l’assedio che ci stringe in una morsa che rende irrespirabile l’aria del tempo e che strozza l’anima… »), rispondendosi da solo:
Ed è strano e insieme meraviglioso che proprio in quell’attimo di scoramento senti rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della tua forza, sapere che più inespugnabile è il diritto meno la forza potrà e che basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembravano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire vita, ehi vita mia, urlare, grazie.
Grazie alla vita comunque, grazie ai penultimi,
sti pauvres christi, de christiani, au senso largo / car il y a aussi el muslim, le buddist lo istemmatore, / toti sti pasi, bon, stano toti amuchiati, entassés, / addunuchiate dans la grande salle des pas perdus
che chiedono poche cose alle cose,
a volte solo un segno, un cenno, / da parte a parte della vita », quando bastano «i tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno inverno / di piena neve, sussurrano courage, la primavera avanza.
“L’imperatore di Atlantide”: l’analisi di Enrico Pastore
Straordinaria ricostruzione del dietro le quinte dell’opera musicale concepita in un campo di sterminio morale
L’imperatore di Atlantide (Miraggi Edizioni, 2019), è una opera straordinariamente completa, che consegna al pubblico uno spaccato, non molto conosciuto, di un luogo-lager che i nazisti crearono per apparire innanzi alle delegazioni di due paesi del nord Europa, Danimarca e Svezia, e innanzi alle visite della Croce Rossa Internazionale, come gruppo ad hoc al fine di migliorare “quella razza” che tutti pensavano essere sterminata dagli stessi.
L’intento di Hitler, fu quello di far credere, riuscendoci, che i prigionieri ebrei dislocati a Terezín vivessero in ottime condizioni, al pari dei tedeschi medesimi che inneggiavano alla razza pura.
Null’altro che finzioni su finzioni, assurdità al limite dell’accettabile; ma tutto ciò accadde, e a renderlo noto furono le testimonianze e il capolavoro musicale scritto da Viktor Ullmann e Petr Kien, prigionieri a Terezín, città ghetto, dove tutto era credibilmente meraviglioso.
Chi ha dato tanta luce a questo superamento di Brecht, è lo scrittore, intellettuale e regista stresiano Enrico Pastore.
L’imperatore di Atlantide: folgorazione Pastore
La spettacolarizzazione esiste, ma troppe volte viene intesa come inutile interesse, come spocchiosità, come eccesso. Preparatevi al meglio ad incassare il gancio destro. Enrico Pastore, regista e intellettuale classe ’74, assieme ad un gruppo di compagni e colleghi universitari, durante un corso di Storia del teatro all’Università Ca’ Foscari di Venezia (i docenti non vanno citati perché sono la categoria che più detesto!, questa è mia, ma lo sapete già) che seguì nel 1995, conobbe “L’Imperatore Atlantide”. Fu folgorazione.
Mettere in scena L’imperatore di Atlantide?
L’idea prima fu quella di farci una tesi di laurea, tanto fu l’interesse dell’allora giovanissimo stresiano, che non andò mai in porto, e fu una fortuna il fallimento accademico, proprio perché non avremmo forse assistito a questo gran lavoro racchiuso in 200 pagine c.ca compreso di libretto, a fronte in lingua originale, dell’opera scritta da Viktor Ullmann e Petr Kien.
Cosa fa Enrico Pastore?
Semplicemente racconta i retroscena di dove si plasmerà la più importante opera del periodo nazista, scritta da due grandi artisti, che assieme ad altri conosceranno la fine e le camere a gas. Ma prima ancora, conosceranno invece l’assurdo teatrante brechtiano che era Hitler.
I prigionieri a Terezín scrivono L’imperatore di Atlantide
Terezín fu una città ghetto lager creata per far apparire che tutto andava bene alle istituzioni di controllo come la Croce Rossa. Lì c’erano scuole che i bimbi non potevano frequentare, perché ebrei, c’erano i parchi che gli ebrei non potevano calpestare, c’erano i bar dove il caffè non dovevano venderlo, perché il cliente era ebreo. Insomma, i nazisti con a capo Heichmann, cosa fecero? Si inventarono una città modello, dove la vita era dignitosa: finto; dove gli ebrei non erano abusati: finto; dove le premesse erano le migliori per far vivere e potenziare le bellezze degli ebrei: finto! Finto! Finto ! Finto! Tutto finto! Bastardi tedeschi!
L’ebreo Salvini?
Sembra una provocazione? Non lo è. Vi dico il perché. Nella città di Terezín, dove tutto era finto, anche l’operazione di abbellimento (la povertà era al limite del ridicolo per chi doveva culturalizzare la città), anche le più importanti messe in scena culturali, se non venivano cassati dai tedeschi, succedeva che li cassavano i medesimi ebrei: perché? Perché la paura dei tedeschi era troppa, nonostante si sapesse che tutto era fittizio, tant’è che “allora meglio tirar per le lunghe questa via nel paradossale mondo di Terezín”.
E che c’entra Salvini? Boh!
E che c’entra Salvini? Boh, mi è venuto in mente, perché ce l’ha con i tedeschi e ci scassa la minchia con la questione di star fuori dall’Europa. Che però, si legga tra le righe, la storia gli da ragione: i tedeschi sono sempre i tedeschi, i soliti tedeschi, cattivi, che mai un Salvini potrebbe emularli: stiano tranquilli gli immigrati pertanto. Ma gli immigrati sono tranquilli, chi non è tranquilla è la sinistra (PD: può chiamarsi sinistra? ‘nsomma!!!); e poi ci siamo tutti noi, perché paradosso dei paradossi, Salvini, risulta essere la consecutio temporum dell’anti germanicità messa in atto dagli ebrei! Stupore? Prendetevela con Enrico Pastore, che a furia di scavare per trovare fonti ci ha messo in crisi!!!
Enrico Pastore: L’imperatore di Atlantide
Il libro si presenta bene e affronta tutto il dietro le quinte di quella bellissima opera che è L’imperatore di Atlantide. Ci racconta di Ullmann e di Kien, della loro collaborazione, di come quando e perché sono nati gli interessi condivisi coi colleghi, e di quanti artisti furono deportati. Psicologicamente ci inquieta pure con il disastro della memoria: non più importava loro dove fossero o cosa facessero, producevano bellezza e questo bastava. Poi, poi si tornava indietro, per poi un giorno non tornare più.
Libro ottimo
Libro ottimo, ben curato, scritto e armonizzato. Dattiloscritto che Miraggi Edizioni ha fatto bene a pubblicare con l’inserimento del libretto dell’opera in appendice, che poi tanto appendice non è dato che un terzo del libro è tutto il libretto con traduzione a fianco. Conoscere un’opera musicale è molto bello, sapere chi sono i suoi autori, e in quale triste e doloroso contesto si son dovuti muovere e son riusciti a creare, lo è ancor di più. Andare all’ etimologia di ogni singolo termine che compone il titolo, aprire con un capitolo che ti dice tutto: “Il campo delle menzogne”, non ha più motivo di dare spiegazione. Questo libro va letto: assolutamente!
Miraggi riesuma miracoli e capolavori, non possiamo rendergliene atto che giorno dopo giorno si impone come realtà editoriale per tutti, mantenendo quell’aurea di nicchia.
Traduzione dall’italiano di Christian Abel, Nota critica di Biagio Cepollaro
Francesco Forlani è poeta, cabarettista, traduttore dal francese, conduttore radiofonico, scrittore-calciatore…fondatore di una rivista qua, redattore di un’altra là. Un esempio raro di agitatore culturale. Un performer vulcanico, un folletto che legge benissimo le sue opere (e di quanti autori si può dire davvero?), un fiume di idee costantemente in allerta alluvione. Non dovrei scrivere di questo libro perché non è il mio lavoro (ma qual è, poi?).
Scrivo già di musica, storia, romanzi gialli, tento spericolati approcci culturali tra mondi lontani, mescolo pastiche tuttologi. Scrivere di poesia così, d’emblée? Non dovrei, però sento di volerlo fare perché la vita di Forlani -transfuga in Francia per insegnare in una scuola di banlieue, un universo raggiungibile via metropolitana partendo dal centro della più bella città del mondo- è di per sé una metafora della vita di molti, ovunque. Siamo tanti a essere penultimi. Allora visto che questo libricino, una volta richiuso, mi ha imposto di reagire, salvo la mia bronzea faccia di mestatore culturale affermando con certezza che qui tutte le frasi e i componimenti di Forlani possiedono una propria musica interna. Un lungo blues che attraversa le pagine, che segue le fotografie a corredo del testo, che parla di partenze all’alba e di sfatti rientri serali.
Sono davvero poche le cose che il penultimo
chiede alle cose, a volte solo un segno, un cenno,
da parte a parte della vita, ma inequivocabile
preciso che non solo ti indica il cammino e la distanza
ma sembra quasi che ti tenga la porta al vivere.
Un inizio sommesso che in qualche modo prende di petto l’argomento e invece lo sfiora soltanto, con delicatezza. Un blues dei migliori.
La stanchezza del ménage nella vita globalizzata, nella quale gli essere umani sono sbatacchiati ovunque a faticare in maniera indicibile per guadagnarsi la sopravvivenza. La sera tutta la stanchezza di questo tipo di vita ci piomba addosso e ci impone un esame. Quanto abbiamo combattuto? Quanto ci siamo arresi all’ordine costituito delle cose?
Dovremmo forse smettere di pensare alla vita in modo militare, accettare la resa alle cose nell’ordine naturale in cui ci parlano, generalmente alla fine del giorno.
La vita dei pendolari assume a volte nella descrizione di Forlani una densità dantesca, mentre le persone scendono silenziose nella metro e affrontano il viaggio-purgatorio verso gli inferi lavorativi.
Se ne stanno seduti i penultimi
alle cinque e mezza del mattino
tutti occupati i sedili sulla banchina
prima che il primo treno del giorno
salpi e porti per mari di moquettes
e vetri negli uffici le donne delle pulizie
o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani
senza più nulla chiedere né altro domandare
Lavoro, routine quotidiana, ma anche amore. L’amore assume i toni di una ballata lentissima, dall’incedere quasi sfinito nel tentare delle riflessioni di autobiografia metafisica.
Nelle storie d’amore ho a volte come l’impressione che tutta la propria storia, le proprie storie d’amore, non siano altro che il tentativo di forgiare le armi che in quella prima grande storia avrebbero potuto salvarci dalla disfatta.
La ballata sfuma e torna il blues, prepotente:
perché nero è il colore della pelle
e perché fuori l’alba è ancora senza luce
Potrebbero tranquillamente essere le parole cantate da un uomo di colore con la sua chitarra in spalla, all’angolo di una dura strada degli Stati Uniti del Sud. O degli stati di tutto il mondo e di ogni tempo.
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