Un libro che è autobiografia e che si legge come un romanzo. È “Volevo uccidere J.-L. Godard” di Jan Němec, che contiene trentuno racconti, pagine scritte dal 1970 al 1990, e che narrano la vita di questo importante cineasta cecoslovacco. Testimonianza della sua vita artistica, e della sua vita di ogni giorno divisa dal periodo vissuto nella terra dove è nato e l’America, dove ha dovuto andare nel 1974, visto che in Cecoslovacchia gli veniva impedito di lavorare. Perché Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e anche l’unico regista capace di filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, per poi varcare la frontiera con l’Austria, e far sì che all’indomani mattina la televisione austriaca mostrasse al mondo quelle immagini. E Němec era anche sicuro di prendere un premio all’edizione di Cannes del 1968, ma al festival scoppiò il maggio francese e registi come Godard e Truffaut proposero di interromperlo, e non ci fu nessuna premiazione…. E allora la lettura di “Volevo uccidere J.-L. Godard” è un’immersione completa nella vita di Jan Němec, lo si accompagna nei suoi sogni di gloria artistica e di pura sopravvivenza umana, si intrecciano e si respirano mondi opposti, la Cecoslovacchia sovietica e l’America capitalista, dove sopravvisse girando film di matrimoni, e inseguendo progetti cinematografici che non si realizzarono mai. Per poi tornare a Praga alla fine del 1989. Nemec è stato anche un autentico viveur, una anima irrequieta che amava le feste e le donne e che era sposato con una delle più grandi cantanti ceche dell’epoca, Marta Kubišová. Sono pagine rocambolesche, si vivono situazioni surreali e divertenti, si respira la passione e la rabbia, sempre però con uno sguardo che mette nudità al tempo narrato, alla società in qui ha vissuto. “Volevo uccidere J.-L. Godard” è lettura consigliata, e per la quale abbiamo intervistato Alessandro De Vito, che ha tradotto il libro in italiano, e che è anche uno dei fondatori di Miraggi, la casa editrice che lo ha pubblicato.
Dal libro:
“L’obiettivo della cinepresa può essere una piccola mitragliatrice, o cannone, e la verità, impressa sulla pellicola, può avere una forza, difensiva o offensiva, maggiore dei proiettili. Non a caso, qui da noi in America, usiamo la stessa parola per ‘sparare’ e ‘girare’: shoot!”
“Il cielo si chiuse. Nuvoloni neri si distesero su Praga. La cometa passò da qualche parte sopra di noi, ma nessuno poté scorgerla. Si era arrabbiata con noi, e vi aveva fatto sapere che non avrebbe scintillato, non si sarebbe accesa, dato che il nostro amico Jirka non c’era più.’”
“Lo scaltro Kgb aveva quindi scelto Lád’a K., e lui ci mandava dei segnali: anche in una società così disciplinata come uno stato comunista sotto la tutela sovietica, si poteva sempre trovare una breccia per essere individualisti, e perfino decadenti. perché il Filmexport cecoslovacco aveva bisogno di film da poter proporre in Occidente, prendere dei premi ai festival, e giustificare così l’esistenza dei suoi uffici all’estero, che erano solo un’altra forma di spionaggio rispetto a quella dei consolati o delle agenzie di viaggio bulgare, tramite le quali metti che si organizzi un attentato al papa.”
“Ah, comunisti e russi, divoratevi pure il cuore del continente, che mi avete rubato! Io non ci sono più.”
Intervista ad Alessandro De Vito:
(traduttore di “Volevo uccidere J.-L- Godard)
Quale la differenza fra lo Jan Němec ceco e quello ‘americano’? Ma anche tra il regista cinematografico e il narratore? La differenza, purtroppo per lui, è ed è stata enorme, tra gli anni in Cecoslovacchia e quelli dell’esilio negli Stati Uniti. Negli anni 60, in patria, durante la Primavera di Praga, seppure fosse un giovane regista, aveva dimostrato a più riprese un talento fuori dal comune, uno stile assolutamente personale, realizzando dei veri capolavori che meritano di restare nella storia del cinema, già il corto “I diamanti della notte” e soprattutto “La festa e gli invitati”, film visionario e filosofico, sottile e crudo nell’indagine della natura umana, già molto maturo. Němec è stato anche molto abile a insinuarsi – insieme ad altri giovani registi che hanno fatto parte di quella straordinaria Nouvelle Vague cecoslovacca (citiamo solo Forman, Menzel e Passer, venuto a mancare pochi giorni fa) – tra le maglie della censura e nel meccanismo di produzione cinematografica di Stato comunista, rivolgendolo a proprio vantaggio. Evidentemente l’invasione sovietica del 1968 ha interrotto tutto. Era inoltre un personaggio noto pubblicamente, dato che allora è stato anche sposato con la più nota cantante ceca dell’epoca, Marta Kubišová, che è come dire Mina in Italia negli anni 60.
Ma anche le similitudini…. Certamente Jan Němec era un carattere particolare, deciso, sarcastico, autoironico, con un’irruenza che è stata sinonimo di energia e forza, di ricerca indomita della libertà e dell’arte, ma anche un ostacolo. Un’incapacità al compromesso, ancor più in senso artistico che politico, che l’ha danneggiato maggiormente negli USA, dove per lavorare bisogna sottostare alle regole dello show business delle major cinematografiche. Non era il genere di persona capace di mandare giù dei rospi. Passando alla narrazione scritta e parlando di similitudine, è la parola migliore per descrivere quanto il suo modo di narrare con parole sia simile alla sua visione cinematografica.
Cosa porta del suo sguardo da regista in questo suo narrare? E come lo usa? Jan Němec è un regista anche mentre scrive. Non evoca, vede, sceglie il punto di vista, inquadra, monta le scene e fa vedere. Spesso nei suoi racconti, sempre basati su esperienze vissute, troviamo immagini, tagli, inquadrature, descrizioni che sembrano “scritte” con la macchina da presa più che con la penna, un andamento registico più che da scrittore. A volte questo provoca anche qualche salto nella narrazione, anche se bisogna tenere conto che i racconti sono stati scritti nell’arco di vent’anni, dal 1970 al 1990 circa, e a volte in situazioni personali precarie. Non è una scrittura pulita e levigata, ma assomiglia molto anche a lui: troppa energia per poterla contenere sulla pagina. Il che aggiunge interesse, spesso si ha l’impressione di essere davanti a lui che racconta, seduti davanti a un bicchiere di vino (non birra).
Nel libro, pur immergendosi in situazioni sempre intense, dove le persone si incontrano e si scontrano, dove c’è sempre l’accadere come punto focale del narrare, mi sembra di percepire un profondo senso di solitudine. Può essere così? Io credo che derivi dall’esperienza vissuta, il dover abbandonare il proprio amato paese, il fatto di non aver nemmeno potuto lottare contro lo stato delle cose. Negli anni da espatriato è stato certamente un uomo solo, si è dovuto arrangiare, non è riuscito mai a lavorare al suo livello. Per vivere ha trascorso anni a inseguire progetti poi non realizzati, mantenendosi realizzando film privati di matrimonio. Ma è soprattutto la personalità, fortissima ed egocentrica come capita negli artisti più grandi, che emerge con una forza che si impone. È allora la solitudine dell’artista, unita a un punto ideologico non trascurabile: l’esaltazione della libertà individuale, o dell’individualismo tout court, in un paese dominato da una società e da una retorica collettivista pervasiva, allora era un fatto politico. Lo stesso titolo originale del libro, che letteralmente sarebbe “Non dare la mano al cameriere”, che si riferisce a uno dei racconti, esplicita questo pensiero. In quel caso l’esaltazione di un comportamento che si può definire classista (un suo amico, artista anche lui, celebre perché “non dava la mano al vecchio cameriere”, non con fare sprezzante, ma per tenere una distanza. Con le sue parole: “Il nostro credo era questo, e penso lo sia ancora: vogliamo spassarcela un po’, andate a fare in culo, bolscevichi, voi e i vostri programmi, i piani quinquennali, i processi e le riabilitazioni. Raccontavamo queste cose alle ragazze, completando quel rapido giro panoramico della città. Ogni tanto bevevamo un bicchierino, facevamo un giro anche contromano e stavamo bene, perché sapevamo che nessuno ci avrebbe manganellato per un reato contro lo Stato”. Volevano essere dei giovani liberi, non diversamente dai loro coetanei occidentali.
Jan Němec è sicuramente un autore fuori dal coro. Quanto questo gli ha permesso di sviluppare una propria originalità, e quanto invece è stato un qualcosa di limitante, anche in prospettiva politica nella Cecoslovacchia sotto il controllo sovietico? Němec era certamente fuori dal coro, ma in realtà il “gruppo” dei registi della Nová Vlna… non era un gruppo. C’erano sostegno reciproco, collaborazioni, un background comune, in fondo venivano dalla stessa scuola di cinema, la Famu, e lavoravano tutti negli studi di Barrandov, la Cinecittà di Praga, ma ognuno portava avanti le sue idee, soprattutto dal punto di vista estetico. Ed erano lasciati liberi di farlo, Němec stesso afferma che si erano trovati in una condizione di libertà creativa difficilmente eguagliabile: (quasi) senza censura, e con tutti i mezzi produttivi a disposizione. Finito tutto questo con l’invasione, all’estero sono riusciti a sfondare in pochi, dovendo fare i conti anche col reperimento di risorse, con i produttori. Forman è il campione di questo successo in occidente.
Quale la caratteristica più evidente del suo scrivere, e cosa ha significato tradurlo? La lingua che usa Němec è piuttosto antiletteraria, quasi orale, gergale, estremamente viva. Pur non mancando di riferimenti “alti”. Non era uno scrittore, spesso i racconti li potremmo immaginare come dei soggetti per film da girare, un po’ più distesi. Raccontati di persona, in modo molto vivido, con una mescolanza di registri molto marcata, tra l’epico del patriottismo, della propria terra tradita e schiacciata dall’invasore, e un’aneddotica personale che ci fa sogghignare amaro o scoppiare a ridere (come nel racconto in cui ci rende noto che ci si può salvare da un infarto grazie allo sforzo muscolare per non farsela addosso: era in compagnia di una signora, diamine!). Questo ha portato una certa difficoltà di traduzione dovuta alla varietà del contenuto, ampiamente compensata dalla vita che fuoriesce prepotente tra le righe. È stato bello passere dei mesi con Jan Němec, che purtroppo ho incontrato una sola volta di persona, poco prima che morisse.
Il libro è scritto a più riprese dagli anni settanta ai novanta. Cosa tiene assieme questo ampio lasso di tempo? È un ventennio esteso, dato che nei primi racconti si parla degli anni 60. È un’epoca tutto sommato omogenea, il grande cambiamento avverrà alla fine dell’89, con la caduta del muro di Berlino e dei regimi comunisti. E il racconto si interrompe qui, con il rientro a Praga nel dicembre 89. Non a caso, credo. Appena ritornato, pur con difficoltà, Němec è tornato a fare il regista, in modo indipendente. Credo sia evidente che la scrittura fosse il surrogato della regia, nei lunghi anni in cui non ha potuto o non è riuscito a realizzare film. Poi ovviamente è un racconto autobiografico, l’autore è protagonista, e persino quando prevale il racconto di eventi storici importanti, come l’invasione di Praga o il famigerato Festival di Cannes del 1968, lui non va sullo sfondo. È lì, e non è un comprimario.
Anche l’immagine di copertina dà l’idea di un Jan Němec sempre in continuo movimento. È così? Credo non potesse stare fermo. Emanava luce e movimento quando l’ho conosciuto, due mesi prima di morire, malato su una carrozzina, possiamo immaginare durante tutta la sua vita. L’immagine di copertina richiama uno dei momenti topici del racconto: lui che si aggira per la Praga invasa dai carri armati sovietici con la sua auto sportiva e la macchina da presa, con un certo sprezzo del pericolo, il 21 agosto del 68. La sera stessa riuscì rocambolescamente (e naturalmente con l’aiuto di una bella donna, altra sua passione eterna) a portare i negativi a Vienna e a far quindi vedere al mondo – documento unico – che cosa stava succedendo davvero a Praga. Non il “fraterno aiuto” degli altri popoli socialisti, ma un’invasione militare. Quel materiale, montato con altro, è diventato il toccante documentario “Oratorio per Praga”.
Quale l’eco della sua fama di regista in Europa, in Italia, nel mondo? Němec è nella storia del cinema, nell’ambito dei festival (in Italia soprattutto Trieste) viene ancora ricordato e omaggiato, specialmente le sue opere degli anni 60. Ha conosciuto la maggiore notorietà internazionale sull’onda anche emotiva dell’invasione di Praga, grazie soprattutto alle immagini dell’invasione.
Il traduttore: Alessandro De Vito, classe 1971, lavora in campo editoriale da quasi vent’anni. È tra i fondatori di Miraggi Edizioni nel 2010, di cui ne è direttore editoriale ed editor. Per metà di origine ceca, da qualche anno è appassionato traduttore da quella lingua, ispiratore e responsabile, sempre per Miraggi, della collana di letteratura ceca NováVlna.
Il regista ed autore: Jan Němec, scomparso nel 2016, è stato sempre considerato l’“enfant terrible” del cinema cecoslovacco, l’irriverente, lo sfrontato, quello senza mezzi termini e mezze misure. Rispetto ai compatrioti Jirí Menzel e Milos Forman, entrambi Premi Oscar, ebbe meno successo, ma fu uno dei nomi di spicco della Nova Vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, e l’unico regista a filmare l’invasione di Praga da parte dei carri armati sovietici, il 21 agosto 1968, gesto che lo rese inviso al regime.
Dalla Moravia austro-ungarica alla giungla brasiliana, un romanzo racconta l’epopea di una famiglia
Forse nessuno, alla fine dell’Ottocento, avrebbe pensato che dai sobborghi di Zlín – un villaggio di tremila anime nella Bassa Moravia, alla periferia del decadente Impero Austro-Ungarico – sarebbe partita l’ascesa di una delle più influenti famiglie d’Europa e non solo. Eppure fu proprio lì che, raccogliendo l’eredità di otto generazioni di calzolai, i fratelli Tomáš, Jan Antonín e Anna Bata crearono una fabbrica di scarpe, primo passo di un marchio che divenne presto conosciuto in tutto il Paese: quello delle calzature Bata, che ancora oggi, oltre un secolo dopo la sua fondazione nel 1894, vestono i piedi di milioni di persone.
La storia della famiglia Bata viene ricostruita dalla scrittrice Markéta Pilátová con un libro polifonico che ha la forza di un documento storico pur conservando la grazia umoristica tipica della tradizione letteraria ceca. Alternando le voci di Jan Antonín, delle sue figlie e nipoti, e persino quella della fabbrica «personificata», il libro si colloca a metà strada tra memoriale – l’autrice ha «intervistato» le discendenti Bata per molti anni – e romanzo.
Il risultato è Con Bata nella giungla (Miraggi edizioni). Titolo singolare: cosa ci fanno i grandi calzaturieri moravi nella foresta pluviale? Dopo aver impiantato la prima fabbrica a Zlín ed essere passata indenne attraverso la Grande guerra (durante la quale Bata fornisce le scarpe all’esercito austro-ungarico) e la disgregazione dell’Impero, la famiglia si trova a fare i conti con il nazismo. Tomáš è morto in un incidente aereo nel 1932, e la decisione viene presa da Jan Antonín: aiutare tanti ebrei cechi a fuggire dal Paese, con la scusa di assunzioni e incarichi all’estero. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale gli «operai» salvati saranno centinaia. Ma l’Europa non è più il posto dove vivere. Bata si stabilisce in Brasile, nello Stato di San Paolo, dove progetta di fondare una città, costruire ponti giganteschi nel sogno megalomane di «essere un po’ Carlo IV», e di espandersi nel mondo. Nonostante le infondate accuse di collaborazinismo da parte del governo comunista cecoslovacco, che nazionalizza le fabbriche locali, l’impresa riesce. “Batatuba” diventa il quartier generale da cui si dirama una rete commerciale all’insegna di un capitalismo sui generis: misto di innovazione tecnologica, salari altissimi e servizi per i propri lavoratori (Bata aveva aperto una scuola femminile in Moravia già negli anni Venti) con un codice etico a cui attenersi. Era il «sistema Bata», al contempo paternalistico e moderno.
Il romanzo restituisce la malinconia del patriarca in esilio, giocando con il filo sottile della lingua madre che lega la famiglia alle proprie origini. E se è vero che alcuni anni fa proprio Pilátová è stata chiamata ad insegnare il ceco ai dipendenti Bata che vivono ormai da generazioni in Brasile, allora questo stesso libro è la testimonianza che quel filo non si è ancora spezzato.
GRAND HOTEL DI JAROSLAV RUDIŠ: LE NUVOLE DEL DISINCANTO
Nel mio mai deludente tour della micro-piccola-medio editoria italiana ho avuto l’onore di conoscere Miraggi Edizioni, una realtà professionale di livello e che offre ai suoi lettori una cura certosina dei testi pubblicati (dal contenuto alla resa estetica).
Per tale ragione ho voluto leggere Grand Hotel. Romanzo sopra le nuvole dello scrittore ceco Jaroslav Rudiš che mi ha immediatamente conquistato con la sua prosa giocosa e magica in netto contrasto con una storia tanto bella quanto struggente, disincantata. Il testo fa parte della collana «NováVlna» di letteratura ceca e prende il nome dalla “Nouvelle Vague” cinematografica ceca tanto in voga negli anni della Primavera di Praga. Come ci fa intendere l’editore è doveroso (ri)scoprire questa nicchia letteraria perché è stata protagonista di grandi eventi storici e piccole leggende interiori; il romanzo ceco con le sue sfumature surreali, grottesche e a volte magiche è uno strumento irrinunciabile per sondare le profondità dell’essere umano.
L’autore è già stato pubblicato in Italia almeno altre due volte, ma il titolo a cui deve certamente la fama è Il cielo sotto Berlino, un vero classico moderno della letteratura europea e non solo di quella ceco-tedesca. Jaroslav Rudiš inoltre è un’arista completo, si dedica alla realizzazione di fumetti, a performance radiofoniche e musicali con il suo gruppo Kafka Band, ed è autore di sceneggiature teatrali e cinematografiche. Laureatosi per divenire insegnante di tedesco e storia, scrive le sue opere sia con l’idioma della madre patria (nacque a Turnov, in Repubblica Ceca, nel 1972) che con quello tedesco. I suoi studi lo hanno portato anche a Liberec, città dove è ambientato Grand Hotel, località famosa per il monte Ještěd e per l’omonima gigantesca torre di telecomunicazioni che sfida l’immensità del cielo.
Il cielo e le sue nuvole sono i protagonisti di questo originalissimo romanzo, così importanti da “oscurare”, a volte, l’attore principale delle vicende, il bizzarro Fleischman. Costui è un giovane uomo, un disadattato, un outsider, il classico “inetto” alla Musil de L’uomo senza qualità, tanto per rimanere in area mitteleuropea.
La sua esistenza è un perpetuo fallimento, con le donne, gli amici, la sua psichiatra e la sua famiglia; famiglia che non c’è più perché ha perso entrambi i genitori durante un incidente automobilistico, o almeno è quello che racconta alla sua dottoressa. Ha sempre la testa tra le nuvole, uniche particelle lattiginose della sua fragile realtà in grado di trasmettergli serenità, pace e completezza.
Fleischman si sente complementare al disegno del cielo, si allinea con gli schemi che tiene incollati sulle pareti del Grand Hotel di suo nonno, che raccontano il romanzo dei fronti temporaleschi, la poesia dei fulmini e il verseggiare del rombo del tuono. Se a volte, leggendo i suoi ragionamenti, la sua involontaria ironia (e qui l’autore è geniale) penserete allo spettro autistico lo farete a ragione, e nel suo guazzabuglio interiore e nel nitore del cielo Fleischman è la persona più limpida dell’intero carosello di personaggi.
Per questa ragione il romanzo ti conquista tempestivamente, il campo semantico atmosferico-meteorologico è sublime, le figure retoriche saldate sui movimenti del cielo e delle nuvolaglie ti invogliano a diventare un frammento di volta celeste, per rimanere a volteggiare sulle cuspidi del Grand Hotel. A volte ho desiderato essere una crisalide di neve e vento soltanto per posarmi sul volto di Fleischman e ricordargli che non sarà mai solo.
Se il romanzo segue le vicende interiori del nostro stravagante meteorologo da strapazzo, tra innamoramenti, amicizie bizzarre e tentativi di “evadere” da Liberec attraverso le nuvole con una mongolfiera, si rimane comunque stupefatti dal sub-testo storico che Jaroslav Rudiš riesce a tratteggiare.
Seppur ambientato agli inizi del 2000, il romanzo e i suoi personaggi sono gli eredi della Seconda guerra mondiale e della Primavera di Praga del 1968, così gli “attori secondari” del testo sono contornati da un’aurea diversa, ancorata a un passato sofferto e difficile, così radicale da confondere ancora le loro vite.
Segreti, innocenti bugie, nuvole nere e gocce di nostalgia, la Repubblica Ceca delle nuvole di Fleischman sembra un posto magico, utile a quei sognatori che agognano un posto lontano dalla rigida realtà. Invece è la patria del disincanto, la fine dell’illusione e la resa dei conti con la Storia (S maiuscola, signori), il dramma esistenziale di ogni sfortunato di quella terra. Ma la vera magia è scoprire che il disincanto del cielo e delle nuvole è una storia bellissima e ci insegna ad essere noi stessi senza rimanere intrappolati nei nostri sogni. Basta ascoltare il canto della rugiada.
Il signor Kopfrkingl vive a Praga. È un uomo affabile e gentile, conscio delle proprie virtù e attento al prossimo.
“Non fumo. Non bevo nemmeno, sono astemio. Ma se pensa che un bicchiere di qualcosa possa aiutarla per cominciare, beva pure tranquillamente, signor Dvořák. Noi astemi dobbiamo essere ragionevoli e comprensivi”
Il signor Kopfrkingl è un marito innamorato e premuroso di una moglie adorabile e un padre amorevole e attento di due ragazzi meravigliosi.
“L’articolo sul giornale di oggi, di quel padre che ha abbandonato la moglie e i figli per non doverli mantenere, è una cosa terribile”
Il signor Kopfrkingl è un uomo di cultura: ama i quadri e li seleziona con cura, conosce bene la musica classica e ha una bella biblioteca che impreziosisce il suo salotto.
“Prese dalla libreria la legge sulla cremazione e la sfogliò per un po’, poi prese forse ormai per la centesima volta il libro sul Tibet… il delizioso, affascinante libro sul Tibet, sui monasteri tibetani, sul Dalai Lama e le sue reincarnazioni”
Il signor Kopfrkingl è un cittadino modello, innamorato del suo paese e con lavoro onesto che svolge con grande serietà e coinvolgimento.
“Non si spaventi della tabella, signor Dvořák, è una sorta di nostro orario, un orario di viaggio della morte. In fondo è davvero il più sublime orario di viaggio che esista al mondo”
Il signor Kopfrkingl è un ospite gioviale: ha una vita piena e soddisfacente, una bella casa e amici brillanti con cui discute di politica, di arte e qualche volta di sport.
“Allora, bambini, mangiate, invitò di nuovo tutti gentilmente, abbiamo una festa di famiglia e sta restando tutto lì. Celeste mia…”
Eppure, c’è qualcosa che non funziona.
Sarà quel suo modo di parlare, ripetitivo fino allo stordimento e così esageratamente mellifluo? Anche quella morbosa attenzione per gli articoli di cronaca e quella premura eccessiva che trapela ogni volta che si parla di persone in difficoltà, finiscono per stridere con l’immagine di un uomo così probo e generoso. Quei quadri poi, descritti minuziosamente e mostrati con orgoglio a tutti, sembrano più delle croste che dei capolavori veri e propri. Della sua ricca biblioteca, gli unici libri che consulta sono un volume con la legge sulla cremazione e uno sul Tibet e il Dalai Lama. E ancora, quell’ossessione per il lavoro, per la morte, per le tabelle orarie dei forni crematori, per il corpo dei defunti. Il signor Kopfrkingl mostra ben presto di portare assai male tutte quelle presunte virtù che cerca continuamente di ostentare. E il suo mondo finisce per risultare, nel volgere delle pagine, un microcosmo stucchevole e miserabile, scandito da monologhi autoreferenziali e spesso deliranti e repentini cambi di idee.
E poi, a dire il vero, il signor Kopfrkingl fa paura.
Basterebbe quel nome quasi impronunciabile e ripetuto all’infinito all’interno del libro, per capire subito che il signor Kopfrkingl è il peggior protagonista che un lettore possa mai augurarsi di incontrare. Non c’è empatia possibile con lui. Anche il lettore più benevolo finirà per provare repulsione per quest’uomo dai modi affettati e dalla personalità così ambigua. Perché dietro a un perbenismo dissonante e alle sue piccole e grandi manie, si nasconde in realtà un’anima nera e vacua.
Il Bruciacadaveri è un viaggio all’inferno senza ritorno. Ladislav Fuks accompagna il lettore lungo la parabola discendente di un personaggio tratteggiato con grande maestria, proprio mentre dense nubi si addensano sul cielo di Praga, funesto presagio degli orrori che di lì a poco deflagreranno con l’invasione tedesca del ’38. Non c’è redenzione, non c’è umanità. C’è soltanto la ripetizione ipnotica e ridondante di frasi, incontri e situazioni che conducono a un finale inaspettato e per certi versi atteso. Un classico moderno che Miraggi Edizioni ha riportato alla luce con grande merito; un testo che mai come oggi si rivela attuale e motivo di riflessione in momento molto delicato come quello che stiamo vivendo, in cui si avverte tangibile il rischio di ripetere errori e orrori di un passato non troppo lontano.
Prima di iniziare a leggere Il lago di Bianca Bellová, è utile soffermarsi sulle considerazioni della traduttrice Laura Angeloni, riportate sui risvolti di copertina. Sono parole vibranti, cariche di emozione, capaci di preannunciare gli stessi stati d’animo che vivrà il lettore non appena si addentrerà nelle vicissitudini di Nami, il protagonista del romanzo.
Se Angeloni ricorda i «giorni in cui vai avanti a tradurre fino a notte fonda, perché […] non puoi addormentarti prima di averlo portato in salvo, almeno per ora, almeno per un po’», il lettore si troverà in una situazione del tutto simile. La drammatica progressione di avversità che si abbattono su Nami crea un coinvolgimento emotivo talmente forte da rendere impossibile l’idea di allontanarsene. Non si può far altro che proseguire la lettura, nella speranza che riesca finalmente ad assaporare una felicità piena e inviolabile, o la sicurezza di un legame affettivo duraturo. «Quel bambino, poi adolescente, poi ragazzo, ti viene da prenderlo per mano e non lasciarlo più».
La prima volta che lo si incontra, Nami ha tre anni. È stato portato alla spiaggia del lago che lambisce Boros, il villaggio dove vive insieme ai nonni. Non si tratta di un giorno qualunque: è l’unica volta in cui è presente anche sua madre. Di lei conserva soltanto il nebuloso ricordo dei tre triangoli rossi del bikini, il potere calmante del suo canto e la dolcezza con cui lo ha assistito durante un attacco di vomito conseguente al bagno fatto nel lago.
La tossicità di quelle acque diventa presto evidente. La pelle degli abitanti di Boros viene marchiata con eczemi cronici e cominciano a nascere bambini deformi. I segni di un massiccio inquinamento ambientale permeano l’intera narrazione, con riferimenti puntuali e ricorrenti al disastro dell’Aral; tuttavia, a questi dati di realtà si affianca una dimensione animistica altrettanto pervasiva. Lo Spirito che dimora sul fondo del lago è arrabbiato e sta punendo il villaggio per una colpa che sembra riguardare anche Nami.
Il lago prende la vita di suo nonno durante una tempesta e, in un secondo momento, anche l’esistenza della nonna giunge a termine tra le sue acque. Da questo episodio straziante, in cui si mescolano riti sciamanici e metodi da regime totalitario – si può avvertire l’eco de La fattoria degli animali di George Orwell –, prende avvio il percorso di formazione di Nami, che passa attraverso prove sempre più terribili.
Il presidente del kolchoz si insedia in casa sua, trattandolo alla stregua di un servo. Quando le circostanze peggiorano a tal punto da privarlo di ogni dignità e affetto rimastogli, Nami decide di andarsene da Boros e raggiungere la capitale.
In città, le sue giornate sono scandite dagli insalubri lavori di fatica in cui viene impiegato, mentre nei momenti liberi gira per le strade e i locali pubblici con l’irrealistica speranza di imbattersi in sua madre. Sull’asfalto fresco che deve stendere attorno alla fabbrica di zolfo Nami «disegna di nascosto il suo dolore; le grandi mani della nonna, la curva di un corpo femminile, le galline nel pollaio puzzolente, i tre triangoli».
Non appena lo sfiora un po’ di umanità e tenerezza, arriva una nuova batosta. La Vecchia Vergine inghiotte tutto, lettore incluso. L’impatto della scena è devastante e viene ulteriormente rafforzato dallo stile letterario di Bellová. La sua scrittura scarna, cruda, priva di qualsiasi raffinatezza o eufemismo arriva diretta e lancinante come una coltellata, accordandosi alla perfezione all’andamento narrativo. A questo punto del romanzo, il timore che Nami non sia destinato a trovare pace comincia a profilarsi in modo netto, raggelante.
Quando entra a servizio del losco e facoltoso Johnny, la violenza delle vicende in cui viene coinvolto è talmente estrema da caricarsi di contorni surreali e raggiunge l’apice in quella corsa disperata, zigzagante fino al dorso della collina, dove rotola in cerca di riparo. Bellová, con una maestria letteraria indiscutibile, aveva già mostrato un episodio analogo, quando Nami era ancora a Boros, ma la sua valenza è ora del tutto diversa. Non si tratta più della fuga di un ragazzino impotente e sconfitto dagli eventi; la crescita interiore di Nami è in atto, ormai sta imparando a reagire ai soprusi e a difendersi.
La sua ribellione segna una svolta quasi fiabesca; viene infatti accolto dalla Vecchia dama che, come una fata madrina in piena regola, conosce tutto di lui e lo guida verso una nuova tappa del suo viaggio.
Nello svelamento finale, Bellová riconferma il suo talento: una prefigurazione di quanto sarebbe accaduto era già stata messa davanti agli occhi di Nami, quand’era ancora quel ragazzino di Boros che adesso non esiste più.
La sensazione è che non sia possibile conoscere quale sia davvero la verità. O, forse, una versione non esclude l’altra. Al lettore la scelta. Una cosa è certa: lo Spirito del lago è arrabbiato, e a ragione. Tuttavia, qualcosa può essere ancora recuperato e chissà se non spetterà proprio a Nami un intervento risolutivo.
Chiara Meistro
Miraggi edizioni sta portando avanti un programma editoriale di pubblicazione e ripubblicazione di autori della Repubblica Ceca, grazie all’interesse e alla cura di Alessandro De Vito.
IL BRUCIACADAVERI, STORIA DI UN NAZISTA PICCOLO PICCOLO
Siamo in uno zoo, a Praga, nel 1938. Un po’ di pazienza, e percepiremo le auguste parole di Kopfrkingl, pronunciate nel dialogo tra lui e Lakmé, sua graziosa consorte, un dialogo che tende a farsi subito monologo. Kopfrkingl, ossequioso, affettato, ampollosamente garbato, ricorda alla bella moglie dai capelli neri le circostanze del loro primo incontro, davanti alla gabbia del leopardo. «Mi sa proprio, Lakmé, che qui in questi diciassette anni non è cambiato niente». Un dettaglio curioso non può sfuggirci e non sfugge nemmeno a Kopfrkingl. Il serpente è là, nel padiglione delle belve feroci, attorcigliato a un albero, proprio come allora. Nulla è cambiato. È mai possibile? Osserviamo il signor Kopfrkingl prodigarsi in frasi leziose e sdolcinate e in promesse di un futuro migliore lastricato di piccole, graduali conquiste.
Ilbruciacadaveri, tradotto da Alessandro De Vito per Miraggi Edizioni,è un romanzo di Ladislav Fuks (1923-1994), tra i maggiori scrittori cechi del secolo scorso. La prima pubblicazione in patria risale al 1967, poco prima di quella rivoluzione sognata, tradita, quindi soffocata nel sangue dai carri armati sovietici. Una rivolta di popolo e di intellettuali insieme, cui, peraltro, Fuks assiste con ambigua indifferenza. Autore defilato dal contesto politico, Fuks si rifugia in silenzi e reticenze riguardo all’occupazione militare-ideologica del suo Paese, tanto da firmare l’Anticharta, in polemica con chi, attraverso il celebre manifesto Charta77, dissente dall’opprimente realismo socialista. In questo, il Fuks cittadino avrebbe potuto essere un personaggio del Fuks scrittore.
Al netto della scomoda biografia, Ilbruciacadaveri è un capolavoro del Novecento. L’ottima postfazione di Alessandro Catalano reca, a mo’ di sottotitolo, un commento bruciante che è già un giudizio sull’indirizzo e le intenzioni dell’opera: metafora della patologia collettiva del nazismo. Fuks adotta un punto di vista in partenza autonomo, slegato e indipendente dalle riflessioni monologheggianti di Kopfrkingl. Tuttavia, il flusso di coscienza e di parole del protagonista assorbe via via ogni altra voce e angolatura prospettica, in un crescendo di tensione degno di un thriller à la Michael Haneke. Un processo maestoso e perverso, di totale dissoluzione della realtà nel delirio psicotico di una mente pericolosa.
Kopfrkingl è impiegato al crematorio. È un maestro di cerimonie, fedele ai gesti della professione, meccanici e precisi. È diligente e compie il dovuto senza sbavature. A casa, vicino alla finestra, ha appeso ad un cordino nero una tabella, copia di un’altra tabella esposta alle anemiche pareti del luogo di lavoro. Suddivisi in dieci turni, mattutini e pomeridiani, vi sono indicati, con chiarezza inappellabile, i turni della cremazione. Avviciniamoci a lui mentre parla a un operaio fresco di assunzione: «Non si spaventi della tabella, signor Dvořák, è una sorta di nostro orario, un orario di viaggio della morte. In fondo è davvero il più sublime orario di viaggio che esista al mondo». Molti personaggi de Il bruciacadaveri hanno nomi di compositori, altri di animali. I nomi non significano nulla. I nomi significano tutto.
Velocità, decoro, adesione incondizionata alla tecnica, efficienza nel servizio, restituzione al prossimo di ciò che gli spetta dalla nascita, ovvero la serenità, o meglio ancora il sollievo da ogni sorta di sofferenza: questi sono gli imperativi etici, deontologici, forse religiosi, di Kopfrkingl. Il culmine è il riscatto ‘estatico’ dall’arbitrio capriccioso della Volontà, la quiete totale. «La temperatura deve essere superiore ai 950gradi. La manteniamo sui 1000 gradi, la si controlla bene. Il massimo ammissibile è di1020 gradi. Se si superasse questo limite le ossa si tramuterebbero in una materia vetrosa nerastra, e addio cenere. Sarebbe una grande disdetta, signor Dvořák, dato che lo scopo di tutto questo meccanismo è che l’uomo si tramuti in cenere». Meccanismo-funzione-meccanismo-funzione. L’uomo perfettamente realizzato, per Kopfrkingl, è l’uomo annichilito. Ogni piega della realtà, palpito, desiderio o ambizione aspira ad un nulla che il bruciacadaveri assiste e propizia.
È una lezione drammatica e attuale. Gli idioti, è noto, disertano, con esplicito diletto, le cime della cultura. Chiusi in una irrimediabile piccineria, invidiano il genio altrui. Meschini, si nutrono di frustrazioni, di lamentele, di dettagli malevoli, di idiozie domestiche, di pregiudizi agitati per difendersi dal mondo “grande e terribile”. Cova, nei mediocri, il desiderio di incatenare il prossimo ad una normalità livellatrice. Il pensiero non si eleva oltre l’asticella della moderazione politica ed estetica, riassunta in “perbenismo”. Questa è, in estrema sintesi, l’analisi genetica di ogni insorgente fascismo. Kopfrkingl è destinato a vestire i panni di feroce nazista ‘piccolo piccolo’.
Osserviamo Kopfrkingl impegnato, in un pranzo di affari, con il signor Strauss. «Che ne direbbe di proporre a quelle care persone, oltre ai prodotti della sua ditta di dolci, anche qualcos’altro? Non si tratterebbe di merce, ma di loro stesse, di quelle garbate, amabili, brave persone… ma non abbia paura… nessuna assicurazione, nessuna polizza, qualcosa di completamente diverso. Dovrebbe, quando propone loro i suoi dolci, mettere di nuovo la mano nella borsa ed estrarne il modulo d’iscrizione per la cremazione. Cinque corone di provvigione per ogni sottoscrizione». Il ristorante si chiama ‘Al cofanetto d’argento’, ma Kopfrkingl lo ribattezza, per tutti, ‘Al pitone’. «Se lo si chiama Al pitone, è subito chiaro. E tutti sanno già prima che cosa aspettarsi da un pitone, lo dice il nome stesso, per quanto sia un pitone addomesticato e addestrato. Ho letto non da molto sul giornale di un pitone ammaestrato, capace di contare, divideva per tre. Ma un cofanetto d’argento, quello è un mistero». I nomi non significano nulla. I nomi significano tutto.
I misteri non sono inquadrabili nel perimetro di una soluzione. I misteri sono oltre l’orizzonte del pensiero del bruciacadaveri. Lakmé, la bella moglie, all’anagrafe è Maria. Lakmé è la tragica protagonista di un’opera di Léo Delibes. Kopfrkingl, che ascolta alla radio le arie di Verdi e di Donizetti, adotta atomi di erudizione, elevandoli ad ancore di salvezza, a verità ultime e definitive. Kopfrkingl, prototipo antropologico del piccolo borghese, abolisce ogni dissonanza, intollerabile per la ristretta portata della sua mente, tra nome e cosa. I nomi significano tutto. I nomi non significano nulla. Il crematorio diventa il ‘Tempio della Morte’. Il presidente del Nicaragua, ritratto in un quadro acquistato presso un rigattiere, diviene, nella sua fantasia alterata, un ministro delle pensioni francese, Louis Marin… Presto, l’intero suo linguaggio, muta. Kopfrkingl è mistificante e mistificato. Subentrano rapidamente termini e riferimenti di una lingua nuova, il tedesco. Siamo all’alba della seconda guerra mondiale e i nazisti sono pronti a marciare sui Sudeti.
Kopfrkingl ha due figli, Zina e Mili, di sedici e quattordici anni. È un padre-segugio, un padre sensibile alle sofferenze altrui. Accompagniamolo ora nel panopticum, una sorta di museo delle cere a tema, dove sono rappresentate le vicende della morte nera che sconvolse Praga nel 1680. «Nel medioevo seppellivano i morti nelle fosse pubbliche, intendevano le fosse comuni, e li cospargevano di calce per non far diffondere il contagio. Quanto sarebbe stato più saggio se li avessero bruciati. Il contagio sarebbe stato evitato e i corpi straziati si sarebbero tramutati in cenere molto prima… Come sono felice, cara, di potervi offrire almeno un’abitazione migliore di quelle che avevano allora, almeno l’ingresso, il soggiorno con il pianoforte, la sala da pranzo con la radio, il bagno se non altro, ecco, forse anche il resto ora cambierà un pochino con quel buon signor Strauss. Con un pretesto gli darò la metà della provvigione». Ah, la morte, che business, che liberazione…
Un padre, Kopfrkingl, che desidera dare di più. Le sue parole smascherano un sentimento di inadeguatezza nei confronti della moglie dai capelli neri. Qualcuno ha già l’automobile, come il pregevole dottor Rubinstein del piano di sopra, e loro, al piano di sotto, no. Kopfrkingl si reca dal medico per farsi visitare, con sospetta frequenza. È timoroso di un contagio. L’impiegatuccio ostenta, nelle pubbliche conversazioni, la sua refrattarietà al vizio. «Sono astemio, non bevo, non fumo, e se dovessi far del male a mia moglie in questo modo, mi sparerei». (In questo modo…) E allora, cosa teme il bruciacadaveri, che tutto riduce in cenere? Cosa pensa delle donne? Cela forse una segreta inclinazione per l’adulterio? Perché costringe un’inserviente del ‘Tempio’ a rassegnare le dimissioni? Chi è, per lui, Maličká di U Malvaze, definita una prostituta delle peggiori? E i suoi commenti sulle belle ragazze venute a mancare per qualche orrenda disgrazia, che giustificazione hanno? Perché Kopfrkingl sembra già conoscerle?
Intanto, il mondo è assediato da ombre cupe. Un orrore crescente invade le strade, nelle forme di un fascino discreto: una seduzione mortale. Strauss e Rubinstein sono ebrei. Brave persone, è il giudizio di Kopfrkingl. Ebrei… E intorno la debolezza sociale dilaga. Fenek, accucciato in guardiola, è morfinomane. Il signor Prachař, del terzo piano, eccede con la bottiglia. Povera moglie, povero figlio di Prachař, dice spesso a sé e agli altri, il nostro buon Kopfrkingl. Sarà mai possibile sanare tali incresciose situazioni? Kopfrkingl, guarda tuo figlio. Mili è uso vagabondare per i campi ove si intrattiene… non sappiamo con chi. Questo figlio che secondo alcuni è effeminato, diverrà mai un uomo? Vi sono però, in compenso, personalità forti, e vicine, tanto che non te lo aspetti.
Willi, amico di vecchia data, si è iscritto al Partito tedesco dei Sudeti. Willi sa che i tedeschi si devono rialzare. Com’è sicuro nei suoi discorsi e quanti viaggi con destinazione Berlino può fare! E chissà che bella vita conduce nel Casino tedesco, quanto lusso, e forse, lussuria si sprigiona tra quelle mura… Willi, figura inseparabile dal suo emblematico cappello tirolese, intraprende una brillante carriera politica filohitleriana, e poi, ad occupazione avvenuta, si associa organicamente al Nazismo. Willi si insinua dialetticamente nella vita del bruciacadaveri, inducendo in lui una metamorfosi che, a ben vedere, era già presente in potenza. La prima missione per Kopfrkingl è simile a un rito di iniziazione: spionaggio presso la sinagoga, travestito da pezzente…
Un anziano ometto grasso col colletto bianco inamidato e il farfallino rosso. Una donna con un cappello con la piuma e al collo una collana di corallo. Un uomo, accanto a quest’ultima, basso e grasso, che tiene tra le gambe un bastone. Una giovane ragazza dalle guance rosse col vestito nero. Kopfrkingl incontra sempre le stesse persone, in contesti differenti. Connotate sempre dal medesimo abbigliamento. Caricature. Modelli. Spettri? Forse sono le uniche persone, nella moltitudine, sulle quali riesce ad ancorare l’attenzione, alla spasmodica ricerca di punti di riferimento nella complessità del reale. Non è forse connaturato ad una certa condotta esistenziale miserrima, da plebei del pensiero, il bisogno di ricorrere alle semplificazioni estreme? In un parossimo da autentico feticista, Kopfrkingl apparecchia la casa con corbellerie da rigattiere e ammenicoli insulsi, colleziona croste e memorabilia di scarso valore, esaltandone il risvolto pedagogico. Nel kitsch avvertiamo la ricerca del decoro, l’aura farlocca degli oggetti senz’anima, il culto della piccola borghesia di ogni tempo e luogo per la bruttezza elevata a standard.
La biblioteca personale di Kopfrkingl è ricca, eppure ricorda le librerie artefatte, finte, in cartongesso. Due soli, d’altronde, sono i volumi che gli sono cari, sfogliati con assiduità maniacale, «il delizioso, affascinante libro sul Tibet, sui monasteri tibetani, sul Dalai Lama e le sue reincarnazioni», e la legge sulla cremazione del 7 dicembre 1921 (e del decreto esecutivo del 9 ottobre 1923…). Entrambi, fatti rilegare con cura. L’idea della trascendenza perseguita il bruciacadaveri. Depurare, espellere, sollevare, alleviare, disintegrare: è un nirvana privato che desertifica la pluralità del vivente. Non si può ardere senza metodo! E nessuno è metodico come l’impiegato modello del ‘Tempio’. Willi, cultore della lingua tedesca, penetra senza sforzi tra gli abissi di un cervello già corrotto dall’ebetudine del conformismo. Nel linguaggio declassato a slogan matura, appunto, il tracollo di Kopfrkingl.
«Affermi che tutti siamo sorti dalla stessa polvere e in quella ritorneremo, che tra le ceneri umane non vi sono differenze, di questo sei un esperto… E dovresti diventare direttore. Il senso della tua vita sta forse nel regolare in eterno il cammino delle bare nel forno crematorio e nel misurare la temperatura? A noi quindi non interessa l’origine, bensì il risultato. E il risultato è che gli ebrei sono contro il Führer, contro di noi, contro il Grande Reich Tedesco. Ostacolano la nostra felicità, minacciano l’ordine europeo del Führer, la nostra missione, il fatto che noi tutti siamo degli eletti, compreso te». Il bruciacadaveri pone la pace e la giustizia in cima ai valori da sostenere e perseguire. E ora, l’umanità intera reclama di essere purgata, pulita, messa al riparo da debolezze e fragilità, mondata da zecche e parassiti. Everything in its right place…
Nemici interni, nemici subdoli che dall’interno scarnificano i corpi e le coscienze. La moglie è per metà ebrea. Il figlio, un sanguemisto di secondo grado. Eh si, proprio Mili, incapace di reggere lo sguardo davanti a un incontro di boxe, e poi, per giunta, quasi una rivalsa beffarda!, scoperto nel suo essere troppo amico di un pugile a sua volta troppo ostile al popolo tedesco. Tutto il romanzo è un susseguirsi di miniature dense di allegorie, di messaggi cifrati, di rimandi metaforici, di “criptomutazioni” e richiami “metamorfici”, di geroglifici affioranti sulla superficie di una psiche stravolta, di presagi minacciosi che attendono di sbocciare in verità oscena. Il concetto si determina nella concretezza delle azioni, e il nazismo si esprime in ciò che essenzialmente è: un crimine aberrante. Le parole… le parole innescano una escalation di violenza banale e inenarrabile. Le parole… «A Sparta», sibila il serpente Willi, «signori e signore uccidevano i bambini malati. Ad alcune persone sensibili potrebbe sembrare crudele. Ma in realtà era un beneficio per gli stessi bambini, come avrebbero sofferto nella vita… e poi era salutare per il popolo. Ha contribuito molto a rendere migliore Sparta e a condurla al suo posto nella storia…». In fondo, non è per la SALUTE dei migranti, se qualcuno, oggi, consiglia di non farli partire dalle coste libiche?
I nomi non significano nulla. I nomi significano tutto.
Ladislav Fuks Il bruciacadaveri traduzione dal ceco di Alessandro De Vito
postfazione di Alessandro Catalano
Miraggi edizioni, Torino 2018
Ed. orig. 1967
pp. 219, euro 18.00
Il signor Kopfrkingl è un borghese apparentemente soddisfatto di sé, della sua famiglia e della condizione sociale in cui si trova a vivere. Nulla lo rende più felice della moglie Marie, ribattezzata Lakmé, la sua “celeste”, dei figli Zina e Mili, della sua casa sovraccarica di ogni comfort e di oggetti di pregio. Ha un buon lavoro al crematorio cittadino, una legge molto avanzata permette la cremazione nel suo paese, e il mestiere di “bruciacadaveri”non solo gode di buona reputazione, ma ha anche un’aura di missione etica. Kopfrkingl crede nella reincarnazione, è assiduo lettore di un prezioso quanto misterioso libro sul Tibet e sul Dalai Lama ed è convinto che la riduzione in cenere dei cadaveri acceleri pietisticamente la trasmigrazione delle anime. Non soddisfatto delle sue entrate, coinvolge il signor Strauss, forse ebreo, sicuramente molto sfortunato, in un’attività parallela di diffusione e promozione della cremazione.
Il signor Kopfrkingl ha, però, una debolezza insanabile: teme di non fare abbastanza per la propria famiglia, che manipola come un amorevole burattinaio. È sempre lui a parlare, consigliare, affascinare, ai suoi congiunti consente qualche monosillabo, un sorriso o uno sguardo accondiscendente. Come le statue di cera del panopticum di Madame Tussaud, tutti coloro che gli stanno intorno sono materiale malleabile nelle sue mani, in nome del loro bene. Ma cosa sia il bene è qualcosa di sempre più fumoso e reversibile, perché il signor Kopfrkingl vive a Praga nel 1938, nei Sudeti furoreggia il partito filonazista di Henlein e a fine settembre i territori cecoslovacchi a maggioranza tedesca sono inglobati dal Reich hitleriano, con la silente condiscendenza di Francia e Gran Bretagna.
Ed è in questo contesto che il suadente corteggiamento di Willi Reinke, un nazista convinto, fa breccia nell’animo fragile di Kopfrkingl. La goccia di sangue germanico che scorre nelle vene del borghese di Praga si erge per la prima volta a giudice contro i nemici del bene comune: gli ebrei, verso cui Kopfrkingl ha sempre provato un’ipocrita benevolenza, gli oppositori del progetto di Hitler, i deboli e gli ingenui. Nulla lo fermerà nel sacrificio di costoro in nome di un modo futuro dall’infinito benessere e poco importa se dovrà sopprimere anche i suoi cari.
Metafora plurisimbolica dell’ascesa del nazismo e della sua fascinazione su uomini mediocri, futuri burocrati dell’industria dello sterminio, il Bruciacadaveri fu pubblicato da Ladislav Fuks nel 1967 e, l’anno successivo, il regista Juraj Herz ne trasse una trasposizione cinematografica dal grandissimo successo. Dopo l’invasione sovietica libro e film furono ritirati dalla distribuzione; Ela Hlochová Ripellino lo tradusse in italiano per Einaudi nel 1972. Fuori commercio da tempo, la nuova edizione con la traduzione di Alessandro De Vito e la ricca postfazione di Alessandro Catalano, viene a colmare un vuoto che troppo a lungo ha circondato la figura dello scrittore Ladislav Fuks. Giovane testimone dell’invasione nazista e della Shoah, pur non essendo ebreo, si è spesso identificato con i suoi compagni e amici perseguitati, fino a istituire, in molte sue opere, un rapporto simbiotico fra sé e loro, fra i cechi e gli ebrei di fronte al flagello dell’odio nazista.
Il bruciacadaveri | Ladislav Fuks Miraggi edizioni 2019 Traduzione di Alessandro De Vito
La morte, in Europa, pare più vecchia dell’uomo stesso e per liberarcene è necessario che smetta di esser morte, di questo è convinto il signor Kopfrkingl secondo cui “La sepoltura mediante cremazione è assolutamente sicura, e libera chiunque, in modo definitivo, dal timore di ritornare in vita. Chi decide di farsi cremare ha per tutta la vita la certezza di non dover temere nulla, e può morire in piena tranquillità. La cremazione gli risparmia ogni preoccupazione, se anche vogliamo credere che accadano anche oggi dei casi di reviviscenza”. Il signor Kopfrkingl è un uomo tenero, affettuoso, padre premuroso e marito pieno di amore per la consorte, lavora come funzionario al crematorio ed è ossessionato dalla procedura chimica di bruciare un cadavere; questo omino è una delle figure più inquietanti del Novecento scritta da uno scrittore straordinario e poco conosciuto: Ladislav Fuks (1923-1994). “Il bruciacadaveri” (Miraggi, tr.it. Alessandro De Vito, pag. 220, euro 18) è un romanzo di una potenza funerea come poche in letteratura, gli altri personaggi vengono travolti dalla figura del signor Kopfrkingl, sembra più un lunghissimo monologo che un romanzo a più voci. Ambientato nella Praga del 1938 – 1939, poco prima dell’invasione nazista, quest’uomo mellifluo e ambiguo, del tutto indifferente a qualunque espressione umana, è il servo giusto per l’ideologia hitleriana e Fuks con maestria descrive la sua naturale evoluzione verso la distruzione degli altri, in special modo degli ebrei. Capolavoro della letteratura cèca, tradotto con incisiva efficacia da De Vito, descrive con smaniosa insofferenza la sua tranquilla ferocia di Kopfrkingl il quale legge “Il libro tibetano dei morti” con devota ottusità, ascolta musica classica e si distingue per modi gelidi ma gentili; per lui l’uomo è morte, è la morte e vive solo per morire: c’è una tensione heideggeriana che fa dell’esistere una dissolvenza continua. Fuks adopera un linguaggio che schiaccia ogni cosa dentro una scatola nera, man mano che si va avanti si crea un clima di oppressione, i figli di Kopfrkingl, i suoi colleghi, gli amici svaniscono con meticolosa precisione da ogni storia, non sono mai stati niente, come se mai fossero esistiti. Le pagine dove spiega il processo di cremazione sono di una bellezza violentissima con la sua carica di ordinaria cattiveria e di credenza nella metempsicosi. “Ma l’anima non va a finire lì dentro, non è nata per stare nella latta, ma nell’etere. Sollevata dalle catene della sofferenza, liberata, illuminata, soggetta ad altre leggi che non quelle di questi cilindri di latta, trasmigra in un altro corpo”. Il cielo di Praga, per Kopfrkingl, è sempre grigio come la cenere che esce da un forno crematorio, lui non vede altri colori, è l’unico che percepisce, non ne esistono altri. Per questo anonimo signore praghese la morte ha una geometria che manca alla vita, ha un’esattezza che mai ci riesce di trovare (“il futuro è sempre incerto. L’unica cosa certa al mondo, è la morte”); il Reich, però, pian piano lo ammalia, lo seduce, è forse l’unico che possa provare a dargli quella precisione che somigli alla morte. Romanzo prodigioso perché si conficca dentro come un male oscuro, in tempi in cui si sfornano libri per intrattenere in modo leggero questo di Fuks (del 1962) si presenta come uno di quelli scritti per dare senso alla vita e alla lettura. “La dichiarazione di morte è l’atto burocratico di maggiore responsabilità, ma anche il più sublime che abbia luogo, è un atto decisivo, e noi qui ottemperiamo con precisione al nostro dovere”. Leggendolo, avrete la sensazione di avere tra le mani la Bibbia inaridita, ridotta a polvere, quella di cui parla il Qoelet e il sospetto è che pure Dio sia un cielo grigio.
Per concessione della casa editrice vi proponiamo anche la lettura di un ESTRATTO dall’incipit.
1
« Tesoro, » disse il signor Karel Kopfrkingl alla sua bella moglie dai capelli neri sulla soglia del padiglione delle belve feroci, mentre un leggero venticello quasi primaverile gli scompigliava i capelli, « eccoci di nuovo qui. Qui, in questo caro benedetto luogo dove ci siamo conosciuti diciassette anni fa. Allora, Lakmé, chissà se ti ricordi ancora davanti a chi è successo? » E quando Lakmé annuì, sorrise tenero verso il fondo del padiglione, e disse: « Sì, davanti a quel leopardo laggiù. Vieni, andiamo a vedere ». E una volta varcata la soglia ed essere andati verso il leopardo attraversando l’afa pesantemente animale, il signor Kopfrkingl disse:
« Mi sa proprio, Lakmé, che qui in questi diciassette anni non è cambiato niente. Guarda, anche quel serpente là nell’angolo è qui come quella volta, » indicò il serpente nell’angolo, che da un ramo osservava una giovanissima ragazza dalle guance rosse col vestito nero davanti alla gabbia, « io allora, diciassette anni fa, mi ero stupito che avessero messo un serpente nel padiglione delle belve feroci, visto che c’è un padiglione a parte per i serpenti… « e guarda, anche la ringhiera è la stessa… » indicò la ringhiera davanti al leopardo alla quale stavano per arrivare, poi, una volta giunti davanti al leopardo, si fermarono.
« È tutto come quella volta, diciassette anni fa, » disse il signor Kopfrkingl « salvo forse il leopardo. Quello di allora ormai sarà in cielo. Già da tempo la natura gentile l’avrà strappato alle catene animali. Lo vedi, cara, » disse, osservando il leopardo, che sbatteva gli occhi dietro le sbarre, « non facciamo che parlare di natura gentile, di sorte benevola, dell’indulgenza di Dio… valutiamo e giudichiamo gli altri, biasimandoli per questo o quello… per essere malfidenti, calunniatori, invidiosi e non so più cos’altro, ma noi come siamo, proprio noi, siamo gentili, benevoli, buoni?… io ho sempre la sensazione di fare tremendamente poco per voi. L’articolo sul giornale di oggi, di quel padre che ha abbandonato la moglie e i figli per non doverli mantenere, è una cosa terribile. Povera donna, che farà ora con i bambini? Ci sarà una legge a proteggerli. Almeno le leggi dovrebbero servire a proteggere le persone. »
« Esiste di certo una legge così, Roman, » disse Lakmé a voce bassa « di certo non lasceranno morire di fame quella donna con i bambini. Tu stesso dici che viviamo in un buon paese civile, dove vigono la giustizia e il bene, lo dici tu stesso no? E noi, Roman… » sorrise « non ce la passiamo poi male… Hai un buono stipendio, abbiamo un appartamento grande e bello, e mi occupo con tranquillità delle cose di casa, dei bambini… »
« Non ce la passiamo male, » disse il signor Kopfrkingl « grazie a te. Avevi la dote. Ci ha aiutato quella beata di tua madre. Ci aiuta la tua zia di Slatiňany, che, se fosse cattolica, una volta morta sarebbe certamente dichiarata santa. Ma io cosa ho combinato? Ho giusto provveduto alla nostra casa, e se è vero che è una bella casa, resta tutto quello che ho fatto. No, cara, » il signor Kopfrkingl scosse la testa e guardò il leopardo « Zinuška ha sedici anni, Milivoij quattordici, sono proprio nell’età in cui hanno più bisogno e io devo occuparmi di voi, è il mio sacro dovere. Mi è venuta un’idea su come aumentare i miei guadagni extra ». E visto che Lakmé lo guardava senza dire una parola, si voltò verso di lei e a tu per tu le disse:
« Prenderò un agente e gli darò un terzo della mia provvigione. Sarà il signor Strauss. Sarò d’aiuto a voi, mia celeste, e anche a lui. È un buon uomo, per bene, e ha avuto una vita terrificante, ma te lo racconterò, chi non aiuterebbe un brav’uomo? Lo inviteremo al ristorante Al cofanetto d’argento. »
Lakmé si strinse al marito, lo sguardo sorridente, e guardò il leopardo che continuava a sbattere gli occhi come un grande cane bonario, anche il signor Kopfrkingl guardò il leopardo sorridendo in volto, poi disse:
« Lo vedi, tesoro, che animo tenero possono avere gli animali? Come riescono a essere amabili, quando l’uomo sa avvicinarsi a loro ed entrare nella loro trista anima chiusa. Quante persone malvagie diventerebbero buone, gentili, se si trovasse qualcuno capace di comprenderle, di ascoltarle, di accarezzare un po’ la loro anima inaridita… perché ogni uomo ha bisogno di amore, forse persino la polizia, che persegue la prostituzione, ha bisogno di amore, le persone malvagie sono malvagie solo per questo motivo, che nessuno mai ha concesso loro un po’ d’amore… Il leopardo di oggi è un altro rispetto a quello di diciassette anni fa, ma anche per questo un giorno arriverà il momento della liberazione. Anche lui un giorno tornerà a vedere, quando cadrà il muro che lo circonda e sarà illuminato da una luce che oggi ancora non scorge. La nostra incantevole ha avuto il latte? » chiese, intendendo la gatta che avevano in casa, e non appena Lakmé, in silenzio, annuì, il signor Kopfrkingl sorrise per l’ultima volta al leopardo e poi pian piano, attraverso l’afa pesantemente animale, da quel caro, benedetto posto davanti alla gabbia del leopardo, dove diciassette anni prima si erano conosciuti, ritornarono verso l’uscita. Il signor Kopfrkingl gettò uno sguardo nell’angolo, al serpente, che dal ramo continuava a tenere d’occhio la ragazza dalle guance rosse col vestito nero davanti alla gabbia, e disse: « È strano che abbiano messo un rettile vicino alle belve feroci, sembra messo lì come una semplice decorazione o come un riempitivo… » poi con tenerezza condusse Lakmé oltre la soglia del padiglione sulla strada contornata di cespugli e lì Lakmé sorrise e disse:
« Sì, Roman, invita il signor Strauss al ristorante. Ma indicaglielo col nome giusto, che non debba cercarlo. »
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