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IL LAGO – recensione di Geraldine Meyer su l’Ottavo

IL LAGO – recensione di Geraldine Meyer su l’Ottavo

Nami vive in un piccolo paese fatto di case che si affacciano su un’unica via chiamata Via dei pescatori. Boros è il nome del paese affacciato su un lago attorno a cui gira tutta la vita, reale e leggendaria. Un allevamento di storioni e una piccola fabbrica in cui si lavora il pesce. In lontananza le ombre scure di pozzi petroliferi che sembrano fare da contrasto all’unico chioschetto del paese in cui si vendono aringhe e semi di girasole. Nella piazza la statua dello Statista.

In questo scenario defilato cresce Nami, insieme ai nonni. Del padre non si sa nulla e della madre, il ragazzino, conserva l’indelebile ricordo di un’ombra rivestita da un costume da bagno e una voce che, in riva al lago, lo consola dal suo dolore allo stomaco. È un ricordo vago ma che prende, nell’animo del ragazzo, il posto del vuoto lasciato, mentre si addormenta sul ventre della nonna che gli racconta le storie dello Spirito del Lago e dell’Orda d’Oro i cui guerrieri aspettano di essere risvegliati da un altro guerriero. E mentre il lago si prende anche i nonni Nami comprende la durezza della vita, le ferite e le cicatrici di troppi strappi. Cresce lui mentre il lago si svuota sempre più. E in questo speculare procedere, lui parte alla ricerca di sua madre, tra incontri, dolori, fatiche e la “colpa” dell’essere chiamato figlio di puttana. Fono a un epilogo tanto bello quanto doloroso.

Il lago, di Bianca Bellova, tradotto in quindici lingue e vincitore di due importanti premi come il Premio Unione Europea per la Letteratura e il Premio Magnesia Litera, nella bellissima traduzione di Laura Angeloni, ci si presenta quasi come un libro a più livelli in cui, a quello della ricerca della verità da parte di Nami, si affianca quello simbolico ma anche quello di denuncia verso un sistema che sfrutta e uccide il lago il cui spirito sembra essere ridotto a fango e inquinamento e denuncia verso un potere politico assoluto e violento.

Bianca Bellova (Foto da miraggiedizioni.it)

Ma è anche un libro in cui, alla conclusione, si inserisce l’accettazione delle vite altrui, la sospensione del giudizio, da parte di Nami, non tanto su chi fossero i suoi genitori ma sul perché abbiano fatto ciò che hanno fatto. Nami, nei momenti davvero importanti per il suo percorso, non è solo. E questo, credo, è uno dei motivi su cui mi sembra insistere la Bellova: la vecchia Dama che gli dirà che sua madre è viva e l’anziano genitore del ragazzo accusato, diciotto anni prima, di avere violentato sua madre, sono lì a dirci che un punto di domanda (da cui parte necessariamente una ricerca) può, girandosi a gambe all’aria, diventare un gancio.

Attorno a tutto questo un lago, il lago (con un articolo determinativo non casuale) che è un immaginario collettivo attorno a cui c’è la vita ma anche la morte, soprattutto quando inferta per placare uno spirito che sembra quasi una enorme nemesi, e dentro il quale ci sono fantasmi ma anche oggetti e corpi pronti ad essere restituiti. Tutto sorretto da una scrittura dentro la quale l’autrice sparisce per lasciare posto e attenzione alla storia, alle voci e ai sussurri dei protagonisti.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

LA PERLINA SUL FONDO. L’ANIMA DEGLI UOMINI COMUNI – recensione di Luigi Colucci su La Repubblica

LA PERLINA SUL FONDO. L’ANIMA DEGLI UOMINI COMUNI – recensione di Luigi Colucci su La Repubblica

Esordio letterario tardivo ma folgorante di un quarantanovenne che fino a quel momento svolse i lavori più disparati e meno lirici, da manutentore ferroviario a capostazione, assicuratore, commesso viaggiatore, operaio in acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. “La perlina sul fondo” di Bohumil Hrabal esce per la prima volta in italiano, con una postfazione di Alessandro Catalano. Tradotto da Laura Angeloni per la collana dedicata alla letteratura ceca, è il regalo di compleanno della casa editrice torinese Miraggi ai suoi lettori, per festeggiare il decennio della sua nascita.

Considerato uno degli autori più importanti del Novecento, lo scrittore ceco raccoglie in questa sua prima antologia di racconti, datata 1963, i ritratti di uomini comuni, che nascondono in fondo all’animo, come tra le valve di un’ostrica, una perla, una scintilla di essenza umana. Personaggi marginali, sbruffoni e sinceri, scovati nei bassifondi e ai margini, in luoghi affollati e vitali, tra officine e birrerie, la fabbrica, le strade, le bettole malfamate. Ognuno coinvolto in situazioni che appaiono spontanee e nelle quali il dialogo, un lessico variopinto, tra slang e dialetto, prosa moderna e a tratti surreale, è investito dal potere straordinario che solo la realtà sa conferirgli.

QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

Grand Hotel – recensione su Goodreads

Grand Hotel – recensione su Goodreads

Cosa succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile?
Questa è la domanda che ci si fa, quando eventi drammatici travolgono la vita di ciascuno di noi.
A questo paradosso prova a dare una risposta Fleischman, il protagonista di questo romanzo, rimasto orfano dei genitori quando era ragazzo.
E dalle ceneri della sua giovane vita, prova a guardare in alto, per emergere, come se lui stesso fosse nei rami di un albero radicato nella sua città, che non riesce ad andare altrove, ma che è sempre teso verso l’alto.

“Quel che so, è che il centro del sistema solare è il Sole. Il centro di un uragano è il suo occhio. Il centro di un temporale è il cumulonembo. Quel che so, è che il centro dell’alta pressione si trova solitamente sopra le Azzorre. E il centro della bassa pressione più a nord, da qualche parte tra l’Islanda e la Scandinavia. La maggior parte delle volte.”

Fleischman comincia il suo percorso di cura, con una dottoressa che gli consiglia di scrivere tutto su un quaderno: desideri, sogni e bisogni. Il potere taumaturgico della scrittura.

“Dovete avere la forza di prendere in mano carta e penna e riversare sul foglio tutti i vostri problemi, come sto facendo io con voi, anche se non ho intenzione di suicidarmi. Voglio solo volare via. Dovete avere la forza di dare una leccata alla busta, di chiudere la lettera e di imbucarla, dovete avere la forza di riuscire a immaginare l’espressione di chi la leggerà dopo un paio di giorni. Dovete avere la forza di trasmettergli ciò che vi pesa, una parte del vostro infinito. Innanzitutto, però, dovreste avere qualcuno a cui spedirla una lettera così.”

Fleischman si sente costretto a stare nella sua terra, che è la sede anche del Grand Hotel di famiglia: “Pensai che anche attorno alla nostra città c’era una specie di cortina di ferro. La mia cortina di ferro, che non mi vuol lasciar andare via, ma che io supererò.”

La dottoressa lo incoraggia a trovare la sua strada e che ci vuole tempo se le ferite sono profonde, ci vuole tempo per guarire, ci vuole tempo per risolvere il proprio passato. Ci vuole tempo, cura e anche il coraggio di lasciar andare quei dolori famigliari che hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza. E bisogna imparare a guardare il cielo e a trarre dal cielo gli insegnamenti necessari per crescere. Fleishman lo fa e ci lascia questo in dono: “Durante il viaggio di ritorno mi disse che ogni cosa ha bisogno del suo tempo, che ci saremmo riusciti, che un giorno tutti i muri di ghiaccio si sarebbero sciolti. Non so se nel mio caso si tratta di ghiaccio.

[.]

Ma la dottoressa disse che quello era solo un esempio. Una metafora. Che sapeva che ce l’avrei fatta. Che avrei trovato la mia strada. E che lei mi avrebbe aiutato. E se non fosse stata lei, l’avrebbe fatto qualcun altro. Io questa la chiamo certezza.”

Duc in altum, semper!

“Ce l’ho fatta. La vita vi offre solo due direzioni. Una porta in alto. E anche l’altra porta in alto. Ma con una deviazione verso il basso. Attraverso il vostro personale infinito. Il problema è che non sapete mai in quale direzione vi state dirigendo.”

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

https://www.goodreads.com/review/show/3315995006?book_show_action=false&from_review_page=1

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Alessandra Bernocco su Verba Manent

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Alessandra Bernocco su Verba Manent

La perlina sul fondo, un libro contro la solitudine della quarantena

“Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere”.

Così  Bohumil Hrabal, scrittore ceco tra i più significativi del Novecento, amato, censurato, boicottato, a seconda delle pieghe che prendeva la storia della sua  Cecoslovacchia, tra conati di libertà, compromessi e normalizzazione.

C’è, a monte della sua scrittura, una ribadita volontà di contaminazione, volontà spinta ai limiti della sfida, che attraversa sostanzialmente tutti i suoi scritti, dagli esordi fino alla fine. Una sorta di masochismo funzionale, verrebbe da dire, se è vero che si è ‘andato a cacciare dove mai avrebbe voluto essere’.

In Italia Hrabal è conosciuto soprattutto per i romanzi Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto l’omonimo film di Jiří Menzel (Oscar miglior film straniero 1966), Ho servito il re d’InghilterraUna solitudine troppo rumorosa, ma è anche nei numerosi racconti raccolti in svariate edizioni, alcune delle quali uscite epurate dalla censura (o ricalibrate a causa di essa), che ci viene incontro il manovale-scrittore, pronto a sporcarsi le mani frequentando i bassifondi di una Praga non proprio magica, fatta di bische clandestine e birrerie, e delle sue periferie di campagna  percorse in sella a moto da corsa o grazie a fortunosi passaggi in macchina.  

Soffermandosi a osservare e ascoltare o cacciandosi dentro, appunto, mimetizzato e confuso tra gli operai di un’acciaieria,  di un deposito di carta da macero,  o dietro le quinte di un teatro a manovrare la scena, mentre si sta rappresentando Delitto e castigo, alla ricerca di un po’ di luce e bellezza che esiste e resiste anche dietro la scorza greve degli ultimi.

Anche a questo serve la scrittura, a scovare la perlina che riposa sul fondo di ognuno di noi, a raccontarla e farla brillare.  

Si intitola La perlina sul fondo il primo libro di Hrabal pubblicato con successo a Praga nel 1963 e appena pubblicato in Italia  da Miraggi edizioni nella collana NováVlna dedicata alla letteratura ceca, primo step di un progetto virtuoso che mira a compensare le lacune di traduzione di questo autore, di cui mancano ancora alcune opere fondamentali.

Si tratta di dodici racconti tradotti da Laura Angeloni, che ha compiuto un lavoro tutt’altro che semplice di adattamento di umori, slang, espressioni idiomatiche, gergo tecnico attinto a professioni, mestieri, ambienti diversi, anche ostici, non familiari, eppure vissuti e abitati come gli unici possibili.  

Viceversa, la lettura richiede ad un tempo sospensione e immersione. Per questo leggerli in questi giorni di quarantena è stata una gran bella distrazione. Distillando e tornando più volte su alcuni di essi, soffermandomi su passi e momenti nodali, ho imboccato una via sterrata  e laterale, liberandomi dal torpore ansiogeno della strada maestra. 

Sono racconti che al plot principale affiancano e intrecciano storie secondarie, squarci di vita che tornano alla mente e prendono corpo in modo improvviso, a volte rocambolesco, nel bel mezzo di un incontro, tra le battute di un dialogo tra due sconosciuti,  nei ricordi che decollano e subito planano quando meno te l’aspetti, mentre il racconto procede sicuro e con esso il lettore, ora a strattoni, ora ascoltando e scrutando senza fare domande, ora scartando di lato per cercare di scoprire qualcosa che ancora non gli è stato detto, dentro  un tracciato fitto di riferimenti e rinvii e qualche sorpresa.

Difficile concentrarsi su un racconto soltanto, difficile rendere giustizia all’intera raccolta.

Perché in questo coro ininterrotto di voci che affabulano, stordiscono, raccontano e se la raccontano, tutte meritano ascolto e attenzione; in questo museo in divenire di facce, di corpi, di gesti, tutti chiedono di esser guardati, sorpresi, smascherati.

Il giovane dell’acciaieria che in mezzo ai ratti e al pane nero imburrato cascato  a terra e ripulito alla meglio, racconta del parrucchiere che lo invita a scegliere tra l’acqua di colonia normale o alla violetta. I due moribondi sul letto di morte che non si può dire di più, ma sono un irresistibile monumento ai sepolcri imbiancati di tutti i tempi. Il traslocatore dalle mani callose e possenti che col palmo avvolge il bicchiere come se fosse un uccellino. La voluttuosa fornaia che morde rumorosamente le mele dopo averle strofinate sui seni. L’imballatore di carta da macero che finge di leggere l’editoriale di un vecchio giornale. Il povero diavolo disposto a vendere il suo scheletro alla scienza per racimolare due soldi che gli permettano di riallacciarsi alla corrente elettrica, o l’altro povero diavolo vittima di un assicuratore che non gioca pulito. Il cacciatore di frodo che si scoprirà essere altro, ma non si può dire. Resta l’immagine del capriolo ucciso al bordo di una strada, un brutto colpo andato a segno raccontato in presa diretta dal passeggero Hrabal, seduto di fianco.

E sono molte le scene che sembrano vissute in diretta, vivide e precise come note d’autore di una sceneggiatura che lascia poco al regista, e il lettore sta lì, intento a osservare, come lo spettatore di un film o il visitatore di una mostra di quadri.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Alessandra Bernocco su Articolo UNO

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Alessandra Bernocco su Articolo UNO

La perlina sul fondo, un libro contro la solitudine della quarantena

“Ho escogitato per me stesso la teoria del destino artificiale, mi sono andato a cacciare lì dove non avrei mai voluto essere. Io, timido, offrivo assicurazioni sulla vita, vendevo cosmetici, lavoravo nelle miniere, e continuavo a scrivere e scrivere”.

Così Bohumil Hrabal, scrittore ceco tra i più significativi del Novecento, amato, censurato, boicottato, a seconda delle pieghe che prendeva la storia della sua Cecoslovacchia, tra conati di libertà, compromessi e normalizzazione.

C’è, a monte della sua scrittura, una ribadita volontà di contaminazione, volontà spinta ai limiti della sfida, che attraversa sostanzialmente tutti i suoi scritti, dagli esordi fino alla fine. Una sorta di masochismo funzionale, verrebbe da dire, se è vero che si è ‘andato a cacciare dove mai avrebbe voluto essere’.

In Italia Hrabal è conosciuto soprattutto per i romanzi Treni strettamente sorvegliati, da cui è stato tratto l’omonimo film di Jiří Menzel (Oscar miglior film straniero 1966), Ho servito il re d’InghilterraUna solitudine troppo rumorosa, ma è anche nei numerosi racconti raccolti in svariate edizioni, alcune delle quali uscite epurate dalla censura (o ricalibrate a causa di essa), che ci viene incontro il manovale-scrittore, pronto a sporcarsi le mani frequentando i bassifondi di una Praga non proprio magica, fatta di bische clandestine e birrerie, e delle sue periferie di campagna  percorse in sella a moto da corsa o grazie a fortunosi passaggi in macchina.

Soffermandosi a osservare e ascoltare o cacciandosi dentro, appunto, mimetizzato e confuso tra gli operai di un’acciaieria, di un deposito di carta da macero, o dietro le quinte di un teatro a manovrare la scena, mentre si sta rappresentando Delitto e castigo, alla ricerca di un po’ di luce e bellezza che esiste e resiste anche dietro la scorza greve degli ultimi.

Anche a questo serve la scrittura, a scovare la perlina che riposa sul fondo di ognuno di noi, a raccontarla e farla brillare.

Si intitola La perlina sul fondo il primo libro di Hrabal pubblicato con successo a Praga nel 1963 e appena pubblicato in Italia da Miraggi edizioni nella collana NováVlna dedicata alla letteratura ceca, primo step di un progetto virtuoso che mira a compensare le lacune di traduzione di questo autore, di cui mancano ancora alcune opere fondamentali.

Si tratta di dodici racconti tradotti da Laura Angeloni, che ha compiuto un lavoro tutt’altro che semplice di adattamento di umori, slang, espressioni idiomatiche, gergo tecnico attinto a professioni, mestieri, ambienti diversi, anche ostici, non familiari, eppure vissuti e abitati come gli unici possibili.

Viceversa, la lettura richiede ad un tempo sospensione e immersione. Per questo leggerli in questi giorni di quarantena è stata una gran bella distrazione. Distillando e tornando più volte su alcuni di essi, soffermandomi su passi e momenti nodali, ho imboccato una via sterrata e laterale, liberandomi dal torpore ansiogeno della strada maestra.

Sono racconti che al plot principale affiancano e intrecciano storie secondarie, squarci di vita che tornano alla mente e prendono corpo in modo improvviso, a volte rocambolesco, nel bel mezzo di un incontro, tra le battute di un dialogo tra due sconosciuti, nei ricordi che decollano e subito planano quando meno te l’aspetti, mentre il racconto procede sicuro e con esso il lettore, ora a strattoni, ora ascoltando e scrutando senza fare domande, ora scartando di lato per cercare di scoprire qualcosa che ancora non gli è stato detto, dentro  un tracciato fitto di riferimenti e rinvii e qualche sorpresa.

Difficile concentrarsi su un racconto soltanto, difficile rendere giustizia all’intera raccolta.

Perché in questo coro ininterrotto di voci che affabulano, stordiscono, raccontano e se la raccontano, tutte meritano ascolto e attenzione; in questo museo in divenire di facce, di corpi, di gesti, tutti chiedono di esser guardati, sorpresi, smascherati.

Il giovane dell’acciaieria che in mezzo ai ratti e al pane nero imburrato cascato a terra e ripulito alla meglio, racconta del parrucchiere che lo invita a scegliere tra l’acqua di colonia normale o alla violetta. I due moribondi sul letto di morte che non si può dire di più, ma sono un irresistibile monumento ai sepolcri imbiancati di tutti i tempi. Il traslocatore dalle mani callose e possenti che col palmo avvolge il bicchiere come se fosse un uccellino. La voluttuosa fornaia che morde rumorosamente le mele dopo averle strofinate sui seni. L’imballatore di carta da macero che finge di leggere l’editoriale di un vecchio giornale. Il povero diavolo disposto a vendere il suo scheletro alla scienza per racimolare due soldi che gli permettano di riallacciarsi alla corrente elettrica, o l’altro povero diavolo vittima di un assicuratore che non gioca pulito. Il cacciatore di frodo che si scoprirà essere altro, ma non si può dire. Resta l’immagine del capriolo ucciso al bordo di una strada, un brutto colpo andato a segno raccontato in presa diretta dal passeggero Hrabal, seduto di fianco.

E sono molte le scene che sembrano vissute in diretta, vivide e precise come note d’autore di una sceneggiatura che lascia poco al regista, e il lettore sta lì, intento a osservare, come lo spettatore di un film o il visitatore di una mostra di quadri.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Luigi Mascheroni su Il Giornale

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Luigi Mascheroni su Il Giornale

Bettolacce, risate e Bohème. Le perle più belle di Hrabal

C’è un racconto di Bohumil Hrabal che si intitola Gli impostori. Fa parte del libro di esordio dello scrittore, nella Cecoslovacchia del 1963, dal titolo La perlina sul fondo e che appare oggi per la prima volta in Italia (Miraggi edizioni, pagg. 256, euro 20; trad. Laura Angeloni, a cura di Alessandro Catalano). Parla di un giornalista e di un cantante d’opera ricoverati nella stessa stanza d’ospedale che si confortano a vicenda raccontandosi i loro più grandi successi in carriera, scoop e trionfi. Cambio di scena (Hrabal nel montaggio dei suoi racconti è sempre molto cinematografico, ed è molto amato dal cinema): i due sono cadaveri, sul tavolo dell’obitorio, e dai pettegolezzi scambiati tra il barbiere che li sta rasando prima della sepoltura e l’addetto alla camera mortuaria si viene a sapere che il giornalista non era proprio una grande firma, al più uno scribacchino della cronaca locale; e il cantante non era proprio un divo, semmai una terza fila del coro… Ah, poi c’è il barbiere che dopo aver biasimato i due impostori, uscendo dall’obitorio col camice bianco svolazzante, si compiace nel farsi scambiare dai pazienti dell’ospedale per un dottore… Del resto «è pieno di gente che confonde quello che avrebbe voluto essere con quello che è davvero».

Ecco, Bohumil Hrabal (Brno, 1914 – Praga, 1997), uno dei massimi scrittori cechi del ‘900, non ha mai confuso le due cose. È sempre stato quello che voleva essere, non ha mai voluto sembrare quello che non era. Ed è stata la fortuna della sua scrittura: fatta di naturalezza, istinto, spontaneità. Ciò non toglie che si trovasse bene con gli impostori, e i balordi, chiacchieroni, sbruffoni, fantasticatori. Erano il suo mondo, a cui non fingeva di non appartenere. E nel quale sguazzava, come uomo e come scrittore. Nella sua brevissima introduzione alla raccolta di racconti La perlina sul fondo Hrabal confessa: «Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale. Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente di scorgere la perla sul fondo dell’essere umano». E la «perla» è quella cosa che alla fine ci salva.

Comunque, Hrabal pubblicò il suo primo libro abbastanza tardi, a 49 anni, nel 1963. Sfruttò la stretta finestra di disgelo culturale che si aprì in Cecoslovacchia, Paese satellite di Mosca, tra il rigido realismo socialista degli anni Cinquanta e il nuovo giro di vite post ’68, quando la Primavera di Praga appassì sotto i cingoli dei carri armati sovietici. Insomma, infilandosi tra stalinismo e normalizzazione riuscì a pubblicare i primi libri. Certo, molto aveva scritto, tra poesie e narrativa, in gioventù, ma era rimasto alla stato di Samizdat, tra censure e circolazione underground, e il primo saggio critico sull’opera di Hrabal, un libro clandestino che girava tra i circoli intellettuali alternativi di Praga, è firmato addirittura da un giovanissimo Václav Havel, futuro presidente del Paese dopo la caduta del Muro… Ed ecco quindi i racconti, popolari e popolareschi, ai quali diede il titolo La perlina sul fondo. Che accesero – e lo spiega molto bene Alessandro Catalano nella lunga postfazione – una vera luce nel grigiore socialista. Nella letteratura ceca all’improvviso esplode una nuova lingua, uno nuovo stile, nuovi temi: ecco i «discorsi della gente», l’inventiva linguistica, il «parlato quotidiano», lo slang, il goliardico, la creatività popolare dei suoi personaggi, che facevano i mestieri che aveva fatto lui: apprendista in uno studio notarile, magazziniere in una cooperativa di ferrovieri, operaio nelle acciaierie Poldi, addetto in un deposito di carta (dove si maceravano i libri bloccati dalla censura…), macchinista di scena e comparsa a teatro… Qui c’è già tutto lo Hrabal successivo, l’autore di libri amatissimi come Vuoi vedere Praga d’oro? o Treni strettamente sorvegliati (che, portato sullo schermo da Jiří Menzel, vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 1968), Ho servito il re d’Inghilterra o Una solitudine troppo rumorosa (fatti conoscere in Italia da e/o, Einaudi, Guanda e finiti anche in «Meridiano» Mondadori nel 2003) e qui, soprattutto, c’è il gusto per il racconto orale, per la battuta, aneddoti bizzarri, pettegolezzi comici, situazioni surreali. Storie di sesso, crapula e anarchia… È la Praga buffa contro la Praga magica, la Praga delle birrerie contro la Praga dei caffè, la realtà umana contro il realismo socialista.

Bettolacce, risate sfrontate, occhiute polizie segrete, beffe, bische, bravate e un boccale di bohème. Il lato tragicomico dell’esistenza.

Ecco, poi c’è come raccontare il tragico e il comico del quotidiano. E qui Hrabal, che come ha notato Marino Freschi «è riuscito a far ridere la lingua ceca in un periodo in cui non c’era proprio nulla da ridere», costruisce i suoi parlatissimi racconti come matrioske, dove i personaggi principali, protagonisti della storia che fa da cornice, non fanno altro che raccontare a loro volta delle storie, in un dialogo a più voci sovrapposte. Esempi. Corso serale racconta di una spericolata lezione di scuola guida, in moto, per le vie di Praga, in cui l’allievo narra mille impressionanti avventure motociclistiche del padre. Molto amato mette in scena un gruppo di operai chiacchieroni dentro un’acciaieria dai colori infernali che si raccontano storielle di donne e partite di calcio (Hrabal amava il calcio e i motori), con colpo di scena finale. In I bei tempi andati due vecchietti, un birraio e un medico, prendono il sole in uno stabilimento balneare rievocando i loro successi professionali: nessuno dei due ascolta veramente l’altro, entrambi esagerano probabilmente i toni epici nei ricordi. Un pomeriggio uggioso è ambientato in una birreria, alla domenica,: quasi tutti se ne vanno a vedere la partita, un ragazzo silenzioso non fa altro che leggere il suo libro attirandosi l’antipatia degli avventori e i pochi che restano litigano raccontandosi le imprese delle vecchie glorie nazionali. E così via…

Storielle da birreria, si dice. Ma con tutta l’atroce, insopportabile, irresistibile, drammatica, ironica, grottesca realtà che resta, così è la vita, sul fondo del boccale.

LA PERLINA SUL FONDO. HRABAL, LA NARRAZIONE COME VIAGGIO ETERNO NEL MISTERO DELL’UMANO – recensione di Paolo Romano su Quotidiano del Sud

LA PERLINA SUL FONDO. HRABAL, LA NARRAZIONE COME VIAGGIO ETERNO NEL MISTERO DELL’UMANO – recensione di Paolo Romano su Quotidiano del Sud

Le esperienze che ha collezionato diventano figurine di un album. I tanti lavori che ha svolto la materia grezza che la scrittura può plasmare

Finalmente la traduzione in italiano del primo libro di racconti di un autore tanto geniale quanto poco conosciuto. Esce ora per i tipi di Miraggi Edizioni il volume di Bohumil Hrabal “La perlina sul fondo”. L’autore ceco è stato un personaggio camaleontico, un clown della vita, un artista capace di calarsi nei bassifondi dell’esistenza con leggerezza e ironia. Per scrivere ha attinto proprio alla quotidianità, alle esperienze che ha collezionato come fossero figurine di un album, ai tanti lavori che ha fatto e che gli hanno permesso di conoscere storie esistenziali più ricche della stessa fantasia di qualsiasi romanziere.

“Ho inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, ho lavorato come commesso viaggiatore, operaio di acciaieria, imballatore di carta da macero e macchinista teatrale”, diceva di sé. Uno scrittore ingordo d’una antropologia fatta carne, di esistenze colte nell’attimo stesso in cui sono vissute e tradotte mirabilmente in questi racconti dallo stile indefinibile: “Quello che volevo era sporcarmi con l’ambiente, con la gente comune, e trovarmi a vivere, ogni tanto, l’esperienza sconvolgente riscorgere la perla sul fondo dell’essere umano”. Se quest’ultima frase spiega le ragioni del titolo di questa preziosa antologia di racconti, non dice però dell’originalità di Bohumil Hrabal, capace come pochi di proiettare su carta le pellicole che le persone comuni girano di giorno in giorno. Nemo profeta in patria vale per un autore del quale, in una lettera anonima a lui indirizzata, si chiedeva la forca. “Con i racconti di Hrabal, nel 1963 – scrive il curatore del volume Alessandro Catalano – fanno prepotentemente ingresso nella letteratura ceca i discorsi della gente, l’inventiva linguistica e la creatività popolare di operai delle acciaierie, commessi viaggiatori, ferrovieri, assicuratori, notai, impiegati del macero della carta, macchinisti teatrali, che, attraverso un lessico colorito, espressioni dialettali e slang professionali, restituivano alle pagine dei libri la vivacità dell’osteria e lo splendore dei chiacchieroni e il loro sollazzarsi”. Nell’ottima traduzione dal ceco di Laura Angeloni si coglie al meglio le potenzialità di una scrittura sempre sul confine tra reale e irreale, comico e grottesco, di una tale naturalezza da sembrare surreale. Il lettore se ne accorge sin dalle prime battute del primo racconto “Corso serale”, dove le lezioni di scuola guida per motocicletta si trasformano in un pretesto per produrre una narrazione orale, di spaccati esistenziali. Mentre si legge la scena si staglia nel palcoscenico degli occhi tanto da far dimenticare in maniera così forte che sia soltanto un racconto breve e non un romanzo. Lo stesso avviene con “Un pomeriggio uggioso”, dove la vita si beve come uno dei freschi boccali della birreria dove è ambientato. Qualcuno si ricorderà di Hrabal indirettamente, forse per aver visto la versione cinematografica del suo romanzo “Treni strettamente sorvegliati”, una pellicola del 1965 in bianco e nero, passata alla storia per la scena del capostazione che trascorre una notte a stampare timbri ferroviari sul fondoschiena della fidanzata. Altri romanzi celebri di Hrabal sono: “Ho servito il re d’Inghilterra”, “Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare”, “La cittadina dove il tempo si è fermato”, “Spazi vuoti” e “Uno solitudine troppo rumorosa”.

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Gennaro Serio sul Venerdì di Repubblica

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Gennaro Serio sul Venerdì di Repubblica

Hrabal. Un boccale pieno di racconti

Prima edizione italiana per il Libro d’esordio dello scrittore ceco che per tutta la sua avventurosa vita raccolse le voci delle strade – e delle birrerie – nella sua Praga

Ecco un breve résumé delle principali occupazioni svolte da quattro grandi scrittori cechi del secolo scorso. Franz Kafka: impiegato presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro del regno di Boemia. Jaroslav Hašek: impiegato di banca. Vladislav Vančura: medico. Karel Čapek: giornalista. Ed ecco invece un elenco, senza pretesa di esaustività, delle principali occupazioni svolte da Bohumil Hrabal: copista notarile, capostazione ferroviario, telegrafista, assicuratore, commesso viaggiatore (articolo trattato, giocattoli di seconda mano), operaio metalmeccanico, cameriere, magazziniere, addetto alla preparazione del malto in una fabbrica di birra, “assemblatore” di blocchi di libri pressati da mandare al macero su disposizione della censura sovietica (!), comparsa teatrale. Nel tempo libero scrittore e gran bevitore di birra Pilsner.

Per Hrabal, nato a Brno nel 1914, curriculum letterario ed esistenziale coincidono perfettamente: i racconti di La perlina sul fondo ne sono una nitida testimonianza. Li porta per la prima volta nelle librerie italiane – per ora solo in quelle virtuali – l’editore Miraggi (con la cura e postfazione di Alessandro Catalano e la traduzione di Laura Angeloni), presso cui hanno trovato casa già diversi titoli interessanti di letteratura ceca di nuova proposta e non solo (da ultimo il sommo e da tempo introvabile Bruciacadaveri di Ladislav Fuks).

Primo libro pubblicato da Hrabal a Praga nel 1963, La perlina sul fondo era rimasto inedito finora in Italia, dove sono state privilegiate sin da subito le opere successive, come Ho servito il re d’Inghilterra o Una solitudine troppo rumorosa. Scrittore-grammofono, Hrabal mostra in questi aneddotici racconti una compiuta maturità dello sguardo, e le intenzioni della sua letteratura sono già dichiarate: invitare il lettore a un giro senza meta sulla linea di un tram praghese, ascoltarne il brusio indistinto e imparare a distinguere le voci. Ma senza affezionarsi troppo perché si scende subito, le voci proseguono il loro viaggio mentre il lettore aspetta la prossima corsa (il prossimo racconto). Un vero e proprio Presepe praghese – titolo del racconto che chiude la raccolta – da attraversare guardando da vicino quegli uomini semplici e chiacchieroni che Hrabal aveva ribattezzato con amore «stramparloni» (pabitel), tra i quali si collocava lui stesso e con i quali volentieri si ubriacava di parole e non solo nelle taverne e soprattutto nelle birrerie della città (il protagonista di Una solitudine proverà a stilarne un memorabile elenco – questa volta sì, con pretesa di esaustività).

E dire che avrebbe anche potuto vestire i panni del tranquillo avvocato di provincia, Hrabal, ma la storia ha immaginato per lui qualcosa di diverso: si è appena iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Praga quando i carri armati del Reich sconfinano in Cecoslovacchia. Da lì in poi il destino suo e quello di Milan Kundera – che pure è stato nella stessa scuola a Brno qualche anno dopo di lui – si distanziano vistosamente. Niente università dopo la guerra, niente carriera accademica o gruppi di poesia d’avanguardia, e soprattutto nessun autoesilio a Parigi: Hrabal resta per tutta la vita in mezzo alla sua gente, quella da cui apprende le storie che finiscono nei suoi racconti, e grazie alla quale potrà costruire uno degli stili più riconoscibili (e imitati) di tutta la letteratura europea del Novecento. Una lingua a metà strada tra argot céliniano e un certo tocco surreale, favorito da quella «ironia praghese» di cui Hrabal parlerà a lungo nell’intervista al suo traduttore Sergio Corduas pubblicata in appendice a Treni strettamente sorvegliati (edito in Italia da E/O nel 1982; il romanzo, storia di un ferroviere boemo durante l’occupazione nazista, ha ispirato il film di Jiri Menzel premiato con l’Oscar nel 1967).

Fin dal dopoguerra, oltre a cimentarsi nel lavori più strambi, Hrabal non si fa mancare i problemi con il regime: nel clima ostile dello stalinismo, i suoi racconti circolano soltanto come samizdat, autopubblicazioni non registrate. Poi nel ’63 esce La perlina e diventa un piccolo best seller.Dura poco: con la fine della Primavera di Praga i suoi libri passano dall’essere venduti e apprezzati a essere vietati espressamente dalla censura sovietica, tanto che vengono fatti stampare all’estero e avventurosamente contrabbandati in patria. Paradossalmente – si direbbe per qualunque scrittore, ma non per lui – comincia il periodo più felice della sua produzione letteraria, fino al 1976, anno della «riabilitazione» da parte del regime.

Come tutta la sua vita, anche la sua morte è avvolta nella leggenda: a 83 anni, quando è ormai da tempo un autore canonizzato e celebrato in tutta Europa, cade dal quinto piano di un ospedale praghese, dove è ricoverato per i postumi di una caduta. Si è buttato – dicono – o forse voleva allungarsi verso un piccione che si era posato sulla balaustra. Tutte le possibilità erano già contemplate nella sua letteratura, comunque; in un libro del 1989 si legge: «Quante volte avrei voluto buttarmi dal quinto piano, dalla mia casa, in cui tutte le camere mi fanno male, ma l’angelo all’ultimo momento mi salva sempre, mi tira indietro, come dal quinto piano voleva buttarsi il mio dottor Franz Kafka, dalla Maison Oppelt».

Si è fatto seppellire in una cassa di quercia con sopra inciso il nome di una fabbrica di birra. Era il luogo dove sua madre aveva conosciuto l’uomo che avrebbe fatto da padre adottivo al piccolo Bohumil. Ma è anche l’estrema burla praghese con cui Hrabal si congeda dal mondo – dopo aver raccolto dal fondo della strada l’ultima perlina sporca di fuliggine.

Nová Vlna: un’“onda” di autori europei dalla Repubblica Ceca – intervista ad Alessandro De Vito di Angela Vecchione su Exlibris20

Nová Vlna: un’“onda” di autori europei dalla Repubblica Ceca – intervista ad Alessandro De Vito di Angela Vecchione su Exlibris20

Cinque domande per un editore.

Questo spazio è dedicato da qualche tempo alle case editrici che nella loro programmazione editoriale riservano uno spazio a una letteratura straniera in particolare. Questo appuntamento ha per protagonista la casa editrice Miraggi e nello specifico la linea NováVlna, collana di letteratura ceca curata magistralmente da Alessandro De Vito, editore e traduttore. Da cosa nasce l’esigenza di titoli appartenenti a una sfera culturale spesso accantonata in favore di un interesse angloamericano dilagante e spesso dominante in un paese come il nostro, da decenni anglofilo? Le risposte, le perle tradotte, le voci più autorevoli di un ambiente affascinante e storicamente vicino, nuovi autori e una riflessione sulla nostra identità di narratori in questa edificante intervista che riportiamo integralmente.

Miraggi e NováVlna.

1 – «NováVlna» è la collana dedicata alla letteratura ceca. Il nome Nová vlna, sia in ceco che in slovacco, vuol dire “Nuova onda”. Anche se trae origine dal movimento cinematografico degli anni Sessanta del secolo scorso, questa selezione di libri si promette di far vibrare nuovi stimoli. Da cosa è nato il vostro interesse per la letteratura ceca?

Come tutti gli amori, la decisione di dar vita a una collana interamente dedicata alla letteratura ceca nasce un po’ per caso, per accorgersi subito dopo che si trattava di una necessità. Innanzitutto per me: io sono per metà ceco, dire che non ci avevo mai pensato prima sarebbe troppo, ma sicuramente non sarebbe accaduto senza un’occasione. Qualche anno fa, con il fondamentale apporto e l’ispirazione di Francesco Forlani, straordinario esempio di intellettuale organico, disorganizzato e totale, con cui abbiamo poi stretto una grande amicizia, abbiamo cominciato a pensare alle traduzioni letterarie “laterali”. Abbiamo allora fondato la collana Tamizdat, primo embrione di quella casa editrice nella casa editrice che è diventata Miraggi Baskerville. Lì abbiamo inteso proporre testi “clandestini”, come erano quelli che circolavano di nascosto nei regimi del socialismo reale: libri che, mutatis mutandis, in moltissimi casi ci pareva fosse difficile vedere oggi in libreria, almeno in Italia. Dopo poco mi sono “ricordato” delle mie origini, ho preso a studiare sul serio il ceco, lingua materna che ho sempre parlato in casa, e nel giro di due anni abbiamo dovuto creare uno spazio specifico per quelle traduzioni, altrimenti la collana Tamizdat avrebbe subìto una vera e propria “invasione ceca”.
Così è nata NováVlna. Fondamentale è stato conoscere Laura Angeloni, una delle più esperte traduttrici dal ceco attive oggi in Italia, che collabora stabilmente con noi e ha tradotto quasi metà delle nostre scelte. Altrettanto importante è poter contare, in generale ma principalmente per le riedizioni dei classici, sul supporto del boemista Alessandro Catalano. A proposito dei traduttori mi preme sottolineare che quasi sempre hanno un ruolo da protagonista: non siamo noi a cercare qualcuno che traduca, ma chiediamo al traduttore di farci una proposta, così si finisce per lavorare su un proprio libro del cuore. Diamo importanza al traduttore, vero “veicolo umano” di lingua storie e cultura, sia ovviamente citandolo in copertina e risvolto, ma anche facendogli scrivere una nota di traduzione, che spesso coincide con la quarta di copertina e, se più articolata, è inclusa nel volume. Nessuno – e qui lo dico da traduttore – è così dentro e vicino a un libro di chi lo traduce.

Bisogna ammettere anche che la lungimiranza del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca dà a noi e a tutti coloro che si dedicano alla traduzione della letteratura ceca – lo stesso vale per altri Paesi – un importante supporto, finanziando generosamente la nostra attività e consentendoci di lavorare in tranquillità e di poter scegliere anche autori di grande valore ma meno commerciali, come è stato il caso di Jan Balabán (Chiedi a papà) di cui mi piacerebbe tradurre tutta l’opera. Autori che danno spessore all’idea stessa di letteratura, almeno alla nostra.

2 – In questa sezione trovano spazio testi della tradizione letteraria caduti nell’oblio. Vi occupate del loro recupero facendo un attento lavoro di ricerca, rintracciate esordi preziosi come quello di uno dei maggiori scrittori del Novecento Bohumil Hrabal, La perlina sul fondo, in uscita in questi giorni. Perché altre case editrici italiane, di dimensioni più grandi, secondo voi non hanno pensato di tradurre libri che avrebbero avuto esito tra lettori appassionati?

Uno degli intenti è proprio questo. Accanto alla proposta di nuovi autori ancora sconosciuti nel nostro Paese, da lettore prima che da editore, e certamente da lettore che ha frequentato quella letteratura in passato, stupisce, e personalmente mi addolora, se non è un’espressione troppo forte, che grandissimi autori e opere siano completamente dimenticati oggi. E si tratta di un duplice fronte: a volte si tratta di recuperare libri che erano giunti in Italia, soprattutto grazie alla meritoria opera di Ripellino, tra gli anni Sessanta e Ottanta: oltre a Einaudi ricordiamo la celebre collana diretta da Kundera dell’editore e/o. Essendo passati 40-50 anni, scegliamo senz’altro di ritradurli, ed è una sfida non da poco. Abbiamo cominciato da un mio vecchio pallino, che deriva dai miei studi in storia del cinema. Il bruciacadaveri di Fuks è un capolavoro letterario da cui è stato tratto subito dopo un capolavoro cinematografico, non mi davo pace del fatto che ormai fosse un libro solo per collezionisti. Tanto più che, riproposto oggi, racconta molto bene e sorprendentemente, pur a tanti anni di distanza, cosa sta accadendo alle nostre società oggi. Con umiltà, consapevolezza e studio pare che i nostri sforzi vadano nella giusta direzione.

In altri casi, come per la citata primizia di Hrabal, il primo libro pubblicato dal grande autore ceco, quello che l’ha portato al successo in patria nel ’63 dopo gli anni più bui dello stalinismo, si trattava di colmare incredibili vuoti editoriali con una prima traduzione. A volte le vicende librarie hanno dell’imponderabile, e non è facile risalire al motivo per cui di un autore così grande – e di grande successo – ancora oggi non sia stato tradotto tutto. Di Hrabal, con la relativa liberalizzazione della Primavera di Praga e l’eco che ebbe la sua repressione nel ’68, giunsero all’estero molte opere contemporaneamente, si spiega che allora si sia operata una scelta privilegiando soprattutto i romanzi, rispetto ai racconti della Perlina, che pure sono di uno scrittore ormai maturo, basti pensare che furono pubblicati quando aveva già 49 anni.

Detto questo, non siamo certo i soli, per fortuna, a tradurre letteratura ceca. Einaudi continua, pur con il contagocce (dell’anno scorso un altro inedito di Hrabal, Lezioni di ballo per anziani e progrediti), e Keller ne annovera parecchi nel suo catalogo, basato sulle zone geografiche dell’ex Impero Austro-Ungarico di cui anche la Boemia faceva parte. Splendido e consigliato l’ultimo Topol, che mi sarebbe piaciuto pubblicare: Una persona sensibile.

Siamo lieti e orgogliosi di fare la nostra parte, meglio per noi se altri ritengono che certa grande e grandissima letteratura “non valga più la pena”, per motivi commerciali o per mode che cambiano. Certo non è facile.

Letteratura ceca

3 – “In passato come oggi la letteratura ceca è stata molte volte portatrice di freschezza e innovazione, col suo carattere ironico, grottesco e surreale, e la capacità di immergersi nelle profondità esistenziali.” Come selezionate gli autori contemporanei da proporre al pubblico italiano?

Pur esplicitandole in molte sfumature differenti la letteratura ceca – e direi cecoslovacca, tornando indietro nel tempo – ha delle caratteristiche tipiche, piuttosto riconoscibili, a volte più di tono grottesco e tetro, a volte più leggero e surreale, ma è vero, sempre teso alla profondità, a tuffarsi per “scorgere il fondo dell’animo umano”, per parafrasare ciò che Hrabal dice a proposito della sua Perlina sul fondo. Vivendo personalmente la doppia appartenenza italo-ceca, ho sempre trovato che sia molto stimolante vedere le cose con gli occhi degli altri, perché poi si torna a considerare diversamente anche le cose che si hanno sotto gli occhi. La Boemia, in fondo, è vicina geograficamente, ormai da trenta e più anni è accessibile, turistica, forse sarebbe il momento di conoscerla più a fondo, dato che è sempre stata parte della nostra stessa vicenda comune europea. Proprio per la divisione in blocchi durante la Guerra Fredda il solco è aumentato, e si sono interrotti rapporti culturali, e non solo, sia antichissimi sia più recenti. La Boemia era la regione più sviluppata dell’impero Austro-Ungarico, molti ignorano che tra le due guerre è rimasto il solo paese democratico dell’Europa centrale, la cosiddetta Prima Repubblica cecoslovacca, e uno dei più industrializzati. Un altro aspetto che mi piace ricercare, oltre la bellezza letteraria in sé, è proprio questo: avvicinare le due realtà, conoscersi a vicenda, perché siamo vicini… di casa. E si ritrova un po’ dappertutto, nei racconti “cinematografici” del regista Němec, i cui si trovano molte tracce “italiane” (Volevo uccidere J.L. Godard), nel romanzo della Pilátová che racconta la storia della famiglia Bata, che da più di un secolo mette le scarpe al mondo intero ed era ceca (Con Bata nella giungla), e per le similitudini delle vicende storiche: l’ascesa del nazismo a Praga nel 1938 nel Bruciacadaveri, o le questioni tra minoranza tedesca e ceca nelle zone di confine tra i due paesi, nei Sudeti, per tanti versi simili a quelle del nostro confine orientale (Grand Hotel e il prossimo I parenti di Germania, tutto incentrato su una divisione familiare a cavallo della cortina di ferro). Credo ci sia sempre da imparare.

Gli autori poi vengono selezionati secondo alcuni canali: sono tutti autori (e molte autrici) molto noti nella Repubblica Ceca, quasi sempre vincitori di Premi internazionali e nazionali come il Magnesia Litera, che ci vengono presentati da agenti letterari, da traduttori e che ormai troviamo anche direttamente. Sono giovani, sono sui social, ci si può conoscere, leggere ecc. e dimostrano un’accoglienza e un amore per l’Italia davvero grande. Sin da subito ho riscontrato lo stesso atteggiamento di curiosità, di apertura, e una cortesia non solo di maniera, anche in tutti i referenti degli enti con cui ci interfacciamo: Centro Letterario Ceco, a Praga e in Italia, case editrici e non ultimo il Ministero della Cultura. Capita spesso anche che, nonostante Miraggi sia una realtà molto piccola, oltre alla fiducia professionale si creino anche rapporti personali di stima, come è capitato con Bianca Bellová, straordinaria e originalissima prosatrice, di cui pubblicheremo presto l’ultimo libro, Mona, tra i primi al mondo. Certo poter usare la lingua mi facilita non poco il piacevole compito.

4 – Tra gli autori italiani contemporanei e quelli cechi, quali differenze riuscite ad evidenziare nello stile e nei temi trattati perché le vostre proposte editoriali possano definirsi imperdibili?

Difficile fare un discorso unico, prima abbiamo evidenziato alcuni possibili comuni denominatori, ma spesso oltre quelli ogni poetica autoriale è differente, così come lo stile. È come se fossimo di fronte una squadra in cui le individualità sono molto forti, per usare un paragone. Purtroppo da quando faccio l’editore il tempo che riesco a dedicare alla lettura è molto scemato, spesso “vado a vedere” e saltabecco, cerco di restare informato ma non sempre leggo libri interi. Oltretutto leggere in lingua per scegliere le nuove pubblicazioni, oltre all’attività di traduzione e alla direzione della casa editrice con i miei soci mi tiene davvero molto occupato. Parlerò quindi di una sensazione personale, che potrebbe essere fuori strada. Ho come l’impressione che salvo rari casi chi scrive in Italia – e ci sono autori di grande pregio, giovani e meno giovani – si rivolga maggiormente, quasi necessariamente, al pubblico italiano, o presuppongano una imprescindibile conoscenza del nostro ambiente. Senza meritare per forza l’accusa di essere “ombelicali”, forse, per così dire, mi pare che non alzino troppo la testa a uno sguardo sul mondo. Gli scrittori cechi, e sottolineo che vanno per la maggiore molte autrici donne, credo abbiano più interesse per storie più universali, forse perché vivono in un paese e in un sistema culturale più piccolo, si sforzano di più di essere meno provinciali, proprio perché hanno maggiore coscienza di non essere al centro del globo. Poi magari sono quelli e quelle che piacciono a me, per cui non posso dire di essere del tutto obbiettivo. Per cui la definizione di “imperdibili” forse è eccessiva, ma può essere molto utile, piacevole e sorprendente per il lettore italiano leggere punti di vista sulla contemporaneità che non siano né i nostri, né quelli “universali” e un credo un po’ troppo mainstream che provengono dall’influentissimo e pervasivo Occidente angloamericano. Ci sono particolarità e aspetti tipicamente centroeuropei che senza nostalgie otto e novecentesche sono ancora oggi in grado di produrre senso. Personalmente ho sempre trovato curioso, anche se comprensibile per il corso degli eventi, che si trovi più naturale riferirsi agli USA, a quel modo di vivere, rispetto a paesi che rispetto a due estremità del nostro stesso stivale italiano sono più vicini geograficamente e come storia secolare. La porta a Est, verso il mondo slavo, è stata sempre meno frequentata rispetto alla direzione opposta, e spesso identificata prevalentemente con la Russia. Molto ha fatto la koiné del dopoguerra, l’inglese, il cinema, la civiltà dell’immagine e dei consumi. Andiamo però a vedere di persona: traduciamo anche per consentire questo al lettore italiano.

5 – Parlaci dei prossimi titoli in uscita.

Compatibilmente con la situazione di blocco che stiamo vivendo, i lavori nella nostra cucina proseguono. La perlina sul fondo di Hrabal è pronto in magazzino, appena stampato, è stato un lavoro molto lungo e difficile, è un autore tanto piacevole e divertente da leggere quanto infido e particolare da tradurre. Laura Angeloni ha fatto un lavoro straordinario, e dobbiamo ringraziare moltissimo la disponibilità alla revisione e alla cura del volume del prof. Alessandro Catalano dell’Università di Padova, che con rara generosità (e direttive precise e puntuali) ci ha accompagnato con sicurezza in questa difficile impresa, corredando il testo, come nel caso del Bruciacadaveri di Fuks, con una utilissima postfazione critica.

Di seguito, e per forza di cose l’uscita slitterà a quando torneremo a una certa normalità, avremo il nuovo romanzo di Bianca Bellová, Mona, di cui abbiamo acquisito i diritti addirittura prima che il libro uscisse in Repubblica Ceca. Il lago, il precedente romanzo, è stato parecchio apprezzato, anche se non ha avuto una grande circolazione, in questo nuovo lo stile è sempre il suo, estremamente riconoscibile, per cui chi l’ha amato lo leggerà con piacere. Chi non la conosce ancora, li adorerà entrambi, e certamente la inviteremo di nuovo in Italia per qualche evento, in collaborazione con i Centri culturali cechi di Roma e Milano, che ci danno il loro fondamentale supporto.

Intervista a cura di Angela Vecchione

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QUI L’ARTICOLO ORGINALE:

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Bruno Ventavoli su Tuttolibri

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Bruno Ventavoli su Tuttolibri

Bohumil Hrabal. Un genio troppo rumoroso

Eccola lì, la provocazione in forma di refuso che ha reso leggendario Hrabal. Si legge in fondo a La morte del signor Baltisberger, che racconta un pomeriggio motociclistico a Brno, nel 1956. Durante la corsa delle 250 Hans Baltisberger, come davvero successe, ha un incidente mortale. La sua moto, Nsu Sport-Max, viene coperta da un telo come il corpo dello sfortunato pilota. Il buon Bohumil, che se ne infischiava del potere e dei suoi mostri sacri, aggiunse una «r». E scrivere che Ma(r)x giace cadavere in un fosso poteva essere pericoloso anche se a Praga cominciava a tirar una lieve aria di «primavera». La casa editrice se ne accorse in ritardo e costrinse sette solerti ragazze a cancellare a mano quella «r» malandrina, con un puntino di penna su tutte le copie già stampate. Lui se la rideva e si vantava della bravata in birreria (e poi nel libro Spazi vuoti). Fu con quella beffa, e con altri racconti di degna iconoclastia, che Hrabal debuttò nel panorama letterario praghese. E che per la prima volta, ora, escono in italiano, tradotti da Laura Angeloni, con dotta postfazione di Alessandro Catalano.

Il titolo, La perlina sul fondo, allude a quella gemma preziosa di umanità che brilla negli abissi di ogni essere, anche il più reietto, anche il meno fedele alla linea. Fannulloni, sabotatori, mascalzoni sbruffoni, piccoli fantasticatori, svitati, parassiti (li definiva Ripellino). Quei tipi che nel capitalismo sono la manifesta conseguenza dell’alienazione. Ma che nel paradiso dei lavoratori diventati padroni dei mezzi di produzione, e quindi di se stessi, non possono esistere, perché sarebbero un ossimoro, la dimostrazione che il marxismo fa cilecca. Hrabal invece non solo li incontrava nelle birrerie, nei parchi, ovunque si potesse sbevazzare e «stramparlare», ma li trasformava in (anti) eroi simpaticissimi del sottobosco praghese.

Anche se le maglie della censura si erano allentate dopo la morte di Stalin e la denuncia dei suoi crimini, la reazione della critica fu dura. Estenuanti, le trattative con l’editore per smussare toni e situazioni. Dopo la pubblicazione arrivarono a decine le lettere di proletari indignati. A quel tempo (meraviglia!) gli haters erano costretti a spargere la loro bile sulla carta e con la penna. Ma i toni non erano granché differenti dagli odierni post sul web. «Sporco maiale, quando la smetterai di avvelenare le anime umane con le tue perversioni disgustose!». «Sulla forca!, La letteratura è un letamaio, un allevamento per la produzione in serie di perversi assassini bestiali». La sua colpa era raccontare la «realtà» non il «realismo» socialista. Praga vera, per niente magica. Bordelli, bische clandestine, acciaierie dove si cazzeggia invece di imitare il compagno stakhanov, piloti di tram che abbandonano il mezzo per bere un caffè e lo lasciano girare pericolosamente senza guida al capolinea.

Nel ’63, quando il libro uscì, Hrabal era già abbastanza attempato. 49 anni. Non aveva mai pubblicato nulla, a parte qualcosina in samizdat, eppure, sempre per quelle meravigliose contraddizioni del socialismo reale, era stipendiato per fare lo scrittore. Prima, però, aveva inchiodato rotaie, fatto il capostazione, offerto polizze assicurative, era stato commesso viaggiatore, operaio, macchinista teatrale. Perché voleva «sporcarsi» con la gente comune per raccontarla meglio.

Fu anche, imballatore di carta da macero. Da cui nacque il meraviglioso Una solitudine troppo rumorosa. L’Haňťa, che lavorava alle presse e, involontariamente, si istruiva con Nietzsche, Goethe, trattati di micologia, compare già qui, nel racconto Il barone di Münchhausen, e corteggia tutte le donne che incontra regalando romanzi rosa salvati dal macero. Fa impazzire il suo principale. E con il candore saggio dei paria spiega cos’è che manda a ramengo la società totalitaria e rende la burocrazia un mostro potentissimo. «Sa signor capo, a volte abbiamo solo bisogno di sentire di aver un potere sugli altri. Non dev’essere un potere eccessivo, ma un pochino, giusto per fargli abbassare un po’ la cresta». Era per questo che qualunque burocrate, funzionario, graduato, stellato, falcemartellato, con un sadismo tanto inutile, quanto deleterio rendeva ogni cosa un’avventura kafkiana (il Franz del Processo, con Hasek, si colloca nello stesso filone di Hrabal).

Hrabal sapeva esattamente quanti gradini bisogna scendere o salire per accedere a tutte le birrerie di Praga; come è bello sfrecciare in motocicletta e provocare incidenti; giocare a rugby e fare il tifo ai derby Sparta-Slavia; abbracciare le donne con seni grandi. Insomma raccontava la vita normale, che non può e non vuole essere redenta dal partito perché ci pensa da sola a redimersi con un boccale di birra o una bigliettaia con il rossetto sulle labbra. E soprattutto insegnava che il potere, qualunque esso sia, si scioglie di fronte all’assurdo come burro al sole. Prendete quel ragazzo che si chiamava Gangala.

«Quanto fa tre più tre?», gli ha chiesto un giorno il maestro. E Gangala ha risposto sette. Si è beccato un paio di sberle e di nuovo: «Quanto fa tre più tre?», e lui di nuovo sette. E tutta la classe ha dovuto fustigarlo a turno con la verga… e: «quanto fa tre più tre»? e sempre sette. Gangala sembrava così sicuro di sé che il maestro è andato di corsa nella sala professori a contare col pallottoliere. E ha continuato a chiudersi lì dentro per tutto l’anno e alla fine dubitava persino del pallottoliere. Ed è finita che Gangala e quella semplice addizione lo hanno fatto impazzire».

Hrabal se ne andò nel ’97 cadendo da una finestra del quinto piano. Secondo la versione ufficiale si era sporto troppo per cibare i piccioni, come un protagonista di qualche suo libro. E ne scrisse di meravigliosi, (Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare, Treni strettamente sorvegliati, Ho servito il re d’Inghilterra…). Leggetelo e rileggetelo. E capirete che nulla va preso sul serio. Perché su questa umana terra non è affatto vero che 3+3 non faccia sette. Né tantomeno che la scienza sappia come debellare un minuscolo virus.

QUI L’ARTICOLO:

Bohumil Hrabal
GRAND HOTEL – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

GRAND HOTEL – recensione di Antonello Saiz su Satisfiction

Da qualche settimana il mondo non è più quello che conoscevamo. Siamo stati costretti dall’emergenza a chiudere e a lasciare da parte tutte quelle attività che ci sembrava impossibile accantonare e anche lo svago e le uscite con gli amici si sono bruscamente interrotte. Una quotidianità mutata, e mentre un esercito di medici, infermieri e ricercatori stanno tentando senza sosta di arginare una tragedia, noi tutti, chiusi nelle nostre case, siamo alla ricerca spasmodica di un antidoto per spezzare la noia. L’emergenza straordinaria e questa quotidianità sospesa da settimane, inevitabilmente, ci porta ad avere emozioni insolite da gestire e da elaborare. Nel tempo, anche, della socialità fisica ridotta, la lettura può venirci in soccorso per allentare tensioni e trascorrere qualche manciata di minuti distesi, rilassanti. Lettura che si trasforma in una finestra che si apre sul mondo e proprio nel momento in cui noi siamo reclusi nelle nostre case. Un libro, adesso più che mai, può diventare una risorsa preziosa e la lettura una attività preziosa per comunicare con l’esterno. Ritornare a essere curiosi, attraverso la lettura. Già, perché la lettura può servire a incuriosirci e a sollecitare domande su questo strano presente che stiamo vivendo, proprio come accade a Fleischman, il protagonista acchiappanuvole di Grand Hotel. Romanzo sopra le nuvole.

Grand Hotel è il pluripremiato romanzo surreale di un ragazzo stritolato dalle difficoltà, un disadattato con una vita a ostacoli. Ma Fleischman sa, proprio come il buon acchiappanuvole di una canzone di Luigi Tenco, non solo comprendere le nuvole ma pure i misteri dei venti e delle stagioni. Romanzo pubblicato in Italia da Miraggi Edizioni con traduzione della giovane Yvonne Raymann, sesto titolo della Collana NováVlna curata da Alessandro De Vito. Il suo autore è Jaroslav Rudiš. Uno scrittore ceco originario di Turnov, classe 1972, del quale in Italia erano già stati pubblicati due libri precedentemente, quello di esordio, datato 2002, Il cielo sotto Berlino, e poi l’amaro e malinconico Helsinki, dove il punk si è fermato. Rudiš è un autore eclettico, musicista e apprezzato sceneggiatore di graphic novel. Da questo suo romanzo è stato tratto un film, Grandhotel di David Ondříček nel 2006, con la sceneggiatura dell’autore.

Si tratta di un racconto in prima persona con episodi personali, aneddoti e personaggi alquanto bizzarri. Siamo nei Sudeti, al confine tra Repubblica Ceca, Polonia e Germania, in cima al monte Ještěd, nella Boemia del nord, nel villaggio di Liberec, quella che era vecchia Reichenberg per i tedeschi. In questo triangolo di terra si staglia verso il cielo, a 1012 metri sul livello del mare, il Grand Hotel del titolo, un moderno e gigantesco albergo dalla costruzione futuristica rotonda e a forma di astronave (realmente esistente) che sovrasta la città. Qui dove finisce la terra e comincia il cielo vive e lavora, da molti anni, il trentenne Fleischman, portiere tuttofare dell’edificio. Il Grand Hotel è solitario e isolato proprio come la piccola città di confine e gli unici amici del protagonista sono gli eccentrici personaggi che popolano l’albergo. Rimasto orfano da ragazzino, avendo perso i genitori in un incidente, deve fare i conti con una vita che è un fallimento. Superstite, non è mai piaciuto a nessuno e non è riuscito in nulla. Non ha mai lasciato la sua città e neppure ha mai avuto una ragazza. Dal racconto che fa alla sua dottoressa, dovrebbe essere andata così, l’incidente e poi adottato da un vecchio cugino sin là sconosciuto. Adottato con poco amore e tanto calcolo, il solitario e frustrato Fleischman trascorre le sue giornate in compagnia di tutta una serie di strani rituali e quell’unica passione per la meteorologia. Accetta di vivere in quel posto solo per essere il più possibile vicino al cielo e poter osservare e comprendere le nuvole che corrono libere. Misurare la temperatura tre volte al giorno e aggiornare il suo grafico, calcolando gli effetti dei fronti caldi e freddi, le alte e le basse pressioni e le direzioni dei venti, e, poi, tornare a osservare quelle nuvole che corrono libere nel cielo. La sua vita è tutta in quei diagrammi che appende al muro e in cui annota il tempo atmosferico e lo scorrere del tempo. Fleischman, che non conosce nemmeno il nome proprio, in questo luogo magico, si rende conto che potrà trovare una via d’uscita dalla sua città e dalla sua stessa vita solo attraverso le nuvole. Con la testa tra le nuvole coltiva, infatti, il suo sogno segreto: trovare una ragazza da amare e avventurarsi oltre il confine e poter volare via da Liberec, abbandonando la sua misera esistenza. Si è cucito un pallone aerostatico per volare oltre le nuvole, ma quando è pronto ad andarsene irrompe la cameriera Ilja, che un giorno arriva come un’apparizione alla reception dell’hotel:

«La mia dottoressa dice che la vita delle persone sia come un mosaico. Dice che non la ricordiamo mai tutta intera. Che del passato vediamo sempre e solo dei frammenti. Dei bagliori. Dei lampi».

La dottoressa di Fleischman pensa che la vita delle persone sia come un puzzle, composta da tanti pezzi e da tante storie, e forse per questo che lui ha dimenticato certe storie, o le ha confuse. È un libro che merita di essere letto perché ci invita a osservare meglio le cose che abbiamo intorno e anche a rivolgere più sguardi al cielo, per imparare ad ascoltare noi stessi e le persone che ci vivono accanto, ma pure ad ascoltare i luoghi e il posto in cui viviamo e le persone che ci ha preceduto in quei luoghi. Un libro che ci aiuta a riflettere, in questo nostro presente sospeso, e a ricomporre pezzi di puzzle e mosaico che ci siamo persi nella fretta dell’altra vita. Un libro adatto, insomma, a tutti gli acchiappanuvole come me…

«…Non devi credere, no, vogliono far di te

Un uomo piccolo, una barca senza vela

Ma tu non credere, no, che appena s’alza il mare

Gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo

Ragazzo mio… un giorno i tuoi amici ti diranno

Che basterà trovare un grande amore

E poi voltar le spalle a tutto il mondo

No, no, non credere, no, non metterti a sognare

Lontane isole che non esistono

Non devi credere, ma se vuoi amare l’amore

Tu, …non gli chiedere quello che non può dare

Ragazzo mio, un giorno sentirai dir dalla gente

Che al mondo stanno bene solo quelli che passano la vita a non far niente

No, no, non credere no,

Non essere anche tu un acchiappanuvole che sogna di arrivare

Non devi credere, no, no, no non invidiare

Chi vive lottando invano col mondo di domani»

Luigi Tenco, Ragazzo mio

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE:

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Gaetano Moraca su Style del Corriere

LA PERLINA SUL FONDO – recensione di Gaetano Moraca su Style del Corriere

Tradotto finalmente in italiano grazie a Miraggi esce il libro d’esordio di Bohumil Hrabal, il maggiore scrittore ceco della seconda metà del Novecento. Vissuto facendo mille umili mestieri, ampiamente testimoniati nella sua opera, Hrabal pubblica La perlina sul fondo a 49 anni, nel 1963. Nello spettro dell’interesse dello scrittore rientrano le persone bastonate, quelle che appaiono sbruffone perché preferiscono nascondersi dietro un atteggiamento spavaldo piuttosto che mostrare i propri sentimenti, la gente che macina slang contribuendo alla formazione di una lingua nuova. Hrabal riesce a coglierne l’essenza, la perlina celata in ognuno di essi. In questa prima raccolta di racconti si trova tutta l’umanità dei bassifondi e dei margini che l’autore ceco investigherà nell’opera successiva.